Formal but damned

Testo raccolto da Giorgia Cantarini per Antonio Mancinelli, caporedattore di Marie Claire Italia

Essere ordinati fuori può lasciarci la meravigliosa opportunità di essere disordinati dentro . Quand’è successo che, quasi contemporaneamente e quasi all’improvviso, nei guardaroba dei Milllennials sono apparse (non riapparse) le giacche sartoriali, i pantaloni con le pinces e – massimo stupore – gli abiti, che i nostri papà definivano “completi”? Come mai, a Sanremo, uno dei trapper più amati dai giovani, Achille Lauro, si è presentato con un look sartorialissimo di Carlo Pignatelli, corredato da camicia bianca e cravatta, cantando una canzone che è un inno all’autodistruzione, Rolls Royce, che lui definisce – stupore raddoppiato – un «motivo elegante»?    La moda, si sa, è un linguaggio, ed è proprio con le parole che ha una parentela stretta e tormentata: quell’aggettivo lì, elegante, che fa quasi paura ripeterlo, noi critici di moda non lo sentivamo da anni, perché obsoleto, stantio. In una parola, démodé. Il problema è che Lauro ci stava dannatamente bene, vestito da adulto perbene ma con la faccia segnata da brufoli e tatuaggi da postadolescente: anzi proprio perché nato nel 1990, il contrasto, il contenitore e il contenuto era piacevole, fresco, quasi balsamico. E così, per tutti i protagonisti maschili della cultura popolare internazionale, da Harry Styles a Pharrell Williams, fino all’androgino Ezra Miller, che si è presentato al Met Ball con uno smoking superformale di Burberry, ma con più occhi dipinti sul volto: abbigliarsi in maniera convenzionale ha tutta la novità di ciò che fino a ieri consideravamo anticonvenzionale. Nei corsi e ricorsi storici dello stile, si va avanti per azione e reazione, provocazione e conservatorismo di ritorno: ma in questo caso la situazione è un po’ diversa e, antropologicamente parlando, assai appetitosa.    Per esempio, è stato molto interessante osservare come una storica maison come Ermenegildo Zegna, considerata il custode della compostezza vestimentaria, abbia proposto per questa estate un guardaroba ginnico fatto di tute, sneakers e hoodie col cappuccio, realizzati in fibre nobilissime e preziose.

Dall’altra parte, un nuovo nome della moda Made in Italy, Dorian Tarantini, ha disegnato una collezione per il suo marchio M1992, che rielabora con nuove proporzioni il binomio giacca + pantaloni, seguito, ad esempio, da Efisio Marras per LBM 1911, che si è cimentato in una capsule collection di abiti dalle silhouette classiche ma superskinny,  rinvigoriti da stampe floreali. Fino ad arrivare al Gotha della creatività rivoluzionaria del lusso di Alessandro Michele per Gucci, ma anche a quella di Hedi Slimane per Celine (dal cui logo lo stilista ha anche tolto l’accento), che porta in scena abiti a due bottoni sempre accessoriati di cravattina lunga e stretta in pieno mood anni Sessanta o rievocazione de Le iene di Quentin Tarantino, se volete.    Senza dimenticare Virgil Abloh, che ora firma la linea maschile di Louis Vuitton e il raffinatissimo ex punk Kim Jones, ora alla guida creativa di Dior Homme: tutti concentratissimi sull’abito, magari abbinato ad accessori imprevisti. C’è un punto da sottolineare: la moda è una ladra, ruba costantemente alle sottoculture per poi eliminarne ogni elemento di disturbo, sistemare sulle passerelle quella scelta dell’apparire che nasce come protesta antisistema la quale, grazie all’apparato dei grandi produttori di abbigliamento, diventa novità.

