Nuovo cinema purgatorio

C’era una volta il cinema italiano, quel mix di arte, impegno, tecnologia, business: un crogiuolo di letterati, intellettuali, illuminati finanziatori, registi che rischiavano maestranze di grande ingegno, che ha nutrito con le sue opere l’immaginario universale per quasi un secolo intero: il Novecento. È al cinema italiano che si deve infatti la codificazione della forma filmica classica con Cabiria nel 1914; è con il Neorealismo che nasce quel modo di raccontare la realtà che Gilles Deleuze ha chiamato “modernità cinematografica” e che continua a ispirare registi di tutto il mondo; è in Italia che si può rintracciare l’unico esempio di commedia – all’italiana, appunto – dove alla fine si piange e si muore; è solo nei film italiani che si sviluppa una ricerca così organica per pensare il carattere politico della realtà e delle immagini che la rappresentano.

È qui, in definitiva, che si trova nella misura più coerente e continuativa la riflessione sui caratteri specifici di un pensiero filmico e di un pensiero nazionale, sui loro intrecci e sulle loro influenze reciproche, lungo quel crinale increspato che definisce un sistema culturale tanto nelle sue relazioni con il fuori quanto nelle sue componenti interne. E adesso? Insidiato dalle piattaforme in streaming planetarie, poco o nulla aiutato dal sistema politico, è distribuito poco all’estero se non nel caso di rari, grandi nomi che assicurino un sicuro ritorno economico – Nanni Moretti, Paolo Sorrentino, Matteo Garrone, Giuseppe Tornatore, Mario Martone, Paolo Virzì e pochissimi altri – che ci fanno temere per la sua capacità incisiva sulla contemporaneità come invece era successo per la generazione degli autori del secolo (ma è anche trascorso un Millennio) scorso.


Il punto è che lamentarsi non ha senso, né tantomeno crogiolarsi in una nostalgia di sale fumose dove il fascio di luce faceva vivere sullo schermo storie fantastiche o iperreali, secondo la solita narrazione di «era meglio prima», quando è invecchiato anche il Nuovo Cinema Paradiso. Puntualmente, ogni cinque anni circa, qualche critico recupera l’idea che il cinema italiano stia vivendo una nouvelle vague: si parla allora di una particolare visibilità italiana e internazionale delle nuove generazioni di autori, di un recupero delle quote di incassi del cinema italiano rispetto a quello straniero, di un’improvvisa notorietà dei divi nostrani, ecc. L’ultima di queste fiammate di entusiasmo si è avuta nel 2013 con il successo di La Grande Bellezza di Sorrentino e l’apparizione di nuovi film di Ozpetek, Bellocchio e Muccino.  Purtroppo, altrettanto puntualmente, in una stagione il cinema italiano ritorna poco visibile e poco appetibile, con una forbice sempre più larga tra piccole produzioni autoriali semiclandestine da un lato, grandi circuiti di distribuzione dall’altro.

Però è interessante, parlando con attori molto giovani dalla solida preparazione professionale come Jozef Gjura, arrivato in Piemonte a sei anni – ora ne ha 26 ed è uno dei protagonisti della trilogia Sul più bello, Ancora più bello e Sempre più bello, il primo con la regia di Alice Filippi, il secondo e il terzo diretti da Claudio Norza – che «essere cresciuti con il cinema italiano del trentennio Cinquanta-Settanta è un dovere, oltre che un privilegio, per essere non attori, ma artisti che devono immettere la loro verità nella parte che gli viene assegnata. Se non avessi cercato i primi film di Antonio, essermi innamorato di Gian Maria Volonté, avere amato Mario Monicelli e molti altri registi allora considerati di puro intrattenimento, probabilmente non avrei intrapreso questa strada». Resiste il mito del cinema italico come grande palestra di attori indimenticabili e di autori visionari ma ormai, attori e registi, tutti defunti, mentre fa fatica a diventare significativo l’apporto valoriale – estetico, etico, narrativo – del cinema italiano contemporaneo, che pure può contare su nomi nuovi sia per le sceneggiature, sia per la direzione: penso ai gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, ad Alice Rohrwacher, a Giorgio Diritti, ad Alessandro Aronadio, a Michelangelo Frammartino, a Valeria Golino, Sergio Rubini, o a Valeria Bruni Tedeschi, attori  passati dall’altra parte della macchina da presa.

