Coma_Cose, distaccarsi per ritrovarsi (ancora più) uniti e maturi

Dall’emozione della prima volta che hanno ascoltato un loro pezzo al Sanremo de L’addio, che sembrava già lontano anni luce da quello di Fiamme negli occhi. Prima l’incontro, poi il distacco – ma solo per ritrovarsi in una dimensione ancora più intima e matura. I tempi di Post Concerto e quelli di Discoteche abbandonate, i calembour “estremi” e la «crudezza ostica». «Ci hanno detto niente dura per sempre, tranne la musica»; probabilmente hanno ragione. Forse è per questo che l’universo Coma_Cose poteva evolversi solo così: tra il tour e l’altare. Chiacchierata tra California, Fausto e una fan della primissima ora.

“Camminiamo in una direzione sempre più personale nell’esplorare territori musicali inediti”

Se penso a Coma_Cose, torno col pensiero al 2017 di Jugoslavia, al 2018 di Post Concerto, al 2019 di Mancarsi: eravamo sempre di più a conoscervi e cantarvi. In cosa quegli anni vi sembrano oggi lontanissimi, e in cosa vicinissimi?

Cominciamo ad avere dei ricordi risalenti a cinque o sei anni fa, effettivamente è strano realizzare quanto si sia evoluto il nostro ecosistema. L’aver avviato questo progetto in età adulta ci ha permesso di gestirlo con una certa consapevolezza, quindi l’approccio creativo è lo stesso degli inizi. Ad essere cambiato è il contesto musicale: c’era allora una forza propulsiva che ha interessato noi e altri artisti, contribuendo a rivoluzionare il mercato discografico. Oggi questa cosa – come è normale – si è dispersa, il che ci porta a camminare in una direzione sempre più personale nell’esplorare territori musicali inediti.

Ricordate la prima volta che vi siete ritrovati in un posto in cui passa – vano un vostro pezzo?

Sì, è stato con Post Concerto al supermercato. È stato incredibile perché è un brano che, al di là della ritmica accattivante, nasconde diversi messaggi testuali profondi. Il fatto che una roba del genere passasse su un network ci ha davvero inorgogliti. Ci ha anche dato sicurezza, perché abbiamo capito che il nostro linguaggio, per quanto “sgangherato”, poteva abbracciare un pubblico più ampio.

“Abbiamo sempre dedicato tanto spazio alla parte testuale, partivamo da una frase per comporre una canzone”

Coma Cose 2023
Francesca: total look Dsquared2, earrings vintage; Fausto: total look Dsquared2

A chi c’è dall’inizio, i premi (Sergio Bardotti o Lunezia) sembrano quasi scontati. All’epoca i vostri testi sono stati una boccata d’aria fresca, si fatica a capire come potessero nascere dall’incontro tra due teste. Come funziona per voi quella fase creativa?

Ci piace vedere i premi ricevuti come un riconoscimento al lavoro fatto dal giorno zero. Abbiamo sempre dedicato tanto spazio alla parte testuale, anche perché partivamo da una frase per comporre una canzone. La scrittura dei pezzi avviene ogni volta allo stesso modo: Fausto scrive le parole e abbozza la musica, poi questo embrione di canzone viene condiviso; a quel punto, insieme, si riesamina la tonalità e la metrica, limando il testo sulle corde di California. Dopodiché si passa alla produzione del brano, per farcirlo di suggestioni onomatopeiche che valorizzino il testo.

Le primissime canzoni sono esercizi di stile incredibili, dal «fame chimicapisce» e «can che abbaia non Moroder» di Post Concerto al «Dolce Venere di rime, che non ti so mai capire» di Pakistan. Cosa c’era dietro?

Alla base di tutto c’è sempre stata la sincerità, e l’urgenza comunicativa. “Smontare” il linguaggio per ricomporlo era un modo per provocare una reazione simile a ciò che sentivamo dentro, ossia la noia per una retorica linguistica arrivata al capolinea.
Poi le contaminazioni urban, negli anni, hanno rivoluzionato totalmente il modo di fare canzoni, tutto si è definitivamente rarefatto; un cambiamento parallelo a quello dei social, la cui grande esplosione ha contribuito a rinnovare il mondo, ma stanno già mostrando il fianco e prestandosi all’omologazione.
Viviamo in attesa del post-social, è chiaro che questo periodo sia una bolla transitoria… Chissà cosa arriverà dopo. Se si parla di futuro, siamo sempre molto curiosi.

“Volgiamo a una maturità stilistica che continui a farci emozionare”

Coma Cose Sanremo
Fausto: total look Diesel, boots Ferragamo; Francesca: total look Diesel, ankle boots Casadei, engagement ring Damiani, earrings Chanel vintage

Negli ultimi brani vi siete un po’ ammorbiditi, in questo senso? È possibile che certi giochi linguistici e citazioni vi rendessero poco accessibili a un pubblico più ampio?

Non sapremmo, nell’ultimo disco ci sono episodi tutt’altro che morbidi. Stiamo lavorando su una sintesi sempre più complessa. Siamo cresciuti, sarebbe inquietante continuare a insistere con lo stesso modo di fare, in antitesi rispetto ai principi del nostro progetto. Tanti costrutti delle prime canzoni ci appaiono ora ridondanti e, allo stesso tempo, inarrivabili. Come dicevamo, è cambiato totalmente il contesto socio-musicale, e non vogliamo restare ancorati al cliché di noi stessi.
Ad esempio, un pezzo come Discoteche abbandonate è per noi tra le cose più belle che abbiamo scritto, magari se avesse avuto una struttura più catchy avrebbe goduto di un seguito maggiore, invece è scritto con una crudezza ostica. Questo per noi è molto più punk che spaccare una parola per darle un duplice significato.
Volgiamo a una maturità stilistica che continui a farci emozionare, non ci sentiamo più a nostro agio col “calembour a tutti i costi”. Perpetuando quest’estetica, non saremmo sinceri. La cosa importante è che i primi brani continuino a esistere nei concerti, è sempre bello farli rivivere respirando le tappe della nostra storia, catapultando noi e chi ascolta nei ricordi del passato.

“È l’alternanza di codici alti e bassi a raccontare la vita vera, è quello che cerco sempre di fare quando scrivo”

Citando Mancarsi: «Ci hanno detto niente dura per sempre, tranne la musica. Quella rimane». Fausto, all’epoca della tua carriera da solista come Edipo, Giorgio Zito ha scritto di te un’ode altissima, per esempio che ne I Nudisti del mar Baltico giocavi a rifare il Vasco delle ballate «ma con un testo di una spanna superiore», o che avevi «l’intelligenza del Battiato più pop, che sa giocare con le citazioni musicali, colte, basse, letterarie, politiche, storiche». Ti sembra esagerato o ti ci ritrovi?

Wow, un complimento da far arrossire. Credo che I Nudisti del Mar Baltico sia una canzone profonda, in cui si ritrovano perfettamente parecchie caratteristiche che poi hanno fiorito in Coma_Cose. I cantautori italiani hanno sempre rappresentato il punto di riferimento di tutto e continuano a essere un faro. È proprio l’alternanza di codici alti e bassi a raccontare la vita vera, è quello che cerco sempre di fare quando scrivo.

Coma Cose stile
Francesca: total look Ferragamo, engagement ring Damiani, earrings vintage; Fausto: jacket and shirt Ferragamo, trousers vintage, boots Ferragamo

“Avendo attraversato molteplici fasi personali e lavorative prima di Coma_Cose, viviamo questo progetto come un traguardo”

«Ed ogni tanto lo dimentichiamo, ma il nostro fuoco lo hanno visto tutti»: nel Sanremo de L’addio c’è un’allusione al Festival di Fiamme negli occhi. In una crisi di coppia che è sentimentale, ma anche artistica, quanto pesa il contorno?

La convivenza nella vita e nella musica non è sempre facile, ma svegliarci con la consapevolezza che questo sia il nostro lavoro riempie il cuore di un orgoglio e un’energia che non si possono spiegare. In generale la vita è una sfida infinita, avendo attraversato molteplici fasi personali e lavorative prima di Coma_Cose, viviamo questo progetto come un traguardo. È qualcosa in cui possiamo sentirci liberi di concentrare la nostra creatività. Il distacco aveva a che fare, inevitabilmente, con la vita quotidiana. Siamo due persone di base estremamente diverse, a volte prendersi una pausa per ritrovare noi stessi come singoli è terapeutico.

Nel 2017 cantavate «Vengo dal niente e voglio tutto», tra l’altro è il mantra di California. Com’era il niente da cui sei venuta, quanto entra nella vostra musica, nel gusto urban, nelle idee?

Be’, nel 2017 la mia vita è cambiata radicalmente. Stavo archiviando un’esperienza lavorativa che mi aveva assorbito, se poi ripercorro a ritroso il trasferimento a Milano dalla provincia, gli affetti che hanno caratterizzato l’adolescenza… Mi sembra davvero di aver vissuto almeno tre o quattro vite diverse.
La musica è sempre stata presente, ma non l’avevo mai pensata come un qualcosa che potesse diventare un’occupazione. Probabilmente il mio approccio naïf degli esordi ha contribuito a delineare con Fausto qualcosa di inedito, e che per questo ha incuriosito.

“Il 2023 per noi sarà un anno indimenticabile”

Oggi come sarebbe, «Vengo dal niente e voglio…»?
Ci sono ancora molte cose che vorrei realizzare: in primis una casa tutta mia, poi adottare almeno altri 44 gatti e viaggiare il più possibile. Abbiamo davanti un anno fitto di impegni, però appena ci fermeremo cercheremo di recuperare un po’ di progetti rimandati da troppo tempo. Tra l’altro c’è un matrimonio in vista… Insomma, il 2023 sarà un anno indimenticabile.

Coma Cose canzoni
Francesca and Fausto: total look Ferrari, boots Ferragamo

Coma Cose intervista
Fausto: total look Vivienne Westwood, shoes Church’s; Francesca: total look Vivienne Westwood, shoes Maison Margiela

Credits

Talent Coma_Cose 

Editor in Chief Federico Poletti 

Text Chiara Del Zanno

Photographer Cosimo Buccolieri 

Stylist Giorgia Cantarini 

Make-up & hair Silvia Romero Muñoz 

Ph. assistant Antonio Crotti

Stylist assistant Federica Mele

Nell’immagine in apertura, i Coma_Cose indossano total look Calvin Klein Jeans

Santi Francesi, la vita – e il successo – dopo X Factor

Cosa significa passare da un album autoprodotto a un EP che le persone quasi pretendono dai vincitori di un talent? Cosa ha rappresentato Creep nella loro vita, prima di quel secondo live finito dritto nella storia di X Factor? Cosa si prova a centrare un pezzo come Vaniglia? Qual è lo schianto che temono di più, ora che tutto è da scrivere sul serio? Ma soprattutto: riusciranno mai a staccarsi l’uno dall’altro e abitare in case separate?
Intervista ad Alessandro De Santis e Mario Francese, gli unici che non avrebbero puntato su se stessi neanche quando tutta Italia aveva già scommesso sulla vittoria dei Santi Francesi. Stupendi.

Santi Francesi album
Total looks Antony Morato

Fin dalle audizioni, sapevamo tutti che sareste andati avanti, anzi, che probabilmente avreste vinto. Anche voi avevate un po’ questa consapevolezza o arroganza?

Alessandro: Probabilmente eravamo gli unici a non saperlo. Siamo arrivati a X Factor privi di qualunque castello in aria, non eravamo neanche troppo convinti di partecipare. Però dalla seconda puntata in poi, qualche volta ci è capitato di pensare che saremmo potuti arrivare alla fine. Di sicuro ci interessava dare spettacolo.

Mi raccontate questo “cinismo colorato” con cui venite identificati? Il mio lo chiamo “pessimo umore ma con un sereno sarcasmo”, è qualcosa del genere?

A: Potremmo avvicinarlo alla sensazione di profondo legame con ciò che è reale e oggettivo, però sempre col buonumore di sottofondo, anzi, alla fine diventa quasi una sensazione di appagamento e leggerezza, nata proprio dal cinismo. Questo si ripercuote su di noi anche a livello musicale, è l’immagine e l’atmosfera che cerchiamo di comunicare.

Santi Francesi stile
Total looks Diesel

Cos’è cambiato di più dal 2019 di Tutti Manifesti (album autoprodotto che fece il boom su Spotify) all’EP In fieri, uscito post X Factor?

Mario: Siamo cresciuti, abbiamo maturato una consapevolezza. Il titolo si riferisce anche al fatto di sentirsi sempre un po’ incompiuti, di non voler raggiungere una dimensione definita.
Alla produzione di un brano, però, ci approcciamo sempre nello stesso modo: le cose ci capitano. Cogliamo l’attimo, il fatto di vivere insieme aiuta. Per il resto, chiaramente, i giochi sono cambiati, è diventato un vero lavoro, ci sono più persone con cui interfacciarsi.

Non si può ignorare lo scatto dalla produzione in solitaria all’attenzione mediatica. Come proteggete la vostra concentrazione creativa?

M: Ora è diverso, c’è sempre quella paura che non sia più un processo naturale, del dirsi “devo scrivere i pezzi, è il mio mestiere”. Dall’altro lato, però, per entrambi è stata sempre una necessità. Quindi siamo un po’ impauriti ma soprattutto gasatissimi; speriamo di sentirci sempre il fiato sul collo, perché vuol dire che la musica ci sta facendo mangiare.

Dopo Amici e prima di X Factor, avevate riserve e pregiudizi sui talent. Alla fine ne avete vinto uno: vi sentireste di dire che oggi questo format fa davvero la differenza?

