“Bellezza e tristezza”, le malie della donna. Il romanzo di Yasunari Kawabata

“Bellezza e tristezza”, il romanzo di Yasunari Kawabata

Toshio Oki è un cinquantacinquenne sposato, ha due figli e un passato fedifrago con una donna che ancora non riesce a dimenticare. Lei, l’amante, si chiama Otoko Ueno e all’epoca dei fatti aveva sedici anni. Hanno vissuto una storia clandestina che ha il timbro di quelle che durano una vita ma che capitano una volta soltanto. Tendenzialmente a senso unico, come in questo caso, la relazione è quella di un uomo che scappa dalla quotidianità, dalle abitudini, che si aggrappa alla bellezza acerba, fresca e ingenua di un’adolescente; e di una ragazza piena di sogni e di speranze romanzesche, di dedizione tutta femminile, di idealizzazioni dettate dalla poca esperienza; una relazione che mette a rischio qualcuno, e nella maggioranza dei casi la controparte femminile. Otoko infatti rimane incinta ma perde il figlio appena nato; la sua sofferenza di giovane madre e di donna che avrebbe teso un laccio all’uomo che ama, nonostante egli sia sposato e abbia già prole, si contrappone al sollievo di Oki, codardo ed egoista.

Il percorso di Otoko sarà violento e tormentato, la ragazza attraverserà le sbarre di un ospedale psichiatrico, per poi uscirne in completa solitudine, ancora bruciata da quell’amore immaturo ma eterno. L’unica sua compagnia, a parte l’arte che l’ha resa una pittrice di fama, sarà Keiko, una splendida ancella docile e obbidiente, schiava d’amore e di letto; un temperamento che molto spesso nasconde malie penetranti e quasi mai delle buone e sane intenzioni. 


Trascorsi molti anni dalla loro separazione, i due amanti hanno perso le tracce l’un dell’altra, quando per la notte di capodanno, Oki ha il desiderio di sentire le campane che segnano la fine dell’anno a Kyoto, città dove ora vive la sua ex amata. I due si incontreranno ad una cena formale in presenza di due geishe e dell’ambigua e gelosa Keiko. Sarà lei a gestire il destino dei personaggi fino alla fine del romanzo. 


Premio Nobel per la Letteratura nel 1968, Yasunari Kawabata riesce a raccontare con una straordinaria perspicacia la follia amorosa, la gelosia cieca di una donna, come se a raccontarla fosse la donna stessa. Come un Truffaut della letteratura, ha la capacità di sfogliare una ad una tutte le personalità dell’essere femmineo, ogni strato e substrato, ogni cosa detta e ogni intenzione non detta. Dalla fedele dolcezza di Otoko alla perfidia sofferente di Keiko, Kawabata disegna un quadro che ha tutti i sapori dell’Oriente. Compresi tanti cliche’ decisamente nipponici, dai morsi fanciulleschi da cui stillano goccioline di sangue alla negazione immobile del corpo femminile, Kawabata ci spruzza dentro tutto il rosso del Giappone, i corpi bianchi e lucenti ed i capelli nero corvino, l’abbandono muliebre forzato e la foia incontrollabile virile.


Keiko sarà la grande protagonista alla fine, sarà lei a cambiare le sorti, sarà lei a vendicare le ingiustizie della donna che ama con incoscienza e con la morbosità di un’orfana, sarà lei a dare lo stesso peso alla vita e alla morte, in una cornice meravigliosamente descritta, dove i pensieri fluiscono tra i giardini di muschio di Saihoji e le rocce astratte, tra i ritratti di Tsune Nakamura e le opere lievi e delicate di Odilon Redon

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Coronavirus, 10 musei dal divano di casa

Coronavirus, 10 musei dal divano di casa

Se la cultura è un bene di tutti, ora più che mai i paesi si uniscono per dire che è anche accessibile a tutti. 

Causa emergenza COVID-19, anche i Musei e i luoghi di culto hanno chiuso le porte ma non l’accesso virtuale; la cosa bella è che comodamente sdraiati sul divano di casa, possiamo prendere un aereo immaginario e volare fino a New York o a San Pietroburgo per visitare il MOMA e l’Hermitage. Niente code, nessuna folla davanti ai quadri, niente commenti sciocchi alle vostre spalle: “Oh bello, Oh meraviglioso, Oh cos’è sta roba?!”… Potrete goderveli e studiarveli dimenticandovi del tempo, soffermarvi sui dettagli quanto vorrete, esplorare le opere d’arte ad alta definizione, camminare verso le stanze vuote. 

Qui alcuni tra i musei nazionali e internazionali che offrono il servizio online e altri su cui potrete finalmente dedicare il vostro tempo ad imparare l’arte, e a metterla da parte. 

1. MUSEO DEL PRADO 


Una delle opere più significative dell’arte figurativa europea è il “Saturno che divora i figli” di Francisco Goya (1821-23), conservato al Museo del Prado di Madrid
Secondo la mitologia greca Crono, il più giovane dei Titani, il protagonista del dipinto, sapeva che sarebbe stato privato del potere da uno dei suoi figli, cosicche’, preso dalla rabbia, iniziò a divorarli tutti uno ad uno. La foga, la pazzia, il cannibalismo di Crono è in netto contrasto con la debolezza del piccolo corpo deturpato e sanguinolento; il piccolo non può nulla contro l’esplosione cieca della violenza. E’ un’opera cruda di una ferocia che si legge sulle mani dure e nervose di Saturno che non allenta la preda di quel corpicino innocente. Immerso nel buio più nero, la scena potrebbe significare il conflitto tra vecchiaia e gioventù, oppure il ritorno di un assolutismo in Spagna che limitava ogni forma di libertà intellettuale. 

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“Saturno che divora i figli”-Francisco Goya

2. PINACOTECA DI BRERA – MILANO

Mai quadro fu così adatto a dare speranza agli italiani come il famoso Bacio di Francesco Hayez. Un inno alla gioia, un simbolo di speranza e di patriottismo, il quadro icona della Pinacoteca di Brera
Il capolavoro più copiato e ristampato nella storia, è stato realizzato nel 1859 e ripercorre i fatti nel periodo in cui l’Italia venne suddivisa in tanti piccoli stati sotto il dominio degli Asburgo d’Austria. Periodo nel quale gli italiani, uniti nonostante la divisione, crearono dei gruppi, delle piccole società segrete che avevano lo scopo di restituire dignità al paese. Mi sembra ci sia una forte attinenza col periodo che stiamo vivendo. Un popolo che canta l’inno di Mameli in questi giorni di reclusione forzata, un popolo che si abbraccia da lontano, che col canto e con la musica regala speranza e la voglia di farcela, nonostante tutto. 

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“Il Bacio” – Francesco Hayez

3. BRITISH MUSEUM – LONDRA

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4. MUSEO ARCHEOLOGICO – ATENE

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5. MUSEE D’ORSAY – PARIGI

Lo stagno delle ninfee” di Claude Monet riprende una serie di ponti che l’artista si accingeva a dipingere in diverse ore del giorno. La luce, questa era la migliore amica di un grande pittore, per conoscerla, per riconoscerla, bisognava studiarla notte e dì, quando era calda di Sole o fredda di Luna. Il ponte da lui stesso costruito nei giardini della sua abitazione, taglia a metà la ricca vegetazione che da un lato si erge verso il cielo e dall’altro si specchia nelle acque. Quei dolci e sussurranti fiorellini che sono ninfee dai toni pastello, ricordano tanto i giardini giapponesi e le sue rappresentazioni. In un morbido letto di verde, spuntano come piccole vite capaci di donare gioia e speranza. 

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“Lo stagno delle ninfee” – Claude Monet

6. LOUVRE – PARIGI

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7. LE GALLERIE DEGLI UFFIZI – GIARDINO DEI BOBOLI – FIRENZE

Chi ha avuto la fortuna di vagare attraverso il Giardino dei Boboli sa che un tour viruale non potrà regalare la stessa sensazione di immersione totale in un mondo astratto e ovattato.

Lo visitai per la prima volta dodici anni fa, di fronte a Palazzo Pitti esisteva ancora un Internet Point, dove mi recai per aggiornare il mio stato Facebook e raccontare del mio viaggio in solitaria a Firenze. Uno dei ragazzi del negozio mi si avvicinò e mi dette un consiglio molto prezioso, e cioè quello di non attraversare il percorso visibile dei Giardini, quello a linea retta tagliato al centro dai gradoni, ma di prendere le vie laterali e immergermi totalmente nel verde. Lo ascoltai e se potessi rintracciarlo lo ringrazierei perchè quella passeggiata nell’arte mi ha regalato non poche emozioni.

Il Viale dei Cipressi è un tunnel di arbusti fitto fitto che parte da terra e si riunisce sopra la tua testa; in piena estate creava un nido buio e silenzioso che mi proteggeva dal brusìo e dal cicaleccio dei turisti; ed erano tanti. D’improvviso, nel fruscìo delicato dalle foglie mosse da qualche animaletto indiscreto, vidi comparire dietro di me un gatto, nero, che mi fissava immobile. Non appena riprendevo a camminare, lui da dietro mi seguiva, in modo felpato, per poi rifermarsi quando dalle spalle gli mostravo il volto. Non ho mai capito cosa significasse quella strana presenza, in certi casi le domande non servono e le risposte non le vogliamo, ma so una cosa: so che quell’esperienza diede vita ad una lunga serie di viaggi in solitudine di cui rimangono un bellissimo diario, e una foto di me in lacrime con quel misterioso gatto dagli occhi gialli e il pelo nero.

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“Giardino dei Boboli”- Firenze

8. NATIONAL GALLERY OF ART – WASHINGTON

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9. NATIONAL GALLERY – LONDRA

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10. MUSEO REALE DELLE BELLE ARTI DEL BELGIO

Su Google Arts & Culture esiste uno strambo video che rappresenta il quadro di Pieter Bruegell il Vecchio datato 1562, la “Caduta degli angeli ribelli”, una realtà aumentata che ci porta faccia a faccia con i mostri più mostri della storia della pittura. 
Il quadro racconta un episodio biblico, la caduta degli angeli che si sono ribellati a Dio per sete di potere, uno scivolone lento e indimenticabile in cui dall’alto vediamo gli angeli che suonano il trionfo, biondi come fanciulli, degli uccelli del Paradiso, dei putti vestiti e senza vizio. 
Al centro l’Arcangelo Michele che combatte il drago dell’Apocalisse a sette teste; e verso il basso delle diapositive precise e dettagliate dei mostri di fattura Boschiana. Sono metà pesci e metà volatili; hanno il ventre squarciato a mostrare uova già marce; sono giganteschi e sproporzionati insetti; gli orifizi in mostra e le bocce avide e dai denti appuntiti e radi. E’ una scena spaventosa che rappresenta la fede da una parte e l’avidità dall’altra.

Il quadro è custodito presso il Museo Reale delle Belle Arti del Belgio

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Caduta degli angeli ribelli”-Pieter Bruegell il Vecchio

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La mini guida su Roma


Roma è la città delle quattro stagioni, piace sempre, e anche se mormora di voci, i riflessi delle ombre sulla maestosa Fontana dei Quattro Fiumi di Piazza Navona regala un religioso silenzio interiore, dove poterci vedere tutti gli occhi che l’hanno attraversata nel corso della storia romana. 


Roma è un uomo semplice dall’abito distinto ed elegante, i musei ed i palazzi che l’attraversano parlano da sé, a volte nostalgici, a volte acciaccati dal tempo, ma conservando sempre una qualche virile dignità. 
Per poter guardare dentro Roma si ha bisogno di mille occhi e molto cuore; la linea retta che collega il proprio sguardo allo spazio deve salire su fino al cielo, dove solenni colonne si ergono a formare quelle che un tempo furono dimore di imperatori romani. Più ci si apre, più Roma regala bellezza, ma anche per chi ha poco tempo, così da prenderla a pizzichi e bocconi, Roma regala delle piccole chicche dove fare tappa per una due giorni full immersion. 




Museo MAXXI – Museo Nazionale delle arti del XXI secolo

Della materia spirituale dell’arte” è la collettiva presente al MAXXI, Museo Nazionale delle arti del XXI secolo, cui partecipano diciannove artisti di fama internazionale chiamati a raccontare il tema dello spirituale attraverso il loro sguardo contemporaneo. Yoko Ono, tra questi, risponde con un progetto in cui spiritualità è condivisione e ci chiede di creare con lei l’opera, una ricerca comune, con risposte e cammini diversi.

