JACK SAVORETTI, LA FORZA DELLA MUSICA TRA ITALIA E UK

Una voce ruvida, profonda e nostalgica e una chitarra. È Jack Savoretti, nome d’arte di Giovanni Edgar Charles Galletto Savoretti, cantante britannico di origini anglo-italiane: il padre, Guido, è genovese. L’esordio musicale avviene con due duetti, presenti nell’album del 2005, della cantautrice britannica Shelly Poole, mentre il suo vero primo disco, Between The Minds, arriva sul mercato nel marzo 2007, debuttando alla posizione numero 5 della UK Indie Charts. Fattosi notare anche in Italia, grazie ad alcune collaborazioni live con Elisa e con il cantautore genovese Zibba, ha pubblicato il suo ultimo album, Sleep No More, dedicandolo, interamente, alla moglie. Recentemente è stato anche scelto da GQ Italia tra i 30 uomini più eleganti durante la serata GQ Best Dressed Man.

Il tuo pubblico ti ama e ti segue soprattutto per i bellissimi live che proponi, in cui risulti molto coinvolgente e autentico.
Credo sia dovuto, anche, a chi ci segue e ci ascolta. Siamo riusciti, come in tutte quelle amicizie che crescono lentamente e non si basano su una moda, a creare un rapporto più vero. Chi viene a vederci ci conosce da molto e noi lo percepiamo.
Sappiamo il motivo per cui sono ai concerti, perché si sono informati per esserci: anche perché noi non veniamo ospitati su tutti i canali TV o in tutte le emittenti radio. In qualche modo, sono usciti dalla loro vita quotidiana per scoprire il nostro lavoro e ciò è fonte di rispetto reciproco. In più, è bello non solo per il pubblico, ma anche per noi. Ho tanti amici in questo business, molti hanno avuto successo e, spesso, soffrono, in quanto suonano per due ore davanti a un pubblico interessato a una sola canzone. Certo, aver creato un tormentone permette di avere alcuni lussi, ma da artista non è bello sapere che la gente è lì solo per quello. Non riesci a creare una connessione.

Quindi, il non avere un tormentone, ti ha permesso una maggiore libertà nell’esprimerti artisticamente?
Sì, è stata, un po’, la mia fortuna. In alcuni momenti – nei più difficili – sarebbe stato bello averlo creato, ma solo perché ti permette di guadagnare tanto da poter fare le cose a cui si è davvero interessati.

Forse, questo, è uno dei motivi per cui sei andato via dall’Italia?
Non sono mai partito dall’Italia, anzi, qui sono arrivato molto tardi. È stato molto difficile perché, senza il loro aiuto (Elisa e Zibba, con cui ha collaborato, ndr), l’industria musicale mi avrebbe sbattuto la porta in faccia. Sono italiano, ma non abbastanza, perché non canto in italiano. Io e la mia band partiamo dai live. Volevo che la gente ci conoscesse realmente, ma, in Italia, esistono dinamiche diverse: o vai in tv e in radio o nulla. Noi come band veniamo dalla scuola di Guccini, Paolo Conte e Capossela. Abbiamo iniziato, ed è durato tre anni, dalle osterie e dalle pizzerie. Tutti ci dicevano che in quel modo non saremmo andati da nessuna parte, ma, poi, sono arrivati i teatri e, piano piano, siamo diventati ciò che siamo adesso, con un bel tour in programmazione. Ora, abbiamo degli amici in Italia ed è sempre un gran piacere tornarci, per la sua calda accoglienza e per il nostro seguito.

Quali sono i tuoi riferimenti musicali?
Sono cresciuto ossessionato da Lucio Battisti: è morto che avevo 13 anni ed era proprio l’età in cui scoprivo cosa significasse, per me, la musica. Prima di allora, era un qualcosa da suonare a una festa e basta. In quegli anni ho scoperto Simon & Garfunkel e Bob Dylan e sono rimasto sconvolto dal potere della musica italiana, vedendo reagire mio padre all’ascolto di Battisti: una montagna, un gigante (papà è sempre papà) intoccabile. Quando da immigrato italiano viveva a Londra, si stendeva quasi in lacrime e diceva: «ascolta questo». Diventava un altro uomo, un cucciolo e io ero affascinato da come questa musica potesse trasformare una montagna in un bambino. Da lì, ho ascoltato molta musica italiana per riuscire ad avere lo stesso effetto su mio padre.

Sono state importanti la tua famiglia e la sua storia, nella decisione di dedicarti alla musica?
In parte. Il motivo per cui mi sono buttato sul mercato italiano è legato alla passione e alla mia famiglia. Professionalmente, era un’idea sciocca. Tutti i contatti, con cui lavoravamo all’estero, erano contrari a questa scelta. Non funzionava, non vendevamo dischi, giravamo per suonare. A Londra e nelle osterie, qui. «Perché lo fate? È un mercato piccolo e non vi sta aiutando». Io volevo farlo per l’affezione alla musica italiana.

Una domanda di stile: cosa porti con te nei tuoi viaggi, come definiresti il tuo stile, cosa ti piace nella moda?
Adoro la moda, ma ho paura dei trend. Come vedi non sono trendy, mi piacciono le cose che avrebbe potuto mettersi mio nonno e che spero possa indossare mio figlio. Mi piacciono tutti quei capi senza tempo.

Cosa non può mancare in valigia?
Un bel cardigan di cashmere, soprattutto qui a Cortina (dove si è esibito ndr). Un cappellino è sempre importante e utile; gli occhiali da sole – specialmente nel nostro mestiere, in cui a volte si fa tardi – bisogna sempre averne un paio dietro; dei jeans che ti stiano bene addosso come fit.

Come ti rapporti ai social media?
Sono il brutto, il bello e il buono, dipende da come li usi. Io ho scelto Instagram, perché adoro le fotografie e mi piace, ma lo uso solo per lavoro. Ho un’unica regola: no family.

®Riproduzione Riservata

FacebookLinkedInTwitterPinterest

© Riproduzione riservata