Boston: signora liberal d’America

Vivacità intellettuale, capacità di accogliere e grande senso di inclusività: Boston trae fascino e ricchezza proprio dal suo essere eterogenea. Suona strano, in tempi di nazionalismo dilagante, e ancora di più negli Stati Uniti d’epoca trumpiana. 

Eppure questa è l’aria sottile che si respira in città, eleganza europea con allure decisamente internazionale. E soprattutto costante anelito alla libertà. 
Da sempre, perché nei suoi dintorni cominciò la grande avventura del Nuovo Mondo e quest’anno si festeggiano i 400 anni dallo sbarco dei Padri Pellegrini nella “Nuova Inghilterra”. Più di un secolo dopo nel porto di una giovane Boston, il blitz libertario dei coloni del tea party diede il via alla Guerra d’Indipendenza. 
Un vento di libertà che non ha mai smesso di soffiare e che anche oggi spazza i viali dell’Emerald Necklace, la stupenda collana verde di parchi che sembra adornare la città come il collo di una signora bon ton e che d’autunno assume colori vibranti dall’oro al rosso. E’ il capolavoro di Frederick Law Olmstead, architetto del paesaggio e grande demiurgo di Central Park a New York, che a Brookline, sulla collana vegetale che aveva immaginato in nuce più di un secolo fa, viveva a Fairstead, bella casa di legno; oggi si può visitare, fermarsi nel giardino ombroso, fare un pic nic sognando eleganti merende in stile New England.

Di sicuro amava la libertà anche Thomas Menino, indimenticabile sindaco di Boston di origini campane, fermato solo dalla malattia nel 2014 dopo vent’anni ininterrotti di mandato; aprì in Comune l’Office of Refugee and Immigrants apposta per assistere i nuovi arrivati a Boston. Uno spirito democratico condiviso dalla comunità, che non teme il libero pensiero della gente e la loro diversità, anzi; grazie a grassroots political networks, reti politiche di base, chi è nuovo è aiutato a indirizzarsi verso un esercizio del voto libero e consapevole. Non sorprende dunque che ogni anno si festeggino i cittadini del futuro nell’Immigrants’ Day alla State House, sede dello Stato del Massachusetts. D’altro canto, quando si chiacchiera con molti bostoniani, così istintivamente cortesi, si scopre che la loro famiglia viene dall’Italia, dalla Grecia, dalla Polonia, dal Brasile, dall’Irlanda, insomma da altrove.


I bostoniani erano gente di ampie vedute già nell’800, quando Beacon Hill, il cuore della città, era un quartiere di liberi pensatori e femministe ante litteram. Come Louise May Alcott, che ben espresse la sua visione dei diritti di genere in “Piccole Donne” e che qui visse, prima di trasferirsi con la famiglia in una comunità agricola chiamata Utopian Fruitland, una sorta di congregazione autonoma a forti contenuti spirituali con una controcultura sorprendentemente simile a quella hippie.
In linea con lo spirito liberal dei suoi abitanti, nello stesso periodo a Beacon Hill vennero aperte la prima chiesa afro-americana degli Usa e la prima scuola per neri, l’Abiel Smith School, che ancora adesso si possono visitare. 

Oggi il quartiere è rimasto intatto: le vie strette hanno il selciato di mattoni, i lampioni a gas, le case rosse in stile federale e le vetrate che, a causa di un eccesso di manganese, diventano rossastre al sole. E soprattutto quell’atmosfera da vecchia Inghilterra, come in un romanzo di Conan Doyle. 
Oggi però la via principale, Charles Street, è il paradiso dello shopping di tendenza, quello colto che va oltre le griffe. Si fa ad esempio al Salon, un po’ coffee shop, un po’ negozio di interior design, un po’ galleria d’arte moderna che ospita interessanti esposizioni di vetri artistici. Ma soprattutto questo è il regno degli antiquari, come Twentieth Century Limited, uno dei migliori indirizzi degli Stati Uniti per la bigiotteria d’antan, dove passare ore a scegliere fra pezzi di Miriam Haskell e Trifari, fra oggettidecò in bachelite e magnifici gemelli da polsino. Si va da Bruce Cherner invece per la posateria in argento con decorazioni di grande originalità, mentre l’indirizzo di riferimento per fini oggetti di porcellana giapponese e rare pitture buddhiste su seta è quello di Judith Dowling. A Beacon Hill si cammina con ritmo slow, buttando un occhio qua e là, nella boutique di Millicent Cutler, Oumillie, che vende confortevoli capi femminili, ma anche arredo casa, cucina, ufficio o da Fastachi dove, fra montagne di invitante frutta secca, si scopre che nel Massachusetts si produce ottimo cioccolato.