È successo così con Demna Gvasalia e Gosha Rubchinskiy, che per primi, dieci anni fa, hanno letteralmente teletrasportato nel tempo e nello spazio i look dell’Europa dell’Est anni Novanta, facendo risorgere marchi che pensavamo non esistessero più, come Fila, Robe di Kappa, Ellesse, Champion, per trasformarli in icone della desiderabilità. Quando però a quel tipo di immagine si è aggiunto anche un aumento dei prezzi….come nelle sneakers, dopo l’entusiasmo iniziale (il comfort! La libertà! Il vestire antiborghese! La ribellione quotidiana!), qualcosa si deve essere ingarbugliato, spiegazzato, sgualcito: se sembrare usciti da Decathlon richiedeva il conto in banca di Donald Trump per sembrare a tutti i costi rivoluzionari o poteva essere un piacevole gioco per il figlio del miliardario cinese o del plutocrate arabo, rappresentava anche un piccolo tradimento nei confronti di chi si mette la tuta Adidas solo per fare esercizi o in totale relax sul divano di casa.  I ragazzi della Generazione Z, quelli nati dal 1995, hanno anche un rapporto diverso con il denaro rispetto ai Millennials: sono sempre alla ricerca delle migliori offerte, analizzano la qualità dei prodotti e valutano più opzioni prima di prendere una decisione. Inoltre, gli Zeta iniziano a risparmiare molto prima rispetto alle generazioni precedenti: un effetto dell’essere cresciuti durante la Grande Recessione. Hanno visto i loro genitori affrontare la disoccupazione, e vogliono evitarlo.

Così se i Millennials hanno imparato ad apprezzare la trasparenza, quelli della Generazione Z, gli GenZer, la pretendono. Secondo uno studio di Girl Up, organizzazione dell’Onu che esplora l’universo dei teenager in tutto il pianeta, gli GenZer esigono l’autenticità: «Hanno accesso a tutte le informazioni online per formarsi opinioni forti», dichiara Anna Blue, co-executive director di Girl Up.   «Fin da giovanissimi sanno come elaborare e decifrare la comunicazione dei brand a loro interessati. La verità per loro è davvero un requisito fondamentale».   Quando tute, felpe, jeans sformati da Dad style e tutte le proposte compiute in nome del terrificante normcore, la banalità indossabile, hanno cominciato a diventare la norma, era impensabile che non diventasse necessario, uno scarto da quella regola. Anche perché, ammettiamolo chiaramente: la Grande Truffa emotiva dello streetwear consiste nell’aver fatto passare un messaggio di falsa libertà. Nel senso che sfido chiunque a fare bella figura ingolfato in un tutone di finto trilobato (ma in vero cashmere).    Altro che comodità: se c’è stata una tendenza veramente discriminatoria che esponeva tutti al body shaming – l’essere dileggiati perché fisicamente non perfetti, non snelli, non asciutti, non giovanissimi – è stata proprio quella sportiva, contrabbandata come democratica solo perché i pantaloni hanno l’elastico in vita e permettono ai più ricchi e ai più golosi di sfondarsi di cibo vestendosi all’ultimo grido. Il nuovo formale riscatta, ristruttura, fa da Photoshop tessile permettendo ai più, grazie al potere del buon taglio e delle spalline imbottite quel tanto che basta, di non ritrovarsi su Instagram pieni di dislike e con commenti all’acido prussico.  Certo, il sartoriale del Secondo Ventennio del Duemila non può e non deve andare a scimmiottare i blazer fatti con riga, squadra e cazzuola che indossano i politici di tutto il mondo quando vogliono sembrare fighi. Se c’è una rivolta da compiere adesso, è quella contro l’infantilizzazione della società, sempre più dilagante con filtri su selfie e autoscatti che spargono di stelline e unicorni. Vanessa Friedman nel 2016 scrisse sul New York Times un piccolo editoriale gioiello intitolato “How to dress like an adult: «Vestirsi da adulti serve in qualche modo a distinguere il te stesso cresciuto dal te stesso adolescente; è un modo per dire a te e a quelli che ti guardano “io sono questo in questa fase della mia vita”».     Restituire al concetto di sentirsi a posto una valenza positiva, quello sì, può essere un passo in avanti nell’evoluzione culturale del mondo. Oltretutto, essere ordinati fuori può lasciarci la meravigliosa opportunità di essere disordinati dentro. Non è forse questo, il vero comfort esistenziale? Sarà il formale a salvarci. Non i formalismi.

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