‘Icônes’, nella mostra di Venezia l’invisibile dietro alle icone dell’era contemporanea

A Venezia, a Punta della Dogana, è in corso fino al 26 novembre la mostra Icônes, ideata e realizzata da Emma Lavigne, direttrice della Pinault Collection, e Bruno Racine, direttore e amministratore delegato di Palazzo Grassi – Punta della Dogana, che offre nuovi spunti di riflessione sulle icone del nostro tempo e la loro essenza più intrinseca. Un segno, una finestra verso l’invisibile, che porta alla meditazione, alla contemplazione. “È partendo da questo presupposto, da questo desiderio di sviscerare il concetto di icona contemporanea che abbiamo creato questo percorso in grado di portare il visitatore in un itinerario contemplativo, in una dimensione intima, attraverso le quali riesci a guardarti dentro”. Così esprime Bruno Racine la genesi di questo progetto che a Venezia prende forma e si lega profondamente, per alcuni aspetti e connessioni con l’oriente bizantino.

L’icona è un simbolo che crea uno spazio magnetico attorno a sé – continua Racine – per questo abbiamo scelto opere che nella loro successione svolgono questa funzione aggregante, mettendo insieme orizzonti culturali diversi che creano una visione laica dell’esperienza artistica”, ognuna intrisa di una sua spiritualità unica e profonda, attraverso un percorso di oltre 80 opere, tra capolavori della Pinault Collection, lavori mai esposti prima di quest’occasione e installazioni site- specific di 30 artisti di diverse generazioni, nati tra il 1888 e il 1981. Fino ai riferimenti cinematografici, come quello del sovietico Tarkovskij, definiti dalla tradizione ortodossa e che analizzano “l’idea della libertà assoluta del potenziale spirituale dell’uomo”, la questione del divenire dell’invisibile e dello spirituale in un mondo contemporaneo, attraverso la poetica di Andrej Rublëv, film del grande regista russo dedicato al pittore di icone del XV secolo.

Icones mostra Venezia
Kimsooja, A Needle Woman, 1999 – 2000. Performance Video (ph. courtesy of Kimsooja Studio, © SIAE 2023)

“Non sono opere urlanti ma con tono gentile e pacato offrono il mistero della loro unicità”

Il percorso si apre con la Ttéia di fili d’oro di Lygia Pape, realizzata con 8 km di fili in rame placato d’oro che si intersecano e intrecciano, attraversando lo spazio e creando linee fantasma per esplorare e approfondire la consapevolezza delle relazioni spaziali. L’opera è in dialogo con quella di Lucio Fontana: il tema è la rifrazione della luce, ispirata dai raggi di luce che penetrano nell’oscurità e nella densità della foresta tropicale come nella penombra delle chiese o delle cattedrali.

Ttéia, Lygia Pape

Il film di Philippe Parreno La Quinta del Sordo, invece, è un gioco di storie e controstorie ispirate ai quattordici dipinti neri che Francisco Goya ha realizzato negli ultimi anni della sua vita: testamento pittorico di un artista ossessionato dai fantasmi del suo mondo interiore. Suggestioni dominate da panico e incendi, fino a un momento di pace in cui i suoni sono quelli dell’acqua del cinguettio degli uccellini e delle onde del mare, quasi come se l’artista ci suggerisse che non esiste un sentimento senza il suo opposto.

Le opere d’arte nel cuore di Punta della Dogana

Il Cubo dell’architetto Tadao Ando, nel cuore di Punta della Dogana, è dedicato al dialogo tra Danh Vo e Rudolf Stingel, le cui opere esprimono la simbologia e il rapporto tra la materia e l’impronta, che tradisce una storia, una testimonianza di un passaggio. L’artwork dell’autore vietnamita presenta delle pezze di velluto decolorate dalla luce e dal tempo, provenienti dai musei del Vaticano, mentre Stingel espone delle opere in cui il tema centrale è la loro modificazione materica in base all’intervento, al gesto, all’esperienza e all’interazione con essa: ha persino realizzato un calco di un frammento di una delle sue opere, dove il pubblico era invitato a lasciare liberamente le proprie tracce, in cui registra l’ultimo atto di quella gestualità, congelando lo stato dell’artwork a un tempo indefinito, creando un ponte temporale tra quegli istanti d’interazione e un presente imperturbabile.

Attorno allo stesso cubo, Joseph Kosuth mette in scena un dialogo tra Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre, manifestando sopra ogni cosa la fede dell’artista nel potere dell’arte. Come scrive nel suo testo manifesto, Art after Philosophy, nel 1969, infatti, “può essere che, dopo la filosofia e la religione, l’arte sia un tentativo per soddisfare i bisogni spirituali dell’uomo”.

Le opere di Dineo Seshee Bopape e Camille Norment

E ancora, in Mothabeng di Dineo Seshee Bopape una cupola fatta di argilla, terra ed erbe si crepa sempre di più con le vibrazioni della musica che pervade lo spazio, facendo passare la luce tra le fenditure in maniera sempre maggiore. Il suo rapporto con lo spazio è vissuto attraverso il ricordo delle cave di marmo che hanno invaso la tranquillità del suo territorio, ma anche attraverso l’esperienza olfattiva dell’igloo realizzata in terra, argilla ed erbe aromatiche.

Icones mostra
Joseph Kosut, Un oggetto chiuso in sé stesso? (Adieux), 2022 (ph. Marco Cappelletti © Palazzo Grassi, Pinault Collection)

Camille Norment, invece, nello spazio fa rivivere il suono – mezzo espressivo di spazio e tempo – con delle panche in legno simili a quelle delle chiese, che emettono vocalizzi a contatto e attraverso le persone che le sollecitano. I visitatori sono percorsi dalle vibrazioni delle onde sonore che introducono, mediante i gemiti dei cori gospel afroamericani, a uno spazio di esperienza sensoriale. L’emozione, lo stato di disagio, l’energia che assorbiamo e rilasciamo attraverso il nostro rapporto con lo spazio definisce l’unicità dell’esperienza, che non è altro che il mistero della vita.

Immagini metafisiche, visioni sciamaniche e rifrazioni

Agnes Martin, con la sua Blue-Grey Composition, caratterizzata da una purezza geometrica, dipinge immagini metafisiche ispirate a diverse spiritualità orientali, mentre David Hammons, definito lo “sciamano della città”, si serve del proprio corpo, vero e proprio leitmotiv della sua pratica, per rappresentare in maniera tangibile e diretta il corpo nero in una società americana che tende a renderlo invisibile. Nello specchio d’oro ricoperto da una coperta di canapa, l’autore vuole coprire la visione del lusso superficiale, e si fa sudario del suo corpo, raggiungendo una valenza a tratti mistica.

Kimsooja, infine, nel Torrino della Punta della Dogana espande il concetto di spazio e lo distorce attraverso l’opera To Breathe-Venice che, ricoprendo l’intero spazio di specchi, provoca una sensazione di assenza di gravità. Una leggerezza che si traduce in una percezione quasi mistica, accentuata dalla polifonia di canti tibetani, islamici e gregoriani.

Nell’immagine in apertura, l’opera di Lygia Pape Ttéia 1, C, esposta nella mostra Icônes di Punta della Dogana (ph. Paula Pape © Projeto Lygia Pape)

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