Lo straniamento cyborg di yeule, Principessa Glitch

I like sweet things
Physical and consumable
I like short sentences that say everything I felt at one go
I like obsessing over people
And then throwing them away
I like being a boy
I like being a girl

Con questa confessione (My Name Is Nat Ćmiel), un intro che suona quasi come un manifesto, si apre Glitch Princess, secondo album in studio di yeule. In questo brano l’artista si descrive parlando di tutte le cose che apprezza: un autoritratto in cui yeule si disegna utilizzando neppure un solo aggettivo per riferirsi a sé, ma lasciando comunque all’ascoltatore un’idea ben definita della propria persona.  


Ph. by Daniel Obradovic

Ćmiel, artista di Singapore in attività dal 2014, si identifica come un’entità cyborg non-binaria. Donna Haraway identificava nel suo celebre Manifesto Cyborg tali entità come «confini trasgrediti, potenti fusioni e pericolose possibilità». Non sembra quindi una coincidenza che nel brano sopracitato la spinta descrittiva dell’ego parta dall’osservazione dell’esterno e viva in uno spazio liminale fra il corpo e ciò che lo circonda.
Nella sua vita nomadica, yeule ha gravitato sempre attorno a cose non ferme che poteva portare sempre con sé, come videogame, anime e community online. Le sue ispirazioni musicali sono fra le più variegate, passando da Ravel e Debussy attraverso i Velvet Underground e Björk, fino ai compositori di videogame e A$AP Rocky.

yeule raggiunge una prima notorietà con il dream pop del suo primo album, Serotonin II (2019), album dai chiari segni glitch, in cui però le armonie ancora la facevano da padrone. Il debutto attira le attenzioni di HANA (frequente collaboratrice di Grimes che remixa il singolo Poison Arrow) e di Danny L Harle, artista del gruppo PC Music (l’avantgarde del pop contemporaneo) che diventa il principale co-produttore di Glitch Princess, contribuendo a portare il sound di yeule verso direzioni che già iniziavano a intravedersi.


Ph. by Daniel Obradovic

Un primo assaggio di del secondo album è stato The Things They Did for Me Out of Love (ora posto come coda del progetto), una fantasia ambient di 4 ore e 44 minuti in collaborazione con Harle, il quale definisce la traccia una «cattedrale della mente». Il brano ambient vuole rappresentare una sorta di morte dell’ego dell’artista, in cui poesie, suoni e immagini della mente si dissolvono in un silenzio di pace, in un sonno senza sogni.
Glitch Princess, uscito il 4 febbraio, è un’esplosione di umanità e suoni robotici, fusi insieme senza soluzione di continuità. I testi riflettono una ricerca artistica improntata all’indagine di stati mentali vulnerabili, frammentari, per non dire difettosi (appunto, glitchati). Anche la macchina è imperfetta, come la persona.
In Electric, i vocalizzi di yeule durante il ritornello vanno sempre più in alto e diventano pian piano sempre più robotici, fino a non riuscire più a distinguere se si tratti di una voce modificata o di veri e propri suoni emessi da un software. Gli acuti di Mariah Carey non sono mai stati così vicini e così lontani allo stesso tempo.


Ph. by Daniel Obradovic

Nel suo saggio L’Arte della Tecnica, il formalista russo Viktor Šklovskij parlava di un particolare elemento presente nella letteratura di Tolstoj, lo straniamento, attraverso il quale, tramite una descrizione che dissezionava cose, persone e sensazioni, il mondo normalmente vissuto in maniera automatica e abitudinaria veniva mostrato sotto una luce completamente nuova. È un’operazione che spesso si ritrova in Glitch Princess: testi molto comuni a volte sono stravolti da una base discordante; i vocals sono dissezionati, massimizzati, estesi; talvolta invece un sound molto pop e rassicurante è straniato tramite la giustapposizione di testi conturbanti e inquietanti. yeule descrive il singolo Too Dead Inside proprio in questi termini: vedere quale effetto potesse avere una scrittura più dark sovrapposta a qualcosa di familiare, brillante e allegro come un jungle beat; l’intento è quello di riflettere il senso di vuoto, di morte interiore e distacco dalla realtà che a volte l’artista sente osservando ciò che succede attorno a sé, bello o brutto che sia.