A: Ci tengo a farlo capire: non vogliamo prendere in giro nessuno, siamo davvero convinti che la strada sia lunga. Il talent, nel momento in cui funziona come per noi, è una possibilità in più da non disdegnare. Anche perché i meccanismi sono cambiati molto, non ci sono più solo i ragazzini che dalla cameretta finiscono sul palco di X Factor, anzi, spesso arrivano artisti in giro già da qualche anno, come noi o i Tropea. Quindi ben venga il talent che riesce a mettere al primo posto la musica e la carriera degli artisti.

Santi Francesi gruppo
Total looks Moncler

Sulla visibilità e le possibilità offerte, c’è poco da discutere. Ma come crescita musicale vi è stato utile?

A: Non è cambiato granché nel nostro modo di fare musica. Naturalmente ci sono anche da menzionare Mirko (Rkomi, ndr) e Katoo, il suo produttore, con cui abbiamo un bellissimo rapporto e ogni volta ci ha aiutato a produrre i pezzi. Ma tutto quello che è uscito, era fatto da noi.
Di sicuro ci è servito ad acquisire un po’ di consapevolezza in più, a dirci “forse ‘sta roba non fa cagare”, prima ce lo dicevamo spesso.

Quando si scrivono frasi come «il mio sangue ti somiglia» o «io sono un bambino e tu sai di vaniglia», cosa si prova? Esaltazione? Consapevolezza di aver centrato un testo? Paura di non riuscire a replicarsi?

A: Vaniglia è un pezzo molto importante, ma come succede alle canzoni preferite dal pubblico, spesso l’artista non vuole quasi più sentirle. È un brano che tuttora ci fa riconoscere ciò che è stato, però siamo in mutamento costante. Ora come ora, non scriverei mai una canzone come Vaniglia.

M: È difficile riflettere col senno del poi su quello che è successo in quel periodo. Quando Vaniglia ha ottenuto quella risonanza inaspettata, prima di tutto c’era una sensazione di appagamento totale. Più che la paura di replicarsi, c’era la voglia di alzare ancora l’asticella.

Penso a brani come Medicine o Spaccio con i FASK, al Giffoni Festival insieme a Franco 126, alle aperture dei live di Blanco e Madame, per non parlare della soundtrack di Summertime per Netflix, che più pop di così si muore. State cercando di evitare un target, abbracciando più pubblico possibile?

A: Sì. C’è principalmente la voglia di gettare un sacco di ami, o comunque di punti interrogativi (tra l’altro hanno la stessa forma). Scoprire quante persone possano legarsi alla nostra musica. Credo sia vincolante cercare di comunicare solo con una fetta di pubblico, non ci è mai passato per la testa. Oltretutto la musica che ci piace e facciamo, probabilmente, ha il potenziale per arrivare a un numero ampio di persone. Anche nel modo di scrivere, cerchiamo sempre di non spiegarci fino in fondo.
Credo sia un grande atto di fiducia dell’artista nei confronti del pubblico: non rivelare esattamente ciò che vuole dire, lasciare uno spazio di riflessione, dar da mangiare ai dubbi.

Che legame avevate con Creep dei Radiohead, prima che gli spettatori la legassero così profondamente a voi?

A: Forse puoi immaginarlo, ma sono molto legato a Creep perché descrive sensazioni che ho provato spesso. Si tratta del rifiuto di me stesso, della paura di ciò che a volte arrivo anche solo a pensare. Farsi paura da soli, sì: è la canzone che meglio lo descrive nella storia, anche a livello strumentale è di una violenza inaudita.

M: Ho un rapporto di timore con Creep, mi fa talmente paura che mi sono quasi rifiutato di farla, quando Ale me l’ha proposto. È perfetta, strumentale, testo, melodie, come fai a riproporla? Poi abbiamo deciso di prenderla per com’era, nella sua semplicità più struggente, partendo da piano e voce. Abbiamo pensato fosse l’unico modo per non snaturarla.

Santi Francesi Alessandro Mario
Total look Paul Smith, bag Montblanc

vi siete accorti che stava succedendo qualcosa? L’avete sentita la reazione del pubblico?

M: Ricordo solo Ale che si gira verso di me subito dopo l’esibizione e dice: “Fra’, mi sa che è piaciuta” (ride).

A: La botta del pubblico non è arrivata subito, forse non abbiamo capito immediatamente quanto fosse piaciuta l’esibizione. Però ricordo che in quel momento mi sono reso conto per la prima volta di quanto fosse fico quello che stavamo facendo. Siamo tornati in hotel, ho guardato la puntata e ho detto: “Sì, questa è una cazzo di roba che mi fa accapponare la pelle”. Ci siamo divertiti.

In questo momento convivete? O meglio, pensate ancora di essere rispettivamente l’unica persona con cui l’altro possa vivere?

(Ridono) Sì, speriamo non per molto. Stiamo entrambi cercando casa a Milano, per trasferirci ognuno nella propria dimora.

Due pronostici: il rischio più grande che correte e il punto più alto che pensate di poter raggiungere.

A: Il rischio è semplice, calcolato e sotto gli occhi di tutti, perché è legato al talent, al partire con un’esposizione grande che poi magari rallenta. È sempre meno rischioso il contrario, crescere pian piano.

M: Il punto più alto? La possibilità di fare vari palazzetti in Italia, e non utilizzare i social.

I social li odiate, quindi ce la potete fare. Ma per quanto riguarda i tour, perché così umili? L’acustica dei palazzetti è pessima…

(Ridono) C’hai ragione. Allora diciamo il Parco di Monza, per il resto teniamoci stretta un po’ di scaramanzia.

Santi Francesi X Factor
Total looks Emporio Armani

Santi Francesi concerti
Total look Paul Smith, bag Montblanc

Santi Francesi canzoni
Alessandro total look Valentino, Mario total look Emporio Armani

Credits

Talent Santi Francesi 

Editor in Chief Federico Poletti 

Text Chiara Del Zanno 

Photographer Mattia Guolo 

Production & styling Alessia Caliendo 

Grooming Filippo Ferrari @Blend Management

Hair Davide Perfetti @Blend Management

Production assistants Sara Passaretti, Clementina Anzivino

Light assistant Jacopo Peloso  

2nd light assistant Alessandro Germani 

Special thanks Il Piccolo Lab

Nell’immagine in apertura, i Santi Francesi indossano total looks Antony Morato

Joaquin Morodo & The Glaze Friendz, freschi, luccicanti e cool

È il 1983 quando Joaquin Morodo nasce a Madrid: nella sua famiglia è il più piccolo di quattro figli. A monte ci sono due genitori appassionati d’arte, con un amore particolare per l’Italia (dove oggi Joaquin vive, a Milano) e tutta la travolgente pop culture degli anni Ottanta e Novanta, in cui cresce immerso. Inizia disegnando fumetti e viaggiando grazie alla carriera di modello, però senza mai abbandonare l’arte. Mentre gli amici fin da piccolo lo soprannominano “Joker”, per via di un istrionismo un po’ folle da showman, lui «beve» tutto quello che la sorella e i fratelli maggiori ascoltano in quegli anni: «Ci sono proprio annegato in quella musica». Dalla disco al latin, il pop e ovviamente tanto, tantissimo rock: quello delle band che hanno segnato un’intera generazione e che, in qualche modo, oggi Joaquin torna ad omaggiare nella sua musica con il gruppo Joaquin Morodo & The Glaze Friendz. Appena un anno fa erano partiti in due e oggi sono già in quattro, con il primo Ep I Don’t Believe In You e pronti per i live. Quasi sulla scia della brillantina che fece storia con Grease, quel glaze racconta di come lo stile possa diventare un’attitudine e un modo d’essere: freschi, luccicanti e cool.

Joaquin Morodo The Glaze Friendz
Kid Riff, jacket and boots Gaëlle Paris, trousers GMS7; Joaquin, total look Gaëlle Paris; Maximiliano, total look Gaëlle Paris, boots Gianvito Rossi

Partiamo dal principio: la Madrid di quegli anni e la scoperta delle tue passioni.

Il mio sangue è galiziano, in famiglia siamo tre fratelli e una sorella. Io sono il più piccolo. Ho iniziato una carriera da modello a 16 anni, quindi anche a viaggiare presto e a vivere in molte città. Poi sono tornato a Madrid per studiare giurisprudenza, dalla mia famiglia e dai miei amici. Prima che il lavoro di modello diventi una professione, ce ne vuole di tempo…

“Ci piace molto l’idea di omaggiare le band che formano parte della nostra cultura musicale”

E nel mentre ti sei affermato anche come imprenditore, coltivando il mestiere di pittore e di musicista. Negli ultimi tempi sei anche diventato una personalità social, con 137k follower su Instagram. C’è tanto in ballo.
Se parliamo del concetto di tempo, io mi sforzo di fare più cose possibili. Dentro di me però c’è una struttura precisa, non il caos. A 9 anni ho iniziato a dipingere fumetti grazie ad uno dei miei fratelli, che mi ha insegnato il disegno anche in ottica maniacale: lo studio della luce e una visione artistico-plastica monocromatica. Parliamo del classico fumetto con il pennarello, quindi dipingendo delle ombre. Dopo è stato naturale studiare fotografia, l’uso delle camere Reflex, pensare e ragionare dal disegno all’incisione della luce nelle fotografie. Fino a ritrovarmi davanti alla macchina come modello.

The Glaze Friendz
Kid Riff, total look Roberto Cavalli; Joaquin, sweater Tagliatore, jacket PT Torino, trousers GMS75, boots Vic Matié; Maximiliano, total look Gaëlle Paris, boots Gianvito Rossi

L’Italia quando è arrivata?

Sono venuto la prima volta nel 2001, oggi vivo a Milano. Sono sempre stato affascinato dalla cultura e dall’arte di questo paese, già negli anni della scuola. A quel tempo non c’era internet ma ci arrivava molto dell’Italia. La mia è una famiglia interessata alla cultura, mio padre è un’enciclopedia vivente e mi ha sempre parlato della vostra storia.

Nella tua arte quanto hai portato della cultura pop con cui sei cresciuto?
Per me è stata un’influenza esponenziale. In maniera molto leggera e spontanea, provavo a tradurre quello che ho dentro. È anche il risultato dell’essere il più piccolo di quattro fratelli che in quegli anni erano giovani, e quindi io ho bevuto tutto quello che ascoltavano, ci sono proprio annegato.

“30 Something è vincolato all’età in cui vivo adesso, ma anche ad una certezza: quella di non sapere mai abbastanza”

Si sente molto in un brano come 30 Something, che attacca proprio strizzando l’occhio al pop punk americano di quel periodo. È voluto?

Assolutamente sì. Kid Riff, il chitarrista della band, ha 23 anni ma ha una cultura musicale molto profonda, quindi ci divertiamo insieme a pescare e ripescare le emozioni che ci hanno lasciato certi anni. Lui ha iniziato a suonare la chitarra grazie a questi gruppi, i Blink 182, i Green Day. L’idea di omaggiare le band che formano parte della nostra cultura musicale ci piace molto e ci porta a tirare fuori certi brani.

Roberto Cavalli uomo 2022
Maximiliano, total look Roberto Cavalli, boots Gianvito Rossi

In quel pezzo dici: «Ho 30 anni e ancora non so niente»: è un sentimento generazionale?

È un pensiero che mi segue ogni giorno. Penso che un giorno farò anche 40 Something e canterò ancora lo stesso ritornello. Non credo d’essere l’unico a pensarla così, ma essendo una persona curiosa ogni giorno mi sento più ignorante. Perciò il brano è vincolato all’età in cui vivo adesso, ma anche ad una certezza: quella di non sapere mai abbastanza.

Da ragazzino pubblicavi già dei brani con lo pseudonimo di Joker: da dove arriva?

Tuttora i miei amici in Spagna mi chiamano Joker, con la nostra ‘jota’. Mi piace anche che l’ultimo grande Joker sia stato interpretato da un attore che si chiama come me, Joaquin Phoenix. Credo sia il mio alter ego visto dagli occhi dei miei amici, fin da quando ero piccolo. È vincolato all’istrionismo e al concetto di libertà che sfiora anche la pazzia, a livello energetico. Sono sempre stato un po’ lo showman della mia famiglia e del mio gruppo di amici. Sono una persona come un umore particolare, non dico che sia buono, ma particolare… (Ride).

Kid Riff, total look Moschino

“Glaze è un omaggio, e insieme un messaggio: è il tocco finale che lucida un’opera d’arte, ma anche un mood”

The Glaze Friendz: c’è una storia anche dietro al nome della band?

Glaze sta per glassato, ho creato un concept intorno a questa idea. Nelle opere d’arte immagino di non essere l’unico che poi passa uno strato di vernice lucida. “Vernice”, in inglese, è proprio glaze. Oggi lo smalto sulle unghie degli uomini è un trend, e noi lo pratichiamo dagli anni Ottanta, quando ero un bebè. Anche questo è un omaggio, e insieme un messaggio: è il tocco finale che lucida un’opera d’arte, ma anche un mood. Usiamo questa parola tra di noi tutti i giorni: «Quel tipo è molto glaze» vuol dire che è luccicante, fresh, fico… come dite voi italiani.

Sembrerebbe una vostra versione di Grease, la brillantina per capelli che racchiudeva un’epoca.
Assolutamente sì, mi piace. Gli americani sono bravissimi a segmentare e sviluppare i concept. E questo è un concetto molto anni Ottanta.

Quando si parla di voi, venite sempre definiti una band sperimentale. Pensi sia corretto?

No, in realtà sono arrabbiato con questa aggettivazione che ho letto anch’io sul web. Credo che con quella definizione volessero riassumere il fatto che tocchiamo tanti generi musicali.

