D1 MILANO: la new generation dell’italianità. Anche negli orologi

«Due cose al mondo sono esteticamente perfette: il gatto e l’orologio». Se sui felini domestici bisogna dare ragione a Émile-Aguste Chartier, filososofo e scrittore francese, cui si deve l’aforisma; sull’orologio, invece, c’è ancora un largo margine di miglioramento, come dimostra D1 Milano. Questo brand di marca tempo made in Italy, con headquarter a Dubai e diramazione a Hong Kong, ha dimostrato all’ultima edizione di Baselworld che, non solo è possibile migliorare l’orologio, ma che l’italianità è un valore aggiunto tutt’ora vincente e convincente, e che sono proprio gli italiani più global a mantenerne intatti spirito e significato. Infatti, in una Basilea sferzata dal freddo invernale e dal cattivo funzionamento del WiFi, Dario Spallone (presidente e ceo del marchio nato nel 2013) ha presentato il modello Super Slim della collezione Polycarbon, ultima versione del modello iconico del brand, ma ha anche qualificato il valore dell’italianità insita nei suoi prodotti e nel suo approccio al mercato. Se si pensa che Dario ha 25 anni e il suo team non supera i 40 e sono tutti sparsi per il mondo, vuol dire che le nuove generazioni di italiani hanno le idee chiare e che non è un documento anagrafico a sancirne l’identità, quanto il modo di pensare e di agire.

Diciamo la verità, c’era bisogno di un nuovo orologio?
Secondo me non c’è mai bisogno di qualcosa di nuovo. A meno che non ci sia uno scopo di  natura strettamente economica, però deve comunque avere un’identità che rappresenta qualcosa. Per noi è stato importante realizzare un prodotto con un’attenzione ai dettagli e un’autenticità marcatamente italiana. Mancava nel mercato un orologio che potesse essere acquistato a un prezzo accessibile e che nello stesso tempo avesse uno status sociale, una valenza strategica.

Anche il nome è stato scelto in funzione di questa identità così ben definita?
Il nome è nato in maniera fortuita. Ci piaceva foneticamente (D1, si legge, The one, ndr.) perché rappresenta qualcosa di esclusivo e unico. Ci abbiamo aggiunto Milano, che identifica il luogo di origine del brand, nato durante la Milan Fashion Week del 2013. Credo che il nome sintetizzi bene la provenienza e anche cosa vogliamo rappresentare: uno stile unico, iconico e allo stesso tempo giocoso.

C’è un pubblico di riferimento oppure è un orologio trasversale, che piace a tutti?
Ovviamente c’è un target di riferimento. Il nostro è un pubblico attento alla moda, che apprezza i dettagli estetici, in linea con le ultime tendenze e che vuole un orologio che simboleggia uno status quo. Alla fine, è un segna tempo che non compete nella fascia bassa e nemmeno con i prodotti di nicchia, superiori ai 10mila euro. È un range di mercato abbastanza a sé, rivolto a una persona tra i 25 e i 35 anni, capace di stimare tendenze e particolari inconsueti.

Quali passi stai muovendo per il domani del marchio?
Si sta sviluppando in maniera veloce, perché siamo riusciti a creare una struttura snella e allo stesso tempo a crescere nei numeri. Il team è unito, siamo una ventina di persone in tutto, e abbiamo una capillarità distributiva forte. Ci avvaliamo di collaboratori in tutto quanto il mondo e di distributori locali, che poi fanno riferimento alla nostra squadra, capace di essere molto reattiva. Questo è un punto di forza strategico, perché siamo abbastanza veloci in un mercato relativamente lento. Così si riesce anche ad accrescere l’identità del brand.

A livello stilistico cosa succederà?
Ovviamente D1 Milano ha una sua identità, che vogliamo rafforzare attraverso l’iconicità degli anni ’70 e con forme geometriche, riproposta con una lettura più attuale e giocosa. Per me è davvero un orologio che rappresenta l’italianità in maniera giocosa. Ci focalizziamo su un range di prezzo sotto i mille euro per due fasce di mercato, una è quello più street style, con la collezione in policarbonato; l’altra strizza l’occhio alla gioielleria e va su un posizionamento più classico. Per i prossimi anni vogliamo puntare su questi due canali. Ovviamente il design è consolidato, anche se dovremo riallinearci ai cambiamenti di mercato che si succederanno, perché è in continua evoluzione e non possiamo mai fermarci.

Che volumi ha la produzione?
Nel 2017 abbiamo chiuso con 50mila orologi venduti, una produzione piccola, ma con una distribuzione che raggiunge 20 Paesi. Nei primi mesi del 2018 stiamo già superando i pronostici e dovremmo chiudere intorno agli 80mila pezzi venduti. Quindi, una crescita sostanziale.

Milano come capitale dove è nato il progetto, però ci sono anche Dubai e Hong Kong.
Abbiamo base a Dubai, per motivazioni strategiche. Anche per la vicinanza all’hub di produzione di Hong Kong, dove ha sede l’altra nostra sussidiaria. Importiamo componenti globalmente, dall’Italia, dall’Europa, dal Giappone e poi assembliamo ad Hong Kong.

Come mai Hong Kong?
Nella fascia di mercato sub 10mila euro, la componentistica di Hong Kong è la più specializzata, quindi è stata presa una decisione strategica, perché lì abbiamo trovato i migliori fornitori. La parte più difficile è stata mantenere l’italianità. Per me vuol dire avere anche un team italiano, perciò sia a Dubai che a Hong Kong ho portato gente dall’Italia, che ha accettato di trasferirsi in questi Paesi. Certo non è stato facile però, paradossalmente, questa criticità nel mio business model è stata anche un punto di forza, perché se venti persone vanno a Dubai o a Hong Kong vuol dire che sposano il progetto in maniera sostanziale. Questa caratteristica ha rafforzato l’identità del marchio e il rapporto tra i membri della squadra. Ed è quello che fa la differenza. Non tanto il dettaglio o la corona dell’orologio, anche se abbiamo un’attenzione ai particolari che gli altri competitor non hanno – perché noi come italiani amiamo il bello – però non è qualcosa di concreto o esplicito a fare la differenza, ma tutto il team.

Anche l’età media è relativamente giovane
Andiamo dai 25 ai 37, però abbiamo tutti un’esperienza profonda sia nel campo dell’orologeria, che della moda. E abbiamo voglia di metterci in gioco. Lavoro con persone che hanno una solida conoscenza del settore, ma che sono capaci di pensare in maniera giovane. Il motivo per cui ora noi, in un mercato che è quasi in declino, siamo in espansione esponenziale è perché pensiamo in maniera diversa, rispettando comunque le regole del gioco.

Quindi l’italianità per voi ha ancora un valore significativo?
È molto più importante di quello che gli danno altri marchi, che si dicono made in Italy, ma che non hanno un’italianità di fondo. Cos’è l’italianità? Per me sono le persone. Oggettivamente parlando, in un sistema globalizzato che si focalizza sulla specializzazione – questo lo diceva Adam Smith nell’Ottocento (filosofo ed economista scozzese, ndr.) – ognuno deve fare il suo lavoro. Non possiamo pretendere di partire da zero su un progetto e fare tutto quanto in Italia, non esiste più il sistema autarchico. Per me, italianità significa creare delle fondamenta per il brand, che siano italiane. Io faccio proprio questo, creo il mio nucleo italiano e prendo persone che la pensano come me, che hanno questo amore per la bellezza, per la cura dei dettagli, per la giocosità. Da qui si rafforza l’italianità. Per questo noi, anche se produciamo globalmente e distribuiamo in giro per il mondo, siamo comunque uno dei brand giovani e italiani, più forti, perché rispettiamo l’autenticità di questo concetto. Anche se vivo a Dubai sono italiano e così il brand. In un contesto di evoluzione e cambiamento, siamo la new generation dell’italianità.

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Pari Ehsan: Present and Future of Social Media

«Mi considero una creatrice a tutto tondo, piuttosto che un’influencer». Inizia così la conversazione con Pari Ehsan, il volto dietro il fenomeno Instagram Pari Dust (@paridust, 200k followers). Metodica, perfezionista e uberchic Pari Ehsan, con un’esperienza alle spalle da architetto e interior designer, nel 2013 da vita al suo popolare account, individuando una nicchia esclusiva nel cross-over arte e moda. Oggi però – come ci spiega questa 34enne americana, nata nel Kentucky e che vive a New York – la definizione di influencer le va stretta: «La capacità di influenzare il gusto per me è una qualità multiforme e radicata nella creazione, nell’assimilazione e nell’attitudine creativa di contenuti e nella condivisione tale esperienza».

Come definiresti quindi il tuo processo creativo?
Continuo a educare me stessa attraverso un’immersione performativa in un ambiente, in un’estetica, in un contesto emozionale e ciò a cui aspiro è sintetizzare e condividere quello che mi colpisce e apporta valore alla mia community e a chiunque ne sia affascinato.

C’è qualche differenza nel modo in cui mostri la moda che ami e l’arte che ammiri?
Cerco di colmare il divario tra moda e arte, per sfumarne i contorni e alterarne la percezione, in modo tale che siano sempre meno chiari i confini dell’uno e dell’altra.

Le tre mostre più rilevanti che hai visitato, fino ad ora, in questo 2018?
Kaye Donachie, Silent as Glass, da Maureen Paley, a Londra. Le donne nei suoi dipinti si trasformano in natura, in parole per poi divenire di nuovo umane. Poi, Cyprien Gaillard, Nightlife, da Gladstone Gallery, a New York. Un’incantevole trance, video 3D di alberi danzanti, fuochi d’artificio cuciti nell’antichità: tutto ciò ha per me la capacità di arrestare l’attimo. Rick Owens, Subhuman Inhuman Superhuman, a La Triennale di Milano, un vero testamento delle infinite possibilità della moda.

Come definiresti la tua estetica in tre hashtag?
#zen #space #discovery.

Qualche consiglio per gli artisti emergenti che stanno iniziando con i loro account sui social media?
Direi di pensarlo come un moodboard della propria esistenza. Uno specchio che rifletta la propria immagine, la propria storia, le proprie intuizioni e le emozioni che si vogliono esprimere.

Come funzionerà il social del futuro?
In maniera cerebrale, visualizzando immagini e narrazioni direttamente nella propria mente e condividendole con le persone con cui siamo in sintonia o cercandole attraverso i propri pensieri.

L’ultimo posto fantastico che hai visitato durante i tuoi viaggi?
Torino, dove si respira ovunque Arte Povera, la natura e tutto ciò di cui il mondo ha bisogno.

Cinque luoghi da visitare nella tua città preferita?
Amo Berlino. Questi sono i miei luoghi imperdibili: la collezione Feurle, la raccolta d’arte privata che preferisco. Si tratta di un ex bunker riprogettato da John Pawson, che giustappone l’arte contemporanea con mobili cinesi Qing. The Bikini, un negozio che è esattamente l’opposto di quello che il nome potrebbe suggerire. Il parco dell’aeroporto di Tempelhof. Lo Schinkel Pavilion, dove l’architettura storica incontra un visionario programma sperimentale di arte contemporanea. I cigni sul canale Landwehr.

Hai recentemente visitato Milano: cosa ti ha affascinato di più?
I milanesi, che mi hanno catturano con i loro gesti, con il loro modo di porsi attraverso i loro vestiti, con il modo in cui coltivano l’arte dell’ospitalità, il rispetto  che è visibile e palpabile nel loro ambiente, e nel ricco contesto storico della città in generale.

Come immagini il tuo futuro: online o offline?
Vedo un connubio fra più elementi; mi piacerebbe progettare e avere una creatività più diretta, fare cose con le mie mani, ma anche trasmetterle attraverso il mio cervello digitale e la mia piattaforma.

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Antica Cannoleria 811, quando il cannolo diventa eterno

L’arte da sempre si ispira al vero, ma nel caso dell’Antica Cannoleria 811 di Catania l’imitazione si è spinta oltre. Infatti, i cannoli siciliani in ceramica di Davide Brancato non solo sono una copia perfetta del dolce, ma vengono anche realizzati con la stessa tecnica. «Dopo aver condotto diverse ricerche per trovare la ricetta originale – racconta Davide – ho scovato quella autentica di origine araba. I passaggi prevedono di creare la cialda, “scoccia” in dialetto e friggerla in olio bollente per ottenere il tipico colore brunito che contraddistingue il cannolo siciliano. Solo quando la “buccia” è ben fredda la si riempie con la ricotta lavorata. Infine si decorano le estremità con granella di pistacchio o cioccolato e si finisce il tutto con una spolverata di zucchero a velo». Così Davide crea la cialda di ceramica e, per darle il colore e le bolle della frittura, la cuoce con il cannello alla temperatura di 600 °C. In questo modo la ceramica perde tutta l’umidità e crea, appunto le bolle. Sempre con la ceramica, però leggermente più fluida, l’artista realizza la farcia e, proprio come un pasticcere, riempie la scoccia con una sac a poche. Il tutto si fa asciugare naturalmente e poi si lascia cuocere in forno per una notte a 980 °C. Una volta raffreddato il cannolo in ceramica, come il suo omologo dolce, viene decorato con i granuli e spolverato per rientrare poi in forno per un’altra notte sempre a 980 °C. «La cottura – spiega Davide – è un passaggio molto delicato. In questa fase il manufatto si può crepare o rompere, vanificando così tutto il lavoro. Quando il cannolo è pronto si passa alla fase di decorazione. Lo dipingo impiegando una serie di pennelli giapponesi in pelo di castoro, gli stessi che vengono usati dagli amanuensi e che riescono a creare delle sfumature e degli spessori unici». Per renderle ancora più verosimili, Davide ha intriso le sue creazioni nelle essenze tipiche della pasticceria (zagara, fiori d’arancio, canditi, cannella e zucchero a velo) così che, emanando il profumo della pasticceria fresca, vadano a sollecitare non solo la vista, ma anche l’olfatto. Questo avviene grazie a una serie di microfori (invisibili a occhio nudo) che fanno penetrare il profumo all’interno del manufatto, che ne rimane impregnato. «Il mio – prosegue il designer – è un progetto per dolci eterni che nutrono l’anima. Mi piace che facciano fare un salto nel passato a chi li sceglie, quando si andava a fare la spesa nella bottega sotto casa». Oltre al cannolo, nella pasticceria dell’anima dell’Antica Cannoleria 811 ci sono le cassatelle, le minnuzze di Sant’Agata (un dolce simile alla cassata che viene preparato durante i festeggiamenti in onore della Santa Patrona di Catania) e fette di torte tipiche della tradizione siciliana. A breve, come accade nelle migliori pasticceria dell’Isola, al dolce si affiancherà il salato. Davide, infatti, sta studiando per realizzare gli arancini in chiave pop. Le creazione dell’Antica Cannoleria 811 si possono acquistare tramite la pagina Facebook della bottega o presso l’Antica Dolceria Bonaiuto di Modica (con cui l’artista sta creando il cioccolato eterno). Per chi si trovasse quest’estate a Noto, il suggerimento è di fare una visita a Palazzo Nicolaci di Villadorata, dove Davide sarà il curatore di una mostra che indagherà sul rapporto fra cibo e design con un focus sulle ricette devozionali.