Glitch Princess è un album che abita uno spazio di confine fra bellezza e morbosità, che ben riflette il nome d’arte scelto da Ćmiel: Nsu-Yeul è infatti un personaggio del videogame Final Fantasy XII-2, perennemente intrappolato in un corso e ricorso di morte e resurrezione. Questa è soltanto la seconda reincarnazione di yeule, la conferma di ciò che pochi anni fa era una promessa. Al prossimo update, cyborg.


Ph. by Daniel Obradovic

In apertura e in tutto il servizio, ph. by Daniel Obradovic

L’inaspettato ritorno di Mitski: la bolla anni ’80 di ‘Laurel Hell’

Nel Cortegiano di Castiglione, un concetto fondamentale dell’estetica del cortigiano era la cosiddetta “sprezzatura”: un atteggiamento per cui lo studio dietro all’atto creativo e all’arte veniva celato, facendolo sembrare qualcosa di spontaneo e completamente naturale. La bellezza che ci viene offerta dall’arte è sempre frutto di uno studio, ma giunge ai nostri occhi e alle nostre emozioni come se fosse la cosa più spontanea.
Mitski, cantautrice giappo-americana, aralda del sad-girl vibe, è una campionessa di sprezzatura: le sue sono canzoni che sembrano semplici, ma in realtà non lo sono. Dietro a un’estrema musicalità sono mascherate strutture complesse; i testi sembrano emozioni direttamente trasposte, dietro alle quali vi è una scelta lessicale e retorica estremamente curata.



Dopo i trionfi critici di Puberty 2 (2016) e Be the Cowboy (2018), nei quali la cantautrice aveva sperimentato una grande varietà di stili musicali, Mitski aveva annunciato durante un concerto alla fine del 2019 che quella sarebbe stata l’ultima esibizione pubblica della sua carriera. Era anzi pronta ad abbandonare del tutto la musica. Questa fatica non è nuova alle anti-dive dell’art-rock e la accomuna ad artiste come Kate Bush e Róisín Murphy, entrambe note per lunghi, lunghissimi silenzi dalla musica in studio e dalle scene.

Tuttavia Mitski ha deciso di tornare non solo a fare musica, ma anche a performare, con un tour già in gran parte sold-out in partenza a febbraio. Working for the Knife, singolo apripista per Laurel Hell, album in uscita il 4 febbraio, può sicuramente essere letto in tal senso: la routine dell’industria musicale la fa sentire come se stesse lavorando per un “coltello”. La metafora si espande, con Mitski che confessa di pensare che a vent’anni ne avrebbe già avuto abbastanza; a ventinove sembra tutto la stessa cosa, ma forse a trent’anni qualcosa cambierà nel suo vivere per il coltello. Questa routine è ciò che le dà vita, ma è anche ciò che alla fine della giornata le mostra la verità, cioè che sta morendo per il coltello.


Artwork per Working for the Knife, ph. by Ebru Yildiz

Mitski è una presenza tanto elusiva quanto concreta ed esplicita, quasi “confessionale”, nonostante sia una definizione che lei stessa rifiuta. Per sua esplicita ammissione, non vuole fare musica per far piangere, ma arte. Allo stesso tempo rifugge la fama e la mitizzazione (inevitabile) della sua figura. Sui social network e nelle message board musicali sono frequenti infatti meme che la idolatrano e allo stesso tempo leggono la sua figura e la sua musica spesso in chiave ironica. Uno degli ultimi che mi è capitato di trovare ritraeva una felice Britney Spears insieme ai figli, con una caption che recita “R.I.P. Sappho, you would have loved Mitski”.