La ricerca della spiritualità è una riflessione a lungo percorsa nella storia dell’arte, che ha quasi sempre visto il tentativo di rappresentare il non rappresentabile attraverso l’astrazione dell’arte; Yoko Ono invece mette in gioco l’elemento materiale, chiede di trasformare un pensiero, un sogno, una parola, in qualcosa di visibile, e allora lo spazio bianco prende forma, si fa vivo, e per farlo abbiamo a disposizione colori e pennelli e tutta la nostra creatività.

La mostra è visitabile fino al 15 marzo 2020



Palazzo Barberini

Palazzo Barberini è sito in via Quattro Fontane e ospita l’importante Galleria Nazionale d’Arte Antica dove sono custoditi, insieme a Palazzo Corsini, i più grandi capolavori dell’arte pittorica. Fino al 1949 il palazzo fu dimora storica della famiglia Barberini per poi essere venduta allo Stato Italiano; la celebre scala elicoidale opera di Borromini collega i piani dell’attuale museo dove al piano nobile si estende il famoso affresco realizzato tra la fine del 1632 e il 1639 da Pietro da Cortona, il “Trionfo della Divina Provvidenza”. 400 metri quadri di soffitto con un vortice di figure , elementi naturali e architettonici che coinvolge lo spettatore in una straordinaria avventura visiva ed emozionale. Il tema fu elaborato dal poeta di corte Francesco Bracciolini da Pistoia sotto il pontificato di Urbano VIII, e tendeva ad esaltare il Papa, la sua famiglia e la Chiesa.

Nelle prime sale ci da’ il benvenuto un “Nudo femminile di schiena” di Pierre Subleyras (1740 cca); non ci è dato sapere il nome del soggetto, né possiamo riconoscerlo o intuirlo, come spesso accadeva dagli abiti, dagli orpelli, dai simboli o dalle iconografie; l’identità è un mistero ma la presenza di questa donna, nella completa nudità del corpo, si fa sentire ed anticipa di un secolo l’imbarazzo che un altro francese, il pittore Eduard Manet, provocherà con più scalpore con il ritratto di Olympia.

Nel salone dedicato al Caravaggio sono conservate tre opere fondamentali del grande artista: Giuditta taglia la testa a Oloferne, Narciso e San Francesco. La prima, 1600 cca, raffigura l’uccisione del generale assiro Oloferne per mano di Giuditta, così come narrata nell’Antico Testamento tra i testi Deuterocanonici (Giuditta, 13,9-10). Per chi non conoscesse la storia, Giuditta è una giovane vedova ebrea che vive a Betulia, città assaltata dalle truppe degli Assiri, guidati da Oloferne. Per salvare il proprio paese Giuditta decide con coraggio di sedurre l’uomo per poi ucciderlo in un momento di debolezza, mentre ubriaco si addormenta, decapitandolo. Nel dipinto Caravaggio descrive perfettamente i tratti che animano l’eroina, stessa enfasi che spinge il pennello a disegnare la paura negli occhi di Oloferne. Sullo sfondo della scena un drappo di un rosso fiammante accentua la teatralità del gesto, amplifica il sensazionalismo di un attacco a sorpresa, oggetto che Caravaggio userà spesso in altre sue opere.

Giuditta e Oloferne, Caravaggio 1600 cca

Identica scena vista dalla mano di Francesco Furini (Giuditta e Oloferne 1630-1635), con l’aggiunta di dettagli ambigui e sensuali, incorniciati sotto una tenda in piena notte, come la gamba nuda di Giuditta e il piede che indica in basso i sandali slacciati, come recita il testo biblico: “i suoi sandali rapirono gli occhi di Oloferne” e con queste armi il conquistatore fu conquistato.

Il secondo piano del palazzo ospita dal 2011 alcune opere del frivolo ‘700 , come “La piccola giardiniera” di Francois Boucher e “Fanciulla che esce dal letto” di Jean Frédéric Schall.



Madeleine, Via Monte Santo, 64

Madeleine è un bistrot in stile belle époque sito nel quartiere Prati di Roma; a pronunciarlo viene subito in mente quel dolce francese assaporato da Proust che lo riportò a memorie involontarie. Ma non solo madeleine, il locale accoglie gli ospiti dalla prima colazione alla cena, si comincia con un pain au chocolat, crostate, Saint Honorè, macarons allo zafferano, cassis e pistacchio, tarte citron meringuée, millefoglie con chantilly e frutti di bosco, e si passa all’arte della mixology con un cinquieme arrondissement fatto di gin, sambuco, lime, simple syrup e vino rosso, per concludere con un rollè di coniglio farcito, funghi, parmigiano e puntarelle. 
Alle pareti non potevano mancare i ritratti del grande scrittore che li ha ispirati, Proust per l’appunto, e una collezione di teiere che farebbero impazzire Csaba dalla Zorza. Al piano inferiore carta da parati in stile chinoiserie, e le collezioni di farfalle, utili come scusa per invitare a cena una gentil dama. 

Madeleine, Roma



PACIFICO Ristorante

A Palazzo Dama, uno degli hotel 5 stelle della capitale, ha aperto il secondo “Pacifico”, ristorante con cucina peruviana-nikkei, dopo il successo del primo spazio milanese. 
Jaime Pesaque, Corporate Chef di PACIFICO, è considerato tra i migliori chef Peruviani al Mondo, ed è l’ideatore del ricco e prelibato menu definito “la massima espressione della cucina Nikkei in Italia”, dominato da ceviche, tiradito rivisitati, tacos e anticuchos, crudi italo-giapponesi e una ampia selezione di Dim Sum accompagnati da salse peruviane.

Dell’oceano, come elemento di unione tra i paesi, ha preso il colore blu intenso dei drappeggi e delle poltrone; i grandi chandelier illuminano le sale con una luce perfetta per una cena tête-à-tête, soffusa e calda, così dev’essere; i tavolini in vetro laccato, i dettagli in ottone, maestose palme e l’affaccio alla piscina circondata da un giardino fruttato, conferiscono al locale un’aria elegante ed esotica.
Fino a tarda sera, per gli animali notturni, il bar di Palazzo Dama diventa Pisco Bar, dove poter gustare l’omonimo cocktail a passi di danza.




Hotel Lord Byron, via Giuseppe De Notaris, 5


Antica dimora patrizia nell’elegante quartiere Parioli, l’Hotel 5 stelle Lord Byron è il luogo più esclusivo e riservato dove poter alloggiare durante il vostro soggiorno nella capitale. 

Vicino alla splendida Villa Borghese e a pochi minuti da Piazza del Popolo, questa storica villa in stile Art Deco’ offre il servizio impeccabile e discreto di una struttura alberghiera e l’accoglienza calda e premurosa di una casa privata. 

Qui un tempo alloggiavano gli illustri personaggi dell’aristocrazia, oggi, in gran segreto, si riuniscono nelle sale del ristorante politici, attori e il jet set del cinema italiano e internazionale. 


Suite, lounge, spazi comuni, sono legati da un comune denominatore: la donna. Deliziosi ritratti femminili accompagnano le sale del Lord Byron in una marcia che è un inno alla donna. Sono donne in abiti dalla fattezza elegante e ricercata, con leziosi cappellini ed abiti anni ’30; passano tutte le età della vita, non ci è dato sapere la loro identità, ma sappiamo che tra queste si cela il volto della proprietaria, che di tanto in tanto si aggira tra le mura della villa, in incognita. 


La Panoramic Suite offre una meravigliosa vista sul parco di Villa Borghese; è arredata in stile Art Deco’ inizi ‘900 con pregiati mobili in mogano e palissandro, bagni in marmo, un set di cortesia completo per corpo e capelli di Etro, tessuti pregiati per la biancheria da letto ed è illuminata a giorno. Un ricco portafrutta in vetro vi accoglie nella camera, strabordante come una scintillante natura morta caravaggesca. 

Jerry Thomas, speakeasy

Una porta in legno scura vi aspetta segretamente per essere aperta, per poterlo fare avrete bisogno di una password che troverete sul sito del locale (nascosta ovviamente), varcata la soglia, dopo averla pronunciata sottovoce, vi attendono gli anni ’30 in pieno Proibizionismo, quando l’alcool viene messo al bando. Qui esiste una sola regola: bere bene. Il Jerry Thomas è infatti il primo “speakeasy” italiano che rientra nella classifica dei “50 World Best Bar”; prende il nome dal più grande barista statunitense che, grazie al suo spirito creativo, è stato soprannominato “il padre dell’arte di miscelare i cocktail”.
Mixology è la laurea dei componenti di questo “secret bar”, un’oasi di pace ed estasi dove poter chiedere lo scenico “Blue Blazer”, un preparato dello storico Professore a base di whisky scozzese e acqua bollente, l’icona dei drink, il re assoluto, un arcobaleno infuocato che passa da un boccale all’altro cinque volte per essere ben mescolato, una perfetta dose di esercizio e spettacolarizzazione. 

Jerry Thomas non è un semplice locale, è un’esperienza da vivere, si viene accolti con un mini calice di champagne con due gocce di bitter al bergamotto e ci si sente subito coccolati; non è un caso trovare al bancone chef stellati che si rifocillano con un cocktail Martinez e fedeli compañeros che tornano per “il solito”. La clientela è internazionale, conversa a bassavoce; il personale è preparato e parla cinque lingue, consiglio vivamente una serata al bancone per chi è interessato al magico mondo della mixology; a degustare un piatto senza sapere cosa si sta mangiando si gode solo a metà.

La luce è soffusa e accompagnata da quella calda delle candele; alle pareti rosse, i ritratti dei più grandi gangster della storia; il famoso “Vermouth del Professore” si deve proprio ai fondatori del locale, il primo prodotto di una lunga serie, frutto di un laboratorio creativo tra il marchio e le distillerie Quaglia. Jerry Thomas è il posto ideale per ribaltare le sorti di una serata! 



Foto e testo @ Miriam De Nicolo’

L’Arabesque, il cult store già cult nella Milano mondana

La parola “arabesque” deriva da “arabesco”, che indica uno stile ornamentale composto da motivi geometrici ed elementi calligrafici, un tipo di disegno che riporta gli elementi naturali delle foglie, delle onde, dei riccioli che tra loro si intersecano e si ripetono. A questo elegante intreccio “L’Arabesque” ha pensato quando ha creato il marchio: un’insieme di contenuti tutti sposi della stessa filosofia: la ricerca del bello

L’Arabesque è food, art, fashion and design, uno spazio unico situato nel cuore pulsante della città di Milano, in Largo Augusto, ideato dalla mente creativa di Chichi Meroni nel settembre 2010.

L’arabesque Café e L’Île de l’Arabesque sono i due ristoranti di design ispirati agli anni ’60, il primo è un ambiente accattivante che offre ricette tradizionali italiane ispirate al libro “C’era una volta a tavola” (pubblicato nel 1999) di Chichi Meroni e, ogni mercoledi sera (19.30-22.30) e sabato a pranzo per il brunch, musica jazz live con al sax Mirko Fait; il secondo è un locale dall’aria elegante ideale per eventi privati.

Il ristorante-cafè si offre come luogo di rappresentanza in una Milano che oggi esige meno rumore e più conversazione; qui gentiluomini coltivano il buon gusto e buone maniere perchè la mondanità è anche regola e saper viver bene. Ma se la qualità degli ospiti determina il nome del locale, L’Arabesque stupisce anche in cucina offrendo un menu’ alla carta di qualità con manicaretti di stampo italiano contaminati dalla cultura orientale, esattamente come negli arredi, il cui gusto dominante proviene dal Sol Levante. Una cucina che appaga vista e gusto, in perfetta sintonia con l’ambiente; riserbo e gentilezza fanno de L’Arabesque un progetto d’amore e di costume, dove virtù e costanza vengono premiati con la fedeltà della clientela.

