L’età dell’oro del second hand al tempo delle app e delle generazioni “mobile”

Per tradizione, necessità, vezzo, scelta o ideologia il fenomeno degli abiti usati ha visto più albe che tramonti, vissuto corsi e ricorsi, forme e riforme. A volte anacronisticamente fuori dal suo tempo generazionale, dal credo stilistico e dalle voci del coro, altre progettualmente costruito in seno alle mode stesse come eredità di riscatto, ispirazione e recupero creativo, un esempio su tutti le creazioni di Martin Margiela, il “Golden Dustman” (come Caroline Evans lo ha definito in un suo saggio) che ha fatto dell’up-cycling il suo riconoscibile marchio di fabbrica. Un uso e costume longevo quanto le ataviche leggi del baratto (quello che oggigiorno, un po’ borghesemente, abbiamo rimpiazzato con il più modaiolo swapping), ma anche mutevole nella rappresentazione storica della sua natura e nelle sue espressioni tante quanti sono, e sono stati, i cambiamenti, le evoluzioni e i bisogni (individuali, collettivi o sociali) che da sempre lo hanno riportato ciclicamente in auge. Parafrasando un vecchio proverbio potremmo quasi dire ‘epoca che vai, modalità al riuso che trovi’.



Dalla mercanzia di scarso e dubbio valore dei mercatini delle pulci alle “pezze americane” del dopoguerra fatte di scarpe, indumenti e pellicce di secondo ordine impacchettati in “balle al buio” e spediti dagli Stati Uniti. Dai flea market gentrificati e ribattezzati a mete di culto del thrift shopping di tendenza (Marché aux Puces, El Rastro, Portobello, Monastiraki, Rose Bowl), passando per i negozietti dell’usato, le boutique del buon vintage d’annata e gli spazi destinati al pre-loved nei department store metropolitani (come l’esperimento abbracciato dal Karstadt di Berlino), fino ai suoi alter ego virtuali, i social marketplace due punto zero.

Dagli abiti di seconda mano impugnati come strumento di contestazione contro la società dei consumi, pensiamo agli hippie sessantottini o agli esistenzialisti parigini degli anni 50, all’urgenza di trovare in essi una fuga dall’appiattimento e dall’omologazione mainstream, come da vessillo del movimento hipster. Dall’emozionale lascito di abiti tramandati come investimento (la principessa Beatrice di York si è sposata con un abito di Sir Norman Hartnell già indossato da sua nonna Regina Elisabetta), alla presa di coscienza di una moda eticamente sostenibile, circolare e anti-spreco. Un approccio quest’ultimo maturato negli anni ma segnato da una data (che vuole essere contestualmente simbolica), marzo 2020, e da volti, quelli dei Millennial e dei suoi Post, i cosiddetti Zoomer. È l’anno della pandemia, del silenzio assordante dei lockdown, delle serrande dei negozi abbassate e delle piazze svuotate dal mercanteggiare di rigattieri, robivecchi e cenciaioli.

È l’anno in cui soprattutto i giovani social e iperconnessi delle Generazioni Y e Z, eredi di un pianeta bistrattato e di un’economia a coni d’ombra, hanno scelto di essere testimoni e portavoce di una moda votata al second hand. Hanno scelto di essere consumatori del riuso, per risparmio e sostenibilità, ma anche venditori responsabili da decluttering e svuota armadio, per guadagno e rinnovamento, e lo hanno fatto scegliendo uno dei mezzi a loro più familiare, ossia il web. Piattaforme digitali, app e acquisti online, complice anche il mutato scenario di consumo e consumatori, stanno così vivendo la loro golden age. Nel mare magnum delle applicazioni, una tra le più giovanili e accessibili (insieme a Vinted, Poshmark e ThredUp), è Depop nata nel 2011 come startup digitale specializzata nella vendita di accessori e abbigliamento di seconda mano, al tempo chiamata Garage, e oggi affermata scaleup “sostenibile” nel panorama del social commerce. Dove sostenibile significa comprare e vendere capi non più nuovi, ma anche acquistare capi nuovi da aziende che non producono in grande massa e puntano a creare abiti di qualità che durano nel tempo.



Fondata dall’imprenditore milanese Simon Beckerman, a sua volta padre della rivista indipendente Pig e del brand di occhiali Retrosuperfuture, Depop è, per dirla con le parole del suo ideatore, figlia di eBay e Instagram se fossero sposati. Le applicazioni di second hand sono di per sé democratiche perché alla portata di tutti e rivolte a tutti i target (di età e di tasca) soprattutto quando mostrano anche l’altra faccia della stessa medaglia, il vintage. Dalle app più pop a quelle luxury come il lusso d’antan della tedesca Rebelle, l’usato di alta moda della pioneristica Vestiarie Collective, i 16mila articoli di lusso pre-owned di The Luxury Closet fondata a Dubai da Kunal Kapoor o l’eleganza iconica à la française di Re-SEE, tutte accumunate da una scelta brand couture oriented. Ma possono anche essere settoriali come la piattaforma di nicchia Byronesque fondata da Gill Linton e Justin Westover e della sua invidiabile collezione di capi d’archivio anni ’80 e ’90 del calibro di Comme des Garçon e Yamamoto, l’e-store di seconda mano Rebag che da poco ha anche lanciato il tool di riconoscimento Clair Al che consente ai potenziali venditori di scoprire il valore delle borse di lusso in pochi secondi, alla pari del funzionamento di Shazam, oppure Grailed l’app dedicata allo streetwear maschile.

A prescindere dal peso o dal valore che diamo al concetto di usato, il rimettere in gioco e in discussione capi che non sono più alla loro prima uscita, rappresenta sempre una soluzione salvagente a vantaggio dell’ambiente e di una moda che ha bisogno, più che sovrapprodurre, riprodurre in maniera consapevole.

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