Avete una fortissima influenza latina, fate le versioni electro-remix dei vostri dischi, toccate la trap, il punk e il classic rock…

Esatto, e mi rendo conto che sia un aggettivo positivo, quello della band sperimentale. Ma credo anche che sia un’arma a doppio taglio, perché noi non stiamo sperimentando: sappiamo bene cosa stiamo facendo, lo abbiamo definito dall’inizio.

Joaquin Morodo
Joaquin, total look Vivienne Westwood, shoes Premiata, sunglasses Moscot

“Nella Humano Multi-sensorial Experience il comune denominatore stava nel voler tirare fuori un’arte plastica e musicale insieme”

Invece trovo sperimentale la mostra di questa estate (La Humano Multi-sensorial Experience, portata in scena a Milano nell’ex monastero seicentesco di Roseto Square). Un percorso multisensoriale in cui l’input cromatico incontrava la vostra soundtrack.

Sono d’accordo, era la prima mostra che facevamo e abbiamo creato ad hoc una soundtrack collegata alle opere d’arte. Tutto è collegato in modo fluido, con il comune denominatore di voler tirare fuori un’arte plastica e musicale insieme.

Arte e followers: sei mai stato criticato per questo? Sai, il pregiudizio del bel contenitore che non può avere anche un bel contenuto.

Come modelli siamo quasi più odiati degli influencer, era una posizione molto discussa anni fa. È davvero facile criticare anche dei colleghi bravissimi sui social, senza guardare al dettaglio. Viviamo in un’epoca di scroll effimero, ma chi cura i dettagli lascia delle tracce, e basta osservare per riconoscerli.

Tu sei insieme frontman e co-produttore della band: i vantaggi e gli svantaggi di questo doppio ruolo?

Sono tantissime ore di lavoro. Anche se in realtà stiamo dividendo molto bene il metodo creativo e produttivo, sapendo cosa fa ognuno di noi. Io mi occupo del lato songwriting, delle melodie e del concept. Ad esempio ci tengo a fare una graphic cover per ogni brano, mentre normalmente c’è una sola copertina per tutto l’album. Il discorso musicale, invece, ricade più su Kid Riff.

Dolce&Gabbana uomo collezione
Joaquin, total look Dolce&Gabbana

“Credo fermamente che il vero talento, prima o poi, venga scoperto”

Tutto è iniziato proprio da voi due: come è andata?

Nel 2021 io e Kid Riff ci siamo conosciuti nello studio di registrazione di una terza persona, per fare un brano insieme. Considerando che l’abbiamo finito in tre ore, ci siamo accorti subito della sinergia tra di noi. Da lì ho iniziato a pensare all’idea e ad un certo punto gli ho detto: «Facciamo una band». E così è stato. Siamo partiti in due, e oggi siamo già in quattro. Un gruppo a tutti gli effetti, con cantante e songwriter, chitarrista, batterista e bassista. Iniziamo già a ragionare in termini di live, Ale il bassista è venuto ad ascoltarci allo Spirit e ha sposato subito il progetto.

Adesso però divertiamoci con un po’ di polemica. La deriva trash dell’autotune: vai.

(Ride) Mi è venuta questa idea perché facendo ascoltare i miei brani ad amici e conoscenti, c’erano sempre delle critiche all’autotune. In studio avevamo iniziato a sperimentare un tool, Andrea aveva improvvisato un riff, io una canzone, e così abbiamo pensato: «Perché non divertirci a mettere in ogni disco una versione con autotune?». Questo ci dà l’occasione di essere più freestyle e più istrionici, di toccare tonalità diverse… E anche di dissare un po’ la gente. È anche vero che c’è tanta fuffa, artisti meno skillati o con un percorso più povero nella musica che fanno canzoni davvero trash con l’autotune. Travis Scott ci ha fatto una fortuna ed è bravissimo, lo ascolto anch’io.

Versace men 2022
Kid Riff, look and jewels Versace, boots Vic Matié

“Adoro il flamenco, un’arte di cui potrei parlare per ore”

Il vero dissing sta nel cantare «io ti consegno spazzatura e tu mi ammiri», no?

Sì, ma perché in realtà sono anche un po’ stanco di ascoltare spazzatura solo perché la passano ovunque. Eppure la gente li ammira per quello che fanno, quindi i miei sinceri complimenti a loro. Non ci può piacere tutto, e quindi perché no? Lo facciamo con ironia anche per canalizzare un discorso inevitabile tra noi musicisti.

Perché un titolo come I Don’t Believe In You?

“Non credo in te” è qualcosa che ognuno di noi si è sentito dire nella vita, anche in maniera indiretta. Come fai a fare questa cosa? Come farai a vivere di questo? Invece secondo me con dedizione e duro lavoro si può fare tutto.

Un po’ come dire: “Non credete in me? Allora eccovi quest’album”. La cover è opera tua, cosa rappresenta?

È ispirata alla dea della giustizia, ed è legata proprio al concetto del titolo. Perché ti chiedi: è giusto che tu non creda in me? La giustizia porta simbolicamente una benda sugli occhi e una bilancia sulla mano. Credo fermamente che il vero talento, prima o poi, venga scoperto.

Torniamo indietro nel tempo per salutarci: oggi quali pensi siano stati gli artisti che ti hanno fatto davvero innamorare della musica?

Strauss, Verdi, Mozart, Bach, Yann Tiersen, Jean-Michel Jarre. E mi piace anche Tupac, perché no? Poi chiaramente Nirvana, Guns N’ Roses, Strokes e Arctic Monkeys. Giocando in casa ti dico Paco De Lucía, Camarón e Nino Bravo, un valenciano che ho cantato tantissimo da bambino. Però la chitarra di Paco De Lucía… Be’, penso sia qualcosa di inarrivabile. E il flamenco è un’arte di cui potrei parlarti per ore.

Dsquared2 uomo jeans
Maximilian, total look Dsquared2

Credits

Talent Joaquin Morodo & The Glaze Friendz

Editor in Chief Federico Poletti

Text Chiara del Zanno

Photographer Federica Livia

Stylist Simone Folli

Stylist assistant Nadia Mistri

Grooming Alessia Motti

Nell’immagine in apertura, per Kid Riff giacca e boots Gaëlle Paris, pantaloni GMS7; per Joaquin total look Gaëlle Paris; per Maximiliano total look Gaëlle Paris e boots Gianvito Rossi

Thomas Costantin, “Man in Red” dalle mille contaminazioni

«Parigi ti manca ancora?» gli chiedo appena ci sentiamo, ammiccando a un suo brano del 2021 in cui cantava “Parigi mi manchi, i miei occhi sono stanchi”. «Quella l’abbiamo superata» ride lui. «Sono uno che metabolizza in fretta perché il concetto di “mancanza” mi rattrista molto. E poi ultimamente l’ho trovata un po’ cambiata… O forse son cambiato io?». Il primo album nel 2019, Variations, mentre il secondo è fresco d’uscita: Destination Experience, che qui lui definirà «una sorta di grande Ep da ascoltare tutto d’un fiato», mentre mi risponde al telefono dal suo studio di Milano dove sta lavorando ai prossimi dj set e agli album di tre artisti differenti. Ma chissà a cos’altro, dal momento che Thomas Costantin viaggia ovunque e crea di tutto.

Ha una cultura musicale fuori dall’ordinario, e così ci ritroviamo a parlare del mondo del clubbing, dell’Italo disco, di Mina che è la nostra David Bowie, di Xavier Dolan e Dragostea Din Tei in chiave nostalgica.
Classe 1993, produttore, dj, musicista, sound designer contaminato dalla moda e dal cinema, è un esteta in senso assoluto. Il paradosso è che ha assorbito talmente tanti artisti ed influenze diverse, da non cedere mai alla tentazione di emulare nessuno. Ma solo del Duca Bianco dice «da sempre e per sempre». Gli confesso che preparare un’intervista su un artista così complesso e articolato, dà l’impressione di non afferrarlo mai fino in fondo. Ed è un complimento, perché lui si definisce “The Man in Red”, ma è anche l’uomo del mistero.

“Mi piace tutto ciò che ha a che vedere con la musica, per questo non ho mai scelto una direzione unica”

Thomas Costantin 2022
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Come succede che il producer si alimenti del musicista e del dj, ma anche dell’arte concettuale, della moda, e del cinefilo che c’è in te?

È tutto molto naturale per me. Mi sono costretto sin da molto giovane a pensare che, anche se la musica è la mia passione, deve essere un lavoro. Da bambino sentivo parlare degli artisti come se il loro fosse un secondo lavoro, un hobby. E ho sempre pensato: no, io voglio che sia il mio lavoro a tutto tondo, non che sia la mia passione del weekend e che per vivere debba andare a fare un’altra cosa. Perciò non sono mai stato snob di fronte alle occasioni lavorative che mi sono state poste davanti. Non dico di essere uno yes man, ma uno positivo sì, uno abile a sperimentare situazioni diverse.

In una dimensione unica riusciresti mai a starci?

Ogni volta che ci ho provato, non ero felice. Mi annoio facilmente. Adesso sto lavorando a tre dischi di altri artisti, uno completamente diverso dall’altro. Oggi che ho quasi trent’anni, questo mi fa molto pensare. Quando conosco altri che fanno il mio lavoro, magari un po’ più giovani di me, vorrei dire loro di non fossilizzarsi sul pensiero di voler spaccare solo come dj o come produttore. Gli consiglierei di pensare a cosa gli piace davvero. Ad esempio a me piace fare tutto ciò che ha a che vedere con la musica, e per questo non ho mai scelto una direzione unica.

“Per me il mistero è importante in generale: quando vedo un artista e di lui capisco tutto subito, non ho più voglia di guardarlo”

Andiamo nel pratico: ad esempio quando in un brano come Berlin citi un film di Kubrick.

Quella era una sensazione. Nel brano scrivevo della notte ed Eyes Wide Shut è un film che parla effettivamente della vita notturna e del suo mistero. Per me il mistero è importante in generale: quando vedo un artista e di lui capisco tutto subito, non ho più voglia di guardarlo. L’idea è sempre mettere nel mio lavoro musicale anche un linguaggio visivo, un po’ di pop e di ironia.

Thomas Costantin EP
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Dopo qualche progetto in italiano sei tornato all’inglese, nei testi. Lo prediligi per una questione di metriche e armonie?

È proprio una questione di comunicazione, anche in base all’audience che sto avendo. In questo momento lavoro di più all’estero, quindi la mia esigenza è quella di parlare ad un pubblico che possa capirmi di più, dall’America o dalla Francia.

Il soprannome Man in Red come nasce? Lo senti ancora tuo?

Assolutamente sì. Non è il mio alter ego, ma un colore che mi caratterizza. Una volta ero con mia madre a guardare delle mie vecchie fotografie di bambino e ci siamo resi conto che ero sempre vestito di rosso, e che tutt’ora casa mia è piena di cose rosse, perché mi attirano tantissimo. «Potrei metterle quando vado a suonare», mi sono detto, anche perché il rosso mi dà sensazioni un po’ magiche. Poi Man in Red è diventato anche il nome di un progetto che ho fatto partire come NFT musicali. Insomma, è un colore ma anche un po’ la mia firma. Oggi quando vado a suonare capita che mi porti dietro delle luci rosse e che le faccia mettere sulla consolle.

“Mi piace che la musica sia divertente, per quanto introspettiva”

Io associo il colore rosso al sesso, alla passione e alla violenza.

Sono la persona meno violenta al mondo, però sono anche abituato ad affrontare le cose di petto. Non scappo dalle situazioni, e penso che il rosso sia un simbolo di questo mio atteggiamento. Non associo la musica alla politica, non mi piace parlarne e non voglio che le persone pensino che io mi riferisca a un certo ceto sociale. Non è la mia storia. Sono nato libero, non giudico nessuno e non mi interessa farlo. Mi piace invece che la musica sia divertente, per quanto introspettiva.

A me piace molto il rapporto che come artista hai costruito con il tuo corpo. È uno strumento costante, a volte funge da manichino o da tavolozza. È sempre stato così?

Diciamo di sì, anche se non mi definirei un esibizionista. Sono sempre stato un amante della danza però, e poi lavoro di notte da una decina di anni, quindi con tutto ciò che ha a che vedere con il movimento, il look, gli outfit. Sono aspetti che mi appartengono, ma che per me non devono mai essere volgari o sessualmente troppo espliciti. Trovo ci siano talmente tante cose interessanti da vendere, che alla fine il sesso è un po’ sopravvalutato.

“In Italia abbiamo creato un nuovo modo di far club, una poesia anche nel mondo delle discoteche”

A proposito di vita notturna: la musica da club è ancora associata a un intrattenimento di serie B. Cosa pensi di questo stereotipo?

Che sia un po’ italiano, perché nel resto del mondo viene data una grande importanza a questo genere di musica. Basti pensare a tutti i festival che ci sono di musica elettronica, che invece in Italia sono pochi. Ho amici che suonano ovunque, al Burning Man, in Francia, in Germania o in UK, dove il clubbing è parte della cultura popolare. In Italia a un certo punto questa idea è stata abbandonata, e il Covid ha dato una bella mazzata, se si pensa anche solo ai locali che hanno chiuso a Milano.

Può dipendere dal fatto che il nostro clubbing è stato spesso associato alla riviera, al litorale e alla provincia? Quasi rilegato a intrattenimento estivo.