Accanto al cafè, la libreria di ricerca, una vera chicca per appassionati lettori, una perfetta bomboniera del sapere, dove poter coltivare spirito artistico e modaiolo. Libri introvabili di moda, arte e design vi aspettano per essere sfogliati e acquistati, seguiti e consigliati per essere meglio indirizzati; la libreria è aperta spesso anche la sera durante il mercoledi in concomitanza con la serata jazz. La biblioteca è un progetto importante che rivela nuovamente il lato di Chichi Meroni, dall’inesauribile curiosità intellettuale.

Per chi inneggia all’unicità e all’originalità, L’Arabesque Research Vintage è la speciale area dedicata alla raccolta e alla vendita dei pezzi di “storia” dell’alta sartoria. Solo qui potrete trovare capi rari di grandi firme o sartoriali unici; per gli stylist e addetti al settore si propone come luogo di ricerca e di scelta per creare shooting ed editoriali moda. Una linea contemporanea di prêt-à-porter, fragranze dell’alta profumeria, kimono giapponesi di inizio ‘900, bigiotteria e arredi moderni di metà secolo di maestri del design europei e americani, oltre a una nuova collezione progettata da Chichi Meroni e lanciata alla Milano Design Week 2019, fanno de L’Arabesque un mondo completo del nuovo dandy contemporaneo. E per accontentare tutti ma proprio tutti, il nuovo salone fitness “Nautilus”, per allenare corpo con discipline cucite su misura e hammam, massaggi, cure fisioterapiche per coccolarvi.

Sembrava un sogno arabeggiante poter soddisfare tutti i propri desideri in un’unica soluzione, eppure questo sogno si è fatto realtà e si chiama “L’Arabesque”, il cult store già cult nella Milano mondana. 


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L’artigiano delle fragranze: Sileno Cheloni

È il maestro profumiere toscano di fama internazionale: Sileno Cheloni si fregia del titolo di “naso della verità”, creatore di profumi “tailor made” che vanta tra i clienti il premio Oscar Hellen Mirren, il politico Matteo Renzi, collaborazioni con Gucci, Lamborghini, Richard Ginori e una linea di saponi e cosmetica.

Sileno Cheloni fa del profumo un’arte che dice “eleva al divino”, ci mette in contatto con la nostra parte spirituale. Il profumo regala all’uomo un antico magnetismo, una posizione di potere, perché col profumo si attrae, si seduce. Il profumo è anche scia dei ricordi, di gesti, di fantasie, è il criterio delle affinità elettive.

 Per la prima volta a Pitti Uomo, Sileno Cheloni presenta “Il Profumoir”, una vera e propria Bespoke Experience della profumeria, dal 7 al 10 gennaio al piano inferiore del padiglione centrale.


Per l’occasione si terrà l’apertura della nuova OL’Factory in Via San Niccolo’ 95R, il 6 gennaio 2020, uno spazio dove tutto è speciale, un salotto dove tutto è magnifico, le stanze sono piene di mille rarità che attestano la competenza di colui che le ha scelte, nell’aria aleggiano essenze che creano atmosfera, un luogo così ben ideato, che a entrarci sembra di stare sotto effetto di un incantesimo. Perché il profumo è identità e audacia, è, ancora prima dell’abito, coraggio di raccontarsi.

Può esprimere amabilità, raffinatezza, rarità, gentilezza, energia, seduzione, orgoglio, definisce un’identità specifica, qualità precise, che si materializzano in essenze, rivolte a un pubblico che capisce l’importanza di avere un profumo personalizzato, anziché accettare di indossare fragranza commerciali, scelte e condivise da milioni di altre persone.

 Sileno Cheloni ci apre il suo magico mondo in questa intervista esclusiva.

In quale parte del mondo è più interessante fare ricerca? 

L’oriente, dove inizia la via degli incensi e quindi dei profumi. 

Quali sono i segreti del mestiere?

Passione e creatività, poi un po’ di formazione, ma quanto basta.

Perché hai scelto come sede Firenze?

Perché se l’Oriente è l’origine dei profumi, Firenze ne è stata per tanto tempo la culla.

Cosa rappresenta per te un profumo? In base a quale caratteristica della persona accosti un profumo? 

Uno stato d’animo da raggiungere. Il profumo è una caratteristica dell’anima, per cui molto profonda e non percepibile al primo sguardo, va scoperta insieme. 

Dove s’indossa un profumo per renderlo più persistente?

Dove si sentono le pulsazioni del nostro sangue 

Perché hai scelto di intraprendere questo mestiere?

Non ho scelto, gli sono saltato addosso. Energia pura.

Quale è in assoluto IL PROFUMO? Quello che magari avresti voluto creare tu.

L’incenso che i re Magi hanno portato in dono a Gesù Cristo.

Esiste un personaggio vivente per cui vorresti creare un profumo? E uno storico? 

Claudio Baglioni scrisse la canzone del secolo, io vorrei fare il profumo che indossava la protagonista in quelle chiare sere d’estate.

Avrei voluto farlo per l’avvocato Agnelli, ero un suo fan.

Quanto è importante avere un profumo “su misura” e perché?

L’importante è essere consapevoli che il profumo è il nostro abito invisibile. Il naso è l’organo con il quale prendiamo le decisioni più insindacabili: si o no! In molti ambiti professionali, in amore, nella scelta di un compagno o un collaboratore. Deducete voi l’importanza di averne uno fatto su misura.

L’odore che ti trasmette allegria e uno che invece ti ricorda momenti grigi. 

Ogni profumo mi mette allegria, soltanto per il fatto di poterlo sentire. Per me i momenti grigi sono il raffreddore che mi tiene lontano dalla verità.

Quanto è persistente, nella memoria, un profumo? 

Un profumo è  per sempre, ma la magia sta nel fatto che non lo sappiamo. Fino al giorno in cui lo risentiamo, lì si confondono gli attimi con gli anni.

Quanto è importante il packaging? 

Fondamentale come un abito per un vero monaco.

Le note della Regina Elisabetta e quelle di Marilyn Manson 

Violetta e Garofano. 

Tu che profumo sei?

Una Rosa assoluta. 

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Napoli tra cultura e musei

COSA VEDERE A NAPOLI

Se avete in programma un viaggio all’insegna della cultura e del buon cibo, Napoli è senz’altro la meta che fa per voi; dopo un primo tour gastronomico di cui consigliamo le tappe, e successivamente alla visita del Museo di Capodimonte, le destinazioni da non perdere sono queste e ve le raccontiamo con il cuore:

Museo Cappella San Severo

Incarnazione napoletana del dottor Faust, il Principe Raimondo di Sangro è certamente da annoverare come figlio della Napoli misteriosa. Gran Maestro massone, scrittore, alchemico, inventore, studioso devoto e curioso, la figura di Raimondo di Sangro è aleggiata da leggende fomentate da egli stesso.
Personalità eccentrica e intellettuale illuminista, il principe si dedica alle “macchine anatomiche”, testimonianza custodita all’interno della cappella di San Severo: due scheletri (un uomo ed una donna) che riproducono nel dettaglio il sistema arterovenoso, realizzato a metà settecento da Giuseppe Salerno, medico palermitano. Il principe avrebbe ottenuto la metalizzazione dei vasi sanguigni grazie all’iniezione di mercurio, trovata diabolica che lascia voci di una presunta attuazione quando i due corpi erano ancora in vita. Nella realtà, la ricostruzione esemplare si deve all’utilizzo della cera d’api e dei coloranti. 

Macchine anatomiche, Cappella San Severo

Star della Cappella di San Severo, il “Cristo velato” di Giuseppe Sanmartino, opera in marmo datata 1753 dietro commissione del Principe Raimondo di Sangro, che mette lo zampino sull’ennesima leggenda intorno al capolavoro scultoreo. Seguito dalla fama di noto alchimista, il principe avrebbe insegnato allo scultore la calcificazione del tessuto in cristalli di marmo, si credette quindi l’incredibile trasparenza del sudario fosse risultato di un procedimento alchemico di marmorizzazione; studi successivi hanno invece confermato che l’opera è stata scolpita da un unico blocco di marmo. L’illusione di quella leggerezza e dell’impalpabilità del tessuto, fece innamorare Antonio Canova che dichiarò:
Sarei disposto a dare dieci anni della mia vita pur di esser l’autore di questa simile meraviglia”.

Napoli, Cappella Sansevero, Cristo Velato




Palazzo Reale di Napoli

Dimora della dinastia borbonica dal 1734 al 1861, il Palazzo Reale di Napoli è simbolo della magnificenza e della bellezza di un patrimonio italiano ineguagliabile. Ubicato sulla bella Piazza del Plebiscito, racchiude al suo interno uno scalone d’onore definito da Montesquieu come il più bello d’Europa.

Lo scalone monumentale fu progettato dall’architetto Gaetano Genovese nel corso della ristrutturazione del palazzo dopo l’incendio del 1837, e compiuto da Francesco Gavaudan nel 1858. Conserva l’impianto della scala antica in piperno, costruita da Francesco Antonio Picchiatti al tempo del viceré conte di Onate tra il 1651 e il 1666.

Le pareti sono rivestite da marmi rosati: portovenere, lumachino di Trapani, mondragone, rosso di Vitulano, breccia rosata di Sicilia, su una base di breccia del Gargano. Ad essi si alternano bassorilievi di marmo di Carrara, con ornati e figure: a destra “La vittoria tra il Genio della fama e il Valore”, di Salvatore Irdi; a sinistra “La gloria tra i simboli della Giustizia, della Guerra, della Scienza, dell’Arte e dell’Industria”, di Francesco Liberti.
Ai lati si aprono quattro nicchie con sculture monumentali di gesso: la Fortezza di Antonio Calì e la Giustizia di Gennaro Calì; la Clemenza di Tito Angelini e la Prudenza di Tommaso Scolari. La volta a padiglione è ornata di stucchi bianchi su fondo bianco-grigio, con stemmi del regno di Napoli e della Sicilia.

La Prima Anticamera del Palazzo è dominata dal soffitto barocco, le porte sono dei grandi quadri decorati, dipinti a tempera su fondo oro e risalgono al 1774; la Sala del Trono, dallo stile impero e dall’arredo napoleonico, presenta una seduta imperiosa destinata all’autorità e risale al secolo XVIII, l’aquila che vi poggia sopra è di epoca sabauda. 


Interessante e bizzarra la Retrostanza con mobili napoletani ottocenteschi, in stile neobarocco dove protagonista è il leggio rotante della biblioteca della regina Maria Carolina (1791), un macchinario curioso, prototipo delle biblioteche monastiche, che permette di consultare contemporaneamente più volumi posti sui piani dei pensili mediante una manovella.

Realizzato in occasione delle nozze tra Ferdinando I e Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, il vellutatissimo “teatrino di corte”, dove impereggia l’oro del palco e degli stucchi e il rosso porpora della sala.

Caffè Gambrinus

E’ membro dell’Associazione Culturale Locali Storici d’Italia, le “sciantose” si ritrovavano prima di un concerto ai suoi tavolini a sorseggiare lo storico caffè, la “sempre a dieta” Principessa Sissi ordinava il delicato gelato alla violetta, la curiosa nobiltà napoletana ne delineava i contorni quale salotto letterario, e grandi artisti e scrittori quali Wilde, Sartre e D’Annunzio si lasciarono ispirare dalla bellezza dirimpetto del Palazzo Reale e di Piazza Plebiscito: è il Gran Caffe Gambrinus di Napoli. Elegante cafè di fine 800, il Gambrinus vi accoglie con una meravigliosa poesia del marchese Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio[2] (brevemente Antonio de Curtis), conosciuto come il grande attore comico Toto’:

A CUNZEGNA 

‘A sera quanno ‘o sole 
se nne trase 
e dà ‘a cunzegna a luna
p’ ‘a nuttata,
Ile dice dinto ‘a recchia 
“I’ vaco ‘a casa:
t’arraccumanno
tutt’ ‘e nnamurate”.