 Deviando per le strade laterali, si comprendere che l’ex quartiere di anarchici e intellettuali oggi ospita le residenze della happy few, fra bellissimi portoni che durante Halloween e Natale fanno a gara per le decorazioni, giardinetti pubblici colmi di giochi per i bimbi, lavanderie eco. E soprattutto la spesa da Savernor’s, minimarket per gourmet un tempo frequentato dai Kennedy e dai Rockefellers, con ogni ben di Dio, dallo speck altoatesino all’alligatore sottovuoto, dalla verdura bio di piccoli produttori locali alla finocchiona toscana, il tutto raccontato con entusiasmo e competenza da Oliver, quarta generazione di pizzicagnoli d’alto bordo. Se la stagione lo consente, viene quasi la tentazione di farsi fare un panino da mangiare poco più avanti, al Public Garden, guardando le paperette (a cui è dedicata un’iconica statua) che nuotano nel laghetto, le storiche barche a forma di cigno, il ponte sospeso più piccolo (e romantico) del mondo, le truppe d’assalto di scoiattoli interessati al cibo. Magari dalla panchina dove Robin Williams girò un famoso monologo del film Will Hunting, genio ribelle.

Boston, di animo irrimediabilmente intellettuale da sempre, ha biblioteche imperdibili; come l’ultima, dedicata al “suo” Presidente, la John F. Kennedy Presidential Library disegnata dal guru tardo-modernista Ieoh Ming Pei, marmo candido e vetrate ardite da cui si ammira la baia; e la prima, la Boston Public Library con le sue sale rinascimentali e i soffitti dipinti da John Singer Sargent che è stata la più antica biblioteca degli Stati Uniti e la prima a dare libri a prestito. Nel pomeriggio, in una sala affacciata su una corte in stile italiano, si celebra il rito del tè apparecchiato con ricercatezza, fra porcellane e posate d’argento, una ricca selezione di miscele, dolci e canapè di alta pasticceria; e alla fine chi desidera un attimo di magìa, può farsi leggere il futuro nelle foglie di tè.

Se il centro di Boston ha lo charme e anche un po’ di spleen per un’Europa lasciata ma mai dimenticata, altrove la città esprime quell’impulso in avanti che da sempre ha fatto potente l’America. Un’ambivalenza con una linea di demarcazione, il fiume Charles.

Sull’altra sponda, infatti, attraversato il Longfellow Bridge con la T, come è amichevolmente chiamata la metro più antica d’America di fine ottocento, si apre un altro mondo, Cambridge, il comune della greater Boston con le due migliori università al mondo secondo il QS World University Ranking, Harvard e il Massachusetts Institute of Technology (MIT). 
Anche la “People’s Republic of Cambridge” come viene chiamato questo microcosmo illuminato, ha lentezze da vecchio mondo accanto a accelerazioni da fisica delle particelle. E’ il luogo della nuova immigrazione, non quella dettata dalla necessità dell’800 e del secondo dopoguerra, ma quella accademica. Dove le humanities di Harvard e le technologies del MIT creano un universo eccitante in cui si muove una popolazione di studenti e insegnanti, che qui trovano la risposta alla loro sete di conoscenza. Come Franco Mormando, che dopo tanti anni a New York vive a Cambridge e insegna italiano al dipartimento di Lingue e Letterature Romanze del Boston College: «Il boom di Boston negli ultimi anni va di pari passo alla crescita delle università (36 nell’area metropolitana ndr). La ricerca scientifica ha portato grossi capitali e molta gente nuova», racconta. «Da qui l’interesse delle aziende e la costante ricerca di personale qualificato e che abbia un livello culturale alto. Ecco perché le humanities continuano a richiamare studenti». Sbucare dalla metro in Harvard Square, fare un breve giro del campus guidati dagli studenti del Trademark Tour, esplorare le strade di case vittoriane che un tempo furono residenze di professori, è come respirare direttamente una vampata d’aria democratica e liberal, quella che portò Nixon a definire Harvard il “Cremlino sul Charles”.
L’arteria principale di Cambridge, la Massachusetts Avenue, è un susseguirsi di pub come il Bartley’s Burger Cottage con piatti ad orientamento politico ancor prima che gastronomico (volete un Brexit burger o un Trump Tower?), di negozi di abiti vintage, un calzolaio old style che fa ciabattine e cinture a mano, quell’autentico antro per ghiottoni in formato drogheria che è la storica Leavitt & Pierce dove comprare tè rari; e scoperte da non perdere, come il Carpenter Center for the Visual Arts, unico edificio progettato negli States da Le Corbusier. 
Poco più di 5 km separano il mondo condito di secolari tradizioni di Harvard da quello contrapposto del MIT, dove fare quattro passi nel futuro. Alcune delle scoperte nate qui? Internet. L’email. Il radar. Il genoma umano. I robot. La strumentazione delle missioni Apollo.