I pezzi di Mitski racchiudono tutta la brutalità e la bellezza del quotidiano. I suoi testi trasmettono tutta la poesia della trivialità, ma anche il sublime: caffè in cui trovarsi e parlare di nulla (Old Friend); Venere, pianeta dell’amore, distrutto anch’esso dal surriscaldamento globale forse per le troppe pretese dei suoi abitanti (Nobody). A volte la sua scrittura è invece così diretta da sembrare una trasposizione non filtrata di emozioni. Di cuori spezzati in canzoni pop se ne è sentito parlare fino allo sfinimento – non basterebbe un’enciclopedia del kitsch per farne una lista, ma in qualche modo The Only Heartbreaker (una delle top songs di Barack Obama del 2021) ha la freschezza che solo l’onestà più brutale può avere: «If you would just make one mistake / What a relief that would be / But I think for as long as we’re together / I’ll be the only heartbreaker».

Laurel Hell si apre col brano Valentine, Texas in maniera cauta, timida, quasi sussurrata: Mitski chiosa accompagnata solo dal piano «Let’s step out carefully into the dark», per poi giungere nella seconda strofa a un’improvvisa esplosione di synths anni ’80, più un organo, una celebrazione del dolore e dell’esplorazione dello stesso: «Let’s drive out to where dust devils are made».


Artwork per Heat Lightning

Tutto l’album è un trionfo influenzato dalla dance anni ’80: la scelta, per ammissione dell’artista durante una recente intervista con Zane Lowe su Apple Music, è influenzata dalla pandemia e dalla volontà di inserire il progetto in una sorta di bolla come quella degli anni ’80, in cui tutti volevano sentirsi felici. Nonostante i testi spesso dark, Laurel Hell vuole sollevare gli animi degli ascoltatori, mostrando luci e ombre della maestria compositiva dell’artista e della vita in generale. Non abbiamo dubbi che ci riuscirà.

La macchina umana e la fede mutante di Arca

Corpo, mente e spirito: non è facile tracciare temi comuni nella produzione artistica e nel modus pensandi di Arca, DJ, cantante, icona fashion, produttrice venezuelana. Forse, più che di temi comuni si può parlare di linee guida.

Il ruolo del corpo è indubbiamente centrale. Corpo è tutto ciò che abbiamo alla nostra nascita; tuttavia, non è solo carne e sangue, ma anche corpo nelle sue estensioni. Nell’uomo vitruviano vinciano, il perimetro materiale del corpo umano coincideva nelle figure del cerchio (il divino) e nel quadrato (il terreno). Per Arca divino e terreno coesistono, ma la geometria è estesa, complicata. Le figure archiane rimandano esplicitamente all’uomo vitruviano: nel video di Prada/Rakata (le cui immagini vengono poi riprese anche come copertine dei suoi ultimi album) vediamo Arca in set quasi da laboratorio, con arti e teste sdoppiate, in pose che tracciano sì quadrati e cerchi, ma anche forme progressivamente sempre più complicate. Qui entra in gioco la mente, in grado di farsi portatrice di un incremento continuo del corpo: alterazioni, estensioni, duplicazioni, eliminazioni. Manifestazioni del corpo che sono tanto reali sia se su carne e sangue sia se in un video musicale, una copertina o una performance d’arte.



Arca tende a una (ri)soluzione in una serie di corsi e ricorsi vichiani, in cui persona e macchina diventano uno, si dividono, si ricombinano. Non a caso nel corso del suo ultimo progetto si presentano più volte i concetti di “prima morte” e “ultima nascita”, in un ciclo continuo di rinascita e reinvenzione. Arca è in questo senso il proprio deus ex machina: ed è qui che entra in gioco lo spirito. Se nella tragedia greca il dio portava risoluzione, qui la fede è terrena ed è una fede nel cambiamento costante, quella che Arca stessa definisce più volte una “fede mutante”. Mutant era il titolo del suo album del 2015, mentre la fede mutante appare esplicitamente per la prima volta come concetto nel suo output creativo con la residency di performance art Mutant;Faith, a New York per quattro notti nell’ottobre del 2019.