Quello sicuramente. Anche se mi piace ricordare che noi abbiamo avuto una cosa enorme come la Italo disco. È diventata un genere esportato a livello mondiale, che riguarda anche l’architettura e tutto ciò che concerne l’atmosfera del club. In Italia abbiamo un enorme punto di forza: il romanticismo. L’Italo disco è una musica da club ma piena di sfumature, di armonia, di voci e melodia. E questo si rispecchiava nei pavimenti colorati tipici degli anni Settanta, nelle luci e nei fiori degli interni. Tutto questo è stato portato direttamente a New York, nello Studio 54 e nel mondo del loro clubbing, dove non a caso i gestori erano quasi sempre italiani.

La nostra memoria storica non può dimenticarlo: abbiamo creato un nuovo modo di far club, che nel resto d’Europa era molto grigio. Noi abbiamo creato una poesia anche nel mondo delle discoteche.

In un’intervista una volta hai parlato delle “ritmiche sexy” della tua produzione. Tecnicamente cosa intendi?

Intendo tutto ciò che fa muovere il corpo. Quest’estate sono stato ad un festival techno in Croazia, il MoDem, che è davvero dura come proposta musicale, con luci e impianti audio incredibili, molto dark. Io e i miei amici abbiamo avuto l’impressione di guardare la classica danza di Charlie Chaplin, quasi una coreografia da miniera, in cui tutti ballano in modo rigido e con movenze anfetaminiche. Ecco, quello che faccio io è l’opposto. È qualcosa di più morbido, ondeggiato, mi piace vedere i corpi che ballano sinuosi. E quel modo di ballare si tira fuori con un certo tipo di ritmiche e di percussioni, abbinate a dei bassi disegnati in modo sexy, se vogliamo.

“In Destination Experience è più presente il concetto di loop, che diventa quasi un mantra nelle sonorità e nelle ritmiche”

Thomas Costantin canzoni
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Prima di scoprire che sei un fan di Xavier Dolan, ho ascoltato alcuni tuoi pezzi che mi hanno riportato proprio a certe scene dei suoi film.

È così giovane e ha fatto delle cose davvero generazionali! Va a citare registi che amo molto, come Godard e un filone vintage nato con il technicolor, con l’enorme calore dell’analogico. Ma per farlo usa l’occhio e l’ironia poetica della nostra generazione, come nella scena con Dragostea Din Tei, che mi ricorda quando era bambino (nda: nel film Juste la fin du monde del 2016).

Da bambina non avrei mai pensato che un giorno, da adulta, potessi commuovermi con Dragostea Din Tei.

(Ride) Mai, vero? Da bambini quello per noi era un pezzo trash, però ritirandolo fuori in questo modo, Dolan fa un’operazione nostalgia su una generazione intera. E se riesci a farlo, per me vinci. Perché la musica racconta la nostra storia.

“Era il caso di fare un disco che fosse una sorta di grande Ep, da ascoltare tutto d’un fiato”

Nel tuo ultimo disco, Destination Experience, ho l’impressione che il ritmo che cerchi si faccia sempre più martellante e percosso. Quasi venisse estremizzata la digitalizzazione (penso a brani come Hardcore Relax o Melted Music).

Pensa che in realtà il disco è analogico. Il grande stacco che c’è tra questo album e gli altri, è il fatto che è stato lavorato con una catena analogica (un upgrade da digitale ad analogico reso possibile dalla collaborazione col produttore Francesco Frilli presso l’Heavy Soul Studio di Firenze), quindi c’è una sonorità diversa rispetto a quando produci con un mix e un master digitali. Quello che è più presente, magari, è il concetto di loop che diventa quasi un mantra nelle sonorità e nelle ritmiche.

Ci sono pezzi come Melted Music che vanno a toccare ritmiche mai sperimentate da me, quasi un reggaeton minimalista, oppure Big Mess e Stolen Season che hanno delle accezioni quasi pop, con strofa, ritornello e un synth che ripete un leitmotiv. In Space Vertigo addirittura c’è una poesia con un parallelismo tra gli stati di coscienza e un ascensore che ti porta all’esplorazione, legata al mondo psichedelico che io amo moltissimo.

Quindi da cosa credi possa dipendere la percezione digitale e contemporanea di un disco totalmente analogico?

Se posso dire una cosa schietta, credo sia un discorso di lunghezza del lavoro. Destination Experience è contemporaneo perché sono 8 pezzi per 35 minuti totali, e i brani tra di loro sono abbastanza intercambiabili. La scaletta, ascoltata a shuffle, può avere più o meno lo stesso significato perché c’è un concept più unito, anche nell’uso della voce. Con Variations invece avevamo un disco che era quasi un tomo (nda: 14 brani per 1 ora e 3 minuti di ascolto totale), pieno di cose totalmente diverse, come anticipato dal titolo stesso.

“Non ho una visione stilistica unica, mi lascio sempre contaminare da più cose”

Ne fai un discorso di attitudine all’ascolto che è cambiata, quindi?

Sì, perché ci siamo resi conto tutti quanti che il mondo della musica è cambiato. Quindi fare dei dischi troppo lunghi, a meno che tu non sia un colosso come Kanye West o Beyoncé, non è un granché sensato. Per me invece era il caso di presentare un disco che fosse una sorta di grande Ep, da ascoltare tutto d’un fiato.

La consulenza per le maison di moda come è arrivata nella tua carriera? Non è che quella del sound designer sia proprio una figura conosciuta…

Le mie prime consulenze sono nate 6 o 7 anni fa. Non ho una visione stilistica unica, come sempre mi lascio contaminare da più cose. Ogni evento di questo tipo ha una colonna sonora, e per i creativi della musica è un mondo molto open in cui c’è grande richiesta. Mi son reso conto che effettivamente la figura del sound designer è poco nota, anche se è essenziale. Se pensi all’immagine di un direttore creativo, c’è sempre dietro anche un mondo musicale. Guardiamo Gucci o ancor di più Balenciaga, che ha questa immagine rave con occhialoni neri e look quasi da zombie, scarponi giganteschi e total black. Vai alla loro festa alla Fashion Week di Parigi e ti ritrovi a un rave party vero e proprio, perché quello è il loro mondo e anche la musica ne fa parte.

“Il mondo dell’erotismo è molto importante per gli esseri umani, è anche quello che ci manda avanti”

Impossibile analizzare tutte le tue influenze e contaminazioni. Fermiamoci un  attimo su David Bowie, che è il tuo punto fermo: perché?

La storia di David Bowie è parecchio interessante, perché lui è diventato un colosso mondiale ma non è quello che vorrei diventare io. Nel suo caso erano altri tempi con altri mezzi di comunicazione, c’era una verginità nel tipo di musica che proponeva, mentre oggi esiste già tutto e noi possiamo farne solo una sorta di remix. Ma la sua figura è incredibile perché prima di diventare un fenomeno non se lo cagava nessuno, ha fatto molte cose inedite, aveva una visione talmente fuori dagli schemi in quegli anni dominati dall’eroina. Ha fatto la fame per tanto tempo. In me è nata una grande ammirazione verso l’artista non borghese, veramente rock’n’roll. A lui importava solo della sua musica e ignorava la richiesta di mercato, come ha sempre fatto Mina in Italia.

Quando ascolto i tuoi brani ritrovo una dimensione erotica, perfino pornografica. Nell’immaginario collettivo l’artista si alimenta della propria sofferenza: tu invece sei più ispirato dal dolore o dall’eros?

Assolutamente dall’eros. Probabilmente arriverà anche una parte della mia carriera ispirata dalla tristezza e dalla sofferenza, ma oggi sono in un’età giovane, di scoperta del mondo estrema. Non vendo la sessualità, ma se alcune cose ti suscitano delle immagini quasi pornografiche per me è bello. Il mondo dell’erotismo è molto importante per gli esseri umani, è anche quello che ci manda un po’ avanti. Come nel clubbing, no?

Thomas Costantin disco
All clothes and accessories talent’s own

Credits

Talent Thomas Costantin

Editor in Chief Federico Poletti

Text Chiara Del Zanno

Photographer Cuba Tornado Scott

Art direction Daniele Cavalli

Location Studio Abside (Firenze)

Guardare in faccia la realtà: la musica secondo Bresh

Non ha eroi e nemmeno li vuole, perché il mondo reale non è quello che gli ha raccontato la Disney da bambino. Il disincanto che porta nei suoi testi forse parte proprio da lì: gli Articolo 31 cantavano che la vita non è un film, e Bresh torna a dirci che non è tempo per miti e leggende, che non si può più credere neanche agli antichi greci.

A renderlo chi è oggi, piuttosto, sono state tre persone nella sua vita: i suoi genitori e De André. «Io vedo la virilità in un uomo come lui, nella sua consapevolezza» mi confida parlando di modelli sociali, del suo ultimo album Oro Blu, e di chi l’ha cresciuto e ispirato. Per riferirsi a lui la gente parla di “cantautorap”, termine che gli garba poco e non ha tutti i torti. Ma che Andrea Brasi in arte Bresh riesca a portare nella sua produzione grandi picchi di riflessione, analisi sociale e schemi coraggiosi di mascolinità, è un dato di fatto. Ed è uno degli aspetti più potenti della sua musica.

Bresh rapper
Total look Hermès

Molte persone stanno ascoltando il tuo ultimo album in questi giorni, Oro Blu. Come lo vivi questo limbo, il primo periodo in cui le nuove canzoni iniziano a girare e sai di essere sotto una lente d’ingrandimento? È un bel periodo. Personalmente mi dà tanta carica, anche inconscia. Non è poco per una persona come me, che invece cerca di rimanere sempre con i piedi per terra. Devo dire la verità, questo momento qui serve per tutto.

Non hai neanche un po’ d’ansia?

Come dico sempre, cerco di delegare le ansie. Credo di essere ansioso per natura e quindi cerco di combatterlo. E di vincere la battaglia.

Clementino ha scritto pubblicamente che è in loop con un brano in particolare del tuo disco, Andrea.

È vero, che grande. Mi ha fatto piacere di brutto, lui lo conosco da un po’, ci siamo incontrati a Milano e poi grazie al calcio, quando giocava il Napoli. C’è feeling.

Bresh Oro blu intervista
Varsity jacket Philipp Plein

È interessante che uno dei pezzi più amati dell’album sia anche uno dei più intimi, perché in Andrea racconti del tuo passato, di quando cantavi ma senza lezioni, senza chitarra e senza tour. Eppure credo ci siano degli aspetti molto universali qui dentro, sei d’accordo?

Sono d’accordo, sicuramente l’universalità sta in quel concetto di provare a conoscersi. Sono certi passaggi di poesia che magari può sembrare anche ariosa, e invece è molto concreta come idea. Soprattutto in tempi come questi, dove è difficile trovare il proprio gusto perché si pensa tanto al gusto degli altri e si prova ad omologarsi. Quell’aspetto lì della canzone credo funzioni, credo crei empatia. Pensa che le prime parole sono state proprio «Andrea cantava, cantava, cantava». Sono uscite mentre ero in macchina da solo e alla fine mi è sembrato giusto tenerle. Ci ho costruito un testo intorno ed è come se fosse venuta fuori una canzone che doveva venir fuori da sola, anche senza che la cercassi. Quando è uscito il pezzo mi sono preso un po’ male, le prime ore…

Perché è uno di quei pezzi intimi che hai bisogno di buttar giù, ma poi speri quasi che non lo ascolti nessuno?

(Ride) Esatto, brava, è veramente quella roba lì! Doveva rimanere nel disco, ma era troppo bella e l’ho fatta uscire come singolo. Avevo quasi dimenticato che parlava di me, che mi ero spogliato.

I tuoi testi sono anche pieni di riflessioni e pulsioni sociali, mi piace l’idea che tu scelga di portarle in campo.

Sì, la ricerca del punto di vista è fondamentale per me. Perché è anche la ricerca della convivenza: provi a combattere gli altri e a non scottarti, ma alla fine devi comprendere e convivere.

Bresh Angelina Jolie
Total look Dolce & Gabbana

Pensi che il tuo pubblico sia legato a questo aspetto della tua musica?

Ti dico che lo spero. Io non ci penso quando scrivo, è una roba mia, ma in effetti credo che mi abbia anche un po’ distinto.

Toglimi una curiosità: se fosse dipeso da te quale canzone avresti reso il tuo tormentone al posto di Angelina Jolie?

Sai che non ci ho mai pensato? Se ne scelgo una mi sembra di far torto alle altre.

Allora te ne concedo tre.

Se me ne dai tre, allora ti dico: Svuotatasche, poi La Presa B e La Presa Male, perché racconta proprio uno stato di alterazione delle emozioni, gli alti e bassi, gli sbalzi di umore. E poi dai, sì, Angelina piace anche a me.

«Non ho eroi / e non li vuoi nemmeno», ma anche «Per essere una leggenda non è un gran momento storico». Nella tua produzione è molto forte questa visione: parli di un disincanto verso il mito, che siano gli antichi greci o i supereroi Marvel. Quando hai iniziato a vederla così?

Sai, io sono una vittima della Disney. Quel meccanismo un po’ sognante è difficile poi da applicare alla realtà della società di oggi. Succede che a un certo punto, come hai detto tu, ti disilludi e subentra il disincanto. Credo sia questo… la voglia di sognare ma lo scontro con la realtà.

E quando l’hai capito che questo mondo non era Disneyland?

(Ride) Forse l’ho capito da subito, è per quello che sono stato rapito. Il punto è sempre la ricerca della verità: quando ti scotti devi anche fare un passo indietro, capire la tua infanzia. Quali sono stati i passaggi per arrivare alla personalità che hai oggi? Io ricordo che fin da piccolo guardavo quella roba, fa parte della mia educazione e non nascondo niente. Forse la vera novità di questi tempi è provare a non nascondere più niente, no?

