Zucchero Sugar Fornaciari: ritratto (struggente) di un mito alla Festa del Cinema di Roma

Zucchero “Sugar” Fornaciari, “il Cappellaio Matto dalla voce di cuoio”, come lo definì la stampa inglese, arriva per la prima volta al cinema il 23,24,25 ottobre con il film documentario Zucchero – Sugar Fornaciari, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma.

Il film documentario, con la regia di Valentina Zanella e Giangiacomo De Stefano, racconta lo straordinario artista attraverso le sue parole e quelle di colleghi e amici come Bono, Sting, Brian May, Paul Young, Andrea Bocelli, Salmo, Francesco Guccini, Francesco De Gregori e Roberto Baggio. Un viaggio dell’anima che, grazie a immagini provenienti dagli archivi privati di Zucchero e dal “World Wild Tour”, il suo ultimo e trionfale tour mondiale, va oltre il ritratto di un musicista di successo, arrivando fin dentro i dubbi e le fragilità dell’uomo.

Zucchero al Roma Film Fest (foto Emanuele Manco/Luca Dammico)

Il film “Zucchero Sugar Fornaciari” racconta l’uomo oltre l’artista

Quello di Valentina Zanella e Giangiacomo De Stefano non è una star, non è un divo. È un uomo schivo, timido, semplice, umile. Un uomo della Bassa che, dietro al soprannome con cui è famoso nel mondo, resta Adelmo, nato a Roncocesi, una frazione del comune di Reggio Emilia. Che viene da un altro luogo, un’altra solitudine, dove è tornato quando è stato male. E da dove ha gridato il suo Miserere per annunciare la sua rinascita.

Un artista immenso che parla con delicatezza della depressione che lo colpì dopo la separazione: «Leggevo Bukowski perché stava peggio di me», «ero così depresso che solo l’idea di stare meglio mi spaventava». Che scrive Miserere «perché mi sentivo misero».

Un gigante che protegge ancora il piccolo Sugar, come lo soprannominò la maestra della scuola a Forte dei Marmi, che custodiva nello zaino un vasetto di plastica con un po’ di terra emiliana raccolta prima del trasferimento con la famiglia: «In classe lo tiravo fuori, lo aprivo e lo annusavo».

Alla Festa del cinema di Roma, Zucchero è arrivato con i registi Valentina Zanella e Giangiacomo De Stefano che ci raccontano la genesi di un progetto che è un viaggio nella memoria di tanti sparsi nei cinque continenti.

Zucchero sul red carpet della Festa del Cinema di Roma (foto Luca Dammico, dal sito)

Chi ha dato il via a questo progetto?

 Valentina: Noi. Sapevamo che altre produzioni si erano proposte. Noi abbiamo presentato un progetto scritto in tre, insieme a Federico Fava, sceneggiatore che ha firmato opere come Il Signore delle Formiche diretto da Gianni Amelio. Abbiamo così dato un taglio cinematografico a questo lavoro. È stato accettato e siamo partiti.

«Il film “Zucchero – Sugar Fornaciari” non è l’apologia di Zucchero, ma un racconto onesto, nel quale lui si rispecchia. Non volevamo un documentario celebrativo, ma che mostrasse il percorso di un grandissimo cantante»

Zucchero quanto vi ha lasciato carta bianca e quanto ha partecipato alla scrittura o alla direzione?

Giangiacomo: Nei documentari che io e Valentina abbiamo scritto insieme abbiamo sempre cercato di lavorare con i personaggi di cui parlavamo. Per noi è importante confrontarci con loro senza ingannarli. È chiaro che con Zucchero c’è stato un rapporto di fiducia, di confronto, su quello che noi raccontavamo. Ma è il nostro punto di vista, la nostra regia, che ha indirizzato il prodotto. Zucchero ha avuto modo di vedere gli step di questo lavoro. E, a volte, anche di rompere certi schemi. All’inizio può esserci stata una certa diffidenza, che piano piano è stata infranta.

“Zucchero – Sugar Fornaciari” non è l’apologia di Zucchero, ma un racconto onesto, nel quale lui si ritrova e si rispecchia. Non volevamo un documentario celebrativo, ma che mostrasse il percorso di un grandissimo cantante dal respiro internazionale. Lo facciamo raccontando le radici della sua musica, le ragioni che sono alla base della sua poetica, le sue origini emiliane. Il suo mescolare tutto con gli echi della musica americana che arrivavano negli anni Sessanta, quando era un ragazzo giovanissimo. Da quel mix Zucchero ha creato il suo stile e il suo modo di fare musica, che lo ha portato a girare tutto il mondo. Questo è “Zucchero – Sugar Fornaciari”.

Valentina: Zucchero ci ha dato molto materiale  proveniente dai suoi archivi. La carta bianca c’è stata e non è scontata.

«C’è un’energia che lui ha e che comunica agli altri, che arriva sottopelle. Non c’è calcolo, non recita. Credo che sia questo il misticismo di cui parlano»

C’è un aggettivo che ricorre spesso nel docufilm ed è “mistico”. Avete percepito questo misticismo di cui parlano in molti?