Questo credo sia uno dei fili rossi all’interno dell’ultimo ambizioso e massimalista progetto di Arca: una pentalogia di album dal titolo Kick, dal calcio prenatale, concepito come primo segno tangibile della vita di un essere umano. KiCk i ha aperto il ciclo di calci a metà del 2020, seguito poi a ruota alla fine del 2021 dalle sue iterazioni ii, iii, iiii e iiiii, rilasciate una per giorno nel corso di una settimana fra novembre e dicembre 2021. 59 canzoni in totale su cinque album, inizialmente concepiti come una trilogia, poi diventati una tetralogia, a cui è stato aggiunto un quinto pezzo a sorpresa. Solo questi dati possono dare un’idea di quanto in fieri sia la produzione dell’artista. Il processo è più importante del fine ultimo, ed è il viaggio stesso a dar senso all’esplorazione, alla sperimentazione.



More is always more per Arca. Descrivere il progetto sotto un profilo musicale non è semplice, proprio per via della sua costante mutevolezza, in cui si respira l’anelito a cercare punti fermi; questi traguardi sono tuttavia nient’altro che dei nuovi punti di partenza per un’ulteriore estensione e complicazione. Il primo calcio è l’elemento sotto un certo punto di vista più pop (non a caso, anche quello col maggior numero di artisti ospiti, come Björk, Rosalía, Sophie, Shygirl), ma anche quello che presenta la vastità e l’ecletticità degli stili presenti nei successivi quattro lavori. KICK ii parte con una serie di canzoni di stampo reggaeton, che nella seconda parte vengono dissezionate in una serie di tracce dalle atmosfere impalpabili in cui i ritmi e le melodie tendono a svanire. Il terzo volume trae invece la sua ispirazione dalla musica da club, in particolare la techno.



Le atmosfere dal primo al terzo volume tendono verso un’agitazione sempre maggiore, che va poi in qualche modo a risolversi negli ultimi due capitoli: in kick iiii Arca realizza una sorta di sintesi del suo meta-pop, in una collezione di canzoni ricca di melodie, piena di suggestioni poetiche e di manifesti di intenti. Queer è una canzone politica in cui Arca esalta la forza e il dolore della propria queerness, in lacrime che sono lacrime di fuoco, di un fuoco queer. Ospite del pezzo Planningtorock, celebre per un altro inno queer da dancefloor del 2013, Let’s Talk About Gender Baby. Shirley Manson dei Garbage (venuti al successo nel 1993 con un pezzo dal titolo Queer; un caso?) recita le parole di un altro manifesto, Alien Inside, celebrazione dell’alterità presente all’interno di ognuno, in quanto opportunità di costante rinnovamento. Il quinto e ultimo (?) calcio, rilasciato a sorpresa senza alcun annuncio, è una coda, una sorta di epilogo al progetto. Fra i cinque album è quello più nudo, in cui Arca ritrova strumenti ed elementi della musica classica che contraddistinguevano i suoi primi lavori come Xen. Al contrario dei lavori degli esordi, qui la musica è però meno claustrofobica, più ariosa, arricchita da elementi di ambient music, lasciando l’impressione di un finale aperto.



Rispetto agli esordi artistici del progetto Arca, il nuovo elemento sembra essere proprio quello di una maggiore apertura, che si respira in un afflato pop (nel senso più ampio del termine) a livello musicale, il cui riflesso è percepibile anche a livello estetico. Non è un caso che Arca da fenomeno di nicchia abbia esteso i propri tentacoli (metaforici e meccanici) nel mainstream, diventando recentemente anche una star della moda, con copertine per Vogue Mexico e campagne pubblicitarie per Bottega Veneta, e attirando l’attenzione di icone dell’arte contemporanea quali Marina Abramović e Hans Ulrich Obrist.