Direi di sì. Se non possiamo parlare di eroi, possiamo forse parlare di ispirazioni? Ci sono state persone che ti hanno ispirato, ma intendo ispirato davvero?

Sicuramente per me l’educatore maggiore, al di là dei miei genitori, è stato Faber. Questa mia parte apparentemente meno virile, che mi porta anche a raccontare aspetti poco machi, è un’ispirazione che arriva da chi mi ha insegnato a non nascondere niente. Io vedo la virilità in un uomo come De André, in quel suo modo di fare, nella sua consapevolezza.

Siamo ovviamente d’accordo sul fatto che il rap rientri nel cantautorato, ma secondo te perché in Italia non ha ancora questo diritto di nascita rispetto al pop, all’indie e via dicendo?

Il gap sta forse nelle generazioni che non lo accettano ancora. Le nuove generazioni invece l’hanno capito, per chi ha un po’ di visione è tutto chiaro. Il cantautore era uno che cantava quello che aveva scritto, e nel rap è uguale. Cambia la forma ma il modello è quello. Considera che l’ambiente che vivo io non è ostile, non la vede proprio questa distinzione. Vai a vedere Marra o Guè Pequeno, è gente che ha studiato, che ha letto libri. Gente che sa scrivere e che conosce il senso delle parole e della comunicazione. La meritocrazia della curiosità è importante in questo mestiere.

Bresh musica disco
Total look Zegna

Sto leggendo il terzo libro di Sally Rooney, giovanissima autrice di bestseller. Lei come te mette in discussione il binomio fama-vita privilegiata, perché sennò poi di cosa scrivi?

Io forse un po’ la faccio la vita privilegiata, però (ride).

Anche lei. Però tu hai detto spesso di voler schivare i vizi di fama, o sbaglio?

Non sbagli, soprattutto certi vizi sociali. Perché come dico in Come stai, «sono una scena, pure la parte, sono la curiosità». Se io devo immedesimarmi in qualcosa per scrivere, mi immedesimo anche nel contesto. Se però resto in casa, tranquillo nella mia fortezza, come posso immedesimarmi?

Hai paura di contaminarti?

Sì, ma so che lo farò. So che in qualche modo succederà. La sfida sarà quella di contaminarmi mantenendo sempre la mia matrice.

Da ragazzino ti chiamavano Bresh e non ti piaceva, poi è diventato il tuo nome d’arte. Mi racconti una volta in cui quel soprannome ti ha fatto arrabbiare e il momento in cui, invece, hai iniziato a riconoscerti in Bresh?

Come parola ci ho messo un po’ a sentirla mia, ha un suono inglesizzato. Mi sarei dato un nome più italiano che cosmopolita. Una volta mia zia Marina mi ha chiamato Bresh e son rimasto un po’ così, le ho detto «non ti permettere zia, almeno tu chiamami Andrea» (ride). Ma credo di essermi riconosciuto nel nome d’arte solo durante i primi concerti, mi sono reso conto che c’era ciccia, c’era qualcuno che stava ascoltando davvero e si ritrovava nella mia musica… Allora anche Bresh ha preso un valore diverso.

Bresh cantante Instagram
Print bomber jacket and shorts Roberto Cavalli

Quando dici «nome d’arte» te la ridi. Ti imbarazza definirti un artista?

È molto imbarazzante. Perché è una definizione grossa, quindi autoriferirsela è una responsabilità. Sono quelle cose che è giusto che ti dicano gli altri.

Concordo. L’ultima domanda te la faccio al contrario: come definiresti tu la tua produzione fin qui? E che scenari prospetti?

C’è il discorso del cantautorato e del rap, e c’è anche una parola che unisce il tutto ma che per me suona malissimo: cantautorap. Tremenda, no? Quindi cercherò di non pensarci, come faccio sempre, e lascerò che a guidarmi sia l’istinto. Farò quello che mi piace di più. E in fondo penso che se uno ascolta il mio disco, capirà da sé per cosa sono portato.

Credits

Talent Bresh

Editor in Chief Federico Poletti

Text Chiara Del Zanno

Photographer Davide Musto

Ph. assistant Riccardo Albanese

Stylist Simone Folli

Stylist assistant Nadia Mistri

Grooming Giorgia Palvarini @simonebelliagency

Nell’immagine in apertura, Bresh indossa total look Antonio Marras

Musica con un twist artistico: Gemello

Il primo dei romantici, non l’ultimo. Gemello ci ha abituati alla nostalgia e alla malinconia già in epoca non sospetta. Le infilava entrambe tra le maglie hardcore dei pezzi che hanno fatto storia insieme al TruceKlan e In The Panchine. Le ha dipinte su tela, aggrovigliate tra i dettagli fittissimi dei suoi quadri.

Perché la sua è una lunga storia d’amore tra due arti diverse, rap e pittura, ovvero tra Gemello e Andrea Ambrogio. E allora capita che a New York o a Miami, chi compra un quadro di Andrea non sappia neanche che dietro al pittore ci sia il rapper. Senza gabbie e senza rinnegare niente, Gemello si racconta. L’ultimo disco, La Quiete, i tempi del Ministero dell’Inferno, la scena rap che forse invecchia meglio di quella pop, l’etichetta di genio incompreso che gli hanno messo addosso. Probabilmente l’unica a piacergli e l’unica possibile, per uno che fa arte in disparte da vent’anni:

«Non sarò mai un McDonald’s che fattura col sorriso – mi dice – Io sono il ristorantino piccolo, che se lo conosci ci vai da una vita e te lo tieni stretto». E non avremmo potuto dirlo meglio di lui.

Gemello Andrea Ambrogio
Shirt Ardusse

Esci da un ritorno forte, La Quiete è un album che ha soddisfatto aspettative trasversali. È qualcosa su cui avevi ragionato, quella di allargare il target anche nelle scelte che hai fatto in fase di produzione?

Ti devo dire la verità, il disco è venuto un po’ da sé, perché io non sono ‘sto grande stratega. Ho fatto un sacco di album, di recente c’è stato anche Verano Zombie con Noyze, quindi diciamo che la mia parte hardcore era già abbastanza soddisfatta. Delle canzoni che mi hanno proposto sia gli amici che le nuove conoscenze ho scelto quelle che mi piacevano davvero. Quindi in realtà è nato così, non ho ponderato molto perché non sono bravo a farlo. Ma sperimentare è stato divertente, provare nuove cose mettendoci il mio. Le cose belle alla fine vengono quando non le decidi a tavolino, no?

Per molti fan della prima ora hanno funzionato anche le nuove contaminazioni. Sai che non era scontato?

Vero. Anche perché in questo momento storico la gente percepisce la musica in modo strano, ascolta prima una canzone, poi magari un’altra, e si ferma lì. Come per i film e le serie tv: è più facile andare avanti a episodi quando c’hai mezz’ora, e poi metti in pausa. È difficile che uno ascolti tutto l’album di fila, il concetto di lavorare a un disco compiuto infatti è un po’ finito. Ma io essendo della vecchia scuola ho sempre l’idea di seguire un iter, dalla uno alla undici, in modo che abbia un senso anche pipparsi undici tracce sentendosi appagato.

Gemello rapper quadri
Shirt Ardusse

Non credo che lo sforzo ripaghi solo in gloria, sai? Quando un disco è progettato come un iter, ti invoglia ancora a «pipparti undici tracce di fila».

Sì, hai ragione. È un po’ come con i quadri. Puoi passare e guardare di sfuggita, ma se ti fermi ad osservare ci puoi perdere un sacco di tempo per assorbirli. È la mia arma a doppio taglio, io sono così e non ci posso fare niente.

Questo è stato anche definito un disco importante. Che ne pensi? Secondo te quand’è che un album si impone come importante sulla scena?

Quando cambia un po’ le regole o almeno i canoni delle aspettative. Quando uno si rimette in gioco, per esempio. Ci sono stati vari dischi che personalmente mi hanno segnato tanto, come Kid A dei Radiohead. Lì l’approccio magari è stato usare l’808, hanno fatto una cosa nuova mantenendo la loro identità. Chi ha sentito La Quiete all’inizio avrà pensato: «Che è ‘sta canzone di Gemello?», e poi riascoltandolo avrà scoperto un equilibrio. È come vestirsi eleganti ma con le Jordan sotto.

Tu sei stato spesso un apripista prima del tempo: adesso se ti guardi intorno cosa vedi? Recentemente per te ci sono stati dischi importanti di altri artisti?

Beh sì, credo siano quelli dei nomi storici. Marracash. Gué, Noyz, Coez. Ci stanno troppi più contenuti e troppa più roba da dire in dischi come i loro. C’è maestria nel raccontare ma anche nel flow. Per quanto possano diventare famosi i pischelli nuovi con milioni di follower, che a me piacciono tutti pure loro, alla fine i lavori che rimangono sono degli artisti storici. Hanno un sacco da dire, sperimentano, spaccano davvero e non si smentiscono mai.

Gemello rapper disco
T-shirt Bally

Di te dicono che sei un genio incompreso.

(Ride, ndr) Esatto. Incompreso mi fa ridere e mi si avvicina anche. Non è che mi fanno schifo i numeri, però per farli c’è da crepare. E soprattutto in questo momento, tra pandemie e guerre, la nostra è una musica più di contorno. Il mondo va di fretta e la gente cerca di prenderlo per come viene.

Incompreso ti ci sei mai sentito, in questi anni?

Io sono incompreso dalla massa. Non ci riesco a essere un McDonald’s che fattura col sorriso. Io sono il ristorantino piccolo, che se lo conosci ci vai da vent’anni e te lo tieni stretto. E mi piace come cosa, è tipo una spiaggia segreta. Va detto anche che è un compromesso che non ho mai accettato, sia perché non sono in grado di fare cose troppo regalate, sia perché sono molto geloso di tutto. Dei miei quadri, della mia musica.

Invece sul fronte quadri ti sei aperto di più alla massa. Ci siamo abituati alla complessità delle tue opere, che tecnicamente sono sature di elementi da decifrare. L’hai trovata subito questa cifra stilistica o hai dovuto sbatterci la testa?

È come per la musica, non riesco a mettermi a tavolino. Sapevo fare quello, in quel modo. Però ho cercato di migliorare e di ammorbidirmi un po’. Evitare di mettere centomila parole in un testo e anche di saturare troppo i quadri. È un andare a togliere verso l’eleganza, rispetto al mappazzone da cui ero partito. Che comunque era bòno, però un po’ pesante.

I quadri inediti delle prime sperimentazioni noi non li vedremo mai: me lo dici com’erano?

Erano ancora peggio, un inferno. Tipo un film di quattr’ore coi sottotitoli in polacco.

Gemello rap disco
Total look Salvatore Ferragamo

Penso a Roma 2015, dopo anni ancora scopro dettagli. Sarò banale, ma da romana è tanta roba.

Oddio, qual era? Sai, a me piace proprio l’idea di andare a Milano, Roma e New York e pensare che dei collezionisti o dei privati abbiano i miei quadri. Passo sotto le case, vedo una luce accesa e immagino che là dentro, magari, c’è un pezzo di me. Come fosse un figlio mio. È un po’ come con le canzoni, no?
Ad alcuni ricordano un periodo della loro vita, altri ancora devono scoprirle. Mi piace tanto l’idea di camparci quanto quella di sapere che girano tra le case degli altri.

C’è ancora gente che compra un quadro di Andrea senza sapere che dietro c’è anche Gemello, e viceversa?

Alcuni sì, soprattutto all’estero. Spesso comprano il quadro ma poi ci conosciamo, mi portano a casa loro, mi presentano i figli, mi chiedono di me. È un mood che mi ricorda la New York degli anni Settanta, con l’artista che non è che vende e basta, ma gira e crea contatti.

La solita domanda sulla convivenza tra rap e pittura, invece, te la lascio aperta.

Allora ti dico che io di base non è che c’ho un rapporto poligamo con questi due aspetti della mia vita. Faccio ping pong tra le due arti. A volte mi rompo di scrivere musica, altre vado a vedere una mostra e allora voglio correre a casa a dipingere, come un bambino.

Il vantaggio però si vede nella tua produzione: non sei mai costretto a far uscire un singolo nuovo solo per riempire a caso dei vuoti.

Il vantaggio è anche che non sento di stare mai veramente in panchina. Non sto fermo un attimo.

Gemello dipinti
Total look Federico Cina

Parafrasandoti: c’è stato un tempo per essere ‘truce’ e un tempo per diventare più ‘intimo’. Te li riascolti mai i pezzi che facevi con il Klan?

Certo. Quello sono sempre io, non rinnego niente. Quando capita di tornare a cantare vecchi pezzi o fare uno spin off mi prende troppo a bene. Sento come se c’avessi ancora sedici anni, per me quello è un periodo indimenticabile. Insomma, è sempre il mio cuore, ho sempre fatto convivere la mia vena più malinconica con un’attitudine hardcore, così come i brani con In The Panchine hanno sempre avuto una nota nostalgica.

Ministero dell’Inferno ha fatto storia per chi ha vissuto quel periodo. Pensi che i ragazzini di oggi ce l’abbiano ancora come riferimento di un tessuto underground?

I ragazzini di oggi sicuramente hanno tutti i mezzi per scoprirlo. Se uno dice: «A me piace il Noyz», io gli risponderei: «Allora, ciccio, sentiti il Ministero dell’Inferno». Con Internet non rischiano di perdersi niente, magari hanno giusto bisogno di una sorella maggiore che li indirizzi.

