“BASILICO – L’INFINITO È LÀ IN FONDO”: IL DOCUFILM SUL MAESTRO GABRIELE BASILICO CHE CI INSEGNA A VEDERE

Martedì 13 febbraio alle 21.15 su Sky Arte e in streaming su NOW arriva, a undici anni dalla scomparsa di Gabriele Basilico, il primo documentario sull’opera del maestro della fotografia di architettura: Basilico – L’infinito è là in fondo.

Fotografo, architetto, urbanista. Per lui fu coniato il termine “fotografare alla Basilico”. Nelle sue foto l’assenza di esseri umani risuona come una folla invisibile; nelle sue strade vuote pulsa la vita delle città, i suoi muri non sono limiti ma sipari che celano l’infinito. Paesaggi che non ti fermeresti a guardare, diventano ipnotici e non smetteresti mai di fissarli. «Sono diventato un fotografo di luoghi»: così Gabriele Basilico racconta sé stesso.

Basilico – L’infinito è là in fondo, il docufilm sulla vita del maestro Gabriele Basilico
Basilico – L’infinito è là in fondo, il docufilm sulla vita del maestro Gabriele Basilico

Basilico. L’infinito è là in fondo ripercorre le tappe principali della carriera del maestro fotografo, dai primi scatti di reportage realizzati in gioventù negli anni dell’impegno politico, ai Ritratti di Fabbriche della fine degli anni Settanta, fino agli ultimi lavori nelle grandi metropoli degli anni 2000. A raccontare Basilico, voci di spicco del mondo della cultura, persone che gli sono state vicine e che ne custodiscono aneddoti, riflessioni e ossessioni. Per fare alcuni nomi: Stefano Boeri, Gianni Berengo Gardin, Oliviero Toscani, il regista Amos Gitai, la storica della fotografia Roberta Valtorta.

Tra queste, due in particolare guidano lo spettatore in un autentico viaggio: Toni Thorimbert, e la photo editor Giovanna Calvenzi, compagna di vita dell’artista.

Stefano Boeri racconta Gabriele Basilico
Stefano Boeri racconta Gabriele Basilico

Giovanna Calvenzi: «Gabriele ci ha insegnato l’empatia verso la mediocrità e l’astensione dal giudizio aprioristico»

Photo editor per riviste famose, membro della giuria del World Press Photo Contest, curatrice di mostre internazionali, direttrice artistica dei Rencontres Internationales de la Photographie di Arles, guest curator di Photo España, delegato artistico del Mois de la Photo a Parigi 23. Giovanna Calvenzi è stata la compagna di vita di Gabriele Basilico. Nel documentario racconta: «Vedo la sua prima foto e sono sicura che non sarebbe mai diventato un fotografo».

Perché?

Era una foto delle vacanze, come ne avevo viste in tutte le case, senza nessuna pretesa estetica.

Toscani le chiedeva «Stai ancora con quello che fotografa i deserti?». Cosa vedeva lei in quei deserti?

Ho lavorato spesso con Oliviero Toscani, che non si capacitava di come Gabriele preferisse fotografare le città senza persone piuttosto che fare ritratti alle persone, come piaceva a lui. Nei “deserti” io vedevo la straordinaria capacità di qualcuno che sapeva insegnare a vedere.

Lo definirebbe uno storico?

Uno storico dell’evoluzione del paesaggio, dello sviluppo delle città? Forse un testimone, consapevole.

Nella misura in cui Basilico faceva politica con le sue foto, quale messaggio politico ci ha lasciato?

Il concetto di “fare politica” è estremamente complesso. Basilico ha lavorato dalla metà degli anni Settanta al 2012 sulle città del mondo, sulle trasformazioni del territorio italiano, sulle periferie e le loro trasformazioni, a volte visitando e documentando ripetutamente gli stessi luoghi. Ci ha insegnato l’empatia verso la mediocrità e l’astensione dal giudizio aprioristico. Ci ha insegnato, e le sue opere ancora insegnano, a vedere.