Caffè Gambrinus




Galleria Borbonica

Tra tutti i percorsi della Napoli Sotterranea, la più completa è certamente quella della “Galleria Borbonica” . Del personale preparato e membro dell’Associazione di volontari, ( io sono stata accompagnata al gruppo capeggiato da Gianluca Lamon) vi condurrà sotto il livello della città fino a 40 metri di profondità, portate con voi un golfino anche in estate perchè la temperatura scende ed è piuttosto umido; il tunnel scavato a mano con scalpello, picconi e martelli, venne realizzato nel 1853 dietro direttive del re Ferdinando II di Borbone, allo scopo di creare un rifugio sicuro in caso di pericolo durante i moti rivoluzionari del 1848. Durante la seconda guerra mondiale le ex cisterne vennero usate come ricovero bellico dei cittadini, che si rifugiavano tra queste vie di pietra sotterranea durante i bombardamenti tedeschi. Oggi è possibile vedere i vari ritrovamenti storici tra cui pitali, vasini, carrozzine, giochi e le prime caffettiere, perchè il vero napoletano, per alleviare i momenti di grave difficoltà e di ansia, non poteva rinunciare al rito del caffè, come se la magica azione propiziatoria fosse amuleto contro le disgrazie, panacea per tutti i mali, ritrovo conviviale e l’abbraccio fraterno di chi vive la stessa miseria. Ma era un caffè anomalo, fatto di cicoria e ceci, che del caffè ricordava solo il colore.

Dopo la guerra, la galleria divenne Deposito Giudiziale Comunale, pezzi di taxi e di moto sequestrate, formano uno strano puzzle, mezzo di trasporto del nuovo lavoro inventato dal brillante partenopeo che non se ne sta con le mani in mano: il trasportatore del ghiaccio. Un piccolo carretto legato a un motorino con sellino, è il mezzo dell’ingegno napoletano.

Potete scegliere il tipo di percorso, da standard ad avventura, vale davvero la pena addentrarsi nel buio delle grotte di pietra che vi obbligheranno al passaggio raso muro, muniti solo di una torcia e tanto coraggio, ma sempre in compagnia della vostra guida turistica! 

Proprio a Napoli, durante la pulizia della grotta e delle cisterne, una scritta sui muri portava un nome che apparteneva ad un anziano signore napoletano, chiamato a ripercorrere quella discesa dopo 70 anni. Raccontano gli uomini che lo hanno accompagnato, che l’uomo cercasse verso l’alto la sua scritta, dimenticando la sua statura di bambino, e che fermò lo sguardo verso il ricordo di quegli oggetti rinvenuti, con lacrime di dolore agli occhi. 

Il percorso della Galleria Borbonica non è solo un passaggio nei meandri della storia, ma è un percorso durissimo verso la profondità della propria coscienza. 

Caffè Libreria Berisio 


Dovessi immaginare una via magnetica, magica e in cui mi piacerebbe passeggiare notte e dì, avrebbe il 90% librerie e il 10% pasticcerie. A Napoli esiste, ma ahimè ognuno di questi negozi ha chiuso, fallito, scomparso nella distruzione dell’intelletto, nell’oscurità di un paese che evidentemente ama la cultura, che si porta il timbro (timbri personalizzati, scopri di più) di Luciano De Crescenzo, di Antonio De Curtis e dei grandi intellettuali napoletani, ma che i tempi hanno reso bui, facendoli fallire. Una sola ha resistito, trasformandosi poi in un luogo di tendenza, un locale dove poter gustare ottimi drink, con il nobile obiettivo di vendere anche pezzi unici, libri vintage, piccole chicche, sfogliandole tra una chiacchiera con gli amici e l’altra. Affascinante ambientazione, una predominanza di rossi, di luci da speak easy, scaffalature che toccano il soffitto, pianoforti a coda illuminati da lampade d’antan, un luogo unico dove fare un aperitivo prima di cena, passeggiando poi lungo le vetrine serrate, con le insegne arrugginite ma degne ancora della loro presenza, e finire sotto la statua di Dante che vigila, forse un poco rattristato.

Mercato di Pugliano, Ercolano

Se siete delle fashion addicted e amate il vintage, la ragione che vi porterà in questo luogo ogni week end a voi disponibile, è il mercato di Pugliano! Meta di stylist che arrivano da ogni parte del mondo e luogo di culto per i costumisti di cinema e tv, il Mercato di Pugliano offre costumi d’epoca, vintage firmato, denim anni ’80, una selezione vastissima di pellicceria usata e ricercata, borse in coccodrillo anni ’40 a prezzi accessibilissimi. Verrete chiamati a gran voce dai commercianti del posto, che un tempo usavano vendere la propria merce su delle bancarelle, mentre ora la stipano in piccoli negozi dentro cui dovrete rovistare, pazienza alla mano, ma ne resterete più che soddisfatti perché l’affare, se sapete trattare, è dietro l’angolo!
Un consiglio: partite da casa con una valigia vuota. Se intendi visitare Napoli potrebbero esserti utili gli orari della Circumvesuviana.



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LA GUIDA COMPLETA SU NAPOLI

(testo e foto @Miriam De Nicolo’)

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Il Gentleman Watch secondo Tissot

Tissot, il brand di orologeria che rappresenta il gentleman moderno, ha presentato una nuova capsule collection di orologi in occasione di un evento esclusivo alla Terrazza Martini di Milano. Un evento unico cui hanno partecipato uomini moderni amanti del bien vivre che hanno potuto vedere in anteprima la nuova collezione con pezzi già iconici, come il “Tissot Gentleman”. 

Dedicato all’uomo elegante e contemporaneo, il “Tissot Gentleman” è raffinato nei dettagli, che fanno del brand un marchio di fabbrica e leader dell’alta orologeria: in acciaio, diametro 40 mm, anello degli indici applicati, smussati, satinati e bruniti, valorizzati da lancette Dauphine sfaccettate e rivestite con un materiale bianco luminescente; datario a ore 3 che rivela la sottile eleganza del quadrante; una lancetta dei secondi molto sottile che permette di leggere l’ora con precisione. 

Disponibile in sei versioni, il “Tissot Gentleman” è raffinato e sobrio al contempo, è l’orologio versatile per eccellenza, perchè perfetto per lo stile casual del week end o “business” per le giornate di incontri di lavoro. 

Ispirato al suo predecessore degli anni ’60 ma reinterpretato in chiave trendy, il “Tissot Gentleman” è dotato di un calibro eccezionale, il famoso Powermatic 80 nella versione con molla del bilanciere in silicio, una molla che garantisce al segnatempo una maggiore longevità, un funzionamento più preciso e una maggiore resistenza ai campi magnetici, con riserva di 80 ore. 

Noi di MANINTOWN abbiamo partecipato all’evento con i due nostri ambassador, Niccolò Zaffarano, style coach e personal shopper appassionato di orologi, e Giorgio Giangiulio, style storyteller (come ama definirsi) nonchè autorevole amateur del mondo orologi. Due giovani uomini che hanno coltivato un innato senso di eleganza e che hanno interpretato con la loro estetica lo stile del “Tissot Gentleman”.

E come racconta lo stesso Giorgio Giangiulio: “La vera arma di un gentiluomo è la sua eleganza. E Tissot ha sposato questa filosofia con grande maestria e capacità, segnando i tempi moderni con una collezione che accompagna il gentleman con stile nelle sfide quotidiane. Sono rimasto molto colpito dal “Powermatic 80” con movimento a carica automatica, cassa in acciaio da 40mm e quadrante blu. Un orologio versatile e raffinato che ho subito sentito mio, in totale accordo con ciò che cerco quando indosso un orologio: qualità e bellezza discreta. E la Terrazza Martini, con vista sul cuore pulsante di Milano, non poteva che essere la location più adatta per presentare i calibri della Tissot Gentleman.”

Niccolò Zaffarano commenta così: ” E’ un onore rappresentare Tissot, brand centenario che fa della qualità e dell’eleganza i suoi punti di forza. Il pezzo della collezione che mi ha più colpito è il Gentleman in acciaio con quadrante blu, poiché si adatta alla perfezione sia sotto il polsino della camicia con un abito elegante, sia con una polo nel tempo libero. L’evento in Terrazza Martini ha confermato l’originalità del marchio, una presentazione dal tasting tutto italiano, ottimi drink e tema casino’, vizi e passatempi del gentleman moderno!” 

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La guida completa su Napoli

Quando penso alla perfezione di una lingua, ai giochi di parola, ai modi di dire più bizzarri, alle parole più bislacche, mi viene in mente il napoletano. Perchè i napoletani hanno quella capacità, quel dono di sintesi, che permette di spiegare un intero pensiero, in un solo termine; dentro quel termine, troviamo mille colori e sfumature che non solo descrivono un concetto, ma che facilitano la sua comprensione perchè è come il disegno di un’atmosfera, di un mondo. Così, “mbuttunato”, sarà quel cibo imbottito, farcito, carico di olio e insaporito, non rappresenterà un semplice ripieno, ma si vedrà comparire, al suono di quella parola già cicciotta che riempie anche le labbra, tutto il colore di un condimento, il rosso di un pomodoro, il giallo ambrato dell’olio.


I napoletani sono come le loro parole, ricchi e carichi di vita, li trovi a vendere presepi per le vie del centro, cornici di fantasiosi personaggi in miniatura intenti nei lavori più umili, pastori, massaie, tosatori, panettieri, in fila per i banconi pronti per entrare nelle vostre case, e il desiderio è quello di comprarli tutti per quella minuziosa capacità caricaturale, che trasforma una semplice casa alta due spanne appena, in un set cinematografico alla Hitchcock, dove piccole lanterne illuminano desolate case “sgarrupate”.

La via dei Presepi

I sapori di Napoli


Napoli è l’abbondanza di una frolla ripiena di crema alla ricotta e semolino (ottima alla Pasticceria Leopoldo di via Benedetto Croce, pieno centro storico); è il rito del caffè accompagnato dal babbà al bicchiere, da gustare in piedi alla Pasticceria Scaturchio, vera Mecca dei buongustai, perchè se dobbiamo concederci il rito della pausa e di una chiacchierata, non può mai mancare la leziosità di un dolcetto.

Saporita come quella fatta in casa, ma solo se avete mamma di origini partenopee, la pasta al ragù del Tandem, in Calata Trinità Maggiore 12, succosa salsa di pomodoro e carne, che ben si sposa con gli scialatielli, tipica pasta fresca della Costiera Amalfitana.
Per gli amanti della street food, la monumentale “pizza a portafoglio” da Di Matteo, una pizza piegata in quattro, servita in carta assorbente, da mangiare rigorosamente in piedi per le vie di Napoli in un meditativo silenzio: ascoltate solo le vostre papille gustative e l’estrosità dei piccoli scugnizzi che vociferano accanto (scopri di più su LiveNapoli)

Anatema per eccellenza, la devozione dei napoletani per San Gennaro non ha eguali. Ai lati del Duomo di Napoli, la cattedrale metropolitana di Santa Maria Assunta, una cappella custodisce le reliquie del santo patrono; è la chiesa più importante della città, che attira ben tre volte l’anno i credenti di tutto il mondo a mani giunte, nell’attesa dello scioglimento del sangue di San Gennaro.

Nella cripta, accessibile tramite delle scale semicircolari, compare protagonista l‘Oliviero Carafa in preghiera, il cardinale che nel 1497 riportò in città le reliquie di san Gennaro, fino ad allora nascoste nel santuario di Montevergine di Avellino. Il soffitto presenta 18 cassettoni raffiguranti Santi e cherubini, sono altorilievi scultorei ad opera di Tommaso Malvito; tutto l’ambiente è un’alcova marmorea dai candidi colori del Paradiso, un luogo pregno di energia e di mistero.

Il Museo di Capodimonte


Salendo verso il rione Sanità, tra viuzze che di giorno sembrano semi abbandonate, ma vive di panni stesi, si arriva al Museo e Real Bosco di Capodimonte, 15000 metri quadri di area espositiva e un patrimonio di circa 47000 opere. Immerso nel parco Real Bosco, area verde cittadina che attira oltre il milione di visitatori ogni anno, il palazzo fondato nel 1738 da Carlo di Borbone, re di Napoli dal 1734, destinato a ospitare la collezione ereditata dalla madre Elisabetta Farnese, capolavori dal 200 ad oggi di cui fanno parte alcuni grandi nomi della pittura nazionale e internazionale: Parmigianino, El Greco, Guido Reni, Raffaello, Tiziano…


Parmigianino – Ritratto di giovane donna, detta Antea – 1535

Una donna dai nobili tratti e dalle vesti alla moda di una Italia cinquecentesca, ci guarda dritto negli occhi, ci affronta senza timore. I capelli sono acconciati con una scriminatura centrale e adornati da una grossa treccia a mo’ di cerchietto da cui pende, decorandola, una luminosa perla. Due i pendenti ai lati del volto e una abbondante tunica di stoffe pregiate con sbuffi alle maniche, che ne ingrandiscono la figura, rendendola maestosa e degna di rispetto. Quasi sproporzionato il braccio destro nella sua dimensione, una forza quasi mascolina che regge una pelliccia di martora e una catena di cui non si vedono i confini. La mano sinistra gioca con una collana e il mignolo porta un anello con rubino.