Dai tempi di Vecchia Scuola (2006): «La cura è che guarirò da tutte queste malattie», fino all’ultimo album: «Ma non ti viene voglia di tuffarti? Di scordare? Di lasciarti andare via?». La nostalgia è una costante nella tua produzione, anche se spesso è stato posto l’accento su altro. Oggi che effetto fa, se provi a tirare le somme?

Niente, me viene sempre da piagne. Non è cambiato un cazzo. Scrivere e non riuscire troppo a entrarci dentro, fare un quadro e venderlo senza goderselo a pieno… Ecco, quando risento pezzi di mie vecchie canzoni, rileggo una scritta su un muro o rivedo un quadro mio, mi sembra che l’abbia fatto un altro Andrea. E non solo mi viene da piangere di felicità o di tristezza, ma c’è un po’ tutto in quell’emozione. E forse questa è la mia forza.

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Talent Gemello

Editor in Chief Federico Poletti

Text Chiara Del Zanno

Photographer Davide Musto

Stylist Davide Pizzotti

Photographer assistant Valentina Ciampaglia

Grooming Alessandro Joubert @simonebelliagency

Nell’immagine in apertura, Gemello indossa total look Zegna

Mr. Rain, una forte fragilità

Trent’anni compiuti a novembre, età cruciale. Nato nel ‘91 a Desenzano del Garda, provincia di Brescia, quando ha iniziato a far musica nel 2011 Mattia Balardi ha scelto un nome d’arte che racconta già molto di lui: Mr. Rain. Noi due però ci sentiamo al telefono in un giorno di sole, e la prima cosa che mi dice è che sta vivendo un periodo luminoso, ancora scorre l’emozione per l’uscita dell’ultimo album, Fragile. Poi osserva anche che mentre parliamo c’è un tempo pazzesco: «Sembra il primo giorno d’estate». Ma come gli ricordano sempre tutti, lui è l’uomo della pioggia. «Esatto, e infatti oggi scapperò».

Nonostante l’aura cinematografica che aleggia sull’elemento “pioggia” e su di lui, dietro lo spettacolo non c’è retorica: «Davvero io scrivo bene solo quando piove – mi racconta – e questa cosa non cambia. Non sono mai riuscito a capire il perché. Mi sento più malinconico e allo stesso tempo più cosciente della persona che sono e di quello che ho vissuto. Se non ci credi, sappi che quando ho provato a scrivere con il sole poi ho sempre buttato tutto».

Fragile è il suo quarto album in studio, arriva dopo lavori già amati dal pubblico e promossi dalla critica, Memories (2015), Butterfly Effect (2018), Petrichor (2021). Questo però è un progetto diverso, prodotto in modo insolito rispetto agli altri. Nato letteralmente tutto d’un fiato. E nei famosi due giorni in cui ha scritto di fila otto dei dieci brani presenti nel disco, me lo giura: pioveva.

Mr Rain rapper
Total Look Ferrari

Fragile è uscito da qualche settimana: come va il primo bilancio?

Ti confesso che inizialmente ero un po’ teso, perché sono uscito molto dalla mia zona di comfort. Questo è un disco vario, meno omogeneo degli altri, è un insieme di mondi. Ma sentire la gente contenta mi stimola. Ho deciso di sperimentare, e dai feedback che mi arrivano forse ho fatto bene.

Lo hanno raccontato anche come «un album che dispensa forza all’umanità». Una definizione importante. Senti di meritarla?

Sicuramente è una cosa gigantesca, quindi mi mette un po’ di ansia. Se però dovessi guardarla dall’esterno, considerando quello che mi scrivono le persone, in effetti ogni canzone le ha colpite in modo particolare. Parlo di argomenti molto privati, cosa che non ho mai fatto in passato. Ho cercato di cambiare il mio approccio alla musica, è stata una liberazione. Ho riscoperto la sensazione che provavo ai tempi in cui scrivevo le primissime canzoni.

Anche il ritmo produttivo è stato insolito per te. Sei passato da periodi di blocco al produrre otto brani in due giorni: tutto vero? Come è successo?

Tutto verissimo. In genere per fare un disco, essendo sia il produttore che quello che scrive i brani e i videoclip, ci metto circa due anni. A questo giro invece è partito tutto da Crisalidi e Neve su Marte (feat. Annalisa), ma dopo un mesetto ho scelto di fare una session in studio di un paio di giorni. Volevo ritrovare quel senso di divertimento e spensieratezza nel fare musica. E lì mi sono uscite otto canzoni, una cosa che ha spaventato anche me. Ovviamente nei mesi successivi ho fatto un gran lavoro di produzione, ma l’anima dei pezzi è nata così, tutta insieme.

Mr Rain Sanremo 2022
Total look Ferrari, shoes JordanLuca

Penso a frasi come: «Poco importa se entrambi saremo lontani / Finché avremo i pensieri intrecciati», oppure «i ricordi fanno male quando il presente non è all’altezza del passato». Nel disco c’è il tipico mal di pancia da fine di una grande storia d’amore, possibile?

Tutto l’album raccoglie piccoli pezzi di puzzle di varie esperienze. Più storie, più persone. In quei due giorni ho concentrato tutti questi ricordi, e quando ripenso a qualcosa che mi ha segnato ho la fortuna di saper rivivere esattamente quell’istante. C’è un bagaglio di esperienze che ho tirato fuori, in questo disco.

Racconti spesso che il nome Mr. Rain nasce dal fatto che riesci a scrivere solo durante i giorni di pioggia. Molto cinematografico, ma è sempre così? O negli anni è cambiato qualcosa?

È esattamente lo stesso. Anzi, io ti dico che veramente scrivo solo quando piove. E non sono mai riuscito a capire fino in fondo il perché.

Quindi pioveva, in quei famosi due giorni di session?

Pioveva, giuro. Per le basi è diverso, riesco a produrne tutto l’anno. Sole, pioggia, è indifferente. Ma la scrittura è una cosa molto intima, e credo che la pioggia mi aiuti a scavare meglio dentro di me. Mi sento più malinconico e allo stesso tempo più cosciente della persona che sono, di quello che ho vissuto. Ho provato a scrivere anche nelle giornate di sole, ma poi ho sempre buttato tutto.

Non è che espatri a Londra?

(Ride, nda) È possibile che prenderò una seconda casa lì.

Mr Rain cantante
Total look Lanvin

In realtà la tua musica ha un legame costante anche con altri elementi atmosferici, direi con la natura nella sua versione più prorompente. Da dove arriva?

Io amo la natura, i viaggi più belli che ho fatto mi hanno portato da lei, come quello in Islanda. Amo i paesaggi fuori dal mondo perché mi sembrano un mondo che non è la Terra. Anche nei videoclip cerco spesso di inserire posti che mi trasmettono queste sensazioni, sono andato sull’Etna per girare Meteoriti. In Crisalidi invece ho girato quasi tutto in interni, ed è stata un’eccezione.

A proposito di cinema, so che ti piacerebbe comporre colonne sonore, ma tu scrivi e dirigi anche molti dei tuoi videoclip. A un esordio alla regia ci hai pensato?

Prima di fare musica ero un grandissimo appassionato, fino a I Grandi Non Piangono Mai ho girato e montato tutti i miei video. La regia è qualcosa che mi piacerebbe fare in futuro, magari partendo da un cortometraggio, perché un film sarebbe un sogno. Mi incuriosisce come la musica.

Rap con archi, orchestre e chitarre elettriche. Sicuramente una scelta produttiva dettata dal gusto, ma è anche una presa di posizione?

Guarda, io non ho mai seguito il trend. Andava la trap? Mai fatto trap. Andava un mood? Facevo il contrario. In questo disco ho cercato di dare priorità ai musicisti, agli strumenti e ai suoni veri. Ho preso batteristi, chitarristi, un quartetto d’archi, un’orchestra intera solo per Crisalidi. Credo sia un valore aggiunto che incide molto sul risultato complessivo. Si sente se c’è un musicista vero, perché arricchisce tutto. Fragile è un album suonato al 99%, pensa che ai pianoforti ci siamo io e un mio amico. Quello di circondarmi di strumentisti era un mio grande sogno e penso che continuerò a farlo.

Mr Rain Fragile album
Total look Ind Fashion Project, shoes Acne Studios

Tra i tuoi colleghi che come te si autoproducono, c’è qualcuno che stimi particolarmente?

Che io sappia, un pazzo come me non c’è. Intendo un altro che suona tutto, che si produce, si scrive i testi e si gira pure i videoclip, non credo ci sia. Ma forse meglio così, eh, perché io faccio una brutta vita. Amo la musica, amo il mio lavoro, ma sono schiavo di me stesso. Perennemente in sfida.

Dormi poco?

Pochissimo. E mentre dormo sogno quello che devo fare il giorno dopo. Tutto questo perché sono sempre stato convinto che nessuno possa rappresentarmi meglio o realizzare esattamente quello che ho in testa. Perciò anche se ci metto il doppio degli altri, non mi interessa. Io stesso, quando cerco di collaborare con qualcun altro, mi sento sempre distante nell’approccio, nei gusti, nel metodo.

Alcuni trovano punti in comune tra te, Coez e anche Fedez, parlando di timbro. Ti infastidisce essere associato ad altri?

Non mi fa impazzire. Io sono molto obiettivo e non vedo reali somiglianze tra quello che faccio io e altri artisti. Ognuno è libero di pensare e dire ciò che vuole, ma trovo che non sia così. Sono molto easy nel risponderti. Se uno invece dovesse dirmi: «Mi ricordi molto lo stile di Macklemore» gli darei completamente ragione. Sono un fan, cerco di fare quella roba lì e sono molto in linea con il suo percorso.

Siamo sempre noi giornalisti a decretare i testi migliori di un disco. Proviamo a scambiarci il ruolo?

A me ovviamente piacciono tutti, ma credo che Crisalidi sia scritta davvero molto bene. Ogni volta cerco di superarmi, ci sbatto la testa per ore di fila, ma forse è quella più accurata dell’album, con più tecnicismi e frasi anche molto pesanti.

Mr Rain canzoni
Suit Vìen, long sleeve shirt Çanaku

Sei andato al Liceo De André di Brescia per confrontarti con gli studenti sul tema della fragilità. Due cose: credi che le loro paure siano anche quelle di noi adulti? E soprattutto, un artista sovraesposto (nel tuo caso oltre 300k tra Instagram e TikTok) può ancora spogliarsi di fronte a una platea di fan e azzerare le differenze per parlare tra esseri umani?

Io credo proprio che sia una questione di dovere morale, per le persone nella mia posizione. Avendo così tanta potenza mediatica anche tra i giovanissimi, bisogna provare a dare un buon esempio o quantomeno a non darne uno sbagliato. Sensibilizzare è fondamentale. Quella al De André è stata una delle più belle esperienze dell’ultimo periodo, era la prima volta per me. Abbiamo parlato dei nostri punti fragili, loro all’inizio erano un po’ spaventati. Ma lo ero anch’io, perché non è mai facile raccontare quello che ci fa paura: cioè le stesse cose. Le abbiamo segnate su un cartellone, e in quella classe tutti avevano le mie stesse debolezze, a prescindere dall’età. L’unica cosa che cambia è che crescendo capisci che parlandone puoi esorcizzarle, conviverci e accettarle per vivere meglio.

Curiosità personale sul mio pezzo preferito: Carillon in versione acustica. Che rapporto hai oggi con quella canzone?

È quella a cui sono più legato. L’ho scritta in un momento particolare, e lei ha scelto il mio cammino. Mi ha fatto capire che genere dovevo fare, cosa scrivere e raccontare, il modo di produrre. È stata la mia prima canzone orchestrale, e da lì si è aperto tutto il mio mondo cinematic-pop. E poi è il pezzo che mi ha fatto esplodere ovunque, il mio primo disco d’oro da indipendente. La canto sempre, ad ogni live, perché anche i miei fan sono legatissimi a Carillon. E io le devo tanto.

Mr Rain Mattia Instagram
Total look Kids Of Broken Future, shoes JordanLuca

Ti emoziona ancora cantarla?

Molto. È una di quelle che, nonostante siano passati anni, continua a farmi sentire i brividi quando la canto.

Cos’è che oggi rende fragile Mattia, e cosa invece rende fragile Mr. Rain?

Eh, bella domanda. Credo che la cosa che rende fragile Mattia sia proprio Mr. Rain. Per tutto quello che ti ho raccontato prima: soffro molto il non sapermi vivere il presente, essere sempre proiettato nel futuro. Ossessionato da questa sfida che ho con me stesso e dal tentativo di superarmi. Purtroppo il più delle volte trascuro le persone che ho intorno e la mia vita privata per il mio vero grande amore, che è la musica.

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Talent Mr. Rain 

Editor in Chief Federico Poletti

Text Chiara Del Zanno

Photographer Filippo Thiella

Stylist Caterina Michi, Davide Turcati

Photographer assistant Bryan Durante

Grooming Francesco Avolio @W-MManagement

Nell’immagine in apertura, Mr. Rain indossa total look Ferrari

Baltimora, un talento in ascesa

Nello studio in cui si trova mentre facciamo l’intervista c’è una tastiera alle sue spalle. Edoardo si volta e improvvisa il riff di Baltimora per farmelo ascoltare: ha ventun anni, ma quel «riffetto», come lo chiama lui, ha già una lunga storia iniziata ai tempi del liceo e culminata sul palco del talent che l’ha lanciato. Come è andata lo sappiamo bene.

Prima scelta sorprendente: dopo la vittoria Edoardo ha preferito prendersi una piccola pausa, non di riflessione ma di produzione concentrata e intelligente, che ha portato all’uscita del suo primo EP: Marecittà. 7 brani autoprodotti, una serie di esperimenti coraggiosi che fanno già da manifesto. Il suo è quello di un sound sempre sperimentale e di un gusto internazionale per certi groove, tenendosi però saldo alle radici intime del cantautorato italiano.