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VICKY LAWTON: THE VISUAL FANATIC

Vincitrice lo scorso anno del Creative Circle Award, per la Best New Female Commercials Director, Vicky Lawton è regista, fotografa, lavora al fianco di Rankin in qualità di Creative Director, ha diretto numerosi fashion film per rinomati marchi internazionali, tra cui Elie Saab e Chanel, e ha realizzato video musicali per artisti influenti, come Dua Lipa. Ecco qualche curiosità su questa talentuosa e camaleontica artista.

Ti definisci una “fanatica di elementi visivi”. Quando hai capito che le arti visive sarebbero diventate la tua professione?
Da quando ho iniziato a comprare Vogue a circa 14 anni e strappavo le pagine per utilizzarle come carta da parati. Poi mi sono interessata sia di moda che di fotografia, scattando dei servizi fotografici nella mia stanza e in giardino con i miei amici!

Come hai conosciuto Rankin?
Ho fatto uno stage da Rankin durante il mio secondo anno alla Kingston University, dove studiavo Graphic Design e fotografia. Ho fatto un tirocinio di tre settimane, siamo rimasti in contatto e mi hanno chiesto di tornare una volta completati gli studi.

Quali sono le tue principali fonti di ispirazione?
Mi piacciono da morire Irving Penn, Richard Avedon, Meisel, ma ammiro anche fotografi come Cass Bird ed Ellen Von Unworth, che hanno stili e approcci unici. Cerco attraverso blog, libri, visito più gallerie d’arte possibili, ma la mia più grande ispirazione è il cinema.

Come fotografa di moda, qual è il tuo rapporto con il fashion nella vita quotidiana?
La moda per me è un modo perfetto per riflettere il mio mood. È anche un’opportunità di sperimentare, sono una grande fan degli abiti vintage e mi piace visitare Los Angeles per trovare qualche pezzo unico e irripetibile.

Non ci sono così tante fotografe e registe famose. Credi che sia un ambito prevalentemente maschile?
Non più!

Quali profili social trovi particolarmente interessanti e perché?
Mi piace particolarmente @celestebarber, perché la moda può essere davvero divertente.

Qual è il tuo social media preferito?
È senz’altro Instagram. Rappresenta un’opportunità di vedere nuovi lavori, nuove idee e di mettere orecchie da coniglio sui miei selfie. Come si fa a non amarlo?

The Full Service is a one-stop creative entity that combines the strategic thinking of an advertising agency with the pragmatic problem solving of a production house.

thefullservice.co.uk
thegraft.uk
tonicreps.co.uk
rankin.co.uk

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A VERONA L’INNOVAZIONE NELL’EYEWEAR DI FIELMANN

Verona non è più – e soltanto – la città degli innamorati, con il balcone di Giulietta e Romeo. Da oggi è anche quella con la vista più acuta e di design, grazie all’opening del primo flagship store italiano di Fielmann. Sviluppato su tre livelli e con più di 4mila montature al suo interno, lo store di via Mazzini 64 è l’ultimo (solo in ordine di tempo) step che il brand di Amburgo, specializzato nell’eyewear retail, sta compiendo in Italia, dopo le 10 aperture nel nord Italia, fra cui Vicenza, Trento, Varese, Piacenza, Brescia e Bergamo. La parola che meglio descrive Fielmann è innovazione, ottenuta unendo efficienza e tecnologia tedesche al design italiano. Il fondatore, Günther Fielmann è stato un precursore nel settore dell’ottica, grazie all’introduzione di servizi inediti per il consumatore, di cui un esempio è stato l’accordo avveniristico con la cassa mutua tedesca, per rendere mutuabili 90 modelli di tendenza contro i soli otto esistenti fino a quel momento, eliminando così la discriminazione sociale nei confronti di coloro che non potevano permettersi un paio di occhiali. Ancora oggi, una vasta gamma di vantaggi rende unica l’esperienza nei centri dell’azienda tedesca, come spiega Ivo Andreatta, Country Manager di Fielmann Italia: «Desideriamo che Fielmann sia un punto di riferimento per il cliente italiano e che le nostre filiali siano luoghi in cui affidarsi a ottici e consulenti specializzati, capaci di trovare la soluzione migliore. È ciò su cui siamo focalizzati da ormai due anni e continuerà a essere la nostra priorità. Il cliente può provare migliaia di montature in totale libertà e avere la certezza di pagarle al miglior prezzo sul mercato e usufruire dell’esame gratuito della vista senza necessità di prenotazione». MANINTOWN ha incontrato Marco Collavo, managing e creative director di ROKKU Designstudio, società controllata al 100% da Fielmann AG, che progetta per Fielmann e altri fashion brand, per carpire i segreti di un design così progressista. 

In un momento in cui gli occhiali si fanno sempre più grandi e imperversa la logo mania, perché Fielmann Made in Italy decide di invertire questa tendenza?
L’idea di mettere il logo solo all’interno della montatura risponde alla volontà di non legare l’occhiale al nome, e di prediligere il design, la qualità e, soprattutto, il servizio per il cliente. Il complesso totale, della montatura e della lente, segue il comfort e la qualità piuttosto che la riconoscibilità del brand.

L’obiettivo è quello di far riconoscere Fielmann anche senza l’evidenza del logo?
Sì, questo è uno degli scopi della collezione Made in Italy per esempio. Riuscire a creare una linea con la sua identità, più collegata agli shape, ai colori, allo spessore delle lavorazioni, perché riteniamo che il logo sia molto seasonal e molto forte nelle fashion house, in cui il brand è riconoscibile, anche in riferimento ad altri prodotti e accessori. Fielmann è specializzato esclusivamente nel mondo dell’ottica, e sta a noi costruire l’idea del marchio, soprattutto per quanto riguarda lo stile del prodotto e le sue caratteristiche tecniche, in particolare la lente, che è un elemento fondamentale e che va a completare l’offerta. Deve essere un qualcosa di timeless, che dia effettivamente un valore aggiunto al cliente.

Da dove trai ispirazione in merito al design e ai colori?
La tendenza è quella di rivisitare il passato. Adoro andare nei mercatini e ho una grandissima collezione di occhiali vintage, che parte dagli anni ’50 e ’60. Grazie ai designer che fanno parte del mio team, cerchiamo di riproporre qualcosa di già assaporato, rivisitandolo in chiave moderna. A questo si collegano le combinazioni di colori, che non caratterizzano il singolo pezzo, ma creano un’armonia all’interno di tutta la collezione. Proponiamo cromie che il mercato richiede e soprattutto che sono apprezzate nei diversi Paesi in cui siamo presenti. Giochiamo con gli spessori, le tecnologie, tecnicismi e costruzioni più moderni, con colori di tendenza che danno vita a un prodotto nuovo e fresco. Le collezioni presentano tonalità classiche abbinate ad altre più particolari, striate, fluorescenti, o colori pastello piuttosto carichi, che, nei paesi solari che amano i look più aggressivi, danno la possibilità di sentirsi più freschi, giovani, originali.

Cosa rende unico Fielmann?
La capacità di proporre un prodotto che si basa su una grande ricerca, come avviene nelle maggiori case di moda, attraverso ricerche di mercato e produttive, indagini di colori e di ispirazioni. Tutto questo si integra con uno studio di design. Ogni occhiale è disegnato, anche la parte interna del metallo, e ogni colore è ricercato, con delle tinte dedicate sulla linea Made in Italy. Il valore aggiunto è l’unicità dell’occhiale Fielmann, creato appositamente per il brand, e ogni collezione ha in sé un filo conduttore, che può essere, ad esempio, la particolare lavorazione. Qualità e design sono offerti, inoltre, a un prezzo molto competitivo, perché tagliamo la filiera della distribuzione.

Cosa c’è di italiano e cosa di tedesco nella collezione Fielmann Made in Italy?
Di italiano c’è sicuramente il design, la ricerca, la creatività e l’estro. Per la linea Made in Italy la produzione è 100% italiana, creata in Italia con materiali e know-how italiani. Da italiano, è per me motivo di grande orgoglio. Tutto questo è abbinato alla precisione tedesca, che riguarda il controllo della vista, tutte le garanzie comprese nel prodotto e la qualità delle lenti. Ritengo che questo sia un buon connubio per offrire al cliente un ottimo servizio, che lo possa rendere soddisfatto.

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Wine experience su misura: House Of Vino

Il mondo dei vini si apre a nuove e più personali esperienze grazie a House of Vino, un progetto nato dall’intuizione di un giovane imprenditore Luca Genova, manager della comunicazione e appassionato da sempre di eno-gastronomia. House of Vino propone degustazioni private a casa (o in location su richiesta specifica del cliente) per trascorrere una serata diversa alla scoperta di sapori, odori e colori unici. Una serata tra amici si trasforma così in un’esperienza speciale e inconsueta che può basarsi solo sul vino o essere arricchita grazie all’accompagnamento di cibo, musica e momenti di intrattenimento. Un’esperienza multisensoriale che si può arricchire di volta in volta anche tramite collaborazioni con producer musicali, piccoli produttori, artisti e tutto ciò che possa rendere l’esperienza unica ed irripetibile. Abbiamo infatti incontrato Luca e House of Vino durante una speciale degustazione di bollicine per l’opening del GUM Bar, una nuova iniziativa di GUM SALON di Milano.

Di dove siete e come è nato il progetto?
Io sono siciliano, il mio socio friulano. Vivo a Milano da dieci anni. Vengo dalla comunicazione, ho lavorato per 9 anni con Lapo (Elkan, ndr) e ho una mia agenzia di comunicazione, Dreamers&Makers. Ho fondato House of Vino con un approccio legato a una comunicazione più da storytelling che da tecnico del vino. Parallelamente abbiamo, poi, una linea di business che sviluppa progetti di comunicazione legata al Food & Beverage, con cui aiutiamo cantine, istituzioni o consorzi attraverso consulenze e progetti nel mondo del vino. Sentiamo la necessità di svecchiare il settore. Il Food, grazie agli chef e ai grandi marchi, non fa fatica, ma gli altri comparti sì e non riescono a togliersi la polvere di dosso, vuoi perché siamo poco ricettivi alle innovazioni o perché abbiamo sempre paura e non siamo in grado di fare squadra. Il vento sta cambiando, però.

Quali le proposte di House of Vino?
Eventi privati di degustazione, abbinati a cene o aperitivi, in base al format richiesto. Lavoriamo molto sulle cene di business, con persone che vogliono avere un approccio più forte sui propri clienti o fornitori. Le persone chiedono qualunque cosa, dalle degustazioni di coppia a quelle per il papà, o da soli. Da ogni mail o telefonata, nasce qualcosa di nuovo. Creiamo progetti tailor made, sulla base delle informazioni o delle richieste. Vogliamo avvicinare le persone al vino, non spaventarle. Le degustazioni private sono per piccoli gruppi, facili da gestire e con cui avere rapporto più diretto. Oltre le quindici persone progettiamo eventi ad hoc, considerata la necessità di appoggiarsi a supporti diversi, come il catering.

Per Gum Bar hai scelto una degustazione di Champagne…
Per due ragioni: la prima è che Stefano Terzuolo (founder di GUM, ndr) ne è un amante; la seconda è la location, così accogliente, con i velluti e lo stile vintage – da Francia del 700 – che poteva accompagnarsi solo a dello Champagne.

Quali sono le differenze tra i tre Champagne scelti?
Sono tre vini provenienti dalla stessa cantina. Uno è il Tradition, classico Champagne composto da Pinot nero, Chardonnay e Pinot Meunier. Il secondo è un gradino più su, prodotto da una selezione degli stessi vitigni: un millesimo della medesima annata. Il Brut Selection, più complesso, strutturato e avvolgente. L’ultimo, Fleur de Vigne, dalla bottiglia particolare, è un assemblaggio contente anche piccoli vitigni autoctoni, in percentuale minore, ma capaci di conferire una freschezza diversa, rendendolo un vino più facile. Se ne potrebbe bere una bottiglia senza accorgersene, al contrario degli altri, più stucchevoli.