Nel 1671 lo scrittore Giacomo Barri affermò che il ritratto di Parmigianino rappresentasse Antea, una cortigiana romana descritta dallo scultore Benvenuto Cellini e dall’umanista Pietro Aretino. Ma sebbene l’opera sia conosciuta con questo nome, l’ identificazione non è corretta, per gli abiti che indossa e per l’espressione fiera di una bellezza piuttosto idealizzata.

Parmigianino- Lucrezia 1539-50

Lucrezia è il dipinto della dignità, del coraggio di andarsene quando onore e orgoglio sono più importanti della vita stessa. La martire romana è spinta al suicidio dopo lo stupro subìto da un soldato etrusco; la morta diviene l’unica soluzione al disonorevole gesto.
Lucrezia appare luminosa su uno sfondo nero china, l’abito cade scoprendole il seno e regalandole una carica erotica seppure nel gesto violento di una pugnalata nel petto. Nè sangue né espressioni di dolore per il dipinto di Parmigianino, piuttosto la valorosa bellezza di una dea che si sottrae alla crudeltà umana, rimanendo pura per l’eternità.

Artemisia Gentileschi – Giuditta e Oloferne 1612-13

Con le braccia tese e la spada in pugno, l’eroina ebraica Giuditta taglia la testa del generale babilonese Oloferne. La sua serva Abra tiene ferma dall’alto la vittima, il cui sguardo già rotea, all’indietro nell’oblio. Le due hanno sorpreso il generale nella sua tenda ubriaco e inerme. Gentileschi cattura il momento saliente dell’azione, quando il sangue di Oloferne scivola via con la sua vita, macchiando le sontuose lenzuola.
Questa scena è tratta dal Libro di Giuditta dell’Antico Testamento, in cui ella salva la sua città di Betulia dall’assedio dell’esercito di Oloferne. Gli storici dell’arte ritengono che il dipinto della Gentileschi possa avere una componente autobiografica. Nel 1611, Artemisia aveva subito uno stupro da parte di Agostino Tassi, pittore apprendista nella bottega di suo padre Orazio. Il processo aveva disonorato Artemisia, mentre Tassi era stato condannato per il reato ma rilasciato meno di un anno dopo. Artemisia potrebbe essersi ritratta nella figura di Giuditta per ottenere, almeno in pittura, quella giustizia che drammaticamente le era mancata nella vita reale.

Vero fiore all’occhiello di Museo Capodimonte, la collezione De Ciccio, donata dallo stesso allo Stato italiano nel 1958 e costituita da smalti limosini del ‘500, avori, porcellane Ginori e di Messein, maioliche italiane, ceramiche persiane, tessuti e ricami, preziosi argenti, piccole sculture, leziosi ventagli, orologi, vetri veneziani, bronzetti, deliziose tabacchiere e astucci decorati a mano, piccole ampolle da profumo con decori in rilievo, eleganti porta-ciprie, una serie di galanterie da far girar la testa alle donne più vanitose.

Nella sezione di Arte Contemporanea, spicca una figura importante dell’Arte Povera: Mario Merz, con l’installazione “Shock Wawe” (Onda d’Urto – 1987)

L’artista reinterpreta oggetti prelevati dal quotidiano, realizzando installazioni multimateriche che indagano la relazione tra energie naturali e culturali. Tra le massime figure dell’arte povera, Merz mette in fila pile di quotidiani stampati e distribuiti a Napoli, su cui poggia i numeri della successione Fibonacci, in cui ogni numero è la somma dei due numeri precedenti. A sormontare i giornali, degli archi di metallo incrociati e aperti verso l’esterno, che rimandano all’energia incanalata dalle forze in campo e che evoca la struttura di un’architettura primordiale e precaria, analoga a quella dell’igloo presente in molte opere ambientali dell’artista.

L’Artemisia Domus

Punto strategico per un pernottamento all’insegna del relax, l’Artemisia Domus nel pieno centro di Napoli, tra Piazza del Gesù e Spaccanapoli, la luxury Guest House con possibilità di avere jacuzzi in camera e sauna privata.
Artemisia Domus omaggia la grande pittrice Artemisia Gentileschi, che nel 1630 visse una parentesi partenopea; è un palazzo del ‘700 ristrutturato ma che conserva il fascino del suo passato, tutte le finestre delle camere affacciano su Castel Sant’Elmo e sulla Certosa di San Martino; altissimi i soffitti sormontati da travi in legno a vista, pavimenti in parquet, letti king size e suite insonorizzate. Se le lunghe passeggiate turistiche vi affaticano, potete prenotare un massaggio privato in camera, oppure farvi consigliare dallo staff per una gita in barca, una escursione in motoscafo verso la Costiera, un tour all’insegna del gusto.


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Roberto Valbuzzi e l’amore per il food

Ci diamo appuntamento sul lago, la giornata è ventosa e regala al lago un aspetto di mare, con le piccole onde biancastre, l’acqua dai riflessi mordorèe, la sensazione che il vento porti un’aria nuova e più fresca, quella dei primi giorni di primavera che d’un tratto apri gli occhi e vedi i paesaggi colorati dai fiori appena sbocciati, così, da una notte all’altra.


Sediamo al tavolino di un bar dove lo attendo con una tortina mangiata a metà e dei piccoli passerotti che fanno banchetto con le briciole. Lui ordina una centrifuga ed un cannolo siciliano, ma non essendoci si accontenta di un succo alla pesca. Voleva fare il militare Roberto Valbuzzi, chef della giurìa di “Cortesie per gli ospiti”, ma il destino gli ha scritto un incipit fatto di ristoranti e nonni agricoltori, ed è per questo che parla con deliziosa voluttà di cibo, e con rispetto di natura:

“Crotto Valtellina”, il ristorante di Malnate, è il locale di famiglia passato dal mio bisnonno al nonno, e da mio padre arrivato a me. Lo dirigo insieme a lui che mi aiuta moltissimo nell’organizzazione, insieme ad altri validi collaboratori che si occupano anche del catering. Ci vuol disciplina in cucina, ordine, obbedienza, ma soprattutto medoto, perchè tutti si aspettano che tu dia il massimo in ogni ambito della vita: lavoro, set, catering, vita privata…

E tu in cosa sei più bravo? 


Riesco a gestire tutto, altrimenti non lo farei, anche se dormo tre/quattro ore a notte, ma ritaglio 4 viaggi l’anno da dedicare a me e alla mia famiglia. E’ con loro che condivido i momenti più intimi e quelli più veri, mia moglie, i miei genitori e i miei quattro amici.

Sarà difficile avere il lusso del tempo con tutti i tuoi impegni…


Investo molto sulla formazione del personale al ristorante, così da poter delegare a persone di fiducia e poter avere sempre più tempo per me. I miei coetanei escono la sera, vanno in discoteca, spesso i miei amici mi rimproverano di non esserci, ma non sempre capiscono che sto costruendomi un futuro. Se non ora, quando?

Nel tuo passato la figura di tuo nonno è ricorrente


Faceva pascolare le pecore per i prati e io lo accompagnavo, ricordo l’odore fresco dell’erba e gli aromi di montagna, il murmure delle foglie sopra di noi quando ci riposavamo sotto la chioma di un albero a spiluccare noci, che lui rompeva col suo bastone.

E la tua nonna? 


E’ lei ad avermi insegnato a fare il primo formaggio della mia vita: la ricotta. Avrò avuto otto o nove anni. E legato a queste rievocazioni ho creato un piatto, dal nome “Scatola dei ricordi”. Rompendo la scatola emergono tutte le essenze dei fiori di montagna, quelli che fioriscono vicino casa in diversi periodi dell’anno, li ho glassati, miscelati con la ricotta fatta mantecare leggermente, e da cui si distingue l’affumicatura di tabacco, quel sentore legnoso che portava addosso mio nonno che fumava troppo. 

Pantalone e t-shirt bianca dal suo guardaroba.
Cappotto Tom scozzese beige brown e olive green: Sartoria LaTorre


Se fossi un piatto che piatto saresti?

L’hamburger.

L’hamburger?


A chi non piace l’hamburger?
E’ un comfort food, puoi mangiarlo ovunque e puoi farlo con le mani (un saluto a Csaba dalla Zorza), puoi sporcartici le mani; dall’hamburger ci si lascia coinvolgere, puoi imbottirlo con gli ingredienti più disparati ma soprattutto in un ottimo sandwich si racchiude l’essenza di un piatto in tre morsi. E’ una questione di equilibri e bilanciamenti.

Se dovessi cucinare un piatto ad personaggio storico, per chi cucineresti?

Luigi XXVI. Mi ha sempre affascinato la vita all’interno delle cucine di quel periodo, una cucina di ricerca e di sviluppo, dove il servizio a tavola era un vero e proprio show. Lo chef era necessariamente spinto a cercare e inventare, doveva essere creativo, sfornare ricette, trovare l’ingrediente esotico, divertire il re, altrimenti si passava dal taglio della torta al taglio della testa!

E cosa gli avresti cucinato? 


Probabilmente una pasta al pomodoro e sarebbe stato felice, ne sono certo!

Qual è l’ingrediente più importante in un piatto? 


L’energia. 

Io cucino e mi emoziono, non faccio distinzioni tra i commensali, cucinerei con amore per tutti perchè cucinare è un atto d’amore che rivolgo prima di tutto a me stesso. Il messaggio che cerco di lanciare sui social, in video durante “Cortesie per gli ospiti”, nei vari programmi tv, nei miei ristoranti, è il racconto di quanto sta dietro il piatto. La passione e la dedizione per gli alimenti, cibi che coltivo con le mie mani, prodotti che conosco e vedo crescere, per poi utilizzarli nelle mie cucine; so dove trovare gli ingredienti migliori e più sani, so dove pescarli e questo è un mondo che vorrei portare nel piatto, tutto l’ecosistema dalla nascita alla trasformazione. Quando chi mangia comprende questo insegnamento, di sicuro apprezzerà di più anche quello che avrà nel piatto.

E’ una vita stressante quella in cucina, che vede un alto tasso di alcolisti e depressi 


E suicidi. E’ un attimo, ti danno la stella e poi subito te la tolgono, non hai più vita sociale, un bicchiere diventa una bottiglia e si è sempre sotto pressione. Io mi reputo molto fortunato, perchè ho un ottimo autocontrollo ma soprattutto perchè spesso mi fermo, rifletto sui risultati ottenuti e godo di queste piccole felicità. 


Dovessi consigliare un viaggio, quale meta sceglieresti?

Ho un rituale, ogni anno devo trascorrere almeno tre giorni in Sardegna, la terra dove sono cresciuto. Qualche anno fa ho girato Mauritius, Maldive e Marocco e avevo ancora una certa nostalgia, era il “mal di Sardegna”. Cosa mi mancava? Il profumo del mirto, della terra bruciata, il sentirmi a casa, quella sensazione ovattata di serenità,  e i culurgiones, i malloreddus con la salsiccia, le seadas, e la “mazza frissa”, una salsa di semolino e panna simile alla polenta morbida, che accompagno al pane fatto cuocere insieme al maialino. 

Al secondo posto metterei Kunming, una città rurale di 6 milioni di abitanti situata nella regione dello Yunnan, zona meridionale della Cina. Una campagna che ricorda Bangkok e Bali con sapori e profumi di fritto, di pesce, quegli aromi forti e selvaggi che ti coinvolgono come un uragano, ti avvolgono, ti sconquassano e poi ti spazzano via. E’ come un tornado tra le papille gustative.
Da quel luogo ho portato con me il te’ pu- erh  un tè stagionato affumicato, pressato con foglie intere dalle ricche proprietà e dal costo molto alto perchè pregiato. Sono sempre a caccia di sapori nuovi. 


C’è qualcosa che ti manca della tua cucina quando sei via?


