Accuratezza e portabilità, le parole d’ordine alle sfilate della PFW Men’s F/W 2022

La quarta – quinta? – ondata di Sars-CoV-2 imperversa, ma all’ombra della Tour Eiffel si è reagito stoicamente alle insidie continue del virus, con l’appuntamento della fashion week maschile rivelatosi abbastanza partecipato; dei 76 brand totali, 46 hanno mostrato le collezioni Fall/Winter 2022-23 in presenza, come ci si è ormai abituati a specificare, i restanti 30 sono ricorsi nuovamente al digitale, tra corti e catwalk in streaming.

In linea di massima, l’enfasi è sulla desiderabilità di capi dall’esecuzione – ovviamente -ineccepibile e portabili, lontani da lambiccamenti e cerebralismi che, in tempi tribolati come questi, rischierebbero di essere fuori sincrono. Il che non significa sfornare (ancora) felpe in cachemire, simil-ciabatte, abiti bozzolo e derivati, piuttosto stimolare la curiosità di chi osserva con pezzi piacevoli da guardare, toccare e, soprattutto, indossare, come quelli dei cinque marchi dell’elenco seguente, tra conferme puntali, inizi ad alto contenuto di hype e toccanti addii.

Bianca Saunders

Vincitrice dell’ultimo Andam Fashion Award, l’anglogiamaicana Bianca Saunders conferma, con la sua entrée alla settimana della moda parigina, di essere tra i designer più dotati della new generation.
Per la F/W 2022-23, A Stretch, spedisce in passerella outfit a tutta prima basici, composti da tee a maniche lunghe, cappotti, duvet, blouson, coordinati in denim indaco, spesso monocratici; basta però un’occhiata ravvicinata e ci si accorge di come i capi diano l’illusione di avvitarsi su se stessi, tra impunture asimmetriche, chiusure oblique, tasche disallineate quel tanto che basta per trasmettere un’impressione di leggera disarmonia.
Il lavoro ingegnoso su volumi e tagli, quasi ipnotici nella loro irregolarità, mira in realtà a lusingare la silhouette maschile: i pattern spiraleggianti, dall’andamento contorto, assottigliano il busto e ingrossano le braccia, le camicie sono riprese sui lati per accentuare la naturale linea a V del torso, i pantaloni si attorcigliano sulla vita (alta) grazie alle pinces, per poi cadere dritti o flessuosi sulla gamba, snellendo comunque la figura.
A margine dello show, Saunders confida a GQ di volere «far sapere agli uomini che possono avventurarsi in aree sconosciute, indossare qualcosa un po’ fuori dal comune», di sicuro i suoi modelli risultano palpitanti, come attraversati da un gradevole frisson, l’ennesima riprova del fatto che, nelle mani giuste, siano ben più di meri indumenti per coprirsi.


Photo IMAXtree


Lemaire

Con la griffe omonima, gestita insieme alla compagna Sarah-Linh Tran, Christophe Lemaire prova ogni volta che minimalismo non è per forza sinonimo di canoni immutabili e look privi del “wow effect”, semmai di piccoli ma decisivi aggiustamenti degli intramontabili del guardaroba, con cui distillare armonia e sofisticatezza in abiti dal fascino effortless, proprio come le movenze dei protagonisti del défilé. Uomini e donne del brand passeggiano infatti nelle stanze degli Ateliers Berthier, davanti a un fondale dipinto che simula l’alba nel deserto.
L’outerwear (parka, caban, spolverini, overshirt, giubbetti con collo a imbuto) si stratifica, per proteggersi dalle escursioni termiche dei luoghi ricreati dalla scenografia, borse capienti e custodie per borracce vengono assicurate alla cintura o portate a spalla, con le tracolle incrociate sul corpo, i pants, decontratti, sono trattenuti sul fondo da cinturini oppure arrotolati alla caviglia, ai piedi stivaletti Chelsea o slip-on in pelle aperte sulle tomaia.
I colori, conseguenti all’ambientazione evocata, passano in rassegna tutte le sfumature neutre e terrose che si incontrerebbero in un paesaggio desertico, dai marroni e arancio bruciati al verde oliva, dal cachi all’écru, dall’antracite al rosso granata, adottate da «un’orda urbana di moderni cacciatori-raccoglitori» (così viene descritta nelle note della sfilata) che, definizioni a parte, è indubbiamente stilosa.


