Alessandro Rimassa: “Con le startup il futuro è di chi lo fa”

Le startup sono considerate un nuovo modo di fare impresa, una rinnovata voglia di mettersi in gioco guardando al futuro, per costruire un domani più ricco e di successo. Eppure questo fenomeno non è così nuovo come si potrebbe credere, ma si era già verificato in Italia, decenni addietro, con la nascita delle tante piccole e medie imprese che avevano formato benessere e ricchezza. Oggi si rivive lo stesso processo, arricchito da idee e strumenti nuovi, sospinto dalla voglia di creare, innovare e costruire. Un iter che sta cambiando la visione della società e del modo di fare impresa, che sono e devono essere sempre più fondati sul digitale e su realtà e concetti chiave come innovazione e condivisione. A parlarne con chiarezza è Alessandro Rimassa, classe 1975, fondatore e direttore di TAG Innovation School, la scuola dell’innovazione e del digitale di Talent Garden, tra i massimi esperti italiani di digital transformation e open innovation, autore di cinque libri e curatore della collana TAG books, edita da Egea.

Come cofondatore di TAG Innovation School, sei immerso nel mondo delle startup. Ci descrivi questo nuovo modo di fare impresa?
Italia, anni ’50 e ’60: tante persone che, con abnegazione, costruivano il futuro attraverso l’apertura di piccole imprese, molte delle quali sono diventate la base del nostro successo come Paese. Siamo tornati lì, le startup sono il riprendere l’idea che il futuro è di chi lo fa e che un Paese è prospero se lo sono le sue aziende. Stiamo vivendo un nuovo periodo straordinario.

Quali sono i punti di forza che le startup devono avere per arrivare al successo?
Prima di tutto il team, poi la capacità di execution, saper cioè trasformare un’idea in un prodotto o servizio. Conta l’idea e servono anche i soldi, ma vince chi sa mettere insieme le persone giuste e si concentra sul fare.

Nel tuo ultimo libro, La repubblica degli innovatori, indichi le regole auree da seguire per fare impresa. Ce ne parli?
Il libro ha un anno e qualche mese e e da allora sono nate tante altre imprese. Quello che conta è agire, fare, non fermarsi. Io ho raccontato storie straordinarie di persone altrettanto straordinarie. Oggi in Italia esiste un movimento del fare, ma manca ancora un vero lascia passare governativo. Non servono leggi e aiuti, servono meno leggi e la libertà di agire, di crescere. Serve la burocrazia zero, perché la vera minaccia per le nostre aziende era e resta lo Stato.

Uno degli elementi fondamentali di cui parli è il team di una startup. Vediamo che molto spesso queste realtà sono estremamente giovani. Che vantaggi offrono ambienti lavorativi di questo tipo? In base alla tua esperienza come affrontano il mondo del lavoro e dell’impresa i giovani italiani?
In Italia siamo spaccati a metà: molti fanno, molti hanno deciso di non fare, di aspettare, sono i famosi Neet di cui parla anche il demografo Alessandro Rosina, a loro dobbiamo dire che: o iniziano ad agire o non potremo più sostenerli. Bisogna dare spazio a chi ha talento e determinazione.

Cosa significa essere uno startupper, un entrepreneur?
Significa rischiare, divertirsi, ottenere successi, imparare dai fallimenti, ascoltare, studiare, sperimentare, riuscire.

Cosa intendi per “innovazione” e quanto è importante per chi vuole costruire qualcosa oggi?
È la capacità di trovare soluzioni nuove che migliorino la vita delle persone, è una sfida enorme e possibile, inventando cose che prima non esistevano.

Quali vantaggi offre lo strumento digitale e quanto è importante utilizzarlo al meglio?
Il digitale non è uno strumento. È ciò che ha cambiato il mondo in cui viviamo, è un approccio differente, è la connessione tra teste, Paesi, servizi, prodotti, produttori, clienti e oggi vale due punti di PIL o forse più. Insomma, o sei digitale o hai volutamente scelto di non esserlo. E se lo fai come impresa, devi sapere che dire no o dire ‘domani’ al digitale significa uccidere la tua azienda.

Un’altra parola chiave oggi è “condivisione”. Perché è diventato un concetto così rilevante?Condivisione è realtà su prodotti e servizi, non per forza su idee e atteggiamenti. Se parliamo di condivisione, per esempio di un’auto, lo facciamo perché ci conviene, non perché siamo più buoni.

Legata ai temi che abbiamo trattato è la realtà dei Talent Garden e di TAG Innovation School, di cui sei il cofondatore. A quali esigenze rispondono e come operano questi due mondi?
Siamo la rete di coworking più grande d’Europa, permettiamo a persone e aziende di lavorare insieme, di collaborare per ottenere successi più grandi e più velocemente. Con la scuola stiamo facendo la stessa cosa, stiamo ,cioè, aiutando allievi, professionisti e aziende a studiare e ad aggiornarsi sul mondo digitale, quello che oggi dà lavoro e permette ai business di crescere. È una sfida e una responsabilità importante, la nostra vittoria non è riempire i corsi per developer, esperti di e-commerce e ux design, nuovi growth hacker e business data analyst: la nostra sfida è aiutare queste persone ad avere lavori migliori, meglio remunerati, in grado di rilanciare aziende e Paese.