Qual è la degustazione più creativa che vi sia stata richiesta?
Abbiamo lavorato anche con clienti stranieri, progettando degustazioni dal budget molto alto, con bottiglie da due/tremila euro ciascuna. La costruzione dell’evento è più impegnativa ma interessante. Si sfida un terreno molto forte. A noi, poi, piacciono molto i percorsi regionali particolari. In Sardegna, ad esempio, siamo partiti dai bianchi, dai Moscati secchi, per arrivare a delle bollicine di Vermentino pazzesche, affinate sott’acqua, nella Riserva Marina di Alghero. C’è anche Giovanni Montisci, proprietario di una cantina sotto casa sua e produttore di un Cannonau in purezza, dalla forte gradazione alcolica, il Barrosu. Un’elegenza e una raffinatezza egregie, difficile da catalogare, con una ricerca di varie eccellenze regionali.

 Come gestite la ricerca delle piccole cantine?
La portiamo avanti personalmente con molto piacere e tanta fatica, ma è un aspetto fondamentale del lavoro. Ci aiuta, questa vicinanza al prodotto, alla cantina e al contadino stesso, perché possiamo farcene forza quando lo proponiamo a progetti anche con aziende. Non è una cosa scontata. È facile pensare a un progetto di comunicazione di un vino, ma conoscerlo, servirlo e aver parlato col contadino ti dà una serie di nozioni utili per un approccio diverso. Teniamo molto a questa ricerca, e lavoriamo con cantine piccole che stanno tracciando la linea dei vini naturali, trend nascente, in Italia. Siamo la nazione con più autoctoni al mondo, con più varietà di uva, anche rispetto alla Francia e alla Spagna e alla Napa Valley in California. Questo ti dà l’idea di cosa si potrebbe scoprire nell’arco di un viaggio in Italia.

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TECH ESSENTIALS

Ormai parte del nostro quotidiano, gli indispensabili accessori che ci accompagnano sono sempre più all’insegna dell’hi-tech. Tra collaborazioni esclusive, evoluzioni e nuovi oggetti curiosi ce n’è davvero per tutti i gusti. Chi ha detto poi che la moda non possa essere utile, o addirittura pratica, e viceversa? Funzionalità ed estetica – perché no? -possono andare di pari passo. Prova ne è il periodo storico che stiamo vivendo, dove le parole fashion e tecnologia diventano talvolta addirittura sinonimi.

APPLE WATCH HERMÈS
Apple Watch di Hermès: ovvero un concentrato di eccellenze. Un oggetto per il quale si potrebbero fare follie. Ecco un classico esempio dove l’alta tecnologia e uno dei brand più chic di tutti i tempi si uniscono, creando un accessorio che racchiude amore per il design, altissima qualità e, naturalmente, eleganza francese.

MOLESKINE Smart Planner
Probabilmente il sogno di tutti. Il promemoria che ci ricorda gli appuntamenti, senza che si rinunci alla classica agenda e agli appunti scritti a mano. Stiamo parlando di Moleskine Smart Planner, il classico libricino nero che oggi, grazie a una tecnologia fluida e intelligente e all’utilizzo della Moleskine Pen+, sincronizza le annotazioni vergate a mano direttamente sul dispositivo.

PIQUADRO – linea COLEOS BAGMOTIC
Piquadro, fusione perfetta tra design e tecnologia. I nuovi prodotti della linea Coleos Bagmotic esplorano la moderna filosofia dell’IoT, Internet of things. IoT ci permette di interagire con il nostro bagaglio attraverso smartphone e smartwatch: basta scaricare Connequ, la app ideata dal brand. Un esempio è lo zaino porta computer. Rintracciabile ovunque grazie a un dispositivo GSM, lo zaino, attraverso un sistema di allarme, ci avverte quando ce ne si allontana, è in grado di ricaricare la batteria del nostro smartphone e, sul retro, è dotato di piccoli led, che fungono da veri e propri fanali posteriori, dotati anche di stop a luce rossa in caso di frenata. È, infatti, elettivamente dedicato a chi si sposta in bicicletta.

MASTER & DYNAMIC for ERMENEGILDO ZEGNA
Qualità e raffinatezza sono solo alcuni degli aggettivi per descrivere l’esclusiva collaborazione Master & Dynamic for Ermenegildo Zegna. I due brand hanno unito le loro competenze, per creare oggetti di stile e dotati di altissima tecnologia. Il giradischi PELLE TESSUTA™ combina, infatti, l’acustica di Master & Dynamic con il rivestimento firmato Ermenegildo Zegna in Pelle Tessuta; una lavorazione, realizzata a mano, creata e sviluppata dalla Maison.

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PANTALONI SLIM-FIT vs BAGGY

Non è solamente una questione di comodità, la scelta tra pantalone baggy e slim-fit (o skinny se è di denim che parliamo) oltrepassa i confini di uffici, palestre e ambienti più formali, pronti a declinarsi in base alle occasioni. Esistono tantissime forme e tagli tra cui destreggiarsi, e trovare il modello più adatto alla propria fisicità può sembrare un’impresa. Scopriamoli insieme.

PANTALONI SLIM-FIT
Quando si tratta di scegliere il modello di pantaloni da indossare, molti uomini hanno le proprie idee consolidate, che potrebbero non essere quelle più adatte alla loro struttura fisica. Spesso si opta, erroneamente, per un modello regolare, magari di una taglia superiore, per avere la giusta larghezza lungo le gambe, con il risultato che, a livello del punto vita, la vestibilità non è ottimale, ma risulta troppo generosa. Negli ultimi anni sono tornati in voga i pantaloni, jeans e chino, con vestibilità slim attorno alla gamba che si fermano appena prima di toccare stivali e sneaker. Lo stesso vale per i pantaloni del completo, che richiedono una giacca altrettanto slim, con cravatta e bavero sottili, in virtù dell’armonia delle proporzioni. Quali sono le linee guida da seguire nella scelta? In linea generale, i jeans a quattro bottoni dovrebbero poggiare sull’anca, e non più in vita, così da essere idonei anche per gli uomini con un ventre pronunciato, grazie alle giuste proporzioni che si vengono a creare tra busto e bacino. Diverso il discorso per i pantaloni chino e del completo, che dovrebbero essere posizionati appena sopra le anche, cosa che permette di infilare dentro la camicia senza preoccuparsi che esca fuori, magari nel bel mezzo di un appuntamento di lavoro. I jeans slim-fit, inoltre, sono i più indicati a essere accostati a un abbigliamento più classico, da sfoggiare in occasioni semi-formali dove un mix tra abbigliamento casual ed elegante si rivela senz’altro la scelta migliore.
Questo tipo di pantaloni calza perfettamente ai fisici più asciutti, per i quali i pantaloni larghi o baggy creerebbero un look sbilanciato in termini di proporzioni con il resto del corpo. Detto questo, è necessario trovare il giusto tipo di skinny: modelli troppo attillati faranno sembrare le gambe ancora più sottili ed evidenziati rispetto al resto. Meglio optare per soluzioni leggermente più rilassate o create su misura per un capo passe-partout. Invece, se si possiedono quadricipiti più massicci, come nel caso degli sportivi, probabilmente il modello slim-fit non è il più indicato. In alternativa sarebbe meglio indossare modelli più dritti o affusolati.

PANTALONI BAGGY
Se i jeans skinny sono spesso considerati da “hipster”, i jeans baggy si ricollegano immediatamente alla scena musicale rap.
Il modello baggy fa parte della categoria dei pantaloni con la vita bassa, la cui cintura è posizionata a 5-6 cm sotto il giro vita. Si caratterizzano per un taglio dritto e oversize dall’altezza dei fianchi fino alla base. Si ispirano all’abbigliamento da lavoro, comodo per necessità, grazie alla forma non costrittiva e alle numerose tasche, ma è stata la cultura dell’hip-hop, a metà degli anni ’90, a renderli protagonisti. Nel 1995 il duo musicale Mobb Deep li ha scelti per la copertina dell’album The Infamous, indossati con un paio di Timberland gialle, un abbinamento molto diffuso nel mondo rap. Questa cultura è stata poi legittimata da brand streetwear come Stüssy, Supreme e A Bathing Ape, che hanno portato alla proliferazione di capi dall’animo urbano.
Negli anni 2000 si è completamente affermata l’era dei pantaloni dal taglio largo, abbassati a tal punto da rivelare l’intimo, molto spesso boxer, e stretti da una cintura, lasciata volutamente allentata. È il cosiddetto “sagging”, proprio anche dello stile skater e rave. Spesso i jeans baggy erano portati con una t-shirt oversize e, quasi sempre, con le Air Force 1 bianche, una sorta di uniforme riconoscibile. Negli stessi anni un giovanissimo Eminem si faceva fotografare a Detroit da Jonathan Mannion con indosso solo tute dal taglio baggy, e non solo lui, ma tutto il movimento hip hop inneggiava all’abbigliamento comodo, perfetto per ballare e protestare contro la società americana che ghettizzava la comunità afro. Successivamente il taglio del baggy sale in passerella, ma, prima di farlo, cambia tessuto, abbandona il jersey felpato per vestirsi delle lane più morbide e calde. Certamente non più adatti a improvvisare una breakdance per le strade del Bronx, ma perfetti per essere eleganti tutto il giorno. Da indossare con una camicia, magari dello stesso colore, o da accostare a maglioni e felpe con dettagli e lavorazioni tutt’altro che casuali. Il baggy è l’arma del nuovo uomo metropolitano un po’ shabby chic e un po’ dandy che non ha bisogno di giacca e cravatta per dichiarare il suo status, ma riesce ad essere elegante anche indossando linee morbide ed avvolgenti.

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La California sognata da Nove25

Un progetto “On the road” per raccontare, attraverso i suggestivi e sterminati panorami della West Coast californiana, lo spirito di libertà dei gioielli di Nove25. Il brand milanese ha deciso di avvalersi dell’obbiettivo di Randall Mesdon, ritrattista e regista di fashion movie, per la nuova campagna, che incastona le creazioni di Nove25 nelle atmosfere dell’istituzionale hotel Chateau Marmont di Sunset Boulevard, per poi passare agli angoli esclusivi dello Yucca Desert, fino a toccare le terre spirituali e mistiche tra le montagne di San Bernardino e lo Joshua Tree National Park, leggendarie per gli avvistamenti di UFO. È in questi scenari che si muovono i due protagonisti di questa jewel story, David Alexander Flinn, newyorkese, artista, pittore, fotografo e la bellissima Audrey Marvin, californiana, punta di diamante di The Lions Models Management di Los Angeles. I due testimonial sono i perfetti interpreti dello spirito di libertà che si respira nelle creazioni di Nove25, sottolineato anche dalla maestria di Mesdon, già autore per i più blasonati luxury brand come Calvin Klein, Dolce & Gabbana, Giorgio Armani, Levi’s e Tommy Hilfiger. A seguire la regia della nuova campagna, lo studio creativo PopKorn films con base a Milano, fondato da Daniele Testi e Francesco Giannini. Le pietre dure e preziose, i metalli finemente cesellati, sembrano scaturire direttamente dai paesaggi assolati e aridi che Randall ha voluto per questo progetto, incorniciando modelli e gioielli nei tramonti californiani, nel deserto bruciato dal sole e nei larghi boulevard incorniciati da palme altissime, sognando la California ad occhi aperti. Non tutti i sogni sono relegati in un cassetto però, perché la nuova collezione Ophis è acquistabile online e negli store Nove25.

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Guarda indietro per essere avanti

Oggi più che mai l’ispirazione arriva dal passato. Tra i brand che ogni anno ripropongono un capo iconico in diverse varianti, modernizzato e a nato nei dettagli e nei materiali, e quelli che invece frugano letteralmente negli archivi per riportare in vita item che hanno segnato un’epoca, potete stare tranquilli: tutti saranno soddisfatti. Chi ama stare al passo con i tempi e indossare le nuove proposte di stagione e chi, invece, preferisce riesumare le vecchie glorie, tirando fuori dall’armadio l’amata felpa o le intramontabili sneakers. Attenti a non commettere il grosso errore di pensare che le rivisitazioni siano frutto di atteggiamenti nostalgici o di scarsa inventiva. Sbagliato. Il passato è esperienza, consapevolezza, cultura e i brand come K-Way, North Sails, Adidas, Bally, Vuarnet e altri ne sono un esempio più che mai attuale.

KWAY® – LE VRAI™
Dopo oltre 50 anni di storia K-Way fa ancora parlare di sé. Chi non ha mai posseduto quel pratico marsupio che in un batter d’occhio si trasforma in giacca a vento? Quel geniale, comodo e pratico, giubbino antipioggia e antivento in Nylon nasce in Francia nel 1965. Il modello ‘Le Vrai’ dal design indimenticabile, ripiegabile su se stesso – rivisto nei dettagli e disponibile in una vastissima gamma di colori – da qualche anno è tornato a essere un accessorio indispensabile, da tenere a portata di mano “in caso di…”.

adidas FOOTBALL – PREDATOR 18+

Le adidas Predator, un sogno dal 1994. Da qualche anno non ne sentivamo più parlare, ma ecco che, intramontabili, tornano e non solo sui campi da calcio. Riproposti quasi ogni anno, i famosissimi scarpini, indossati da molti dei migliori calcatori di tutti i tempi, tornano in una nuova rivisitazione, progettata e realizzata in materiali super tecnici e innovativi. Vengono proposti in tre varianti, da sfruttare in molteplici occasioni: Stadium, Cage e Street.

NORTH SAILS – 60TH ANNIVERSARY

Un “must have” per gli appassionati di vela e non solo. North Sails, infatti, ha accompagnato intere generazioni. Il 2017 è stato un anno importante per il brand, che ha celebrato il suo sessantesimo anniversario. Per questa occasione ha proposto una capsule collection, che vede protagonisti i best seller e gli iconici item di sempre, riproposti con grafiche e palette colori ispirata alla bandiera degli USA.