Ph. Courtesy of Lemaire


Louis Vuitton

Si è parlato in abbondanza della morte di Virgil Abloh, di una parabola dirompente per fatturati e rilevanza culturale, eppure è impressionante vedere, ancora una volta, i frutti del suo operato col menswear di Louis Vuitton dispiegati negli enormi spazi del Carreau du Temple, che ospitano la casa dei sogni, anzi, la Louis Dreamhouse (questo il titolo della collezione) in cui per l’ultimo, sentito tributo si riunisce il pubblico delle grandi occasioni. Amici, collaboratori fidati, semplici fan, star come Tyler, The Creator, J Balvin, Dave Chappelle, Tahar Rahim e Venus Williams assistono allo show concepito, in buona parte, dal designer e portato a termine dal suo team, un sunto, in 68 uscite, del triennio dell’outsider di Chicago alla testa della corazzata luxury transalpina, che ha sancito la compenetrazione di strada e atelier, istanze nate dal basso e dettami stilistici calati dall’alto.
Un concentrato di naïveté (la purezza, l’immaginazione fanciullesca avevano un’importanza capitale nel design del creativo scomparso a novembre) bilanciato però dal pragmatismo di chi, col proprio lavoro, voleva arrivare a quante più persone possibili: perciò valigeria d’impronta artistica (dal profilo distorto come in quadro surrealista, a tasselli semitrasparenti, con monogram effetto sfocato…), baseball cap messi di traverso, cappellini fumettistici accessoriano coat rigidi, pantaloni a sigaretta e completi velvet, le ampiezze da breakdancer si contrappongono ai tagli sharp dei capispalla, il bling bling di fermagli e paillettes ai viola e verdi profondi. Nel finale, a resettare la suddetta sequenza “contrastata”, il candore assoluto del bianco su cumuli di veli, strascichi e ali in pizzo; il simbolismo è evidente, la grandezza di Abloh pure. 


Ph. Courtesy of Louis Vuitton, ph. n. 5 Matthieu Dortomb for Vanity Teen


Paul Smith

Dopo una serie di presentazioni digital only, Sir Paul Smith torna fisicamente nella capitale francese con una sfilata – sebbene a porte chiuse – in cui, tra mise gagliarde e una tavolozza estremamente variegata, ricapitola l’evoluzione del cinema, sfruttando il potenziale evocativo del medium che ha plasmato l’immaginario collettivo del XX secolo.
Lo fa mediante il colore, anzitutto, sparso a pieni mani (vale per blu notturni, grigi e cromie glacé quanto per le energiche tonalità di rosso e verde), incanalato in stampe di tutti i tipi – trademark dello stilista – dalla qualità fotografica, tanto vivide da evocare le locandine delle sale cinematografiche di una volta, oppure psichedeliche e zigzaganti, a omaggiare David Lynch e Wong Kar-Way, guru della settima arte conosciuti (anche) per gli intensi cromatismi delle loro pellicole, disturbanti o poetici.
Lo styling, spigliato, si lascia suggestionare dai costumi del David Bowie de L’uomo che cadde sulla Terra e di Harry Dean Stanton in Paris, Texas. Persino le musiche in sottofondo, opera del compositore Richard Hartley, rimandano alle cupe sonorità delle soundtrack di Twin Peaks, Vizio di forma e You were never really here.
La ritrovata voglia di dress up, di vestirsi a modo è percepibile nella sontuosità dei materiali (shearling, mohair, raso opaco, in contrasto con velluto a coste, pelle e nylon dalle nuance smaglianti), nel mix di quadrettature spalmato su tweed, lane e drill, nell’equilibrio tra fit over e slim, evidente nel tailoring, asciugato ad eccezione che nei pantaloni, lievemente scampanati, per consentire l’abbinamento con maglie spesse, nonché nella cospicua offerta dell’outerwear (tra gli altri montgomery, piumini, impermeabili alla Mackintosh, giubbotti cropped, loden imbottiti); proposte polivalenti e adatte a un pubblico trasversale, come un buon film. 


Foto n. 5 dal sito web di Paul Smith


Kenzo

Era la passerella più attesa della stagione e, di certo, non ha deluso le aspettative, anche grazie a un parterre d’eccezione, capitanato da Ye alias Kanye West, mano nella mano con la neofidanzata Julia Fox, e Pharrell Wiliams: il nuovo corso by Nigo (figura seminale della street culture nipponica e non, artefice del successo stellare di etichette quali A Bathing Ape, Human Made e Billionaire Boys Club) di Kenzo (ri)parte dalla Galerie Vivienne, dove tutto è cominciato 52 anni fa, quando Kenzo Takada irruppe nella compassata scena francese scombussolandola con stampe e rêverie indossabili.
Il restart del marchio, preceduto dalle parole inequivocabili dell’esordiente creative director – «voglio mettere l’accento sui vestiti», prende la forma di un real-to-wear (sempre Nigo) che onora l’eredità del predecessore e trasporta i capisaldi del suo stile spumeggiante nell’hic et nunc, congiungendo Usa e Sol Levante, archetipi dell’abbigliamento americano (workwear, casual, look collegiali) con cui i giapponesi hanno familiarità fin dall’occupazione postbellica ed esplosioni cromatiche, decorazioni florealeggianti e jeanseria vecchio stampo. I petali di papaveri, rose e affini invadono ogni superficie disponibile, bomber, varsity jacket, salopette, giacche da aviatore e suit sagomati si danno il cambio, accompagnandosi a borsette printed, baschi à la française, cappelli furry e altri briosi accessori, la tigre simbolo della maison si confonde tra greche, bande contrastanti e figurini ripescati dagli archivi, in una mescolanza festosa e accattivante che, attraverso il vestiario, getta un ponte tra Oriente e Occidente.


Photo Filippo Fior/Gorunway.com


In apertura, photo by Victor Boyko/Getty Images

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