Cucinare.
Capita quando sono in vacanza o quando sto sul set per lungo tempo, per molte registrazioni. Manca il momento che dedico a me, quando sto seduto al tavolo di casa a pensare, riflettere, per poi alzarmi, andare nella mia cucina e creare. E’ come un rituale che nutre il mio spirito. 


La tua idea di cena romantica ? 

Sono un cancro ascendente cancro e devo dire che questa mia sensibilità mi ha sempre aiutato con il gentil sesso, coltivo le emozioni e mi lascio coinvolgere; ma cosa c’è di più bello nella vita?
Mi basta un pezzo di pane, un bicchiere di vino, una spiaggia sul mare, un bellissimo tramonto e l’amore della mia compagna. 


Cos’è per te la felicità ?


Quello che mi rende felice ce l’ho e la cosa molto bella è che non sento il bisognoso di altro.

Chi nasce nel mondo occidentale, oggi, nasce sotto una stella favorita, a patto ci siano complicanze di altro genere, abbiamo a disposizione mezzi che ci permettono di crearci la nostra fortuna, siamo molto facilitati dalla visibilità dei social e dallo scambio di contatti. 

Il segreto di una felicità duratura sta nel ritagliarsi il tempo per gioire delle piccole cose, dei piccoli risultati quando li si è raggiunti, per poi darsi obiettivi nuovi e crescere. 

Hai mai assaggiato qualcosa di immangiabile sul set? 

Spaghetti, cozze, vongole e sabbia. Come sgranocchiare dei gusci.

“Cortesie per gli ospiti” riconferma il suo successo e manda in onda la terza stagione, siete un trio molto affiatato? 


Csaba è una donna d’altri tempi, molto composta, educata, molto attenta alla forma, esattamente come la si vede in video;  Diego è la fotografia della festa, ci fa ridere nel momento di  grande imbarazzo e strappa sempre a tutti una risata. Andiamo molto d’accordo, siamo un trio ben assortito. 


Un gruppetto di ragazze in festa, di cui una col velo da sposa, chiede da lontano una foto con Roberto, dopo averlo riconosciuto. Lui gentilmente si alza e concede il suo tempo e una chiacchierata; poi si sposta verso il lago per una foto, lui che il lago lo conosce, lo vive e lo rimira accarezzando i suoi cani quando sta a casa. Di fronte al lago parla di felicità e di amore, di passione e di costruzione, lo fa con l’eloquio di un vecchio saggio, e mi scordo dei suoi trent’anni.(ndr)

Pantalone denim Jeckerson, giacca mèlange Sartoria LaTorre, Tshirt dal suo guardaroba.

Talent – Chef Roberto Valbuzzi

Photographer: Antonio Avolio

Stylist: Miriam De Nicolo’

Stylist Assistant: Irene Lombardini

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Il cuore di Marco Ferri è in Africa

Marco Ferri, classe ‘88, ex concorrente dell’edizione 2018 “Isola dei Famosi” e figlio dello storico difensore dell’Inter Riccardo Ferri, è laureato in Scienze della Comunicazione presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM (Milano) ed ha ottenuto un Master in International Marketing presso la European School of Economics (Londra). Inizia la carriera di modello all’età di 18 anni, per poi atterrare nelle tv cilene e spagnole nel 2014 con la partecipazione a reality shows. Oggi lega il ruolo di influencer marketing al volontariato, un progetto che gli sta molto a cuore. La sua più grande passione? I viaggi.


Mi dà appuntamento a casa sua e io penso che lo faccia per proteggersi, per giocare in un campo familiare, per “stare al sicuro”. Entro quindi in punta di piedi, perché intervistare è un po’ scoprire, e come lo psicologo “rovista, indaga” con una domanda, così l’intervistatore “scava” per far emergere la persona e lasciar riposare il personaggio.    Mi accoglie con un gran sorriso nella sala con il tavolo del poker, quello dedicato alle serate con gli amici, mi rivelerà più tardi. Una sottile consolle ospita due bicchieri da whisky, un Bombay, un Ramazzotti e altri liquori; alle pareti sono incorniciate copertine vintage di Vogue: raccontano la sua passione per la moda. Sul tavolo davanti al divano ecco “Valentino, at the Emperor’s Table”, il libro firmato dallo stesso couturier, conosciuto al suo compleanno nel 2018.   Iniziamo la nostra chiacchierata per ripercorrere la storia e le passioni di Marco Ferri, figlio del calciatore Riccardo Ferri da cui ha ereditato la passione per lo sport; un volto che si è fatto conoscere al grande pubblico grazie alla partecipazione all’Isola dei famosi 2018. Dopo i successi e i gossip televisivi Marco è oggi impegnato nella sua carriera e crescita nel mondo dei social media come influencer e digital marketing specialist.

La casa di questo moderno arbitro d’eleganza, ricca di dettagli che svelano il piacere delle comodità e guizzi da don Giovanni, mi fa tornare in mente un passaggio che Proust, nella «Recherche», regala al personaggio di Swann: “Diverse volte basta rovesciare le reputazioni create dalla gente per avere il giudizio esatto su una persona”.      Chi è il vero Marco Ferri, dietro l’immagine nota? Sulle pareti grigio scuro che portano alle camere ecco un prima e un dopo: Marco a un anno con pantaloncini a righe bianco e neri e una t-shirt rossa in tono con le sdraio fronte mare, in un sorriso spensierato di quell’età che non conosce ancora dolori, e Marco a 25, cui le righe fanno da sfondo a un corpo tonico e a uno sguardo che le esperienze hanno reso più sicuro. Nella camera da letto, nel loro fiero isolamento su una piccola mensola laccata di nero, una glacette e due boule da vino rosso, intonse e linde, pronte per essere servite davanti al camino che arde a comando. Saranno oggetti d’uso o simulacri rituali?

Viaggi moltissimo. Quale meta ti ha cambiato la vita? Quando si parla di mal d’Africa si parla seriamente, è qualcosa di profondo che si radica in noi e magari rimane lì per poi tornare a galla, com’è successo a me, che ho avuto la fortuna di visitarla già da bambino. Andai in Kenya con i miei genitori, era una vacanza tra Malindi, Watamu e i villaggi locali per esplorare la realtà kenyota, e quando sei giovane sì ti colpisce, ma non hai ancora i mezzi per “muoverti” e fare qualcosa. Quest’anno quella lampadina si è riaccesa, quella voce rimasta dentro di me mi ha sussurrato cosa fare e finalmente il progetto ha preso vita: ho unito il mio lavoro di influencer marketing al volontariato.

Qual è il progetto? Dedicare i miei viaggi di lavoro a realtà difficoltose come quelle africane e dare una mano concreta, acquistando mezzi di prima necessità: alimenti, pannolini per i bambini, indumenti, set per l’igiene personale… La più grande gioia è quella che ti porti a casa, quella che ti regala la luce negli occhi dei bambini che ti ringraziano per una caramella, quei sorrisi che vorresti donar loro tutti i giorni per i giorni a venire; la gratitudine delle madri (gli uomini di giorno sono fuori al lavoro, in genere svolgono lavori artigianali i più fortunati, mentre altri stanno in città a girovagare sui motorini) che si rallegrano per la visita e i piccoli doni. Ricordo i bambini che si divertivano ad acchiappare un drone, e com’erano educati in attesa del loro turno per ricevere qualcosa dalla grande spesa fatta insieme alla mia troupe. Se tutti facessimo quel poco, forse la situazione cambierebbe, questo è il messaggio che sto trasmettendo anche sui social: sappiamo bene che ciò che facciamo non è che una goccia nell’oceano. Ma se questa goccia non ci fosse, all’oceano mancherebbe.

La tua paura più grande? Ho paura di non innamorarmi più.

Sento una nota di distacco: una delusione? La società si evolve e oggi le relazioni sono diventate più effimere e superficiali: mi portano a sentirmi un poco vittima del sistema. Chi non ti conosce crede di avere in pugno la verità, solo perché legge i contenuti dei tuoi account social, che per me sono lavoro e traducono una piccolissima parte dei miei pensieri e della mia vita intima.    Ho paura che i pregiudizi, che hanno spesso le persone che incontro, possano limitare gli aspetti più romantici della conoscenza. Prima dei social c’era più naturalezza e ci si dava il tempo di scoprirsi.

Esiste una canzone che racconta il tuo viaggio? Possiedo una playlist in ordine cronologico a cui aggiungo canzoni da cinque anni, dovessimo pescarne una a caso, tra queste, saprei raccontarti la città in cui mi trovavo in quell’istante, cosa vivevo e la sensazione che mi provoca, è come sfogliare un album di ricordi.    Per esempio mi viene in mente ‘Electricity’ di Dua Lipa che mi ha accompagnato in viaggio verso Dubai. E ancora un’altra canzone ha accompagnato nel 2014 il mio percorso in Cile da Nord a Sud, dopo aver partecipato a tre programmi molto forti: Morandè con Compañia, Gran Hermano VIP 5  e la Divina Comida, un programma di cucina per il quale fui premiato.

Quali i profumi che ti caratterizzano? Ne alterno quattro in base agli stati d’animo: Eau de Rhubarbe Ecarlate di Hermes (“lo uso in estate”); Rive Gauche di YSL, daylight; Spicebomb di Viktor&Rolf, legnoso e speziato, il cui package è una bomba a mano; Wood & Spice di Montale, legnoso, ha molto successo con le donne.

E quali sono i profumi che ami sentire su una donna? Non sono un fan dei profumi forti su creature tanto delicate, sarebbe come profanarle. Coltivo la semplicità, gli odori naturali dei capelli appena lavati e quelli della crema spalmata sul viso prima di andare a letto.

Se ti dicessero “hai 30 secondi prima di partire per un lungo viaggio”, cosa porteresti con te? La mia GoPro,  un drone e il filo interdentale.

Foto: Marco Onofri
Stylist: Miriam De Nicolò
Location: Vistaterra, Via Carandini 40 Parella (TO)

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Foss Marai, l’azienda vinicola leader nella produzione dello spumante e la sua forza

La chiamano «viticoltura eroica» e Carlo Biasotto, fondatore dell’azienda vinicola Foss Marai, la racconta così:

«Eravamo bambini e i nostri genitori ci ordinavano di andare a cogliere l’uva: quello era il momento del pianto, perché sapevamo quanto duro e pericoloso fosse il lavoro».
Terreno con pendenza di 45 gradi, impossibilità dei terrazzamenti, necessità di intervenire a mano limitando l’ausilio dei macchinari che rischierebbero di ribaltarsi: ecco perché il lavoro dei viticoltori nel Valdobbiadene viene detto «eroico». Tanto suggestivo è il paesaggio, con le colline che intrecciano infinite sfumature di colore, dal verde trifoglio al verde felce, quanto difficile è il domarlo da parte dell’uomo.

È nell’area Conegliano-Valdobbiadene, oggi diventata Patrimonio Unesco, che nascono i vini Foss Marai, grazie al rispetto del “disciplinare dei vini di origine controllata e garantita Conegliano Valdobbiadene – Prosecco” atto alla piena tutela del prosecco, vino simbolo del Made in Italy di qualità, senza forzare le piante e il sistema di coltivazione.

Oggi la famiglia Biasotto, formata da Carlo e Adriana con i figli AndreaCristiana ed Umberto, continua la tradizione di rispetto del territorio che è nel DNA dell’azienda, nata nel 1986. È un modello agricolo dove il segreto è il saper fare, la competenza artigianale, la precisione e la cura con cui vengono gestiti processi selettivi e produttivi complessi, spesso lunghi perché basati sul lavoro manuale, e per questo dispendiosi: ogni compromesso rovinerebbe la qualità dell’esito.
Nell’utilizzo dei lieviti autoctoni e indigeni del prosecco, in particolare della zona del DOCG, la zona delle colline, sta il loro punto di forza. Una selezione accurata viene fatta dallo stato esterno dell’uva, la «pruina», una cera che ricopre gli acini; ce ne è una moltitudine di tipi, e grazie alla collaborazione con l’Università di Piacenza si è giunti alla cernita dei lieviti idonei a portare a termine la fermentazione alcolica: sia per i vini base, risultato della trasformazione primaria da mosto a vino, sia per la fermentazione in autoclave. Grazie a questi lieviti viene garantita l’unicità, la tipicità e la varietà dell’uva, e si è in grado di mantenere l’aroma originario che invece con utilizzo di lieviti commerciali si perderebbe, dando prevalenza agli aromi fermentativi anziché varietali.