BALLY – VITA PARCOURS
Quando si dice riportare in vita gli anni Sessanta e Ottanta. Con il suo iconico motivo a scacchi, il modello Vita-Parcours, firmato Bally, risale al lontano 1974, ma la prossima estate lo ritroveremo, intatto nel design e nell’essenza, ma con la suola modernizzata, a calcare le strade urbane e non. La scarpa proposta nei colori blu oceano, curry e grigio fa parte della collezione Retro Sneaker, lanciata dal brand; di questa fanno parte anche i modelli Competition, Galaxy e Super Smash.

GHURKA – EXPRESS
Funzionalità e stile americano è il marchio di fabbrica del brand Ghurka, nato in Connecticut e specializzato da oltre quarant’anni, in pelletteria top di gamma. Realizzati a mano da maestri artigiani, tutte le borse, i borsoni e gli accessori sono studiati nei dettagli. Perfetti sia per le fughe da weekend che per il viaggio vero e proprio. Icona indiscussa della firma è il modello Express che, lanciato negli anni ‘70, viene rivisitato e riproposto, anno dopo anno, rimanendo sempre e comunque un pezzo attuale e senza tempo.

DRUMOHR – RAZOR BLADE
Torna in voga il Razor Blade, più comunemente conosciuto negli anni Settanta come fantasia a “biscottino”, marchio di fabbrica dello storico brand Drumohr, specializzato in maglieria di altissima qualità fin dal 1770. Oggi come allora, il rinomatissimo pattern rimane simbolo di uno stile e un’eleganza in cui combaciano passato e contemporaneità. Il tutto in puro cashmere.

VUARNET – GLACIER
Indossati dai migliori alpinisti degli anni ’80, gli occhiali firmati Vuarnet sono ancora simbolo di qualità e stile. Ne è esempio il modello Glacier, vera e propria icona del brand. L’occhiale di James Bond in Spectre, infatti, viene oggi riprodotto in una versione che rende omaggio alla Francia, patria del marchio, caratterizzato dai colori della bandiera francese: acetato blu, bianco e rosso, abbinato alla montatura tartaruga.

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MotoGP, ricomincia la sfida

Valentino Rossi_Courtesy Movistar Yamaha

Di questo marzo imbronciato due sono gli eventi memorabili: il ritorno dell’ora legale a fine mese e l’inizio della stagione 2018 del Motomondiale. Piloti, tecnici, sponsor e appassionati si lasciano alle spalle la carestia invernale di adrenalina per scoprire cosa succederà, dal 16 marzo, sul circuito di Losail in Qatar, quando prenderanno il via le prove libere del primo Gran Premio dell’anno tra Moto3, Moto2 e la classe regina, la MotoGP. Il campione del mondo Marc Márquez ritroverà i suoi rivali, a cominciare dal secondo classificato nel 2017, Andrea Dovizioso. E poi, Jorge Lorenzo, Valentino Rossi, Dani Predrosa, Maverick Viñales, Johann Zarco, Danilo Petrucci, Cal Crutchlow, Andrea Iannone: tutti pronti a combattere fino all’ultimo metro per vincere e, possibilmente, diventare leggenda. Diciannove appuntamenti sparsi ai quattro angoli del mondo, con il debutto della tappa in Thailandia il 7 ottobre. Diciannove storie da scrivere tra pieghe feroci, staccate tachicardiche, sorpassi impensabili.
Uno che se ne intende di cuore in gola, battaglie epiche, scontri tra duri, amicizie, risate e purtroppo anche tragedia è Paolo Beltramo, dal 1979 al seguito delle gare motociclistiche per testate come La Repubblica, Motociclismo, Il Giornale (ai tempi di Indro Montanelli), Il Giorno, per poi cimentarsi con le cronache in Tv. Nel 1990 inizia la sua avventura da inviato nei box della 500 e poi della MotoGP, un’esperienza durata fino al 2013 che lo ha reso tra le figure più amate del settore. A lui abbiamo chiesto di fare qualche pronostico per il campionato, ma siccome è una miniera di ricordi e spunti che condivide con generosità rara, ci siamo fatti raccontare di quando i paddock quasi somigliavano a un campeggio e i motor-home erano semplici roulotte.

In Qatar si riaprono i giochi: come vede questo mondiale?
Il quadro è semplice: tutti contro Márquez. È lui il fenomeno, il presente e il futuro della MotoGP. Vederlo in pista è tantissima roba, Marc è una specie di marziano, è moderno, ha innovato l’approccio alla guida, con la spalla di fuori e, anche se in tanti non lo amano, è un ragazzo simpatico. Di sicuro resta l’uomo da battere.

Chi potrebbe farcela?
Andrea Dovizioso, per esempio. Ora che gli è scoccata dentro la scintilla della consapevolezza, ha capito che è una sfida alla sua portata, se la può giocare. Prima era convinto che gli mancasse qualcosa per stare con gli altri, adesso sa di essere anche lui al top. Tutto è cambiato in lui, tranne una cosa: il suo essere una persona veramente per bene. Poi c’è Lorenzo, sempre che riesca a tirare fuori quello che ha dimostrato in passato di saper fare, e anche Viñales. Zarco è forte, però dubito che sia in grado di reggere il confronto, se non avrà una moto ufficiale. Quanto a Petrucci, nei test è andato alla grande, ma bisogna vedere se sarà in grado di fare bene nell’unico momento che conta, la gara.

E Rossi dove lo mettiamo?
Se la Yamaha gli saprà dare una gran moto, io dico che ce la può ancora fare. Quello che di Valentino che mi lascia davvero a bocca aperta è la sua passione infinita. Avere voglia di correre al top a 39 anni, significa essere totalmente dedicato a quella emozione, come quando era un ragazzino. All’inizio giocava, ora si allena come un matto giorno dopo giorno e proprio non molla. Il decimo campionato lo vuole eccome e tra tutti quelli che ho visto correre di persona, il più forte per me è lui, per come ha saputo coniugare la sua potenza di pilota a una personalità carismatica. Certo ha degli spigoli e il suo enorme successo suscita invidia, ma ha in sé una grande umanità e me lo ha dimostrato più volte. C’è chi lo accusa di essere falso, ma Rossi è totalmente vero quando corre, prova o parla di moto e questa è l’unica cosa che conta, perché lui è un pilota. E poi diciamocelo, per vincere così tanto devi essere un po’ bastardo, nell’accezione sportiva del termine.

In che senso?
Márquez vince perché è un bastardo, così come Lorenzo o, ai suoi tempi Giacomo Agostini. Marco Simoncelli era il ragazzo più buono del mondo, ma in pista era cattivo. Quando a Sepang nel 2015 Rossi accusò Márquez in conferenza stampa di averlo danneggiato a favore di Lorenzo (che poi vinse il titolo, ndr), per me fu una dimostrazione di debolezza da parte sua. Forse dentro di sé Vale era spiazzato dall’essersi trovato di fronte uno più bastardo di lui.

In effetti, in Italia non è ancora andato giù a tanti quel mondiale andato a Jorge.
Lorenzo è un po’ come Max Biaggi: si presenta peggio di quel che è. A me piaceva soprattutto all’inizio, quando era sempre incazzato e con una voglia della madonna di vincere. La mia sensazione è che non riesca  divertirsi abbastanza. Forse ogni tanto dovrebbe mangiarsi un dolce, bersi una boccia di vino, insomma, lasciarsi un po’ andare. Quando io ho iniziato a frequentare le corse era tutto molto più semplice. Si stava insieme, era come un campeggio di gente con una grande passione in comune. Adesso tutto è compresso, frenetico.

Se lo ricorda il suo primo Gran Premio da giornalista?
Certo, Salisburgo nel 1978. Avevo conosciuto da poco un fotografo molto in gamba, Franco Varisco che mi propose di seguire insieme quella tappa. Mi disse che avremmo potuto raggiungere il circuito prendendo un passaggio da Virginio Ferrari, allora tra i piloti italiani in pista. Montammo una tenda dentro al paddock, perché ai tempi nessuno ci faceva caso e capitava spesso di vedere file di mutande stese al vento ad asciugare fuori dalle roulotte dei piloti. Ricordo il freddo terribile, dei meccanici ci prestarono dei sacchi a pelo in più per coprirci ed eravamo sempre bagnati perché pioveva e a un certo punto aveva pure attaccato a nevicare. Eppure ci divertivamo tantissimo e c’era più unione tra le persone. La sera si cantava al suono delle chitarre, si beveva e si fumava. Marco Lucchinelli, spesso ci chiamava per dirci che a loro era avanzata un po’ di pasta, ma la realtà era che diceva alla sua fidanzata di buttarne giù di più apposta per darla a noi. Ai tempi solo Ferrari si allenava e in tanti lo prendevano in giro. Una volta Franco Uncini gli disse: «La moto si deve guidare, mica spezzare». Per lui l’idea di una preparazione atletica era inconcepibile.

Lei ha raccontato con allegria e genuinità la vita dei box. Come ha sviluppato il suo stile?
Credo di avere messo a fuoco un mio modo di trasmettere le corse nel 1983, dopo il grave incidente di Franco Uncini ad Assen, in Olanda. All’inizio la situazione sembrava disperata e io avevo preso in prestito una macchina per raggiungerlo in ospedale, dove stazionavo in attesa di notizie che poi passavo ai colleghi in sala stampa. Dopo un paio di giorni mi resi conto che iniziavano ad arrivare messaggi di incoraggiamento per lui e disegni fatti da bambini. Lì ho capito il senso di quello che tutti noi stavamo facendo, perché non si trattava solo di andare forte in moto, ma di dare divertimento alla gente, una cosa molto importante. Da quel momento ho sempre cercato un approccio umano al mio lavoro, parlando con tutti, sparando cazzate, seguendo l’istinto che mi portava a cogliere le tensioni, gli sguardi, i rapporti intricati che si creano nei box. Quando i diritti Tv sono passati da Mediaset a Sky e il mio contratto non è stato rinnovato è stata dura. Però quel momento di stallo mi è servito per capire quanta fortuna ho avuto nel poter fare il mio mestiere. E l’astinenza forzata ha rinnovato la mia passione per le gare. Adesso seguo 5/6 Gran Premi all’anno, commentando da studio e mi va bene così.

C’è un personaggio che ha amato più di ogni altro?
Con Marco Simoncelli ci volevamo un gran bene. Era un ragazzo fantastico perché non aveva rivincite da prendersi sulla vita. La sua famiglia era unita, felice, costruita su solidi valori e a lui piaceva la stabilità emotiva. Stava maturando, aveva tutte le carte in regola per vincere e presto le avrebbe suonate a tutti quanti. Ridevamo tantissimo insieme, ci inventavamo mille gag. Spesso Marco diceva che non trovava due decimi che gli servivano per vincere e io facevo finta di raccoglierli da terra e darglieli. A un certo punto mi era venuta l’idea di ritagliare tante tesserine che rappresentassero ognuna un decimo: le misi tutte in una scatola e gliela regalai. Suo padre mi ha detto che dopo la sua morte (in Malesia nel 2011, ndr), quando gli hanno sfilato la tuta, ci hanno trovato dentro due di quelle tessere. A raccontarlo oggi, mi vengono ancora i brividi.

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Colors’ addiction

Se è vero, come noi crediamo e sosteniamo, che la moda è una fantastica forma di linguaggio, allora noi, attraverso gli abiti, possiamo raccontare molto di chi siamo, oltre a come ci sentiamo in un determinato momento. L’abito, ma anche l’accessorio, è spesso la carta d’identità più immediata e noi possiamo usarlo per nasconderci oppure per aprirci al mondo. Non vogliamo fare filosofia spicciola, ma da sempre il total look nero ha rappresentato una sorta di coperta di Linus, il rifugio di chi non ama gli eccessi, di chi rifiuta certi diktat. Quando, invece, ci si affida ad una tavolozza cromatica più eterogenea, scegliamo forse una maggiore esposizione, un’apertura anche nei confronti della moda.
Per la spring/summer 2018 tante le proposte per i colors-addicted. E questo trend ci è piaciuto molto e da subito, perché in tempi bui scegliere il colore è anche una bella dichiarazione di intenti, la voglia di rispondere alle brutture del mondo in maniera propositiva, solare, coraggiosa.
Ecco una carrellata di look da sfilata e di accessori che, siamo certi, potranno diventare protagonisti del vostro guardaroba nella bella stagione che è alle porte!

Ha collaborato Giuseppe Porrovecchio
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Camicia Classica VS Camicia a Fantasia

Ricordate la serie Tv Smalville? Siete più tipi da camicia classica, a tinta unita ed elegante come il ricchissimo e oscuro Lex Luthor, o preferite la camicia a quadri in flanella del bello e leale Clark Kent?

La Fantasia al potere

Sicuramente più casual è la camicia a quadri, reinterpretata con diversi tessuti: cotone, lino, denim e morbida flanella, ce n’è davvero per tutti i gusti. Non solo quadri, la fantasia non deve avere limiti o restrizioni. Colori, sfumature e applicazioni sono le benvenute. Dal floreale alla micro fantasia, l’uomo è sempre alla ricerca di un pattern che lo distingua rispetto alla tradizionale combinazione tra camicia monocromatica e giacca. Per occasioni più formali, o per una riunione di lavoro, è meglio preferire un motivo sobrio, magari un micro quadretto tono su tono o, ancora meglio, una riga sottile. Le righe sono la prima fantasia a essere stata introdotta, e già nell’ottocento erano indossate in particolare dai business men. I modelli più formali di camicia a righe presentano un fondo bianco, con righe sottili, di colore medio o scuro, e ravvicinate. A proposito di giacche, meglio non esagerare: con una camicia a fantasia restate prudenti, optando, piuttosto, per un capo basic che la lasci risaltare. Molto di tendenza è mixare la camicia a capi sportivi in tessuto tecnico e sneaker, come consiglia Alfredo Fabrizio di Shirtstudio: “Oltre agli abbinamenti più consueti, è interessante attingere dal mondo street, un mix & match in cui la camicia si abbina a pantaloni dal taglio sportivo, sneaker e cappelli baseball per un uso daywear. Anche la camicia più ricercata per tagli e costruzioni, che trova il suo più classico abbinamento con completi sartoriali, può essere sdrammatizzata e trovare nuovo appeal con bomber, pantaloni chino e scarpe sportive.”