Dai primi cd che gli regalava suo zio da bambino alle nottate passate a scrivere per sconfiggere il malessere e l’insonnia, poi quel boato al secondo live di X Factor («quando ho capito che forse dovevo smetterla di fustigarmi così tanto e pensare di non essere all’altezza»). Oggi Edoardo è un fiume in piena. Mi racconta il suo EP d’esordio e pensa già al prossimo che verrà, beata adrenalina in piena fase creativa:

«Devo togliermi la prospettiva che io sia un vincitore: ora devo far sapere al pubblico cos’è quello che faccio fino in fondo. Questa è la mia musica».

Baltimora artista
Total look Salvatore Ferragamo, earrings Radà

Marecittà è appena uscito, è il tuo vero debutto discografico. Sei in cortocircuito o tieni sotto controllo le emozioni?

Sai che per me l’uscita è la parte più semplice? Posso perfino fomentarmi di più, perché ormai è fatta. Il disco è finito, vai, facciamone altri! Però sto imparando a rallentare e a godermi il momento, questo sì.

Com’è convivere con un esordio discografico e insieme con le aspettative che ci sono dopo la vittoria a un talent come X Factor?

L’aspettativa del talent è proprio quello che ho cercato di evitare, ed è anche il motivo per cui siamo usciti così tardi con l’EP. Ovviamente a livello discografico sarebbe stato molto più giusto uscire subito e cercare di cavalcare l’onda della finale. Io però ho insistito per aspettare, perché credo che ogni cosa abbia bisogno del proprio tempo. X Factor è un programma che c’è sempre, l’anno prossimo ci sarà un nuovo vincitore. Quindi non è una cosa di cui si può campare tutta la vita, anzi, dura veramente poco. Ho cercato di non basarmi su questa grande cosa che mi è successa.

Qualcuno ti ha biasimato per esserti preso del tempo prima di lanciare l’EP, io invece ho apprezzato molto questo tuo non essere frettoloso bulimico in termini produttivi. Non era scontato, ma è stato difficile portare avanti questa idea?

È stata difficile come scelta personale, perché sapevo che sarebbe stata una grande occasione quella di pubblicare subito. Ma una volta espresso questo desiderio, avevo paura che comunque non contasse. E invece ho scoperto che la volontà dell’artista a volte conta, non ho dovuto insistere con nessuno.

Baltimora produttore
Sweater Alexander McQueen, trousers Maison Laponte, earring Radà, shoes Marsèll

Hai parlato di una produzione «senza pensieri». Cosa ha significato per te autoprodurti a vent’anni senza troppe regole né schemi?

Per me entrare in studio significa sempre sorprendermi, cercando di fare qualcosa di divertente e nuovo che neanche io mi aspetto. Io faccio musica perché mi diverte, non perché devo liberarmi da grandi macigni o perché è l’unico modo che ho per esorcizzare cose. Semplicemente mi fa sentire vivo, mi fa sentire a mio agio. Quando capita che sto al pianoforte, faccio un giro e mi sembra che abbia già una sua direzione, allora cerco sempre di aiutare la canzone a raggiungere il suo massimo obiettivo.

Autoprodursi e rimanere obiettivi sul proprio lavoro: quanto è difficile?

Credo che all’inizio sia stato limitante lavorare da solo da qui dentro, dove mi vedi adesso, nello studio che ho in casa. Non cercavo ancora un pubblico, facevo musica per me e basta, quindi diventava anche frustrante. Adesso invece lo reputo un vantaggio, riuscire a fare tutto da solo ed avere una visione unica e precisa.

Baltimora cantante
Total Look Prada, necklace Maison Laponte

A me vengono in mente delle scelte che puoi aver fatto, ad esempio in McDonald’s, in Marecittà ma anche in Fumo… Mi racconti alcune libertà vincenti che ti sei preso?

Le tre che hai citato sono sicuramente le scelte più forti. Marecittà perché è un singolo con una struttura coraggiosa, fuori dagli schemi. Ha questa strofa che si ripete due volte e un ritornello che non esplode, eccetto una parte che non definirei drop ma un vero sfogo strumentale.
Cerco di non essere mai egocentrico con la mia voce, ci sono parti bellissime di canzoni senza voce. È una teoria che porto avanti e che cerco di rendere dominante: per me la voce non è lo strumento principale. In McDonald’s l’utilizzo dell’autotune in maniera forzata ed esagerata è frutto dello stesso pensiero, e ovviamente sono arrivati commenti tipo «ma no, tu non sei un tipo da autotune! Devi cantare con la tua voce.

E invece se sperimenti sei un tipo da tutto, anche da autotune. La paura di osare troppo e di mettere troppa carne al fuoco c’è stata?

Il punto è che io volevo presentarmi anche a chi non mi conosce, essendo il mio primo progetto discografico ufficiale. Ad esempio McDonald’s all’inizio non doveva essere nell’EP, perché forse era un po’ troppo arrivando da X Factor. Anche qui ho insistito per questo: appunto perché vengo da X Factor devo togliermi la prospettiva che io sia un vincitore. Ora devo far sapere al pubblico cos’è quello che faccio fino in fondo.

Baltimora canzone
Cape and pants Davii

Del brano Baltimora hai raccontato che il riff è nato anni fa e che per te è stato complicato poi scriverci sopra, perché eri troppo legato a quel giro lì. Qual è la storia?

È stato estremamente difficile perché ero davvero piccolo quando ho creato questo riffetto qua (Edoardo si gira, alle sue spalle ha una tastiera su cui attacca il famoso riff di Baltimora, nda). Avevo giusto quindici anni, prima liceo. Ero con un mio amico con cui ho sempre fatto musica, Leonardo, una persona incredibile a cui devo tantissimo. Mi ha sempre ispirato e stimolato molto, così all’epoca siamo impazziti insieme per questo giro. Avevo un pianoforte con una timbrica strana, ho registrato il riff con due microfoni appena comprati. Nella canzone è rimasto poi quel piano lì, quello di sei anni fa. Era una produzione che mi tenevo da anni, non riuscivo a scriverci niente sopra, è stata una bella evoluzione vederla crescere.

Quand’è che hai capito che bisognava e che si poteva farlo diventare un pezzo? O meglio, il pezzo…

Semplicemente l’ho sempre pensato. All’inizio mi piaceva troppo e mi sembrava che qualsiasi cosa provassi a scriverci andasse a peggiorarla. Poi crescendo ho capito che il fatto che fosse difficile avrebbe valorizzato ancora di più il risultato. Un giorno ho scritto questo testo e casualmente è nata la canzone che conosciamo oggi. È stato merito di una frase: «Vedo il cielo per aria e vaneggiano nuvole», mi piace moltissimo perché può voler dire un sacco di cose. Mi evocava l’immagine giusta.

Da una parte la tua visione produttiva ha un forte sguardo internazionale, dall’altra c’è sempre il racconto intimo di una realtà localizzata, e qui penso all’omaggio che fai ad Ancona e ai testi in cui ti metti a nudo. Credi che il contrasto tra sound e tematiche possa essere l’anima del tuo stile?

C’è tutta la volontà di ritrovarmi in un suono che mi appartenga. Sperimentare a livello di sound in maniera anche internazionale è parte della mia identità, ma d’altra parte sono legato a un cantautorato più intimo e romantico, appunto, più italiano. Diciamo che la mia è un’anima da produttore e amante del suono, ma anche da amante delle parole e delle melodie più semplici.

Baltimora disco
Total look Dolce & Gabbana, earrings Radà

Ti descrivono sempre con l’immagine retorica del personaggio «cresciuto a pane e musica». Ma qual era il pane e qual era la musica? Cosa ascoltavi da piccolo?

Da piccolo, quando non avevo un mio gusto personale ma assorbivo quello che ascoltava mio padre in macchina, ricordo su tutti Safari di Jovanotti. Un disco che è stato consumato nel nostro lettore cd. L’altro era Ali e radici, di Eros Ramazzotti. Questo finché mio zio non iniziò a regalarmi alcuni cd, era il rito di Babbo Pasquale, perché me li regalava sempre a Natale. Erano perlopiù raccolte di canzoni che lui masterizzava per me… in modo totalmente legale (ride, nda). Quindi magari c’era quest’unico cd che io ascoltavo per un anno intero, fino al Natale seguente. È stato il momento in cui ho scoperto i Beatles, Jannacci, Conte, Celentano, ma anche i Black Eyed Peas. Subito dopo ho avuto la fase Ed Sheeran e quella Fedez, fino ad espandermi e ascoltare di tutto.

Dalle contaminazioni a un’identità musicale personale, che si trasforma poi in proposta discografica: è un passaggio cruciale. Com’è stato il tuo?

Io credo che un ruolo fondamentale l’abbia giocato questo mio amico di cui ti ho parlato prima, Leonardo in arte Atarde, musicista e cantautore pazzesco. Ci siamo sempre stimolati molto, ma quando eravamo più piccoli lui era davvero più avanti di me. Viene da una famiglia di musicisti, ha sempre vissuto con strumenti in casa, suona un po’ di tutto. Ero così affascinato dalla sua musica, per me era qualcosa di nuovo che non avevo mai sentito. Osservandolo ho imparato come lui prendeva ispirazione da Khalid o magari dagli Alt-J, e li faceva suoi in una maniera totalmente originale. In effetti all’inizio l’ho proprio copiato (ride, nda), poi ho capito come fare mio tutto questo.

Sembra sempre facile parlare di malinconia che si trasforma in arte, ma non è che sia un sentimento semplice da gestire. Tu hai dovuto farci pace prima di metterla in musica?

Diciamo che associo la malinconia a quella botta allo stomaco che mi fa dire: adesso mi metto al pianoforte e faccio un pezzo. In questo senso è un sentimento positivo, ed è la sensazione più elaborata che possa esistere. Perché la tristezza, la felicità o l’allegria hanno una direzione precisa, ma la malinconia ha diversi strati. Lascia spazio a tanta immaginazione…

Baltimora X Factor
Total look Moschino, earrings Maison Laponte

Te lo ricordi quand’è che hai capito che poteva diventare produttiva?

Al liceo era un periodo in cui non seguivo molto la scuola, la notte non dormivo, era abbastanza difficile. Potevo solo scrivere testi. Quindi quella sensazione negativa del pensare al giorno dopo mi ha portato a dire: se devi star sveglio e fare lo stupido, almeno scrivi. Era un modo per cullarmi, e poi anche per riuscire ad addormentarmi. Scrivere, rileggere, sentirmi soddisfatto di quello che avevo creato mi dava un senso di completezza. Credo proprio di averlo capito così…

Sulla vittoria a X Factor ti hanno chiesto di tutto, ma tra vent’anni cosa pensi che ricorderai davvero di quel periodo?

Penso che ricorderò con emozione il secondo live. Ho cantato Parole di burro e il pubblico si è alzato in piedi. Ha applaudito per un minuto una performance che forse per me non era così incredibile.

Lo definiresti il tuo momento topico? La prima volta in cui hai capito di piacere alle persone?

Sì, è sicuramente quello. Lì ho capito che forse dovevo smetterla di fustigarmi così tanto e pensare di non essere all’altezza, perché se per così tante persone quello era stato un bel momento, forse potevo iniziare a godermelo di più anche io.

Il tuo primo EP lo chiudi cantando: «La vetta a cui punto qui dalla mia stanza / la mia età che avanza / Volevo solo parlarti un po’ di me». Ci pensi già al futuro o domandartelo così presto è una follia?

Di progetti ne ho mille, in questo momento sono un vulcano di idee. Forse troppe. Devo cercare di ridimensionarmi e restare concentrato sugli obiettivi imminenti: il tour, la preparazione dei live, scoprire cose nuove e collaborare con altri artisti. La verità? Io faccio musica dalla mattina alla sera, ho tantissime canzoni e non vedo l’ora di fare il prossimo disco. Per me potremmo pubblicarlo anche domani.

Credits

Talent Baltimora

Editor in Chief Federico Poletti

Text Chiara Del Zanno

Photographer Davide Musto

Stylist Simone Folli

Photographer assistant Valentina Ciampaglia

Stylist assistant Nadia Mistri

Grooming Alessandro Joubert @simonebelliagency

Location TH Roma Carpegna Palace Hotel

Nell’immagine in apertura, Baltimora indossa total look Dolce & Gabbana, orecchini Radà

Fulminacci, sognando il cantautorato

Su un pezzo di carta, un articolo o un muro. Potrei scriverlo ovunque: menomale che sei arrivato, caro il nostro Fulminacci. Con le sembianze di un fumetto e per certi versi anche la missione: quella di rendere l’ordinario almeno un po’ straordinario. Menomale che sei arrivato quando gli altri rischiavano di venirci a noia, quando dal cantautorato indie-pop emergevano perlopiù tentativi pigri e forse un po’ demoralizzati di replicare uno stile preciso, ma già sentito.

Poi ecco qualcosa di nuovo, di fresco e assolutamente versatile. Una rivelazione con il primo album, La Vita Veramente, e una conferma ancora più sorprendente con il secondo, Tante care cose. Mentre scrive e canta semplicemente di quel che conosce (il traffico, l’amore, i dubbi di chi è nato negli anni Novanta), lui la fa sembrare una grande festa. Introspettivo un attimo prima, piano e voce, e poi irresistibilmente dance, tra batterie e ritmica serrata. Mai pigro, mai prevedibile, sempre attento a non ripetersi troppo (lui questa la chiama «paranoia», e ben venga).