Sei anche uno scrittore di successo, a partire dal celebre Generazione Mille Euro. Qual è la tua esperienza nel mondo dell’editoria?
Intanto c’è una sorpresa, che riguarda Generazione Mille Euro, e che arriverà a metà dicembre. Poi c’è una nuova collana di libri che racconta l’innovazione, nata dalla collaborazione tra Talent Garden ed Egea, la casa editrice della Bocconi: TAG books. Curo questa collana con passione, i primi due libri pubblicati sono App Economy di Matteo Sarzana e Fintech Revolution di Matteo Rizzi.

Hai ancora un sogno nel cassetto da realizzare?
Fare di TAG Innovation School la scuola del digitale e dell’innovazione più grande d’Europa. Oggi siamo a Milano, da gennaio apriamo a Roma, poi arriveranno le sedi di Torino e in due capitali estere, tutto entro fine 2017; abbiamo tantissimo lavoro davanti.

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Premio Cambiamenti 2016

Le start up costituiscono ormai una parte importante della nostra economia. Tante piccole realtà, in genere create e guidate da giovani coraggiosi e pieni di idee innovative, che stanno cambiando, in Italia e nel mondo, il modo di fare impresa. Per valorizzare e fare conoscere questa nuovo mondo imprenditoriale, CNA nazionale, nel settantesimo della fondazione, ha organizzato Cambiamenti 2016, volto a riconoscere le giovani aziende più meritorie in questo panorama. Il premio ha “l’obiettivo di distinguere il merito e regalare occasioni di formazione e visibilità a quelle start up che, con la loro attività, rappresentano ogni giorno il meglio dell’Italia e rendono ogni giorno il Paese competitivo”. Tre le categorie dedicate all’atto dell’iscrizione al concorso, suddivise in base all’attività svolta: start up del Made in Italy e tradizione; start up innovative e tecnologiche e start up di promozione dell’Italia. In palio, riconoscimenti in denaro, servizi, benefit, formazione e incontri, nonché una giornata di consulenze a Dublino con esperti di Google e Facebook. Poiché Milano è il territorio che ha visto il maggior numero di candidature, al fine di valorizzare e riconoscere il coraggio e l’innovazione di impresa emersi nella nostra città, martedì 18 ottobre si è tenuta nello spazio eventi e coworking BASE Milano, la presentazione delle start up locali – circa quaranta, fra il capoluogo e Varese – partecipanti al concorso. Una bella occasione di incontro e socializzazione per lo sviluppo e la valorizzazione delle tante eccellenze italiane.

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I makers: gli artigiani digitali e la nuova frontiera dell’artigianalità

Viviamo in una “società liquida”, in continua e rapidissima evoluzione. È una caratteristica del momento storico attuale, ma è anche una necessità, per essere sempre aggiornati e competitivi.
Talvolta, però, capita che si creino fenomeni diversi, apparentemente in controtendenza e volti alla riscoperta di un valore che fa parte del passato e della tradizione. È questo il caso dei “makers”, i cosiddetti artigiani digitali, che hanno messo la rivalutazione dell’artigianalità, contaminata dall’utilizzo delle più moderne tecnologie, al centro delle proprie ricerche e come perno della propria attività.
A illustrare questo nuovo fenomeno è Salvatore Saldano, classe 1986, Ceo e founder di ShapeMode, nonché manager e responsabile del laboratorio di fabbricazione digitale FabLabMilano.
Sorti ultimamente un po’ ovunque nel mondo, questi laboratori sono spazi di socializzazione interconnessi, dotati di macchinari digitali e stampanti 3D, dove chiunque sia interessato e in possesso di idee nuove può condividerle con altri e soprattutto provare a metterle in pratica. In relazione a questa esperienza di condivisione, qualcuno ha già parlato, giustamente, di Quarta Rivoluzione Industriale.

Ci parli di te e del settore in cui operi?
Sono un designer di prodotto che ha frequentato i corsi di Progettazione Artistica per l’Impresa all’Accademia di Belle Arti di Brera, appassionato di tutto ciò che si sviluppa in tre dimensioni. Ho la fortuna di gestire il primo FabLab nato a Milano (a novembre 2013), il FabLabMilano appunto. Progetti con un impatto culturale e sociale, ad alto tasso innovativo/tecnologico di questa portata affiorano una volta ogni secolo. Ecco perché me ne sono innamorato subito e coltivo ogni giorno i suoi frutti affinché tutti possano, come me, capire la sua importanza, prendere consapevolezza di ciò che abbiamo intorno in questo periodo storico e cambiare il mondo.