Classico ma esuberante

Per l’uomo che sente l’esigenza di rimanere sullo stile classico, ma che non vuole rinunciare a essere casual, si può azzardare un gioco di sovrapposizioni e, perché no, di dettagli atipici. Le camicie a tinta unita con le borchie, per esempio, conferiscono un tocco rock ed eccentrico al look, l’importante è che almeno il colletto sia semplice e senza rifiniture particolari. Un’altra proposta potrebbe essere quella con maxi taschini e inserti, anche di tessuti differenti, di ispirazione militare, come suggerisce Alfredo Fabrizio: “La camicia è assolutamente un musthave, un evergreen con una forte potenzialità per essere rinnovata, offre ai designer un’infinita possibilità per trovare forme e costruzioni non consuete, per poi essere appetibile anche a una clientela per nulla scontata come quella dei millennials. Reinterpretata in chiave contemporanea può essere realmente un capo cool e trovare spazio anche nel guardaroba dei giovani che non rinunciano alle sneaker e che affrontano la vita con uno spirito sporty”. Molto chic il black su black, soprattutto se la camicia eccede in lunghezza. Che dire, poi, della camicia di jeans? Se non si vuole sbagliare, il look classico prevede una semplice t-shirt bianca e la camicia portata un po’ sbottonata, da abbinare a dei jeans, per un total look denim, o a pantaloni cargo o sportivi. Per chi vuole osare, la camicia di jeans può essere portata con un blazer e addirittura con una cravatta, ad esempio per andare in ufficio.

L’eleganza del classicismo

Un tempo la camicia bianca immacolata rappresentava l’unica alternativa per un gentleman, una sorta di riconoscimento di coloro che svolgevano un lavoro per cui non ci si doveva sporcare. La versione azzurra, invece, è notoriamente quella che dona maggiormente a tutti i tipi di carnagione, dalle più chiare alle più olivastre. La camicia in tinta unita rimane la soluzione più semplice, e quindi la più adatta in occasioni formali, a meno che non si tratti di colori particolarmente sgargianti. Non per questo è l’opzione più scontata. Si può spaziare, infatti, tra moltissimi tipi di tessuto, che, a seconda della lavorazione e della tessitura, possono cambiare la loro occasione d’uso. Il tessuto Oxford, dall’aspetto punteggiato, è indicato soprattutto per camicie con collo bottom down e taschino, il Pin point, più pregiato del precedente, è tipicamente impiegato per camicie eleganti, mentre il twill, che produce un effetto cangiante, è utilizzato per occasioni semi-formali. Il popeline è uno dei più comuni, soprattutto nelle collezioni primaverili o estive, invece la sua variante, fil à fil, è adatta in ogni stagione e i colori risultano piuttosto brillanti. Il lino, come è noto, è un tessuto molto pregiato che, grazie alle sue proprietà termoregolatrici, si indossa soprattutto nelle stagioni calde. Come il lino, anche lo zephir è leggero e traspirante, al contrario della flanella, realizzata con cotone e lana.

E il colletto?

Ricordatevi la legge che vige per ogni camicia vestita sotto la giacca o pullover: il colletto, qualunque esso sia, va sempre sotto. Non importa se siete studenti o lavoratori, la legge della camicia è universale e non ammette intransigenze.

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Beauty break: 4 indirizzi per la pausa di bellezza

Lo sappiamo bene, il benessere richiede tempo e dedizione, ma girando per il centro di Milano esistono spazi dove possiamo ricaricarci. Anche in 20 minuti. Siamo costantemente alla ricerca di luoghi in cui conciliare mente, corpo e spirito, ma nella quotidianità degli impegni e della routine lavorativa non sempre è possibile farlo. Sulla filosofia degli experiential store, eccovi delle oasi di relax e di bellezza, ideali per chi desidera concedersi una pausa dalla vita frenetica, ma ha poco tempo a disposizione.

Aveda Store – (Via Fiori Chiari, 12)

Il richiamo alla natura è il tema principale, che ha ispirato la creazione di questo spazio. Al centro della sala, il caratteristico Community Table di Aveda, tavolo realizzato in legno sul quale è posizionato un lavandino in pietra, circondato da quattro poltroncine per far accomodare i clienti e vivere un’esperienza con servizi dedicati, testando i prodotti del brand. Le Beauty Expert vi offriranno gli inconfondibili Aveda Rituals: un Aroma Sensory Journey con l’esclusiva collezione di aromi Pure-Fume™ per offrire un momento di benessere attraverso un viaggio sensoriale tra le essenze e un’Esperienza Anti-Stress, come i massaggi per testa, collo, spalle e mani per rilassare il corpo e alleviare le tensioni del giorno. Infine lo Styling Express, 5-10 minuti per rinvigorire e ridare forma alla propria acconciatura.

Blend Milano – (Via Marghera, 26)

In questo saloon boutique di tendenza possiamo scegliere tra servizi di Hair and Barber Styling, Beauty e Benessere. Infatti, convivono armonicamente una sezione dedicata ai capelli e l’altra ai rituali spa nelle ampie cabine di trattamento, una combinazione perfetta per chi è sempre di fretta e vuole ottimizzare. Il salone fornisce esclusivamente trattamenti e prodotti della massima qualità, ecofriendly, biologici e rispettosi sia della persona, che della natura.

Tonsor Club – (Via Palermo, 15) 

È il ritrovo per i veri gentlemen di Milano, uno spazio completamente dedicato alla cura maschile in cui genio del taglio e creatività dadaista si incontrano per rendere protagonista assoluto l’uomo contemporaneo. Ispirato al nome latino “tonsor”, che significa “barbiere” e che nell’antichità rappresentava per il mondo maschile un punto di ritrovo e condivisione della vita quotidiana, il Club non solo offre un servizio professionale, ma una vera e propria esperienza a 360°. È un luogo dove è possibile staccare dalla quotidianità, sorseggiare un drink, sfogliare un buon libro, mentre si ascolta un brano jazz e si vive l’antica tradizione della barberia italiana.

Clarins Skin Spa – (c/o Virgin Active Collection, Corso Como, 15)

Da un lato la boutique, dall’altro l’Istituto: uno spazio tutto Clarins dove poter scoprire segreti di bellezza e benessere che, associati ad un’attività sportiva costante, ne ottimizzano i risultati. La Spa offre la possibilità di evadere dai ritmi frenetici della routine quotidiana, tuffandosi in un universo unico, dove pulsa il DNA del brand. Oltre alle cabine di trattamento, lo spazio accoglie un inedito concept retail: Skin Beauty Express, look prêt-à-porter takeaway, veri e propri menu di bellezza completi per esaudire desideri specifici, racchiusi in accattivanti packaging da asporto!

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THE PARIS CLUB MUSIC RENAISSANCE – SECONDA PARTE

La scena della musica disco francese si è attenuata dopo l’era del French Touch negli anni ’90, ma ora, con l’arrivo di una nuova generazione dinamica di DJ e produttori francesi, il revival della cultura dei club parigini è in corso. Riempiendo le piste da ballo, sostituendo la radio, girando il mondo e lanciando cd con case discografiche internazionali, questa nuova guardia di musicisti sta portando un eclettico sound elettronico – una combinazione che sfida i generi tradizionali e che include musica techno, house e hip hop con influenze britanniche e africane – sul più ampio palcoscenico mondiale. Abbiamo incontrato dieci delle figure più influenti sulla scena, per capire di più riguardo al ritorno di Parigi sulla scena della musica contemporanea.
In questa seconda parte: Betty, Simo Cell, Sam Tiba e Miley Serious.

Essendo una delle più talentuose DJ nel circuito della club music francese, a Betty Bensimon piacciono i mix inaspettati che fanno muovere il pubblico. A lei può essere attribuito il merito di aver creato una community intorno alle sue feste Bonus Stage, sia a Parigi che a Londra. È ospite di un programma radiofonico mensile su Rinse France, ed è comparsa anche nella piattaforma di trasmissione della musica online globale Boiler Room (due volte) e suona un po’ ovunque in tutta Europa. Il DJ francese e produttore Simo Cell crea un sound eclettico, combinando techno, UK Bass e musica elettronica. È stato il primo artista straniero ad avere un EP lanciato dall’autorevole etichetta discografica britannica Livity Sound (in più ha un nuovo EP da lanciare con loro), la cui fama si estende oltre Parigi e che intraprenderà un tour in Asia a maggio. Membro del gruppo francese di musica elettronica Club Cheval, il DJ e produttore Sam Tiba è anche un solista a tutti gli effetti, che inietta una buona dose di hip hop nei suoi set esplorativi. Attualmente sta lavorando al suo primo album, che sarà pubblicato all’inizio del 2018. La DJ Miley Serious è un membro del gruppo musicale tutto al femminile TGAF, un team di quattro ragazze che è ospite di un programma radiofonico mensile su Rinse France e che si è esibito alla BBC Radio 1. Miley mixa musica elettronica, house e techno per creare una forte energia, un sound contagioso e ha appena lanciato la sua etichetta discografica, la 99ct Records.

Come descriveresti il tuo stile?
B: Mi piace la musica che può essere suonata nelle discoteche e che fa ballare le persone. Mi piace indossare il rosso, capi di pelle e le t-shirt delle mie etichette discografiche preferite.
S: Il mio stile è molto semplice: scarpe da ginnastica, jeans, pullover di lana, un cappello qua e là. E capi essenziali: semplici t-shirt bianche o nere leggermente oversize.
M: Mi piace il nero, ma anche il romanticismo. Perciò, potrei descrivere così lo stile del mio abbigliamento e della mia musica. Quando suono, mi piace indossare belle scarpe, presto molta attenzione ai miei outfit e non cerco di nasconderlo.

Chi e cosa influenza te e la tua musica?
B: Al momento, lo stile di abbigliamento delle donne in The Sopranos e la musica suonata ai matrimoni e ai Bar Mitzvahs.
S: Ora Paul Pogba e mia madre.
S.T.: Un po’ di tutto: Parigi, i miei amici musicisti, i film che guardo.
M: Le mie influenze sono piuttosto varie ma poi si uniscono. Sono una che fruga, è parte del mio lavoro. Sono appassionata di oggetti di uso quotidiano, di riviste, di New York City, di Manchester e delle controculture. Per quanto riguarda chi mi ispira, la lista sarebbe troppo lunga.

Che ruolo hanno i social media nel tuo lavoro?
B: I social media sono uno strumento importante di promozione. Utilizzarli è per me un lavoro più che un piacere.
S: Ho una tendenza a essere molto dipendente dai social media. Per cui, più ne resto lontano e più mi sento meglio. Non ho nemmeno uno smartphone.
S.T.: Un po’ meno di prima. Credo che l’autopromozione sia diventata davvero noiosa negli anni e forse è l’unica cosa che non mi piace dei social media.
M: Sono importanti, ma ciò mi rattrista. Odio vedere che l’interesse dipende dall’immagine usata o dal momento del giorno in cui viene postata.

Parigi è tornata sulla scena musicale? Qual è il tuo ruolo in questa community?
B: Sono una DJ: il mio obiettivo è quello di far ballare le persone nelle discoteche, di diffondere la musica grazie al mio programma radiofonico mensile su Rinse France e di formare una community attorno alla dance music nella mia città.
S: C’è un bel dialogo tra generazioni: le persone che sono nell’ambiente da più tempo sono abbastanza aperte al lavoro delle persone più giovani e viceversa. Siamo rappresentati meglio sulla scena internazionale e tutti noi vogliamo collaborare e crescere insieme. Non esiste uno stile musicale che appartiene a questa nuova scena emergente: ciascuno proviene da un modo diverso e porta il suo tocco personale.
S.T.: Parigi non è mai scomparsa. Per me, questa città è sempre spumeggiante, succede sempre qualcosa e l’ambiente si sta semplicemente ingrandendo. Forse sono tra due generazioni, la vecchia e la nuova, e qualche volta cerco di trovare un compromesso. L’arrivo di stazioni radio come Hotel Radio e Rinse France ha permesso a un mondo fantastico di emergere. Il futuro della musica parigina è davvero eccitante.
M: Non so se possiamo dire che Parigi sia tornata, ma ammiro ciò che le persone stanno cercando di fare, proprio adesso. Il mio ruolo come DJ o con la mia etichetta musicale è quello di essere il punto di collegamento fra lo studio e la pista da ballo e per me questo ha un’importanza enorme.

Cosa indossi durante le tue performance?
S.T.: Le stesse cose che porto nella vita quotidiana: un mix tra capi basic e vintage. Come il 95% dei parigini oggi, in un certo senso.

