Filippo Timi debutta con lo spettacolo One Shot Show

Filippo Timi
Filippo Timi

Filippo Timi ha debuttato in prima nazionale con lo spettacolo prodotto dal Ginesio Fest, One shot show scritto insieme a Lorenzo Chiuchiù, con Matteo Prosperi, Gianluca Vesce e gli attori della scuola del Teatro Stabile di Torino che hanno preso parte al laboratorio “Per te farò sanguinare i fiori del paradiso (la maschera del desiderio)”.

Accompagnato dal suo Corgi, Tarquinia, Filippo Timi ha vissuto una settimana insieme ai ragazzi della master class, agli altri attori ospiti, ai giornalisti, ai tecnici, che tutti insieme hanno trasformato il piccolo paese marchigiano di San Ginesio nel borgo degli attori.
Incontrarlo e chiacchierare con lui è naturale come incontrare Massimo Viviani al Bar Lume.
Insieme, abbiamo parlato dello spettacolo che ha preparato con i ragazzi dell’ultimo anno della Scuola per attori dello Stabile di Torino diretta da Leonardo Lidi.

Si siede e poggia sul tavolo il suo hang, uno strumento musicale idiofono in metallo creato in Svizzera vent’anni fa. Il suo suono ancestrale accompagnerà la recitazione di versi durante la nostra conversazione. «Niente intervista, solo una chiacchierata informale», precisa Filippo. Ma tanto basta: la sua voce ipnotica trascina lungo i sentieri di uno spettacolo che non ha neanche il titolo.
«Quando lavoro non sono abituato a trovare titoli». Inizia così Filippo Timi, chiuso da cinque giorni nello studio “matto e disperatissimo” di una sua riscrittura del Paradiso perduto di Miller.

Al di là della maschera del bene del male

«Abbiamo deciso di chiamarlo Al di là della maschera del bene del male, perché l’attore deve essere al di là del bene del male. Non può giudicare, ad esempio, Riccardo III. Non lo giustifichi, ma se lo devi incarnare, devi trovare la grande domanda che ha fatto scattare quella maschera per diventare quell’orribile personaggio che è. Ed è sempre l’amore. Sarà che sono figlio degli anni ‘80 e dei Bellissimi di Retequattro. In questo caso è Satana che fa tutto quanto per amore.
La frase topos di questo spettacolo è “Per te, Gabriele, farò sanguinare le cime del paradiso”. Nel Paradiso di Miller, gli angeli hanno gli occhi chiusi perché hanno detto loro che, se li aprono, la luce divina li acceca. Ma Satana si innamora di Gabriele, nonostante non lo veda. A un certo punto Satana vuole vedere il suo amore e vuole che il suo amore guardi lui. Ubriaco, apre gli occhi e scopre che nessuna luce divina li acceca. Satana cerca di convincere Gabriele che amare è meraviglioso, ma sarebbe ancora più bello poter anche vedere la persona amata. Con un’espediente ci riesce, ma alla fine Gabriele si cava gli occhi e Satana si cava il cuore».

«Per me Satana è un simbolo, come Zaratustra o Giuda. Se dovessi fare uno spettacolo su Giuda, farei la scena dove Cristo chiede, implora Giuda di tradirlo. Satana è fondamentale per la storia. A differenza di Milton che separa il bene dal male, io credo che siano un po’ come la luce e il buio: che siano due facce della stessa medaglia. Dipende da come la vedi. Soprattutto, non possono esistere l’uno senza l’altro: se c’è la luce deve esistere anche il buio, altrimenti non ho luce. Satana cade, ma cadere è fondamentale per rialzarsi».

Ritratto di Filippo Timi
Ritratto di Filippo Timi

Io sono quasi cieco. Ho un morbo agli occhi che non mi fa vedere… Il lavoro di immaginazione che il mio cervello fa, è enorme. Ma, a differenza del vostro, è come un fiore: non si piange addosso. Ho portato i ragazzi nella mia condizione di buio e di cecità.

Come entra in un personaggio?

Penso a com’è nell’intimità. Ad esempio, penso a come si tiene l’uccello in mano Amleto quando va in bagno. Perché sì, è Amleto, ma prova le stesse cose che prova qualsiasi altro essere umano.
Quando i ragazzi sono arrivati in sala il primo giorno, c’erano i copioni in terra. Li ho fatti mettere in cerchio, ho fatto chiudere le serrande e si sono trovati al buio. Ho detto: adesso leggete il testo e tra due ore proveremo. Erano spaesati. Una soluzione c’è. Bisogna aspettare che l’occhio si abitui. Dopo mezz’ora, quando sono rientrato, erano demoni affamati che a gruppetti leggevano laddove avevano trovato una flebile luce che entrava.
Perché una provocazione del genere? Perché io sono quasi cieco. Ho un morbo agli occhi che non mi fa vedere. Non imparo i nomi perché non mi affeziono alle facce. Io non vedo l’espressione di chi mi parla. In teatro, paradossalmente, è più semplice lavorare con questo problema: non subisco lo shock di cambiare visione, perché come non vedo nella vita così è sul palcoscenico. Il lavoro di immaginazione che il mio cervello fa, è enorme.
Ma, a differenza del vostro, è come un fiore: non si piange addosso. Ho portato i ragazzi nella mia condizione di buio e di cecità.
Quando vado a Cannes a vedere la prima di Bellocchio, non vedo il film, vedo che io sono visto da attori e attrici del calibro di Nicole Kidman, ad esempio. Io non vedo: io mi vedo visto e abbasso lo sguardo perché mi vergogno.