In piccole fiale da chimico si mantengono i lieviti madre; ogni tre/quattro mesi va rinnovata la parte marrone di mosto aga e va presa una piccola porzione di lievito (la parte bianca), poi reinoculata in una nuova fiala; ad una temperatura di 35/37 gradi si attende la crescita per una settimana fino a quando la colonia di lievito è in buona salute, per poi porre la fiala in frigorifero per la conservazione, costantemente monitorata.
La meticolosità del processo è necessaria per controllare che non ci sia alcuna interferenza di batteri, dato che nel prosecco è importante mantenere freschezza e vivacità. Fiore all’occhiello di Foss Marai, in questo passaggio, sono gli strumenti tecnologici innovativi utilizzati: dalle macchine con laser infrarossi agli strumenti “enzimatici” per l’esame di alcol e zuccheri.

Se altri produttori utilizzano lieviti commerciali, selezionati perlopiù da multinazionali, spesso olandesi, Foss Marai sceglie e lavora in casa i propri lieviti da 20 anni, con una produzione di 20.000 bottiglie al giorno, per un totale di 2 milioni all’anno circa. Il risultato è un timbro particolare e unico, e in annate non particolarmente favorevoli si riesce, proprio grazie ai 30 lieviti autoctoni, a dare lo stesso risultato di annate più felici, con gli stessi aromi e profumi, riducendo al minimo gli scarti tra una vendemmia e l’altra.

Molte sono le riflessioni che sorgono conoscendo la storia di questa famiglia, che ha messo l’amore per il proprio territorio prima di tutto, che ha fatto diventare «lavoro» la vita stessa. Jean Giono, scrittore francese nato da una famiglia di origine piemontese, riassumerebbe il pensiero in una frase, presa dal suo saggio «Lettera ai contadini sulla povertà e sulla pace», scritto nel 1938:

«Non si può sapere qual è il vero lavoro del contadino: se è arare, seminare, falciare oppure se è nello stesso tempo mangiare e bere alimenti freschi, fare figli e respirare liberamente, poiché tutte queste cose sono intimamente unite, e quando egli fa una cosa completa l’altra. È tutto lavoro, e niente è lavoro nel senso sociale del termine. È la sua vita.»

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Best of Pitti Uomo 96

La nostra selezione tra il meglio degli eventi della kermesse fiorentina.

MSGM

MSGM celebra i suoi 10 anni di show in occasione di Pitti Uomo 96 nell’affascinante location di Firenze, il Forum Nelson Mandela, in un’atmosfera onirica e surreale alla Refn, i cui colori ricordano moltissimo il suo ultimo capolavoro “The Neon Demon”, per l’appunto incentrato sul tema della moda.

Al centro dell’immenso palazzetto dello sport, una piscina virtuale dal blu intenso attorno a cui sfilano modelli dal mood estivo, capelli bagnati come le camicie nell’uscita finale, come appena usciti da un tuffo rinfrescante in cui le idee emergono positive. Positivo il messaggio sulle stampe, immagini e scritte dell’artista Norbert Bisky (collaborazione che sottolinea il legame del design con l’arte) che trasforma una giacca in un foglio bianco su cui lancia frasi/inno al cambiamento, all’amore, alla verità. Speciale presenza per la prima volta in passerella, Leonardo Tano, testimonial della linea di intimo di MSGM, figlio dell’internazionale Rocco Siffredi che non necessita di presentazioni.

Marco De Vincenzo

Una serra invernale in cui le piantine vengono personalmente curate dai modelli che sfilano e che le reggono tra le mani, guanti da giardinaggio inclusi, impreziositi da tessuti e applicazioni.

La location esclusiva è il Tepidarium Del Roster, una serra in ferro battuto fine Ottocento, carica della magia di quella in cui “Bernard & Doris”, interpretati da Ralph Fiennes e Susan Sarandon, coltivavano con amore orchidee e un futuro di amicizia e lealtà.

La collezione primavera-estate 2020 di Marco De Vincenzo riconferma il suo legame ai tessuti, un mix di grande equilibrio in cui utilizza lurex, denim, voile, gessati, quadri, fresco lana, macramè, lame’, pelle, vinile, un uomo dalla vita altissima come i risvolti, che predilige i colori neutri della terra; e una donna (pre-collezione femminile) che alterna il comfort del taglio maschile per il giorno, i maxi volumi delle giacche e dei pantaloni con le pinces, agli abiti da cocktail in lurex dai scintillanti bagliori argentati, pronte per un Bellini e un giro in pista da ballo alla rainbow Room di New York

CR Runway x LuisaViaRoma 90th Anniversary

La performance live di Lenny Kravitz chiude la grande sfilata di LuisaViaRoma che festeggia il 90mo anniversario con uno show curato da Carine Roitfeld, icona, visionaria e fondatrice del Fashion Book.
Il panorama più bello di Firenze, Piazzale Michelangelo, si è trasformato in una passerella per 5000 persone che hanno assistito alla fotografia degli abiti più belli venduti nella boutique fiorentina. Un cast eccezionale tra cui compaiono Bella e Gigi Hadid, Irina Shayk, Mariacarla Boscono, Vittoria Ceretti, Natasha Poly, Halima Aden, Alek Wek, Alessandra Ambrosio, Paris Jackson, che hanno indossato le opere d’arte dei grandi couturier dalla collezioni Fall Winter 2019.

E.Marinella


Se pensavate che la t-shirt di latte fosse futurismo, arriva a stupirvi la cravatta di agrumi firmata E.Marinella, oggetto must have della nuova collaborazione del brand con Orange Fiber. Non solo sete quindi, ma uno sguardo al presente e all’ambiente con il primo brevetto che prevede l’uso di tessuto sostenibile da agrumi al mondo; una texture soffice, impalpabile e che rende le cravatte E.Marinella l’oggetto del futuro. 
Oltre 105 anni di storia festeggiati durante l’evento internazionale più importante in merito alla moda maschile, Pitti Immagine Uomo, presso la Limonaia Giardino Corsini, un successo che sottolinea l’evoluzione del marchio che da sempre si è contraddistintio per stile e qualità delle materie prime. 
Altra importante partnership è quella con il brand eclettico “M1992”, che ha dato vita ad una Capsule Collection in cui la classica cravatta viene reinterpretata con uno stile sperimentale e sempre “green”.
Ricordiamo che lo stile Marinella, orgoglio della sartorialità napoletana che non ha rivali, ha raggiunto gli uomini più influenti del mondo, dai Kennedy a Bill Clinton, da Chirac a Sarkozy, alle teste coronate come Carlo di Borbone, Alberto di Monaco e Carlo, Principe di Galles, ma anche registi, attori e uomini di spettacolo.

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AL CINEMA CON D-ART

Manintown collabora con D-Art per una speciale rubrica dedicata al cinema. Scopri tutte le notizie di arte, moda e attualità su d-art.it

“SUSPIRIA” di LUCA GUADAGNINO 

Una Berlino in pieno autunno tedesco con la città scossa dalle azioni terroristiche della banda Baader-Meinhof. Siamo nel 1977 e Susie Bannon (Dakota Johnson) sogna di diventare una grande ballerina: entra  a far parte della scuola di danza di Madame Blanc (Tilda Swinton), un covo misterioso fitto di antiche e oscure presenze; ma se in Dario Argento si riempiva di citazioni (come le immagini ispirate a Escher sulle pareti), in Luca Guadagnino si fanno estetizzanti, minimaliste come gli abiti indossati da Tilda Swinton, lontana dalla matrigna super accessoriata che fu Joan Bennett.
L’espressione artistica delle insegnanti (che si riveleranno essere delle streghe) cela la loro crudeltà, sono le “madri non buone” della teoria di Donald Winnicott, psicanalista britannico, quelle che portano alla creazione del “falso sé“, ex bambine vittime ma mai del tutto vittime. Sono madri generatrici di vita e di morte, ci accolgono in un nuovo mondo ma ci umiliano, ci regalano il potere dell’arte ma ci nascondono il nostro triste destino, ci amano e ci odiano e parafrasando da una scena: “hanno bisogno della colpa e della vergogna“.
Più che un horror “Suspiria” di Luca Guadagnino sembra un dramma psicologico, con un cast tutto al femminile, soffocante, materno senza vere madri, che rivelerà la natura dell’essere femminino, ma anche in questo caso Lars Von Trier rimane imbattuto con Antichrist.

ROMA di ALFONSO CUARON

“Roma” è il racconto intimista del regista messicano, una casa borghese del 1971 composta da padre medico assente, madre severa e melodrammatica, quattro figli dai cinque ai quattordici anni, una nonna presente, una tata di origine mixteca, Cleo (Yalitza Aparicio) e una domestica. Cleo, la tata, è l’esatto opposto dell’egocentrico, dell’individualista, dell’esclusivista; è invece umile, buona, rispettosa verso i padroni di casa, e sinceramente affezionata ai bambini che cura come fossero suoi fratelli minori.
Una pellicola dallo sguardo femminile dove le donne sono protagoniste perché forti, capaci di superare un tradimento (quello della madre ad esempio – il padre abbandona la famiglia senza spiegazioni per una ragazza più giovane), piene di vita, anche se alcune di queste ci lasciano per volere di Dio (Cleo partorisce una figlia morta), coraggiose nei momenti che temono di più (Cleo salva i due bambini che rischiavano di affogare travolti da una corrente). Uno specchio dall’immagine chiara e nitida di quella che era la società nei ’70 messicani, la distinzione di classi sociali così perfettamente rappresentata attraverso immagini. La raffigura la scena dell’incendio nel bosco, durante la notte di Capodanno, quando i domestici si precipitano prontamente armati di secchi d’acqua per spegnere il fuoco, mentre i padroni di casa, perfettamente habillè, sono accanto a loro, calice alla mano, pettinatura artificialmente composta, nei loro cappotti di cashmire, scambiandosi poche parole senza il minimo accenno di ansia o paura.
Quale regista è capace di tanta grazia? Truffaut, ma è più cavilloso, Fellini, che è più elegante, Visconti, che è più perfezionista. Alfonso Cuarón è nato per un nuovo genere. E’ lui a vincere il Leone d’Oro di questa 75ma Mostra di Venezia.


DOUBLES VIE di Olivier Assayas

“Doubles vies” è un film sulla conversazione, dialoghi fittissimi e ritmi serrati, quasi la sceneggiatura fosse destinata al teatro.
Quello che racconta il regista è nient’altro che quello che conosce: l’ambiente parigino, fatto di dialoghi ping-pong, calici di vino alla mano, sigarette alla bocca, salotti borghesi, cafè caotici e pasti consumati nella zona living, personaggi dall’aria noncurante tipicamente francese, il cardigan stropicciato e il capello arruffato, un dito succhiato tra un Bordeaux e una omelette, la Parigi borghese e cinica.
Lo spazio è ristretto, gli amici fanno tutti parte dell’editoria francese, ma spicca Alain (Guillame Canet), editore di successo che deve scontrarsi con l’evoluzione digitale. Questo è il tema su cui si concentrano gli infiniti dialoghi, briosi, accesi, che innescano alcuna risposta ma infinite domande.

THE FAVOURITE di YORGOS LANTHIMOS

Siamo nel 1700 nella corte di Inghilterra, Anna Stuart è la regnante dal carattere debole, incerto, capriccioso, infantile, ed è quindi facile preda delle più astute dame di corte intorno a lei, a partire da Lady Marlborough, ovvero Sarah Churchill, moglie del generale e politico John Churchill. Sarah, interpretata da Rachel Weisz, nelle notti in cui il marito è al fronte a combattere la guerra, si consola nel letto della regina, fino a quando subentra la figura dolce e premurosa di Abigail Masham, una cugina di Sarah caduta in disgrazia a causa della dipendenza al gioco del padre.
“The favourite” è un film sul potere, sulla dignità, sulla moralità. Fino a che punto siamo disposti a cedere il nostro corpo, il nostro nome, il nostro rispetto? Quando Abigail comprende che l’unico modo per uscire dalla condizione di sguattera sarà “vendersi” alla regina, dirà:

Quando sarò per le strade a vendere il culo ai malati di sifilide, di questa moralità non me ne farò niente e la mia coscienza riderà di me”

Lanthimos colora ogni personaggio con irriverenza, crudeltà, ridicolaggine; eccelsa la fotografia di Robbie Ryan che ci accompagna nel castello a lume di candela, con ritratti dal nero rembrandtiano e intensi  rallenty sulle nature morte e sui banchetti, uno stile che accentua i disgustosi i modi e le eccentricità di corte, perditempo nella corsa delle aragoste e delle oche. La scena finale è la voce della coscienza, e ci ricorda quanto sia caro il prezzo da pagare quando, per raggiungere il proprio scopo, si utilizzano ogni genere di bassezze.