Con un output artistico sempre più profondo e variegato è difficile prevedere quale piega potrà prendere la carriera di Arca nel futuro. Una cosa si può però affermare con quasi totale certezza: difficilmente la vedremo fissa nello stesso punto per troppo tempo.

Sophie Xeon: nove mesi dopo

Nove mesi sono passati dalla scomparsa di Sophie a 34 anni. L’ineffabile DJ scozzese riuscì a plasmare il volto della musica pop e dance con un ampio ventaglio di collaborazioni che vanno dal mainstream di artisti pop come Madonna e Charli XCX ad artisti più fuori dagli schemi come la rapper Industrial Hip-Hop britannica Shygirl, la produttrice venezuelana Arca o l’avatar Hyperpop QT. Con il suo album in studio Oil of Every Pearl’s Un-Insides (un gioco di parole di “I love every person’s insides”) (2018), è diventata una delle prime donne trans ad essere nominata per un Grammy Award. Il suo sound era caratterizzato dallo scontro, o meglio dalla giustapposizione, degli opposti: melodie bubblegum pop incontravano l’abrasività sfacciata della techno, suoni industriali, il tutto con l’aggiunta di un pizzico di sensibilità house e sormontato dalle voci di software ibridi privi di un genere definito.



Si potrebbe probabilmente fare riferimento a un “approccio” Sophie alla musica piuttosto che a un genere, anche se in effetti la DJ diventò una delle precorritrici del cosiddetto genere “Hyperpop”. L’Hyperpop è accreditato come uno stile che ha aiutato a colmare il divario tra la sensibilità alternativa dei suoi araldi (come A.G. Cook, Charli XCX, 100 gecs, Dorian Electra, ecc.) con suoni e melodie che suonano come musica Pop sotto steroidi, il tutto privo di qualsiasi elitarismo snobistico. Infatti, solo negli ultimi 10 anni la critica musicale ha iniziato a parlare con un ritrovato “poptimismo”, per il cui insorgere possiamo ringraziare anche Sophie e il resto della compagnia Hyperpop.

Musica che prima sarebbe stata liquidata come confusionaria o addirittura inascoltabile è diventata il pane quotidiano delle popstar di serie A: non può essere un caso che Lady Gaga abbia appena pubblicato una rielaborazione del suo album Chromatica del 2020, con remix e guest spot gentilmente offerti da star dell’Hyperpop come Shygirl, Dorian Electra, LSDXOXO, A.G. Cook. Il pop mainstream ha raggiunto il suo cugino più edgy, ma allo stesso modo si può dire anche il contrario: la platea più indie e alternativa dell’Hyperpop più indie è stata anch’essa felice di invitare i ragazzi del Pop alla festa. 



Le imprese collaborative dei 100 gecs sono un esempio lampante di questo: dalle loro collaborazioni con artisti Pop vintage dei primi duemila come i Fall Out Boy e 3OH!3, ai loro remix bootleg di Taylor Swift e Katy Perry, nulla sembra al di là della presa dei loro tentacoli. Le influenze Pop sono perfettamente rifratte attraverso il loro prisma di strutture spezzate, strumentali imprevedibili e beat EDM. 

Parte dell’eredità che Sophie ha lasciato è proprio questo: la convinzione che i confini dei generi musicali non siano sacri e intoccabili; che il divertimento e la serietà possano essere ugualmente degni di rispetto; proprio come il genere sociale nella sua fissità e binarietà, i generi musicali sono un costrutto, una tela che può essere dipinta, ma anche fatta a pezzi e rimodellata in qualsiasi forma si voglia. Questo è visibile anche nelle ultime offerte di Sophie dei suoi ultimi anni: dalla contagiosa musica House del suo Sweat (Remix) alle sue sperimentazioni Industrial Hip-Hop nel banger SLIME di Shygirl, è possibile vedere la varietà di uno stile onnicomprensivo che non conosceva limiti preconcetti. L’importante era poter ballare.