La macchina umana e la fede mutante di Arca

Corpo, mente e spirito: non è facile tracciare temi comuni nella produzione artistica e nel modus pensandi di Arca, DJ, cantante, icona fashion, produttrice venezuelana. Forse, più che di temi comuni si può parlare di linee guida.

Il ruolo del corpo è indubbiamente centrale. Corpo è tutto ciò che abbiamo alla nostra nascita; tuttavia, non è solo carne e sangue, ma anche corpo nelle sue estensioni. Nell’uomo vitruviano vinciano, il perimetro materiale del corpo umano coincideva nelle figure del cerchio (il divino) e nel quadrato (il terreno). Per Arca divino e terreno coesistono, ma la geometria è estesa, complicata. Le figure archiane rimandano esplicitamente all’uomo vitruviano: nel video di Prada/Rakata (le cui immagini vengono poi riprese anche come copertine dei suoi ultimi album) vediamo Arca in set quasi da laboratorio, con arti e teste sdoppiate, in pose che tracciano sì quadrati e cerchi, ma anche forme progressivamente sempre più complicate. Qui entra in gioco la mente, in grado di farsi portatrice di un incremento continuo del corpo: alterazioni, estensioni, duplicazioni, eliminazioni. Manifestazioni del corpo che sono tanto reali sia se su carne e sangue sia se in un video musicale, una copertina o una performance d’arte.



Arca tende a una (ri)soluzione in una serie di corsi e ricorsi vichiani, in cui persona e macchina diventano uno, si dividono, si ricombinano. Non a caso nel corso del suo ultimo progetto si presentano più volte i concetti di “prima morte” e “ultima nascita”, in un ciclo continuo di rinascita e reinvenzione. Arca è in questo senso il proprio deus ex machina: ed è qui che entra in gioco lo spirito. Se nella tragedia greca il dio portava risoluzione, qui la fede è terrena ed è una fede nel cambiamento costante, quella che Arca stessa definisce più volte una “fede mutante”. Mutant era il titolo del suo album del 2015, mentre la fede mutante appare esplicitamente per la prima volta come concetto nel suo output creativo con la residency di performance art Mutant;Faith, a New York per quattro notti nell’ottobre del 2019.

Questo credo sia uno dei fili rossi all’interno dell’ultimo ambizioso e massimalista progetto di Arca: una pentalogia di album dal titolo Kick, dal calcio prenatale, concepito come primo segno tangibile della vita di un essere umano. KiCk i ha aperto il ciclo di calci a metà del 2020, seguito poi a ruota alla fine del 2021 dalle sue iterazioni ii, iii, iiii e iiiii, rilasciate una per giorno nel corso di una settimana fra novembre e dicembre 2021. 59 canzoni in totale su cinque album, inizialmente concepiti come una trilogia, poi diventati una tetralogia, a cui è stato aggiunto un quinto pezzo a sorpresa. Solo questi dati possono dare un’idea di quanto in fieri sia la produzione dell’artista. Il processo è più importante del fine ultimo, ed è il viaggio stesso a dar senso all’esplorazione, alla sperimentazione.



More is always more per Arca. Descrivere il progetto sotto un profilo musicale non è semplice, proprio per via della sua costante mutevolezza, in cui si respira l’anelito a cercare punti fermi; questi traguardi sono tuttavia nient’altro che dei nuovi punti di partenza per un’ulteriore estensione e complicazione. Il primo calcio è l’elemento sotto un certo punto di vista più pop (non a caso, anche quello col maggior numero di artisti ospiti, come Björk, Rosalía, Sophie, Shygirl), ma anche quello che presenta la vastità e l’ecletticità degli stili presenti nei successivi quattro lavori. KICK ii parte con una serie di canzoni di stampo reggaeton, che nella seconda parte vengono dissezionate in una serie di tracce dalle atmosfere impalpabili in cui i ritmi e le melodie tendono a svanire. Il terzo volume trae invece la sua ispirazione dalla musica da club, in particolare la techno.



Le atmosfere dal primo al terzo volume tendono verso un’agitazione sempre maggiore, che va poi in qualche modo a risolversi negli ultimi due capitoli: in kick iiii Arca realizza una sorta di sintesi del suo meta-pop, in una collezione di canzoni ricca di melodie, piena di suggestioni poetiche e di manifesti di intenti. Queer è una canzone politica in cui Arca esalta la forza e il dolore della propria queerness, in lacrime che sono lacrime di fuoco, di un fuoco queer. Ospite del pezzo Planningtorock, celebre per un altro inno queer da dancefloor del 2013, Let’s Talk About Gender Baby. Shirley Manson dei Garbage (venuti al successo nel 1993 con un pezzo dal titolo Queer; un caso?) recita le parole di un altro manifesto, Alien Inside, celebrazione dell’alterità presente all’interno di ognuno, in quanto opportunità di costante rinnovamento. Il quinto e ultimo (?) calcio, rilasciato a sorpresa senza alcun annuncio, è una coda, una sorta di epilogo al progetto. Fra i cinque album è quello più nudo, in cui Arca ritrova strumenti ed elementi della musica classica che contraddistinguevano i suoi primi lavori come Xen. Al contrario dei lavori degli esordi, qui la musica è però meno claustrofobica, più ariosa, arricchita da elementi di ambient music, lasciando l’impressione di un finale aperto.



Rispetto agli esordi artistici del progetto Arca, il nuovo elemento sembra essere proprio quello di una maggiore apertura, che si respira in un afflato pop (nel senso più ampio del termine) a livello musicale, il cui riflesso è percepibile anche a livello estetico. Non è un caso che Arca da fenomeno di nicchia abbia esteso i propri tentacoli (metaforici e meccanici) nel mainstream, diventando recentemente anche una star della moda, con copertine per Vogue Mexico e campagne pubblicitarie per Bottega Veneta, e attirando l’attenzione di icone dell’arte contemporanea quali Marina Abramović e Hans Ulrich Obrist.

Con un output artistico sempre più profondo e variegato è difficile prevedere quale piega potrà prendere la carriera di Arca nel futuro. Una cosa si può però affermare con quasi totale certezza: difficilmente la vedremo fissa nello stesso punto per troppo tempo.

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