Quanto influisce preparare uno spettacolo in un borgo medievale, essere qui a San
Ginesio?

Tantissimo. Questo è uno spettacolo nato per questo contesto. È nato dall’invito di Rodolfo di Giammarco (storico giornalista e critico teatrale per “La Repubblica” – nda) e di Leonardo Lidi a partecipare. Ho riscritto il testo per questi ragazzi. Non li conoscevo e, in cinque giorni, ho affidato loro i ruoli e fatto le prove. Dodici ragazzi non sono pochi e riuscire ad armonizzarli non è semplice. Ma ci siamo riusciti. In tutti i miei spettacoli io scrivo il testo, lo provo con gli attori e riscrivo il testo per loro.

Ritratto di Filippo Timi
Ritratto di Filippo Timi

Un attore non è un grande attore malgrado le difficoltà, ma grazie ad esse.

Cosa l’ha colpita di questi ragazzi?

Che sono tutti bravissimi. Mi ha colpito la loro serietà, l’atteggiamento, che colgano del teatro anche il valore politico. Non perché il teatro debba necessariamente parlare di politica, ma comprendono che il gesto artistico è di per sé un gesto politico.
Ho cercato di fare con loro come con Bellocchio, quando ti dà informazioni tipo: «perfetto Filippo, ma qui accendi il buio». È ovvio che vuole provocarti. E magari io inciampo e Marco dice «sì!», perché voleva che inciampassi. In quei casi mi affido a Stanislavskij, per il quale, anche se non comprendi la frase, ma ne cogli la bellezza, tienila da parte. Magari la capirai un giorno, magari no, ma resta la bellezza. Quello che c’è nel buio, per me è ancora da scoprire. È una frase che vuole dire tutto e nulla, ma anche se non la comprendo è bella e il mio non comprenderla non leva bellezza a quella frase.

Credo che la maturità dovrebbe essere un riuscire a prendersi cura di se stessi, che magari passa per il prendersi cura degli altri. A volte è la stessa cosa. E il teatro, secondo me, è un modo per prendersi cura dei simboli che ognuno di noi è.

Lei ha portato i ragazzi sul suo terreno. Ha detto «io non vedo» e li ha costretti a lavorare al buio. Ha creato un disequilibrio obbligandoli a trovarne uno nuovo. Oggi siamo tutti abituati alla spettacolarizzazione del dolore. È riuscito a portarli all’utilizzo della sofferenza come espediente per trasformare un disequilibrio in un nuovo equilibrio?

Magari ci fossi riuscito. Non solo con loro, ma anche con me. Io vivo seriamente una condizione handicappata. Se vado in giro col cane di sera, e non ho nessuno con me, è un pericolo, perché magari non vedo uno spacciatore che però pensa che l’ho visto spacciare e mi riempie di botte. Tutta la mia vita è basata sul lavoro di cercare un valore nelle difficoltà.
Quest’anno ho finalmente capito che la balbuzie mi ha salvato la vita. Per anni sono andato in scena col terrore di balbettare. Questo mi nutriva di un’energia che al pubblico arrivava, ma io l’ho sempre demonizzata, accusata. Ho capito che mi ha salvato la vita, perché c’erano tantissime cose più pericolose che non vedevo.A 21 anni, senza scuola, primo attore di Barberio Corsetti a fare Edipo, avrei pericolose che non vedevo.
A 21 anni, senza scuola, primo attore di Barberio Corsetti a fare Edipo, avrei dovuto cacarmi sotto. C’erano squali che mi giravano intorno e io non li ho visti. Facevo pattinaggio artistico, le piroette, le spaccate: in quello avevo davvero un talento. Forse perché ero disperato, perché avevo fame, perché soffrivo, perché non scopavo. Mi sembrava di impazzire. A 21 anni, sei un atleta di pattinaggio artistico, hai l’energia per conquistare il mondo e l’unica preoccupazione era che balbettavo. L’ho capito adesso. Mi sono reso conto che sarei dovuto rimanere terrorizzato per tantissimi altri motivi più seri. Invece no. Quindi magari fossi riuscito a dare a questi ragazzi un simile strumento.
Un attore non è un grande attore malgrado le difficoltà, ma grazie ad esse. Questo esperimento l’ho fatto con altri laboratori. Trovare valore tra le cose così come accadono, non come ce le aspettavamo. Questo è, secondo me, il lavoro della vita.
Si dice che è un fiore con un sasso in testa non si piange addosso: spunta comunque. È vero. Non credo che le difficoltà rendano forti: le difficoltà possono far capire chi è forte. Ma anche chi è forte, alla 99ª porta sbattuta in faccia, si stanca. Io a cinquant’anni, per quanto sia forte, devo accettare di calmarmi un attimo. Poi magari ricomincio a riprenderle. Credo che la maturità dovrebbe essere un riuscire a prendersi cura di se stessi, che magari passa per il prendersi cura degli altri. A volte è la stessa cosa. E il teatro, secondo me, è un modo per prendersi cura dei simboli che ognuno di noi è.

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