 Sta emergendo un nuovo fenomeno, quello degli artigiani digitali. Chi rientra in questa categoria?
I makers sono artigiani di nuova generazione. Persone che hanno passione per il proprio lavoro, capaci di creare delle emozioni con i loro artefatti. Parlo di artefatti, non a caso, perché negli ultimi anni il termine “artigiano” è stato un po’ inflazionato, facendo così un po’ decadere il suo valore.

L’artigianalità rimanda a un mondo tradizionale mentre il digitale rappresenta il presente, rivolto già al futuro. Come si conciliano queste due anime? Cosa può scaturire da un loro incontro?
L’artigiano è colui che considera il “fare” una ragione di vita, che però non deve essere solo riconducibile a uno scalpello o a una mano impolverata. La mano è un’estensione del nostro cervello, è lei il primo strumento dell’artigiano. Che usi un attrezzo o un mouse, è l’input che arriva dal nostro “software”, il cervello, la cosa più importante per l’artigiano. Un prodotto che racconta questa ibridazione tra passato e futuro, artigianato classico e digitale, è il progetto Poiéin: www.shapemode.it, che ha come protagonista il vetro di Murano. Gli scarti derivanti dalla produzione di candelabri di un valore altissimo vengono, di solito, accantonati. Noi li recuperiamo e ci prendiamo cura di loro. Li scansioniamo in 3D per digitalizzare ogni loro piccola imperfezione e studiamo una protesi modellata su misura e stampata tridimensionalmente, che possa permettere loro di riprendere vita.

Com’è nata questa tendenza dell’artigianalità contaminata dall’utilizzo delle tecnologie moderne?
È nata per necessità. La saturazione di alcuni profili professionali, come succede per i designer, li spinge a progettare con più consapevolezza, sporcandosi le mani per aggiungere un valore distintivo al prodotto.

In un periodo di crisi come quello attuale, che valore aggiunto hanno i makers?
I valori indiscussi dei makers sono il coraggio e la praticità con i quali affrontano i problemi.

Collegata al mondo dei makers è la realtà dei FabLab, presenti in tutta Italia e con cui tu collabori a Milano. Un progetto interessante e futuristico.
Il FabLabMilano è stato la scintilla che ha dato vita a tutto quello che vivo quotidianamente.
È un luogo del fare, dove si condividono uno spazio e delle idee da cui possono nascere sinergie, come Poiéin e ShapeMode.

Ci descrivi ShapeMode?
È una startup innovativa che vuole lavorare nel mondo 3D a livello professionale, ed è un’estensione del FabLabMilano. Avendo un organico composto da designer e makers, riusciamo a offrire un ampio ventaglio di servizi. Dalla progettazione, alla prototipazione e vendita di stampanti 3D. Siamo una realtà molto giovane, anche anagraficamente, con una media di venticinque anni, e continuiamo a crescere.

Molto interessante, a partire dal nome, è il progetto Poiéin, da te ideato e realizzato insieme ad Anita Angelucci. Di cosa si tratta?
Poiéin (dal greco: inventare, fare ndr.) è nato dall’esigenza di dare consapevolezza a quello che ci circonda. Qualunque cosa venga prodotta ha un valore, un vissuto e in quanto viva deve essere rispettata. Ho avuto la fortuna di seguire i corsi di Ugo La Pietra, uno dei massimi esponenti del design anni Settanta e del Movimento degli Architetti Radicali. Attraverso le sue lezioni ho capito che dietro a ogni prodotto c’è un’anima. L’oggetto si eleva, quindi, a mezzo di comunicazione, un’espressione di chi lo ha pensato e realizzato. Dare un significato agli oggetti, oltre alla funzione ovviamente, è dare consapevolezza a quello che abbiamo in mano o che ci circonda. Se riconosco quello che c’è dietro, non lo accantono velocemente sostituendolo con uno nuovo. Specie se oltre al valore tangibile porta con sé qualcosa di personale e unico. Un messaggio, un’esperienza o un ricordo.

Come avete concepito l’idea di unire la tradizione dei manufatti in vetro alla tecnologia della stampa in 3D, valorizzando anche l’elemento “dell’imperfezione”?
Con Anita ci siamo trovati subito in sintonia, quando lei è venuta a propormi la sua idea di recupero di quegli oggetti dal valore elevato. Insieme abbiamo visto nell’elemento “protesi” un aiuto per l’oggetto, senza il quale non potrebbe sopravvivere. Infatti, modellando in 3D su misura questo reticolo, abbiamo creato un supporto grazie al quale l’oggetto può svolgere una funzione diversa e raccontare una nuova esperienza. Avere una seconda vita.

Quali ulteriori sviluppi può avere il percorso degli artigiani digitali?
Infiniti. Spetta all’esperienza di ciascuno di noi definire la strada che verrà percorsa. Gli errori e i fallimenti esistono, non si possono sempre evitare. Cerchiamo di limitarli… non limitandoci.

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