Giovanna Calvenzi, compagna di vita di Gabriele Basilico
Giovanna Calvenzi, compagna di vita di Gabriele Basilico

Nel docufilm si parla dello “scatto lento” di Basilico. In un mondo pieno di immagini, come editor, questa inflazione di foto rende il suo lavoro più semplice? O siamo davanti a un fenomeno come il fast fashion: una forma di inquinamento da sovrapproduzione di qualità scadente?

Credo che la ricchezza o la sovrabbondanza di produzione delle immagini non siano un problema. La fotografia intelligente e colta continua per la sua strada. Si misura magari con le difficoltà del mercato, di reperire certi materiali, di farsi largo e di essere capita ma, dal mio punto di osservazione, che forse è privilegiato, non genera certo inquinamento.

Le foto in tempo reale da ogni parte del mondo non sembrano aumentare i reportage di denuncia. Penso a Letizia Battaglia, ad esempio, per la quale lei ha curato una personale. Cappuccini e gatti sono più interessanti per il pubblico?

I reportage di denuncia hanno bisogno di giornali che ci credono e che vogliano pubblicarli. Non li vediamo perché i giornali se ne disinteressano. Letizia Battaglia lavorava per un quotidiano di sinistra di Palermo, L’Ora, e tutto quello che realizzava, per alcuni anni, era immediatamente condivisibile. Mancano i giornali, mancano gli acquirenti dei giornali, manca l’interesse per un’informazione profonda. Cappuccini e gattini fanno parte della condivisione del proprio privato, non sono forme di comunicazione e sono alla portata di chiunque abbia un telefono accettabile.

A Roma ora c’è una mostra su Newton e Sky Arte lancia un docufilm su Basilico. Le foto, anche quelle di moda, raccontavano un’epoca. Le foto di Basilico fermano la nostra attenzione su paesaggi che non avremmo mai guardato. Da editor, cosa legge in tutto questo?

Credo che la diffusione nell’uso di tecnologie facili da utilizzare per realizzare immagini, abbia allargato l’interesse nei confronti della fotografia. Newton appartiene a un passato recente ma le sue foto, il suo modo di trattare la moda, i suoi ritratti, hanno sempre qualcosa da insegnarci, anche se fosse solo per migliorare le foto dei nostri gatti. Documentari dedicati ai fotografi italiani e al loro lavoro in questo periodo ne sono stati realizzati diversi: Gianni Berengo Gardin, Paola Agosti, Guido Harari, Paolo Roversi, Luigi Ghirri e naturalmente Gabriele Basilico. Ci vedo un interesse per la cultura dell’immagine e per le persone che alla fotografia hanno dedicato la loro vita.

Toni Thorimbert racconta il Maestro Basilico. «Gabriele, come molti di noi a quell’epoca, aveva un’idea della fotografia come strumento di denuncia sociale. Era uno straordinario fotoreporter»

Toni Thorimbert, reporter, ritrattista, affermato fotografo di moda e art director, inizia a fotografare giovanissimo, documentando le tensioni sociali e politiche degli anni Settanta. Con la sua reflex ha immortalato Jennifer Lopez, Willem Dafoe, Giuseppe Tornatore, Paolo Villaggio, Jovanotti, Marcell Jacobs.

Nel documentario, Thorimbert propone un confronto tra gli scatti di Basilico e la città contemporanea attraverso lo sguardo di cinque giovani fotografi chiamati a dialogare con l’eredità del Maestro. «Ci sembrava bello attualizzare il potenziale del linguaggio di Gabriele e non fare una documentario unicamente celebrativo» spiega Thorimbert. «Gabriele per me è stato un mentore. Nella Milano della metà degli anni 70 la fotografia era un’operazione intellettuale, politicamente schierata, e i fotografi erano intellettuali».