Photographer| Lucie Hugary
Stylist| Nicholas Galletti
Assistant Stylist| Ariane Haas
Hair Stylist| Delphine Goichon @Backstage Agency
Make up Artist| Ludovic Cadeo @Backstage Agency

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Taste porta in tavola bacche, erbe e fiori

Week end dedicato al food italiano d’eccellenza quello che sta per cominciare a Firenze. Sabato, infatti, alla stazione Leopolda aprirà le porte la 13esima edizione di “Taste – In viaggio con le diversità del gusto”. Quest’anno il tema della manifestazione, che vede la partecipazione di 400 aziende, sarà il “foraging” ovvero la nuova tendenza culinaria che porta in cucina le piante selvatiche. Alghe, erbe, arbusti, licheni, semi, resine, radici, saranno i protagonisti di Ring, incontri con esperti del settore, moderati dal Gastronauta Davide Paolini, che si tengono all’interno del teatro dell’Opera, e di una serie di eventi curati da Pitti Immagine in collaborazione con Wood*ing, Wild Food Lab, il laboratorio di ricerca animato da Valeria Mosca. Il cibo selvatico è un’importante risorsa alimentare e culturale a impatto quasi nullo sul pianeta.
Tra gli eventi dedicati al tema il talk, condotto dalla forager & chef Valeria Mosca, con lo chef Roberto Flore del laboratorio di ricerca Nordic Food Lab di Copenhagen, “La Geografia del Foraging -Dalle Alpi alle coste italiane fino agli habitat del nord Europa. Perché raccogliere oggi? Secondo quali dinamiche è giusto farlo?”. Sabato 10 marzo, dalle 15 alle 17, le Serre Torrigiani ospiteranno invece Miniforaging: uno speciale workshop con merenda dedicato ai bambini dai 5 ai 10 anni, a cura di Wood*ing. Per tutta la durata della manifestazione, che si chiuderà lunedì 12 marzo, nel piazzale tra la Stazione Leopolda e il Teatro dell’Opera, si terrà “Storie di bosco”, la mostra-installazione di Dispensa  magazine.
Alla fine del tour di degustazioni è possibile acquistare i prodotti al Taste Shop in Piazzale Gae Aulenti. La scorsa edizione il negozio ha presentato 2.180 prodotti, 43.000 pezzi in catalogo, e sono stati oltre 20.200 i pezzi venduti.

Gli orari di apertura:
sabato e domenica dalle 9.30 alle 19.30 e lunedì dalle 9.30 alle 16.30

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CROSSFIT MANIA

Si riconferma trend per il 2018 il CrossFit, la disciplina creata da Greg Glassman negli Stati Uniti nel 2000, che mira a rafforzare la forza e la prestanza fisica generale dell’individuo attraverso esercizi ad alta intensità, calibrati alle capacità psico-fisiche di ognuno, eseguiti in brevi intervalli di tempo. Si tratta di un allenamento vario, che attinge a diverse discipline, tutte con differenti funzioni e caratteristiche, per raggiungere una preparazione fisica generale. Ne abbiamo parlato con Fabrizio Bosio, Head Coach di CrossFit Cremona che in esclusiva per Manintown darà nelle prossime settimane ulteriori suggerimenti su come affrontare questa disciplina.

Che cos’è il CrossFit?
Il CrossFit è un programma di forza e condizionamento, che ha come scopo il miglioramento delle capacità psicofisiche dell’individuo, espresse nelle dieci componenti del fitness riconosciute: resistenza cardiovascolare e respiratoria, stamina (resistenza muscolare specifica), forza, flessibilità, potenza, velocità, coordinazione, agilità, equilibrio e precisione. Ciò, quindi, su cui si basa il nostro sport è la preparazione fisica generale. Nel CrossFit non si è specializzati solo su un elemento o su un dominio ma si è pronti ad affrontare prove multiple e costantemente variate. Tutto ciò si traduce nello sviluppo delle nostre capacità motorie tramite i tre grandi insiemi: ginnastica (elementi a corpo libero, sbarra e anelli, ecc.), sollevamento (olimpico, powerlifting, kettlebell lifting, strongman) e monostrutturale (corsa, vogatore, nuoto, bike, skierg).

Cosa significa esattamente? A cosa sono funzionali i movimenti?
Molto semplice, alla vita quotidiana! Imparare a sollevare un oggetto da terra in maniera sicura ed efficiente, trasportare un oggetto da un punto A a un punto B, imparare ad accovacciarsi e rialzarsi senza distruggerci un ginocchio è fondamentale, sia per un uomo d’affari che passa molto tempo in ufficio sia per un campione olimpico che fa della performance il suo pane quotidiano.

E la relativa alta intensità? Cosa significa?
Il CrossFit fa dell’alta intensità (relativa) una parte fondamentale della propria programmazione in quanto, insieme ad i movimenti funzionali, ci porta a un’ottimizzazione della risposta neuro endocrina. Con il termine alta intensità intendiamo la capacità di muovere tanto peso, per una distanza sempre maggiore e nel minor tempo possibile. Ovviamente, come anticipato, essa sarà relativa alle capacità psicofisiche di ognuno al momento dell’allenamento. All’interno del box, quindi, troverete un WOD (così chiamiamo l’allenamento del giorno, Workout Of the Day) che sarà frutto della programmazione studiata e ristudiata dai coach. La programmazione CrossFit è costantemente variata, vero, ma ciò non significa casuale. Ogni programmazione deve rispondere ai criteri scientifici di osservabilità, misurabilità e ripetibilità ovvero ogni singolo risultato deve poter essere registrato, misurato e ripetuto (o meglio migliorato) ed ogni classe deve essere condotta secondo i principi di sicurezza, efficienza ed efficacia dei movimenti.

Come è possibile misurare il miglioramento di un soggetto?
Molto semplice: tramite i cosiddetti allenamenti Bennchmarks, ovvero dei test sempre uguali che, periodicamente, vengono proposti nella programmazione stessa.

Il CrossFit è per tutti?
La mia risposta è sempre affermativa, dal momento che ogni classe è governata dal principio di scalabilità degli esercizi, ovvero la capacità di poter ridurre o modificare il grado di difficoltà di un determinato esercizio proprio per renderlo accessibile a chiunque. Questo è il motivo per cui, nella stessa classe, i coach riusciranno a guidare sia i principianti che i ragazzi più esperti verso il raggiungimento del risultato.

Come è nata la tua passione per il CrossFit?
L’amore per il CrossFit nasce più di 6 anni fa, ancora ero un semplice personal trainer in una globo gym, studente di Scienze Motorie. Il bisogno di una sfida con me stesso, di qualcosa che mi mettesse alla prova, in cui io potessi dare tutto me stesso, mi portarono a conoscere il CrossFit (allora non diffuso come oggi). Il box (chiamiamo così le nostre palestre) più vicino era a Parma ed ogni giorno, insieme ad un amico, prendevamo l’auto da Cremona ed andavamo ad allenarci. Dopo circa un anno e mezzo di allenamenti decisi di sostenere l’esame da CrossFit Level 1 Trainer per insegnare agli altri il nostro sport. Nell’ottobre 2014 ho iniziato a lavorare come coach per CrossFit Piacenza. Col passare degli anni ho ottenuto anche il CrossFit Level 2 e il CrossFit Kettlebell Trainer Certificate e ora sono qui, a CrossFit Cremona. La cosa più bella che potessimo realizzare (grazie al collega ed amico Gianluca Guzzon, owner del box) è stata proprio quella di portare lo sport del fitness nella città dove siamo cresciuti.

Hai altri progetti oltre al CrossFit?
Lavoro insieme alla mia compagna, farmacista, a un progetto chiamato Fuel Academy BM, volto all’ incremento delle performance di un atleta piuttosto che al miglioramento della salute di un utente, grazie alla combinazione di una corretta nutrizione/integrazione ed una precisa programmazione sportiva.

Photos by Gloria Perdomini
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Frank Gallucci – proud to be italian

Cover_suits Suitsupply, Shirt Navigare, Turtleneck Brooks Brothers Belt Brunello Cucinelli, Watch Panamera, Shoes Barbanero

Appena si apre il suo profilo Instagram da 131 mila follower è impossibile non notare l’hashtag sotto al suo nome, #proudtobeitalian. Ed è proprio dello stile italiano che Frank Gallucci ha fatto la sua forza, per diventare ciò che è oggi. Classe 1986, una laurea a Perugia in scienze politiche ed economiche e un viaggio in Australia anticipano la creazione del suo blog quattro anni fa, che è diventato in poco tempo un punto di riferimento del lifestyle tricolore.
Come ti definiresti?
Rappresento l’uomo italiano, che veste con versatilità e disinvoltura più stili, dall’elegante allo sportivo.
Qual è la tua idea di stile?
Semplice. Credo nella bellezza italiana e nel Bel Paese.
Chi è oggi un influencer?
Colui che riesce a influenzare le scelte della gente. Io cerco di farlo trasmettendo il mio stile di vita, non solo con la moda, ma anche attraverso i miei gusti musicali, viaggi, food e molto altro.
Come vedi l’evoluzione dei social?
Facebook di sicuro non scomparirà mai. In generale, l’audience di questi anni non finirà, ma potrà essere veicolata in altre direzioni o verso la nascita di nuove forme di social marketing.
E quella del tuo business invece?
Sto lavorando per diventare consulente di stile, un punto di riferimento per aziende e designer.
Come immagini il tuo lavoro in un futuro lontano?
Tra 10 anni mi potrei vedere Ambassador.
C’è un lato negativo della tua professione?
Sì, quello di non staccare mai la spina.
Numeri del tuo business.
(Non risponde. E ride, ndr.)
Hai una città a cui ti senti legato?
Milano, dove vivo da quattro anni. Ha un dinamismo tramite il quale puoi riuscire in ciò che vuoi.
Quanti dei tuoi consigli sono veri?
Sono uno di quelli che rifiuta i lavori, soprattutto se mi vengono imposti. A questo proposito sottolineo che non sono seguito da agenzie, preferisco tessere personalmente le relazioni.
Conta più una bella faccia o un buon contenuto?
Il contenuto, anticipato da una bella immagine.
Quanto tempo dedichi alla preparazione del tuo look?
Non si parla di ore, ma molto meno.
Quali app usi per ritoccare le foto?
Mi affido sempre ai fotografi. Le foto postate al momento, invece, sono scattate dalla mia fidanzata Giulia Gaudino, che usa Snapseed.

Photo| Karel Losenicky
Stylist| Lucio Colapietro
MUA & Hair| Giuseppe Giarratana
Fashion Collaborators| Orsola Amadeo and Dario Amato

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The winner is: Gin Collesi

Il Gin Collesi si attesta come migliore gin italiano 2018, secondo la prestigiosa classifica mondiale dei “World Gin Awards”. Dopo una valutazione in tre round, una giuria indipendente composta da esperti del settore, critici e giornalisti ha decretato i vincitori tra centinaia di gin analizzati, suddividendoli in 9 categorie. Tra questi, il Gin Collesi ha conquistato, appunto, il titolo di miglior gin per l’Italia in ben due categorie: “classic gin” (gin che hanno una base pulita con un sapore neutro, che permetta di esprimere al meglio gli aromi degli elementi botanici dove, però, il ginepro è sempre dominante) e “contemporary style” (gin dal profilo organolettico in cui il ginepro è ben riconoscibile insieme ad altri aromi, come note agrumate, speziate o floreali, che nella tradizione sono meno prominenti). «Quello dei World Gin Awards è un prestigioso riconoscimento internazionale che apporta un’ulteriore conferma della qualità del nostro prodotto – sottolinea Giuseppe Collesi, presidente di Tenute Collesi – e ne siamo ancor più orgogliosi considerando la rapidità con cui è arrivato il premio dal suo lancio, avvenuto nemmeno due anni fa». Interamente made in Italy, il Gin Collesi, è frutto di una lavorazione artigianale che nasce da ingredienti di prima qualità, che l’azienda coltiva nelle sue tenute (con sede nelle Marche, ad Apecchio). L’acqua purissima del Monte Nerone, gli orzi, le bacche di un ginepro tipico dell’Appennino, le visciole, una dolcissima ciliegia nativa delle Marche, insieme ad altri preziosi botanici (luppolo, rosa selvatica, guscio di noce, e scorze di arancio e di limone italiani) creano la ricetta del gin vincitore.

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Old Randa, le scarpe da Gentle Dandy

Per lui le scarpe sono l’equivalente della tela intonsa per i pittori o della pagina bianca per gli scrittori: una superficie su cui sbizzarrire la propria fantasia e far risaltare l’indole creativa. Lui è Andrea – Gatti all’anagrafe, Old Randa (vecchio randagio) per tutti – uomo dai mille interessi e talentuoso shoemaker, che ha fatto della patina la sua tela. Già, perché la vera passione di Gatti è la colorazione artistica delle calzature, detta con parole accessibili ai più. Il punto di partenza è sempre il medesimo, la scarpa con pellame in crust (bianco neutro) a cui Old Randa si accosta con estro e creatività. Una delle ultime applicazioni ideate da Gatti è il Grape Must, ottenuta dal mosto del vino. Le fasi di questa lavorazione sono varie e particolareggiate, le scarpe vengono dapprima immerse nel mosto per circa una settimana; successivamente si attua un processo di lavaggio. Per i due passaggi successivi, sempre a contatto col mosto, s’impiegano diverse settimane passate le quali, le scarpe vengono ripulite minuziosamente e infine vengono montate le suole personalizzate, con tavole antropologiche del ‘600 e viene effettuata la tipica bombatura delle calzature Old Randa. Il tocco finale viene dato dal cirage (lucidatura che regala alla pelle riflessi porcellanati) per esaltare ogni singola sfumatura data dal mosto e dal tempo intercorso. Non è finita qui. Le scarpe di Andrea possono avere anche la suola dipinta a mano, «La mia passione per i dettagli mi spinge a lavorare anche per 10 ore su un unico paio di scarpe» e il risultato non è mai uguale a nessun altro. Insomma, più che un pezzo unico, una calzatura irripetibile.