CHARLIE SAYS” di MARY HARRON

Orge ogni sera, natura selvaggia, nessuna regola, droghe a profusione, sesso libero, nudismo, condivisione, le attività della “Family”, un gruppo di cinquanta ragazzi che avevano come loro unico dio Charles Manson, il macabro assassino che ha sconvolto la Hollywood degli anni ’70 con l’uccisione di Sharon Tate (allora moglie del regista Roman Polansky incinta di 8 mesi e mezzo) e quattro dei suoi amici durante una festa privata.
La storia è raccontata dal punto di vista delle tre ragazze che hanno preso parte agli eccidi di  Cielo Drive e della coppia Leno e Rosemary LaBianca: Leslie (Hannah Murray), Patricia (Sosie Bacon) e Susan (Marianne Rendón). Dal carcere e attraverso dei flashback che iniziano con “Charlie Says” – “Charlie dice“, raccontano il vivere della “Family” allo Spahn ranch di Manson, una comune che si ciba di avanzi trovati nei cassonetti della spazzatura, a cui non sono permessi giornali né orologi, dove le donne non possono avere soldi e sono destinate ai lavori più umili e devono essere pronte ai bisogni primitivi dell’uomo  senza mai controbattere la “verità” del leader, che si sente la reincarnazione di Satana e Gesu’ Cristo insieme.
Manson siede in mezzo alle sue discepole come ad un’Ultima cena, le tre ragazze sono dei docili micini quando ricordano i fatti, ma la realtà dice questo: Sharon Tate (26 anni incinta di 8 mesi e mezzo) implora ancora qualche giorno di vita, prima di morire.
Senti, tu stai per morire, e io per te non provo nessuna pietà… Ero strafatta di acido” .
Sono queste le parole agghiaccianti di Susan Atkins, che pugnala l’attrice 16 volte, poi prende uno straccio, lo intinge di sangue e scrive sulla porta la parola «pig», maiale.

THE MOUNTAIN  di RICK ALVERSON

Siamo negli anni ’50, Andy ha perso il padre, e la madre è ricoverata in un istituto psichiatrico chissà dove. A fargli da tutore il dott. Wally Fiennes, palesemente ispirato alla figura di Walter Jackson Freeman II, primo medico statunitense ad aver introdotto il metodo della lobotomia.
Andy è un ragazzo timido, apatico, silenzioso, problematico,  non esprime il minimo interesse nei confronti della vita né delle sue attività; viaggia con il dottore, da un manicomio all’altro, Polaroid alla mano, ritraendo i pazienti sottoposti allo strazio della lobotomia transorbitale, tecnica che, combinata all’elettroshock, avrebbe dovuto guarire dalle malattie mentali. Andy (Tye Sheridan) è vittima di un labirinto malato, dove la pazzia è la normalità e la sua routine. In un copione praticamente assente, volge al cambiamento quando prende coscienza della rudimentalità dei mezzi e della totale mancanza di partecipazione emotiva del dottore durante le infinite operazioni.
Pellicola pretenziosa anche se perfettamente impacchettata nella sua fotografia nostalgica alla Erwin Olaf, vellutata nei verdi, morbida come panna montata ma estremamente fredda, un corpo pallido sotto le luci di un obitorio. Un 4:3 di estrema bellezza, una bellissima donna senza contenuto.

THE SISTERS BROTHERS  di JACQUES AUDIARD

Quella del western è solo una scusa, il regista francese Jacques Audiard prende in prestito il genere per raccontare qualcosa di diverso da colpi di pistola, whisky ingollati, corse a cavallo, eroi machi e sporchi di terra.  I  “fratelli sorelle“ hanno un legame che contempla il gesto femminile di prendersi cura l’uno dell’altro (i due si tagliano vicendevolmente i capelli) e il più forbito tra i due (surreale tanta grazia per un cowboy) è Edi, cui tocca far da balia al più rude Charlie, sempre preso da alcol e testosterone.
Parodico, carico di humor e avventure selvagge, il western di Audiard ci spiazza; a volte freddi e privi di rimorsi, i personaggi si rabbuiano davanti alle loro azioni, o si rattristano per la morte del loro cavallo.
I fratelli Sisters sono la prepotenza e l’avidità. Audiard ce li presenta attraverso le proprie debolezze e i propri feticci: Eli è il romantico che chiede ad una prostituta di recitare una frase, anziché concedersi senza domande. E’ colui che piega ogni notte, prima di addormentarsi, una coperta rossa regalatogli da un’amante passata, la annusa e fantastica, per poi masturbarsi stringendola a sé. Charlie invece è istintivo e vive dell’oggi, beve con piacere e si lascia andare al vizio.
Svuotato della crudeltà del western, “The Sisters Brothers” parla di umanità e di sogni, di un’America che corre verso la ricchezza e che finisce in mano agli avidi e non agli uomini di intelletto, ma lo fa giocando ogni tanto con la pistola e con le corse al galoppo.

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IL BEST OF DAL SALONE DEL MOBILE 2018

Allestimenti teatrali, prosceni domestici, la fotografia della “casa che tutti vorremmo”, i set d’arredo di questo Salone del Mobile 2018 hanno lasciato il segno.
Non a caso il risultato è più che positivo, arrivato alla sua 57a edizione, conta 434.509 presenze provenienti da 188 paesi, con un incremento del 17% rispetto all’edizione 2016.
Il Salone del Mobile si riconferma quindi leader di attrattiva commerciale e di rappresentanza dei valori e delle esigenze del mercato.

Qui abbiamo voluto raccogliere una parte delle aziende che hanno esposto al Salone del Mobile 2018, ecco il nostro BEST OF:

BADGLEY MISCHKA HOME
Madonna, Jennifer Lopez, Rihanna, Sharon Stone, Julia Roberts, Kate Winslet, Taylor Swift e Sara Jessica Parker hanno indossato i loro abiti nelle serate di gala e durante occasioni mondane, oggi il brand di moda Badgley Mischka veste le stanze di casa.

Dopo il grande successo che li ha visti nominati tra i 10 migliori designer americani da Vogue America, la coppia artistica Mark Badgley e James Mischka, si cimenta nelle loro passione dell’interior design, con una collezione presentata per la prima volta nel febbraio 2017 durante la New York Fashion Week ed ora all’evento di design che raccoglie addetti al settore di tutto il mondo: Il Salone del Mobile di Milano.

L’ispirazione è quella della Hollywood anni ’40, con 200 pezzi fatti a mano e destinati all’arredo di sale da pranzo, soggiorno e camere da letto, con oggetti decorativi quali sculture, candele, cornici di metallo lavorato, dalle forme essenziali e pulite.
Per la collezione Bagdley Mischka Home, i tessuti utilizzati vengono prodotti in America, per gli accessori invece è nata una partnership con PTM Images di Los Angeles, produttore leader di carte da parati e mobili, un matrimonio nato per consentire un livello qualitativo molto alto e soddisfare così i clienti più esigenti.

CITCO
Per il Salone del Mobile CITCO Privè ci porta in viaggio verso Cina, Cambogia, Indonesia, dove troviamo animali selvaggi e maestosi dragoni, intagliati rigorosamente su pregiati pezzi di marmo.

I colori sono vivi come quelli delle foreste, verdi accesi come le foglie e arancio brillanti come l’uccello del paradiso.
Nella serie “Saigon” CITCO omaggia le tradizioni dell’antica Cina, dove il dragone è simbolo di potere, di forza e buona fortuna. Dietro l’intaglio del drago, sono state apposte strisce di colore verde bianco e nero, linee accurate che lasciano spazi vuoti per far meglio risaltare la figura dell’animale.

All’India è dedicato il prestigioso pezzo del rinoceronte, animale spesso associato al mitologico unicorno per via del corno che sorge tra i suoi occhi. Questa gloriosa testa di rinoceronte è un incredibile esempio delle più avanzate tecniche di progettazione digitale. Progettato con un so ware parametrico e realizzato esclusivamente con macchinari a controllo numerico, questo pezzo vanta un design molto dettagliato.

SMANIA
Smania riconferma la sua presenza al Salone del Mobile con uno spazio dedicato al lusso senza tempo e presenta un ampio ventaglio di nuove proposte raffinate ed eleganti che interpretano al meglio la cultura artigianale aziendale. Per quest’anno l’architetto Massimo Iosa Ghini si fa portavoce SMANIA con una collezione completa e ricercata, espressione di passione e dedizione, l’unione tra tradizione e contemporaneità.

Nel caleidoscopico catalogo di Smania troviamo:

BELMOND, un divano modulare componibile in pelle e tessuto, con cuscini di grande formato riposizionabili;

EMBASSY, un’originale seduta dinamica ed accogliente, dalle superfici e dalla scocca interamente imbottite e dai braccioli con forma arcuata;

GRAND SOHO, un letto matrimoniale impreziosito dalla testiera imbottita in pelle, che coniuga il comfort quotidiano ad un aspetto morbido e avvolgente;

DALTON, un pouf imbottito dalle linee essenziali e dalle forme arrotondate, pensato come accessorio da abbinare al letto Grand Soho.

A completamento, la volontà di dare spazio a un’estetica accogliente e ricercata, con la collezione SMANIA outdoor firmata  Alessandro La Spada,  forme organiche, linee morbide e curve sinuose, ispirate ai profumi e alle sensazioni di meravigliosi giardini in fiore.

ALTAMODA ITALIA IN TOSCANA
Sono le meraviglie delle terre toscane, luogo di nascita del brand, che fanno capolino nella collezione ALTAMODA in questo Salone del Mobile 2018. Dalla camera da letto alla zona living, tutto il profumo dei fiori e degli aromi di una terra magica, i colori che ci regala, la sinuosità delle sue colline.
Arredare la casa a 360 gradi si può con ALTAMODA, che produce tendaggi con preziosi tessuti made in Italy, complementi d’arredo, lampadari, ma anche essenze e fragranze.

Allo stand E29 fino al 22 aprile, ALTAMODA sfoggia un kimono, simbolo di stile eleganza e grazia, come pezzo iconico della nuova collezione 2018.

VG CONCEPT & DESIGN BY LEA CHEN
Uno spazio le cui creazioni sono collocate come nelle tradizionali case cinesi, patria dell’architetto e interior designer Lea Chen.

Auspicio Dresser è una reinterpretazione di una cassettiera larga e bassa, tradizionalmente collocata al centro delle zone living posta di fronte al bang riscaldato, un tradizionale letto matrimoniale fatto di mattoni. Cassettiere che contenevano oggetti di uso quotidiano e talvolta includevano scomparti segreti per riporre oggetti di valore, lo abbiamo visto fare anche dalla nonna, che nascondeva soldi e gioielli all’interno di qualche mobile antico. Può essere utilizzato come mobile contenitore all’interno di un grande armadio o essere collocato in camera da letto; grazie alla sua dimensione può anche fungere da credenza in sale da pranzo o zone giorno.

Esiste un armadio che pare abbia mille occhi, compare spesso nelle scene dei film provenienti dal Sol Levante, sono ex mobili da farmacia, contenitori per centinaia di scatolette e prende il nome di Yaochu. Tutti i cassetti sono estraibili per porvi dentro in tutta comodità erbe ed ingredienti della medicina cinese. Oggi reinterpretato Royal Medicinal Cabine, ha uno stile raffinato e contemporaneo, i cassetti sono incorniciati da un top ed un supporto arrotondato in finitura oro lucido 24k, mentre i dettagli dei cassetti includono una finitura bicolore che separa l’esterno e l’interno, con pomelli in finitura oro lucido 24k che conferiscono eleganza all’intera struttura.

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