Toni Thorimbert
Toni Thorimbert

Dopo Milano. Ritratti di fabbrica fu coniata la definizione “fotografare alla Basilico”. Fotografo, architetto, urbanista ma, oggi, possiamo considerarlo uno storico, come Walter Evans o Dorothea Lange con i loro reportage sulla Grande Depressione?

Lo trovo un ottimo punto di vista. La sua cifra era allineata con i suoi tempi ed è vero che più il tempo passa, più le sue foto risultano un documento storico su come le città si sono evolute.

Gabriele, come molti di noi a quell’epoca, aveva un’idea della fotografia come strumento di denuncia sociale. Era uno straordinario fotoreporter. Aveva la capacità di trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Il suo impegno politico si è spostato quando ha scoperto che poteva tradurlo raccontando le contraddizioni dello spazio urbano.

Nel documentario lei chiede ai suoi allievi di mettersi nelle scarpe e nella testa di Gabriele. I suoi scatti richiedevano anche decine di minuti. Oggi, dove lo sviluppo non è più una scoperta, dove quando scatto già so che posso lavorare in post–produzione, c’è ancora lo stesso spirito di ricerca e la stessa responsabilità dietro a uno scatto? Cosa è cambiato?

Tutto. E di peggio in peggio. Ora sto seguendo dei fotografi che lavorano col digitale, ma che hanno deciso di apprendere quella lentezza di cui si parla nel documentario. Il problema è: con cosa sostituiamo quello che la tecnologia ci fa perdere in termini di approccio e di profondità? Molti fotografi digitali stanno riscoprendo un atteggiamento più lento. La digitalizzazione ha velocizzato tutto, poi però ci si accorge di quanto la lentezza plasmi una foto.

Basilico – L’infinito è là in fondo
Basilico – L’infinito è là in fondo

Basilico aveva la qualità di trovarsi nel posto giusto al momento giusto, ma forse anche capire l’attimo e come sfruttare quel qui e ora era frutto di una grande ricerca. Scattare in maniera ossessiva è lavorare all’inverso: prima scatto e poi vedo cosa ho prodotto?

È quello che io chiamo “pescare a strascico”. Una volta uscivi per pescare saraghi; oggi ragioni che, se hai pescato anguille, va bene lo stesso perché le facciamo diventare saraghi in post produzione. La qualità della fotografia contemporanea ha risentito molto di questo atteggiamento. Quando insegno, lavoro col digitale, ma cerco di recuperare i valori che erano alla base dell’intensità dell’operazione fotografica analogica.

Le mancano gli scatti che trovavamo su riviste patinate, una per tutte Vogue, l’originalità e la mano dei maestri della fotografia?

Spesso nelle conferenze cito Vogue: ma non cito un giornale quanto un mondo, un approccio, un arrivare a Vogue come una certificazione di qualità. Nella mia audience giovanile, questo cade nel vuoto. E giustamente, perché non essendoci una memoria storica particolarmente elevata, soprattutto in Italia, la parola Vogue oggi ha perso il significato che aveva una volta. Grazie alla moda ho fatto un percorso che mi ha dato grandi soddisfazioni, possibilità di viaggiare, di esprimermi, di creare. Newton diceva: «Se non facessi il fotografo di moda, chi mi darebbe tutti i soldi per andare dall’altra parte del mondo a fotografare?». La moda è anche una grande possibilità industriale. Oggi è diverso perché questa realtà industriale viaggia su media che non sono più i giornali. Per quelli della mia generazione, la carriera di un fotografo si basava sui giornali. Oggi sembra che uno stia parlando del medioevo.

La fotografia di moda era una grande forma d’arte…

Lo è stata. E anche una grande forma di reportage. In questo concordo con Oliviero Toscani quando dice: «Davvero il fotografo di guerra è l’unico reporter? La fotografia di moda non racconta i cambiamenti della società nei suoi aspetti umani, sociali, personali?». Secondo me la fotografia di moda, come noi la intendiamo, ha un valore di reportage importante.

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