Valentina: Lo dicono Sting, Bono e altri. Quando abbiamo iniziato a conoscerlo, mi sono venute in mente le parole di Leonard Cohen: «C’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra la luce».  Nelle sue ferite abbiamo percepito di avere davanti qualcuno che ha davvero uno “spirito divino”. Lo definirei così. Era tangibile.

Noi non abbiamo fatto un prodotto che dovesse supportare un disco o altro: lo abbiamo sì seguito mentre stava facendo la tournée, ma solo per conoscerlo. Per vedere il tipo di fama che ha in giro per il mondo e per fare delle registrazioni. Poi ci siamo resi conto che, sia che fossimo a Roma, a New York, a Barcellona o in Norvegia, lui riceve sempre lo stesso tipo di affetto. C’è un’energia che lui ha e che comunica agli altri, che arriva sottopelle. Non c’è calcolo, non recita. Credo che sia questo il misticismo di cui parlano.

Nell’ultima parte affrontate il tema della depressione. È un tabù che sempre più persone famose tendono ad infrangere, ma qui non c’è spettacolarizzazione. Viene usata più come un punto di partenza per raccontare una rinascita. Da chi è partita l’idea?

Giangiacomo: Zucchero ne aveva già parlato in altre occasioni. Vorrei però soffermarmi su un aspetto importante che accomuna molti artisti: partono sempre da una sofferenza. Questo, secondo me, vale nella musica come in ogni forma d’arte. Bisogna avere la necessità di esprimersi e questo, di solito, nasce da un disagio.

Anni fa, un personaggio americano di un mio progetto, usò la locuzione “dysfunctional celebration of life”: celebrazione disfunzionale della vita. Anche in Zucchero c’è quel disallineamento interiore, quella diversità che, nel progredire, ti stimola la necessità di creare. Ma tutto parte da una sofferenza, altrimenti è un’arte istituzionale. I grandi artisti partono sempre da qualcosa che rompe uno schema, personale o all’interno della società.

Penso che tante persone si rivedano in quello che vedono, perché tutti noi attraversiamo delle fasi di cambiamento. Credo che Zucchero abbia sofferto durante quelle fasi di transizione, che sono quelle che fanno soffrire ognuno di noi. È il cambiamento che ci genera sofferenza, il perdere qualcosa. E il cercare quel qualcosa ti dà l’urgenza di creare. E questo, secondo me, in Zucchero c’è tantissimo.

«Zucchero ha toccato il cuore di milioni di italiani. Non è un’operazione nostalgia, è il racconto di qualcosa che ha un valore, restituito attraverso uno strumento contemporaneo»

I docufilm, i biopic, stanno avendo molto successo. Portano sullo schermo l’aspetto umano delle grandi star che fanno parte della storia della musica. C’è il bisogno di cristallizzare delle storie al passato?

Giangiacomo: Penso di no. Penso che il documentario piaccia perché è un genere che permette di essere estremamente creativi. Il documentario ha finalmente la ribalta che merita perché lo puoi fare in tutte le maniere. Noi lavoriamo sull’immaginario. Quando si guarda il passato, dobbiamo risvegliare qualcosa che ci riporta a un tempo che non deve essere per forza nostalgico, ma che ci risveglia delle sensazioni, delle immagini, dei ricordi.

C’è un punto del documentario che è emblematico del nostro punto di vista: quando parte Rispetto tu vieni catapultato nella metà degli anni Ottanta. Il nostro immaginario ci riporta indietro nel tempo, anche se tu non sei un suo fan. Ma quella musica fa comunque parte del tuo trascorso. Zucchero ha toccato il cuore di milioni di italiani. Non è un’operazione nostalgia, è il racconto di qualcosa che ha un valore, restituito attraverso uno strumento contemporaneo. Di documentari se ne vedono tanti perché è un linguaggio che funziona.

Cosa avete amato di Zucchero conoscendolo privatamente? Cosa portate con voi di questa esperienza?

 Valentina: La magia, l’umanità. La simpatia. E anche il suo misticismo. Zucchero è sempre stato molto riservato, di lui si è sempre saputo poco. Mi ha colpito il grande amore e affetto che grandi star hanno per lui. Rapporti iniziati per lavoro, che poi sono diventati delle grandi amicizie. Per lui Bono è un amico, Sting è un amico, Brian May è un amico. Questa è una cosa che noi non dimenticheremo.

 Alessandro: Aver avuto la possibilità di entrare nella vita di un personaggio così importante. Per me è una necessità quella di entrare nelle storie. E se a me rimane qualcosa, è proprio di essere potuto entrare in un mondo così importante e di aver potuto dare il mio punto di vista. Per me è un privilegio dal punto di vista personale: raccontare dall’interno è la mia urgenza. Da qui nasce la mia creatività. E questo documentario, secondo me, arriva in un momento in cui c’era un’urgenza anche nella vita di Zucchero.

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