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Milan Fashion Week: alla sfilata JZ JUZUI, conosciamo Liu Tao

Si chiama Liu Tao, ma in Patria è nota anche come Tamia Liu. Trentanove anni, segno del Cancro, carattere riservato ma grintoso che non le preclude di comunicare con un sorriso che abbatte ogni difesa, raccontando di lei più di mille parole. Una laurea in legge, due figli, in primo piano nelle cronache mondane e protagonista, attiva e seguitissima, sui social network. È attrice e cantante vincitrice di numerosi premi, brand ambassador e testimonial agli eventi di alcune delle più prestigiose griffe internazionaliLouis Vuitton, Prada e Fendi, per citarne alcune e manifesta quell’equilibrio tra bellezza interiore ed esteriore che è poi quello tra mente e corpo, ragione e sentimento. Abbiamo scorto l’allure discreto della sua figura mentre saliva le scale che, da Piazza del Duomo, conducono a Palazzo Reale, dove è stata madrina e special guest della sfilata JZ JUZUI, a chiusura della Milan Fashion Week. Presentazioni, sorrisi sofisticati e un po’ naïf nei photocall e qualche intervista gestita con gentilezza e un’empatia fatta di vaghezza e malizia.  È stato il marchio cinese, nella Runwalk che ha segnato il debutto della Maison in Italia, a volerla come volto che incarnasse i valori, non solo estetici, del brand. È difficile pensare a una scelta migliore. Con una personalità eclettica, Tamia esprime davvero il DNA di JZ JUZUI e della sua Collezione, dedicata a una donna moderna e dinamica, emancipata da qualunque senso di sottomissione al sesso maschile, protagonista di scelte decise. E così fa la Collezione, che ha riscoperto nella Gioia il proprio leit-motiv (scegliendo, non a caso, il quadrifoglio come simbolo), immaginata come sintesi tra Leisure, New Office e Party. Gli ingredienti? I tre momenti ideali della donna di oggi: un tempo libero vissuto con comfort, seducente self-confidence nella vita professionale, una sera tutta da giocare nel segno di una femminilità senza riserve, fatta di gusto e misura.
In occasione della sfilata, abbiamo avuto modo di chiederle:

Quali emozioni le ha trasmesso questa sfilata?
Mi ha dato un’idea precisa di come stia crescendo, per innovazione e qualità, l’industria della moda cinese. Sono stata sorpresa di quanti passi avanti siano stati fatti. Ho amato la sfilata e in particolare il suo tema, la gioia.

Quali aspetti di JZ JUZUI l’attraggono maggiormente e quali sono i punti di contatto che sente di avere col brand?
Amo il suo celebrare una femminilità elegante che nasce “da dentro”, dalla consapevolezza di sé e dalla gioia, come dicevamo. Io cerco di vivere la vita con positività, per quanto possibile. Come attrice, non importa quale sia il tuo percorso, devi cercare di riempire il tuo cuore di felicità e scorgere nel futuro prospettive sempre nuove. Come donna, poi, non conta la tua età, devi essere sicura, serena e positiva. Per questo posso dire che i valori che respiro in JZ JUZUI e che ho potuto vedere in questa collezione coincidono davvero con i miei.

Con il suo dinamismo, lei incarna il simbolo della nuova donna cinese. Attrice, cantante, testimonial, per non parlare della sua presenza sui canali social. Allo stesso tempo, mamma. Come riesce a coniugare tutto questo?
Semplice: con la voglia di vivere la vita appieno. Di scorgere in ogni occasione la possibilità di maturare e di crescere. Vivo la consapevolezza di avere un forte seguito come una responsabilità: so di essere un esempio per alcuni e così ho scelto un messaggio, cercando di comunicarlo con forza: la bellezza di spendersi sfruttando fino in fondo il proprio talento, vivendo il proprio tempo con intensità.

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Francesco Marinelli: Domani è un altro ciak

Raccontami del tuo percorso…
Sono arrivato a Roma circa 4 anni fa all’età di 18 anni, subito dopo il diploma. Proprio Roma mi ha offerto l’opportunità di immergermi nel mondo del cinema. Durante le scuole superiori, grazie ad una mia cara professoressa (a cui sono sempre molto grato) ho girato due cortometraggi e durante queste primissime esperienze ho cominciato a pensare di poter intraprendere la carriera dell’attore. Ho capito subito che recitare rappresentava per me una grande passione. Mi sono immediatamente trasferito a Roma dove mi sono iscritto ad un’accademia di recitazione. Per mantenere gli studi ho cominciato a fare il modello, ho lavorato con diversi brand e ho girato l’Italia. Grazie a questo lavoro ho conosciuto molte persone, soprattutto vari fotografi, che mi hanno permesso di crescere professionalmente.

Quali le esperienze professionali per te più importanti?
Ho avuto la possibilità di girare video clip musicali e spot pubblicitari. Tra le collaborazioni per me importanti è stata quella con il gruppo musicale The Giornalisti per “Riccione”; ho lavorato per uno spot pubblicitario per Lavazza, fino al recente videoclip musicale di Mario Biondi “Rivederti” con cui ha partecipato a Sanremo 2018.  Grazie a queste esperienze ho avuto l’opportunità di confrontarmi con vari artisti. Attualmente sto lavorando per la prima volta nel mondo del cinema e credo sarà una bellissima esperienza, ma al momento non posso ancora svelare nulla! Intanto seguitemi su Instagram per scoprire il mistero @_francescomarinelli_

Come hai affrontato la sfida nel video Rivederti di Mario Biondi?
Lavorare con un’artista del calibro di Mario Biondi è stato sicuramente un immenso piacere, ma soprattutto grande motivo di crescita professionale e artistica. Ho affrontato questa sfida con tanta determinazione, ma come sempre con umiltà. Credo che non si smetta mai di imparare, ho fatto tesoro dei grandi consigli di questo artista, ora sono nel mio grande bagaglio di esperienze professionali.

La tua playlist con le 5 tue canzoni del momento?
Ram Jam –Black Betty
Litfiba – Vivere Il mio tempo
AC/DC – T.N.T.
Rino Gaetano – E cantava le canzoni
Lucio Battisti 29 Settembre

Una città che ti ispira e in cui vorresti tornare?
Non c’è una città particolare che mi ispira o in cui vorrei vivere o tornare. Ogni città mi ha dato a modo suo un’emozione e mi ha permesso di lavorare, incontrare gente e fare esperienze.

Photographer, stylist: Davide Musto
Grooming: Martina Storani
Model/Actor: Francesco Marinelli
Intimo: Calvin Klein
Leather Jacket: HE by Mango

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JACK SAVORETTI, LA FORZA DELLA MUSICA TRA ITALIA E UK

Una voce ruvida, profonda e nostalgica e una chitarra. È Jack Savoretti, nome d’arte di Giovanni Edgar Charles Galletto Savoretti, cantante britannico di origini anglo-italiane: il padre, Guido, è genovese. L’esordio musicale avviene con due duetti, presenti nell’album del 2005, della cantautrice britannica Shelly Poole, mentre il suo vero primo disco, Between The Minds, arriva sul mercato nel marzo 2007, debuttando alla posizione numero 5 della UK Indie Charts. Fattosi notare anche in Italia, grazie ad alcune collaborazioni live con Elisa e con il cantautore genovese Zibba, ha pubblicato il suo ultimo album, Sleep No More, dedicandolo, interamente, alla moglie. Recentemente è stato anche scelto da GQ Italia tra i 30 uomini più eleganti durante la serata GQ Best Dressed Man.

Il tuo pubblico ti ama e ti segue soprattutto per i bellissimi live che proponi, in cui risulti molto coinvolgente e autentico.
Credo sia dovuto, anche, a chi ci segue e ci ascolta. Siamo riusciti, come in tutte quelle amicizie che crescono lentamente e non si basano su una moda, a creare un rapporto più vero. Chi viene a vederci ci conosce da molto e noi lo percepiamo.
Sappiamo il motivo per cui sono ai concerti, perché si sono informati per esserci: anche perché noi non veniamo ospitati su tutti i canali TV o in tutte le emittenti radio. In qualche modo, sono usciti dalla loro vita quotidiana per scoprire il nostro lavoro e ciò è fonte di rispetto reciproco. In più, è bello non solo per il pubblico, ma anche per noi. Ho tanti amici in questo business, molti hanno avuto successo e, spesso, soffrono, in quanto suonano per due ore davanti a un pubblico interessato a una sola canzone. Certo, aver creato un tormentone permette di avere alcuni lussi, ma da artista non è bello sapere che la gente è lì solo per quello. Non riesci a creare una connessione.

Quindi, il non avere un tormentone, ti ha permesso una maggiore libertà nell’esprimerti artisticamente?
Sì, è stata, un po’, la mia fortuna. In alcuni momenti – nei più difficili – sarebbe stato bello averlo creato, ma solo perché ti permette di guadagnare tanto da poter fare le cose a cui si è davvero interessati.

Forse, questo, è uno dei motivi per cui sei andato via dall’Italia?
Non sono mai partito dall’Italia, anzi, qui sono arrivato molto tardi. È stato molto difficile perché, senza il loro aiuto (Elisa e Zibba, con cui ha collaborato, ndr), l’industria musicale mi avrebbe sbattuto la porta in faccia. Sono italiano, ma non abbastanza, perché non canto in italiano. Io e la mia band partiamo dai live. Volevo che la gente ci conoscesse realmente, ma, in Italia, esistono dinamiche diverse: o vai in tv e in radio o nulla. Noi come band veniamo dalla scuola di Guccini, Paolo Conte e Capossela. Abbiamo iniziato, ed è durato tre anni, dalle osterie e dalle pizzerie. Tutti ci dicevano che in quel modo non saremmo andati da nessuna parte, ma, poi, sono arrivati i teatri e, piano piano, siamo diventati ciò che siamo adesso, con un bel tour in programmazione. Ora, abbiamo degli amici in Italia ed è sempre un gran piacere tornarci, per la sua calda accoglienza e per il nostro seguito.

Quali sono i tuoi riferimenti musicali?
Sono cresciuto ossessionato da Lucio Battisti: è morto che avevo 13 anni ed era proprio l’età in cui scoprivo cosa significasse, per me, la musica. Prima di allora, era un qualcosa da suonare a una festa e basta. In quegli anni ho scoperto Simon & Garfunkel e Bob Dylan e sono rimasto sconvolto dal potere della musica italiana, vedendo reagire mio padre all’ascolto di Battisti: una montagna, un gigante (papà è sempre papà) intoccabile. Quando da immigrato italiano viveva a Londra, si stendeva quasi in lacrime e diceva: «ascolta questo». Diventava un altro uomo, un cucciolo e io ero affascinato da come questa musica potesse trasformare una montagna in un bambino. Da lì, ho ascoltato molta musica italiana per riuscire ad avere lo stesso effetto su mio padre.

Sono state importanti la tua famiglia e la sua storia, nella decisione di dedicarti alla musica?
In parte. Il motivo per cui mi sono buttato sul mercato italiano è legato alla passione e alla mia famiglia. Professionalmente, era un’idea sciocca. Tutti i contatti, con cui lavoravamo all’estero, erano contrari a questa scelta. Non funzionava, non vendevamo dischi, giravamo per suonare. A Londra e nelle osterie, qui. «Perché lo fate? È un mercato piccolo e non vi sta aiutando». Io volevo farlo per l’affezione alla musica italiana.

Una domanda di stile: cosa porti con te nei tuoi viaggi, come definiresti il tuo stile, cosa ti piace nella moda?
Adoro la moda, ma ho paura dei trend. Come vedi non sono trendy, mi piacciono le cose che avrebbe potuto mettersi mio nonno e che spero possa indossare mio figlio. Mi piacciono tutti quei capi senza tempo.

Cosa non può mancare in valigia?
Un bel cardigan di cashmere, soprattutto qui a Cortina (dove si è esibito ndr). Un cappellino è sempre importante e utile; gli occhiali da sole – specialmente nel nostro mestiere, in cui a volte si fa tardi – bisogna sempre averne un paio dietro; dei jeans che ti stiano bene addosso come fit.

Come ti rapporti ai social media?
Sono il brutto, il bello e il buono, dipende da come li usi. Io ho scelto Instagram, perché adoro le fotografie e mi piace, ma lo uso solo per lavoro. Ho un’unica regola: no family.

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Con Filippo Sinisgalli il menù è da Oscar

cover_L’executive chef de Il Palato Italiano Filippo Sinisgalli e la sua brigata 

Coniglio arrostito con mela e funghi; millefoglie di capasanta, mango giallo e zenzero; cappelletto farcito di burrata, limone e parmigiano reggiano con bisque di gambero rosso; ma anche wafer di astice e crema di ceci di Spello. Queste alcune delle proposte che lo chef Filippo Sinisgalli ha inserito nel menù della Oscar Lounge. Un menù speciale con piatti unici che dall’antipasto al dolce uniscono Nord e Sud in un’unica notte di tradizione e sapori italiani. Così Filippo ha studiato una reginella al ragù come omaggio alla nostra grande Sofia Loren, passando per la Liguria con dei “mini” cappon magro e proponendo anche un piatto davvero semplice come “il panino alla mortadella” oltre a una rivisitazione delle “fettuccine all’Alfredo”. Così, nella notte più importante per tutto lo star system internazionale la sfida per l’eccellenza nel gusto e nel saper trasformare un racconto in un’esperienza unica è già stata vinta da “Il Palato Italiano”, che per la seconda volta cucinerà per la “Gbk Luxury Gift Lounge”, una location aperta nei due giorni che precedono la cerimonia e sono di avvicinamento per tutti i Vip che si trasferiscono a Los Angeles per la notte degli Oscar.