Filippo Uttinacci è qui da poco (nato nel 1997 ed esordiente nel 2019), ma potrei scriverlo su un muro, un articolo o un pezzo di carta: Fulminacci resterà.

Fulminacci indie
Total look Maison Laponte

Voglio leggerti i numeri del mio Spotify Wrapped 2021: io ho ascoltato musica più del 95% degli ascoltatori in Italia, 105 generi musicali e 1407 artisti diversi. Insomma, c’è di tutto. Ma indovina chi è l’artista che ho ascoltato di più?

Oddio, se me lo chiedi così mi viene da pensare a me, ma questo sarebbe un onore. Soprattutto considerando la consistenza dei tuoi ascolti!

Questo era, sì, per confessarti che sono una tua fan, ma anche per dirti che credo tu stia rappresentando davvero qualcosa di diverso, di cui si sentiva il bisogno. Oggi dove ti vedi posizionato nella scena musicale italiana?

Io ho sempre avuto difficoltà a decifrarlo e comprenderlo, però penso di fare quello che mi passa per la testa. Fondamentalmente nelle canzoni ci metto quello che mi capita nella vita, niente di più.

Ma per te rappresenta un obiettivo, quello di distinguerti?

In realtà l’obiettivo di distinguermi non c’era all’inizio, io non avevo neanche capito che sarei riuscito a fare questo lavoro. La verità è questa: ho scritto il primo disco senza sapere che poi l’avrei pubblicato, senza nessun tipo di pressione, di logica di mercato o di paragone artistico. Solo dopo aver scritto un po’ di canzoni mi sono reso conto di qualcosa: «Lo faccio ascoltare alla mia fidanzata e ai miei genitori, così mi dicono cosa ne pensano». Ed è andata bene perché loro ne pensavano bene.

Fulminacci canzoni
Shirt and trousers Paul Smith

A un certo punto però la vita da cantautore te la sei immaginata?

L’ho sempre sognata. Per me è una di quelle cose reali che si avvicinano di più all’essere un supereroe. Anche il fatto di avere un nome d’arte è un po’ come il costume di Spider-Man, l’ho presa in questo modo. Non a caso il mio nome, Fulminacci, è abbastanza fumettoso. Non è certo un gioco la fatica che si fa per scrivere o per fare le prove di un tour, ma quello che deve arrivare al pubblico è che ci stiamo divertendo. Quindi ho capito che di mestiere faccio quello che fa divertire la gente, e che non deve far trapelare quanto si sta impegnando.

Funziona, io mi diverto di brutto. Ma Filippo che musica ascoltava prima di diventare Fulminacci?

Come molti di noi, sono cresciuto con i viaggi in macchina e i miei genitori che mi facevano ascoltare la musica che piaceva a loro. Sono partito dai Beatles, che per me rimangono tipo la farina della musica pop contemporanea. Poi i cantautori italiani degli anni Settanta, e questa è una risposta tanto banale quanto vera. Battisti, De Gregori, Dalla, Venditti, fino alla scuola più moderna con Silvestri, Fabi e Gazzè. Ho sempre ascoltato artisti diversi, sono anche un fan di Fibra. Sul decennio Settanta però devo dire che sono ferratissimo, Supertramp, Electric Light Orchestra, Elton John…

Fulminacci cantante
Shirt and trousers Paul Smith

Una volta ti ho definito così: «Fulminacci ti piace perché ti ricorda tutto quello che ti piaceva già, ma torni ad ascoltarlo perché in fondo non ti ricorda nessuno». Ti ci ritrovi?
Che bello, è bellissimo. E lo prendo come un enorme complimento. Per risponderti, in effetti ho avuto modo di notare come la mia fan base sia piuttosto varia, forse dipende da quello che dici tu? Ai concerti le prime file sono piene di sedicenni, le seconde di ventisettenni, e poi si arriva fino all’età dei miei genitori che sono nati negli anni Sessanta.

La Vita Veramente, 2019: un album d’esordio da cui emergevano le influenze felici di Fabi o Silvestri (vedi Borghese in Borghese), ma allo stesso tempo il tuo tocco si sentiva subito forte in brani come Davanti a te Resistenza. Come trovi l’equilibrio tra gli elementi che ti ispirano e quelli che ti rendono unico?

Io credo che bisogna stare in un equilibrio dinamico, cercando di esplorare senza definirsi mai, per evitare di cadere da una parte o dall’altra. Penso che ognuno voglia essere riconosciuto per la propria identità, ma questa non è altro che il frutto di una serie di influenze che continuano ad arrivarti addosso. Vivere in questo settore significa cercare di stare in equilibrio, rischiare, ogni tanto fare anche qualcosa di comodo.

Fulminacci Santa Marinella
Shirt Paul Smith, shoes Marsèll

Dietro alla complessità dei tuoi brani individuo due punti forti: non sei mai pigro, ma fai sembrare semplice questa ricerca costante. In realtà quanto ci rifletti? Quanto stai lì a chiederti: «Qui rischio di sembrare un po’ troppo Silvestri, qui potrei sperimentare ancora di più»?

Tantissimo. Questo tipo di paranoia è all’ordine del giorno per me, su ogni fronte. Banalmente anche sui testi, ho paura sempre di farmi inserire all’interno di una categoria. Cosa che non riesco ad accettare. Le persone completamente decise mi affascinano molto, ho sempre voluto essere come loro da bambino. Ma poi mi sono chiesto: ma perché? Quelli che ti dicono: «No tranquillo, adesso non piove», che fanno poi quando in realtà piove? Allora io sono il re delle paranoie.

E per fortuna, aggiungo io. Con il secondo disco, Tante care cose, per me è successo qualcosa di grosso: dieci tracce una più forte dell’altra, una sorpresa continua che non si esaurisce dopo la novità del lancio del disco. Come hai fatto a infilarne una giusta dietro l’altra?

È stupendo sentirlo da te, perché io ti risponderei che ho semplicemente messo quello che piaceva a me tra tutte le canzoni che ho scritto. Per spiegarti, io ragiono così: se sono il primo a voler ascoltare un mio pezzo, allora va bene, perché esisterà per forza qualcun altro come me che vorrà ascoltarlo.

Ogni brano dell’album potrebbe essere anche un singolo, ma allo stesso tempo l’insieme è un viaggio perfetto. Il tuo management che ruolo gioca qui?

Su questo tema sono completamente grato e affidato alla mia etichetta. Il primo ascolto professionale esterno è sempre il loro. Io non lo so capire se un pezzo potrebbe essere un singolo, non sono un giudice lucido di quello che faccio.

Fulminacci stavo pensando a te
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Vediamo se la pensiamo allo stesso modo: ci sono dei pezzi tuoi che per me resteranno negli anni…

Io credo che a rimanere nel tempo sia quello che non segue le tendenze. Quindi ti direi, forse, i brani meno elettronici. Potrebbero rimanere Giovane da un po’ Le Biciclette, perché è una canzone nuda.

Le Biciclette credo sia una delle cose più belle che tu abbia scritto. Uno di quei brani che non fanno rimpiangere i vecchi repertori, per me su un podio insieme a Maledetto tempo di Franco 126.

Caspita se sono d’accordo su Maledetto tempo! Lo considero anche io un pezzo senza tempo, mi piace tanto che tu lo abbia accostato a Le Biciclette, che è il brano a cui forse sono più legato emotivamente insieme a Sembra quasi. Sono due canzoni che parlano della stessa persona ma in due momenti completamente diversi. Sono quelle in cui metto a nudo i miei sentimenti, e mi viene pure da piangere al concerto. Non so come fare mentre le faccio. È talmente una cosa mia che forse può diventare universale proprio per questo.

Che storia c’è dietro? Perché sono sicura che una bella storia c’è.

È il racconto di più fasi della stessa relazione, fin dal primo giorno in cui è iniziata. Con i suoi momenti di assenza, i periodi in cui sentivo la mancanza, e poi quelli di ricongiungimento con pizzichi di speranza. C’è dentro un po’ tutto quello che riguarda una storia d’amore. Pensa che ho iniziato a scriverla anni fa e l’ho finita poco prima di pubblicare il disco, è stata anche la prima canzone che ho scritto al pianoforte, che non è il mio strumento perché io suono la chitarra.

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Vedi che una bella storia c’era? Veniamo a pezzi come Tattica Canguro: il tuo gusto del ritmo crea dipendenza, te lo dico, dentro c’è un sound che ricorda la disco anni Novanta e poi diventa solo tuo. Non è che segretamente sei pure un ballerino?!

(Ride, ndr) In effetti quella di Tattica è una batteria disco, intesa alla vecchia maniera. È semi-vera, ma suona un groove che potrebbe essere completamente elettronico. L’aspetto ritmico per me è fondamentale, spesso penso prima al groove o alla metrica della canzone, e poi al testo. Credo fermamente nel fatto che le consonanti della nostra lingua siano utili come fossero delle percussioni, perché ci permettono di enfatizzare e accentare nel modo che vogliamo… Lettere come le T, le Z…

«Del fat-to che ti-amo / di brut-to”»…
(Gliela canto e giustamente ride, ndr) Esatto! E credo che questo sia il risvolto positivo di essere uno che pensa prima alle copertine e poi al libro che scrive. A scuola era vista come superficialità, ora per me significa decidere prima di tutto l’effetto che una canzone deve fare. Nel caso di Tattica avevo l’esigenza di scrivere un testo che esprimesse ritmicamente quello che mi serviva per il pezzo, quindi mi sono soffermato sul suono e ho iniziato a canticchiarci qualcosa, a partire dall’argomento del traffico. Da romano che vive in periferia per me è il quotidiano, io passo la vita in macchina e lì mi sfogo. La vita veramente è nata tutta in macchina durante uno sfogo nel traffico. È forse l’unico caso della mia vita in cui mi è venuta fuori tutta insieme una canzone, testo e musica in una volta sola. Ho iniziato a cantarla come fosse la canzone di qualcuno che conoscevo, è una magia che capita raramente.

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Tu sai scrivere, ma sul serio. Che rapporto hai con la scrittura e quando hai capito di saper mettere in parole dei pensieri e delle emozioni?

È molto difficile rispondere perché nella vita, quando succedono le cose, non ti accorgi che stavano per succedere. Vieni travolto e ti scordi perché sei arrivato dove sei. Io fondamentalmente ho iniziato da bambino, hai presente quelle cose che scopri solo con l’ipnosi regressiva? (ride). Ricordo che effettivamente a dieci, dodici anni, scrivevo cose su dei fogli ma non sapevo cosa farci, però sentivo l’istinto di cantare quello che scrivevo. Una mattina avevo dedicato persino una canzone improvvisata al mio cane, che stava in giardino e mi fissava. È stata una delle mie prime esibizioni.

Finché non è arrivata anche la chitarra.

Sì, e mi sono concentrato su quello. Ma cantare era una cosa che mi bloccava ancora, mi vergognavo tantissimo. Ho acquistato fiducia canticchiando nella mia cameretta, sempre quando casa era vuota. Una delle prime canzoni che ho fatto e registrato è stata Una sera, mi aveva convinto e ho avuto l’esigenza di farla ascoltare. Poi è successo lo stesso con Resistenza.

«Tu che sei una e mi circondi»«C’è una specie di senso di vuoto, l’ho riempito coi film e le foto»«Anche se sembra di cadere, la parola di Dio e l’infinito ci basterà»: che effetto ti fanno le frasi che emozionano il tuo pubblico?

Domanda bellissima. Io non lo so, perché non riesco davvero a percepirmi. C’è un nesso tra le frasi che emozionano il pubblico e quelle che soddisfano me? Forse sono quelle facilissime da dire, poche parole ma che racchiudono più concetti. «Tu che sei una e mi circondi» è una frase di cui sono molto contento, perché è innanzi tutto vera, io lo penso. E poi esprime un senso di avvolgimento però usando il verbo «circondare», che potrebbe quasi far pensare ad un accerchiamento, se ci pensi lo leghiamo alla polizia. Quindi c’è una doppia situazione: sei in ostaggio di un sentimento bello. E che bello essere vittima di un sentimento.

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Riesci a riascoltarle, le tue canzoni?

Ogni tanto sì. Mi emoziono quando sto su Spotify, ascolto le nuove uscite e poi di botto penso: «Vabbè, però pure io so’ uno di questi».

In Giovane da un po’ canti: «E grazie se avete lottato / Mi spiace se non ero nato». Sei nato negli anni Novanta, ma il disincanto non ti ha annichilito. Ci hanno sempre detto che non c’era più niente di nuovo da dire o fare, soprattutto nella musica. Invece?

È vero, la nostra generazione è stata martellata da questo concetto, ce lo hanno sempre detto. In realtà, tirando le somme, si vedrà che alla fine è capitato qualcosa di forte anche a noi. Il Covid, la crisi, assistere alla guerra in Europa. Noi siamo solo una delle tante generazioni, niente di più e niente di meno. Ma di certo nessuno può più dirci che siamo fortunati. Poi vabbè, se dovessi esprimere una preferenza, io avrei voluto vivere altri anni. Essere come De Gregori e Venditti, andare a sentire i Beatles in concerto da adolescente, fare gli anni Settanta a bomba…

Anche io, ma per fortuna te ne vai in giro in questi anni qua. Ci servivi.

Credits

Talent Fulminacci

Editor in Chief Federico Poletti

Text Chiara Del Zanno

Photographer Milli Madeleine

Stylist Simone Folli

Photographer assistant Giacomo Gianfelici

Stylist assistant Nadia Mistri

Grooming Alessandro Joubert @simonebelliagency

Nell’immagine in apertura, Fulminacci indossa total look Maison Laponte