Sono loro che, negli ultimi anni, stanno in qualche modo ridisegnando la cartografia di una cinematografia nazionale ma non nostrana, in grado di sostenere anche trame che non siano solo e semplici riferimenti a questioni locali, ma abbiano un respiro e una qualità creativa internazionale. Il problema è che, come ha notato lo scrittore e saggista Gianfranco Marrone su Doppiozero, cambiando profondamente il cinema come macchina produttiva dominante dell’immaginario mediatico, sono cambiate, a traino, anche le teorie che cercano di spiegarne ragioni e meccanismi, percorsi qualitativi e sistemi di funzionamento. Una volta c’erano il grande e il piccolo schermo le cui dimensioni distinguevano due media differenti – il cinema e la televisione –, con linguaggi differenti, pubblici differenti, contenuti differenti. Oggi è tutto intrecciato con tutto, con raffinatezze progettuali e ideative straordinarie, e ogni nuova piattaforma che si presta a veicolare immagini in movimento, video e audiovisivi deve reinventarsi quasi da zero una poetica e un’estetica, per non dire le forme della narrazione e della figurazione. La condizione è tale per cui l’avvento del digitale ha scompigliato le carte, di modo che l’imbuto del computer ridistribuisce di continuo non solo quello che una volta era il sistema delle belle arti, ma anche i media stessi, portati a ibridarsi euforicamente fra di loro.


Ma allora, questa decadenza perdura o no? «Se ci poniamo nella posizione di artisti, e non di semplici interpreti o registi o sceneggiatori, credo che sia possibile uscirne: abbiamo ottimi scrittori, ispirati registi, una nuova generazione di attori che, come me, sono sfuggiti alla trappola del “non studiare, così la tua recitazione sembrerà più naturale” che ancora adesso ammanniscono alcuni agenti. Più alta è la preparazione, al contrario, più naturale sembrerà la nostra interpretazione», continua Giura, sicuro di come l’Italia sia all’orlo di una profonda trasformazione di tipo migliorativo nel campo dello spettacolo, compreso il teatro, «ma è come se non si volesse rischiare, ci fosse la paura di fare un salto nel vuoto».

Ma non è solo questo, anche non abbiamo più i produttori coraggiosi e miliardari che scommettevano su registi “pericolosi” come Pasolini o Ferreri, quanto la matrice che caratterizza la storia del cinema italiano che ha visto all’opera quattro modelli produttivi, linguistici e di consumo: il realismo, l’apologo, il prodotto di consumo e il prodotto “artistico”. Nel perimetro definito dai quattro poli si giocano due tipi di movimenti: una vitale sovrapposizione e contaminazione tra i quattro modelli di cinema; un altrettanto vitale rielaborazione di modelli prelevati dall’esterno. Occorre anzitutto ricordare le coordinate di fondo dell’attuale sistema cinematografico italiano. A partire dagli anni Settanta il consumo di cinema entra in crisi a favore del mezzo televisivo; da tale crisi, il cinema esce alla fine degli anni Ottanta con uno scenario del tutto rinnovato: alle piccole sale locali sono ormai subentrati i Multiplex; il sistema delle prime, seconde e terze visioni è stato sostituito da un sistema in cui il successo di un film si gioca tutto nei primi giorni di programmazione. Si apre in tal modo una forbice tra film italiani prodotti e film italiani di successo (o semplicemente visti e visibili nei circuiti normali). Il sistema produttivo conferma il suo carattere frammentato: per la produzione di film diviene indispensabile l’aiuto dello Stato o dei due colossi televisivi, Rai e Mediaset. Tuttavia, sarebbe sbagliato sostenere che il nuovo scenario implica una frattura con la tradizione o una “rifondazione” del cinema italiano. Al contrario: proprio questa condizione di costante incertezza e vulnerabilità stimola il cinema italiano a cercare una propria identità e visibilità specifica; di qui una ferma intenzione di recuperare e gestire le risorse simboliche del proprio passato, risorse rappresentate appunto da quella matrice di caratteri delineati nei due paragrafi precedenti. Ne deriva un cinema al tempo stesso moderno e ‘antico’, consapevole della propria tarda modernità e radicato nel proprio passato. Le continue rinascite del cinema italiano confermano insomma che il cinema rappresenta una delle principali istituzioni di costruzione e ricostruzione della nostra identità. Attraverso magari dei linguaggi nuovi, stratificazione di letture, modalità di sovrapposizione che rifiutino i generi: del resto, quanto c’è di più amaro in alcuni film della commedia all’italiana e perfino nei cinepanettoni e quanto, invece, di fiabesco in un film di denuncia come Favolacce dei gemelli D’Innocenzo o Lazzaro felice della Rohrwacher? Solo uscendo dalle gabbie dei “caratteri” e ritrovando quella felice contaminazione tra umorismo e tragedia che è tipica della nostra modalità del raccontare storie, secondo noi, il cinema italiano tornerà ad avere un riflettore puntato addosso, per essere applaudito.

Testo di Antonio Mancinelli

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