Per quanto riguarda i dolci si inizia con il Gianduiotto (rivestito di carta dorata) che nasce a Torino (e ricorda nel nome la maschera piemontese Gianduia) dalla pasticceria dei primi dell’Ottocento, un cioccolatino che è quasi un tentativo di contrapporsi alla pasticceria francese, allora fatta di elementi d’architettonica nomea e “struttura”. Due secoli fa la maestria italiana ricercava stupore e bellezza in un’eleganza semplice che poteva permettersi l’uso di materie “semplici” come burro, cioccolato e nocciole. Questo cioccolatino per Palato nasce da un esperimento di un cuoco di brigata, fondendo elementi tradizionali come il bicerin e la gianduia. «Sì perché i dolci devono farli i pasticceri – sottolinea Filippo – ma i cioccolatini e le ganache (i ripieni) devono farli i cuochi, perché osano fino al limite, provando e riprovando fino a che quel gusto che si è solo immaginato o sentito nella mente venga espresso in appieno». Segue poi la morbidezza del “Cremino ai 3 cioccolati” sarà una delle esperienze culinarie che accompagneranno le stelle di Hollywood. «È il cioccolatino italiano per antonomasia – sostiene Sinisgalli – perché mette d’accordo tutti gli amanti e integralisti del cacao (il nostro ha una componente di fondente 85%)». Ci saranno anche il “Cioccolato e Strega” e il “Cioccolato e Limoncello”, i più amati dallo chef, che li descrive così: «Unire un liquore e del cioccolato non è semplice, le prove e le arrabbiature che hanno portato alla realizzazione di questi due cioccolatini sono talmente tante che potrebbero fare da combustibile per un volo transoceanico. Nei confronti dello Strega, in particolare, ho una sorta timore reverenziale, forse perché mia nonna lo conservava per le grandi occasioni, era il liquore “buono” da offrire al medico, al prete e a pochissimi altri eletti. Sul Limoncello che dire, sono un uomo del Sud, ho il sole dentro; credetemi, essere inebriati dal profumo dei limoni della Costiera che io stesso seleziono, crearne un elisir profumato del colore del sole stesso, unirlo a un cioccolato finissimo del Madagascar al 70% è un’esperienza sicuramente da provare».

A tutti gli ospiti della Gbk Luxury Gift Lounge verrà omaggiato con un esclusivo “kit spaghetti”. Si tratta di una scatola contenente ingredienti selezionati di produttori e artigiani italiani.

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Quanto è buono questo selfie

Preparate i vostri smartphone e iniziate a fotografare i piatti che vi piacciono di più. Potreste essere i prossimi vincitori di “Selfie Food – una foto, una ricetta”, una nuova rubrica di cucina che andrà in onda, a partire da lunedì 5 marzo, su La7d (canale 29 del digitale terrestre). Dal lunedì al venerdì alle 18.00 e la domenica alle 17.40 Stefano Cavada, giovane food blogger di Bolzano, che ha trasformato la sua passione per la cucina in professione, cercherà sui social la foto più invitante, per poi studiarne e realizzarne in cucina la giusta ricetta, ricreando il piatto raffigurato, fino al “selfie piatto” finale.  Ogni giorno Stefano sceglierà una foto tra le 3 inviate dai telespettatori e riprodurrà, il più fedelmente possibile il piatto, inventandone la ricetta. Nella puntata speciale di domenica saranno ricordati i 5 piatti presentati in settimana e sarà decretato il vincitore.  Durante il programma Cavada andrà alla ricerca dei segreti della grande cucina: la preparazione di un piatto partendo da un ingrediente principe, le migliori tecniche per equilibrare i sapori e gli odori, fino ai tempi di cottura. Giurata d’eccezione della prima puntata sarà la food writer Csaba dalla Zorza, mentre nelle puntate successive sarà l’autore della fotografia del piatto vincitore della settimana precedente a vestire i panni del giudice.

ADAM KATZ SINDING – Non chiamatelo influencer

cover_portrait by Jonathan Daniel Pryce Garconjon.com

Non gli piace essere chiamato streestyler, né tanto meno influencer. Preferisce essere chiamato fotogiornalista, perché considera il suo lavoro un report visuale di tutto ciò che avviene nel mondo della moda.
Il suo stile l’ha reso uno dei più importanti fotografi di street, questo è innegabile, ma soprattutto per quel tocco speciale e quella luce così intensa che solo le sue foto hanno, catturando l’occhio dei più prestigiosi brand di moda (da Gucci, passando per Dior o Helmut Lang) e magazine internazionali come W Magazine, In Style e Highsnobiety. Parliamo di Adam Katz Sinding, di cui tutti conoscono il lavoro sul suo sito le21eme.com ma di cui tutti, o quasi, sbagliano a scriverne entrambi i nomi.Grazie al suo talento ha iniziato anche una carriera di fotografo vero e proprio, realizzando campagne fotografiche, lookbook ed editoriali. Con il tempo è diventato una presenza costante a tutte le settimane della moda. È un artista on the go, animato da passione e temperamento da duro, il cui unico vizio è non fermarsi mai.

Chi è l’nfluencer più forte sui social?
Penso che Chiara Ferragni regni incontrastata se si parla di moda. Altrimenti in campi affini sono al top personaggi come le Kardashian, il clan Jenner e le Hadid.

Ti consideri un influencer dato il tuo seguito sui social?
Anche se suppongo che per definizione sarò considerato così, non mi identifico con questo titolo, anche perché non considero il livello di engagement così alto.

In che modo i social sono importanti per il tuo lavoro?
Mi appoggio molto a Instagram o Facebook per il mio business. Senza questi canali il lavoro non sarebbe lo stesso e non potrebbe essere visto dallo stesso audience in termini di grandezza. Il tuo account social diventa come creare una piccola galleria d’arte digitale, curata da te.

Utilizzi anche la tua immagine per promuovere il tuo lavoro e ottenere più like e follower? Funziona?
Cerco di evitare di postare foto di me stesso su Instagram. Sento che, anche se i miei seguaci sembrano apprezzare i contenuti personali, non ho piacere che il mio canale social sia seguito grazie alla mia immagine piuttosto che alle foto che scatto. Posto l’acronimo #AKSForeheadSelfie accompagnato da un selfie in cui si vedono gli occhi e la fronte. La mia opionione sul selfie è che darsi tutta questa auto-importanza è davvero noioso.

Quali sono i contenuti che hanno una migliore performance online?
Triste da dire, ma è il contenuto commerciale a fare da padrone, oppure immagini dai colori sgargianti come il rosso, il rosa o il giallo. Spesso la qualità delle fotografie ha poco a che fare con quanti like possano ottenere.

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La nuova moda è limited edition

Ogni giorno, tra le fashion news, leggiamo della nascita di una nuova co-lab, pronta ad unire stili, clientele e differenti ambiti artistici. Stiamo parlando delle collaborazioni tra brand e artista, o tra due marchi, un modello win-win che dà vita a capsule collection inaspettate e nuovi trend concepiti da originali mix.
L’abbiamo visto l’anno scorso con la collezione che Supreme ha realizzato per Louis Vuitton. Cosa ha in comune il brand più parigino e bon ton con la comunità di skater americana? Assolutamente nulla, ma il risultato portato sulla passerella e poi nei negozi vende, e tanto anche, come se quello che il mercato vuole siano gli opposti che si attraggono.

Sempre più designer di firme high level collaborano con etichette low cost, offrendo uno stile delineato, riconoscibile e alla portata di tutti. Il direttore creativo di Loewe, Jonathan Anderson, ha realizzato la seconda collezione insieme al marchio giapponese UNIQLO. Il designer Irlandese ha scelto di ispirarsi allo scenario della tipica “British Summer” degli anni ’50. La spiaggia è quella di Brighton, i tessuti utilizzati sono il lino e il cotone in colori soft, bruciati dal sole: blu cobalto, rosso papavero, verde salvia, alternati ai classici bianco e beige.
La co-lab si compone di giacche di jeans riprese dai fifties, camicie a tunica, maglie a righe, polo, bomber, gonne a campana e camicie con nastri e increspature del tessuto, dettagli iconici del designer Anderson. La collezione primavera/estate 2018 è stata presentata a Tokyo lo scorso 24 gennaio e sarà acquistabile dal 20 aprile sul sito UNIQLO.com e negli store UNIQLO di 19 paesi.
La contaminazione stilistica tra due modi differenti di vedere lo stesso stile, permette di rivisitare un trend in una maniera del tutto nuova. L’opportunità di una collaborazione offre una nuova estetica anche per Kappa, che continua il suo percorso di posizionamento e co-branding con vari stilisti tra cui Gosha Rubchinskiy, Marcelo Burlon e Opening Ceremony. È arrivato ora il turno di Danilo Paura, designer affermato e icona dello streetwear. Un livello sartoriale applicato al trend dei mitici anni ’90 delinea un nuovo stile nel mondo streetwear. La genialità e l’originalità della banda, iconica ripetizione del logo degli omini, è applicata su denim e tessuti pregiati, su pantaloni e blazer dai tagli sartoriali, su bomber in morbida pelle con lavorazioni all over o ricami. La collezione è un flash della Spring- Summer 2018 ed è distribuita da metà Dicembre in store selezionati.
Per ASICS, Kiko Kostadinov lancia la GEL-BURZ 1, la scarpa sportiva con un sottile strato di gomma ricoperto da tessuto. La palette colori spazia dal limeade, al birch, al black, perfettamente in linea con la collezione del designer. La nuova silhouette è il risultato di una costruzione ibrida, che combina elementi della GEL- NIMBUS 20 e della GEL-VENTURE 6.
Dover Street Market a Londra ospita dal 4 Gennaio 2018 la prima collaborazione GEL- BURZ in numero limitato. A Febbraio 2018 si è tenuto il lancio globale nel Dover Street Market di Ginza, a Tokyo, che include – in un’installazione realizzata all’interno del loro iconico Elephant Space – la collezione ready-to-wear Kiko SS18 e le scarpe realizzate insieme ad ASICS.
Da Converse si celebra la street culture di LA, attraverso quattro collaborazioni che vogliono mettere in luce l’essenza dello streetwear californiano. A febbraio Converse ha lanciato le partnership con i brand Babylon LA, Rokit, RSVP Gallery e CLOT. Ciascun co-branding ha ridisegnato i classici modelli Converse: FASTBREAK HI, CHUCK 70 LO, ONE STAR CC e le CHUCK 70 HI, declinandoli in diversi colori e accompagnandoli da una capsule di abbigliamento.
Babylon LA è l’etichetta che ha creato un senso di comunità per i giovani di Los Angeles. Le silhouette rivisitate sono la FASTBREAK HI e la CHUCK 70 LO, il colore che predomina è il grigio, utilizzato per materiali come il velluto e il camoscio, con dettagli di alta visibilità come l’argento riflettente.
Anche lo streetwear label Rokit ha dato una propria visione delle FASTBREAK MID e delle CHUCK 70 HI, inserendo il segno distintivo del cerchio arancione di Rokit.
RSVP GALLERY declina le storiche ONE STAR CC e le CHUCK 70 HI, con stampe grafiche sui toni del giallo.
CLOT realizza le ONE STAR CC e le CHUCK 70 HI sui toni del viola e usa pelle scamosciata, maglia e velluto per la collezione di abbigliamento, una rappresentazione dell’anima cool e rilassata dello streetwear californiano.
Eden Park x Adidas dà vita ad un’esclusiva capsule collection, pensata per gli amanti dello sport che non vogliono rinunciare allo stile. Tra i capi di punta troviamo una felpa oversize stile bomber, una felpa sportiva con cappuccio, una polo, una canottiera, pantaloni sportivi da tuta disponibili in blu navy o grigio melange. La collezione include anche una novità assoluta: le Rugby Predator. L’iconico design della scarpa da rugby è stato progettato in onore di Dan Carter – neozelandese dal cuore francese – due volte vincitore del Rugby World Cup con gli All Blacks e giocatore del Racing 92. La collezione, composta da 17 proposte maschili e femminili, è disponibile presso l’e-commerce e i negozi Eden Park, sull’e-commerce di Adidas e su rugbyshop.com e boutique-rugby.com.
Carhartt WIP x HYPERFLY annunciano la loro capsule collection, disponibile nei negozi da fine febbraio. La co-lab consiste in una serie di Gi, outfit tipico per la pratica del Jiu-Jitsu, di cui Hyperfly, brand californiano, tiene alto il mantra “You Can’t Teach Heart”, riunendo una comunità di combattenti che hanno in comune il valore dell’autenticità, della diligenza e della perseveranza. Allo stesso modo la collezione riserva un’attenzione speciale nel dettaglio dei capi utilitari, carattere comune sia a Carhartt WIP che a Hyperfly. I Gi sono stati realizzati in tre colorazioni: blu navy, black ed Hamilton brown. Nei negozi monomarca Carhartt WIP di tutto il mondo sarà possibile acquistare gli outfit di tonalità nera, mentre il Gi nelle altre due colorazioni verrà distribuito da Hyperfly.
Reebok rinnova la partnership con i designer vincitori del NEWGEN per la stagione SS 2018, dopo il successo della prima capsule Cottweiler for Reebok, presentata all’interno di Pitti Uomo a gennaio 2017. Oggi, 1 Marzo 2018, avverrà il lancio ufficiale online e in selezionati fashion stores. La capsule collection SS18 celebra l’heritage sportivo di Reebok e la visione avveniristica di Cottweiler, in un’interpretazione rivoluzionaria dei capi sportswear tecnici. La collezione si compone di giacche leggere con cappuccio, track pants, t-shirt, short e poncho declinati nelle colorazioni sabbia, pietra vulcanica e lava. Un’audace palette di colori e le linee pulite definiscono la nuova linea in ogni elemento, con accessori e scarpe dal design polivalente e ricchi di dettagli funzionali e finiture esclusive. La capsule collection utilizza tecnologie all’avanguardia, quali strati di protezione UV, elementi multi-funzionali, silhouette versatili e ripiegabili unite a tagli di design per celebrare il DNA fitness di Reebok e l’approccio fashion contemporaneo del duo di stilisti britannici.

Sportive o streetwear, le collaborazioni sono il giusto twist per una moda che cambia sempre più velocemente, vendendo grazie all’edizione tanto limitata quanto esclusiva. Le firme di brand di nicchia o di personaggi di spicco nell’ambiente sportivo creano aspettative e trepidazione tra gli affezionati al marchio o tra chi, semplicemente, vuole essere alla moda e avere nell’armadio il Pezzo del Momento.

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