Chi immagina questo tempio mondiale della scienza come una serie di laboratori asettici sbaglia. Visitando il MIT si scopre che matematica, fisica, informatica, neuroscienze sono bellezza, creatività, interconnessione. Basta mettere piede al MIT List Visual Arts Center, uno splendido spazio che diventa laboratorio creativo affinché gli artisti, anche quelli giovani e in crescita, sperimentino. Opere spesso provocatorie, in cui esiste sempre un nesso fra l’atto creativo e la scienza nella concezione, nella realizzazione, nella deformazione della realtà che diventano esposizioni temporanee motivo di incontro, studio, scambio di idee. Quelle dei grandi maestri entrano a far parte della Public Art, la collezione di oltre 70 opere che rende gli edifici e i prati del campus – insieme alla grande ricerca scientifica che vi si svolge – un luogo superlativo. Come lo Stata Center, l’incredibile edificio a torri inclinate e angoli aggettanti di Frank Gehry che ha sostituito un mito, il Building 20, teatro di grandi scoperte. Come lo straordinario coloratissimo pavimento concettuale di Sol LeWitt e la vela di Calder. Come l’ondulata Baker House, la casa dello studente di Alvar Aalto dal cui tetto per tradizione a fine corso si getta un pianoforte. Come la commuovente MIT Chapel cilindrica di Eero Saarinen con i riflessi dell’acqua che giocano sulle pareti. Un’alternanza di opere in esterno e in interno che compongono una collezione straordinaria. 
Al MIT la creatività non è solo un bel contorno, ma il cuore stesso della ricerca: basta entrare al Media Lab, nel Lifelong Kindergarten, dove si studia l’apprendimento creativo attraverso il gioco. Il laboratorio sembra un’immensa stanza dei giochi perché i ricercatori sperimentano praticamente ciò che poi viene tradotto in bit. Qui lavora con entusiasmo Carmelo Presicce, ingegnere informatico di 36 anni e da quasi cinque ricercatore e sviluppatore di Scratch, gioco online con 47 milioni di giocatori nel mondo: «a Bologna sviluppavo app e insegnavo agli adulti, finché un bimbo di sei anni mi ha fatto conoscere Scratch, ambiente di programmazione gratuito e interattivo per bambini dove si crea l’animazione e la storia del personaggio aggiungendo situazioni, come fossero mattoncini Lego. Ne sono stato conquistato». Da lì a fondare un “coder dojo”, un club per bambini di programmazione di Scratch, conoscere l’inventore del gioco, Mitch Resnick, e essere chiamato a far parte del suo team a MIT è stato un susseguirsi di possibilità che si sono avverate.

Sembra essere nella natura di Boston: un luogo dove ancora adesso si avverano le possibilità per molti. 

Certo bisogna volerlo fortemente. Essere animati da passione e/o determinazione. Quest’ultima non manca di sicuro a Julia Oliveri Orioles, studentessa italo-giapponese  alla Questrom School of Business della Boston University: «L’ambiente è molto coinvolgente e internazionale», dice. «Il fatto di avere io stessa doppia nazionalità mi ha aiutato a inserirmi e in questi quattro anni mi gioco la mia occasione per il futuro: il mio momento è adesso». Futuro dove? Negli Stati Uniti, of course!

Sono in tanti a pensare come Julia che questa sia ancora terra di opportunità: in 40 anni i sudamericani sono aumentati del 75%, gli asiatici (vietnamiti, cambogiani, ecc) dell’85%. E soprattutto i cinesi, che vantano un giovane e avvenente membro al City Council, Michelle Wu, e una ottocentesca Chinatown con tanto di Arco dell’Amicizia in stile orientale. Anch’esso divide (o connette) il passato e il futuro, gli stretti vicoli di negozietti che espongono anatre affumicate, radici della medicina tradizionale e noodles, dalla Rose Kennedy Greenway, un bellissimo nastro verde di oltre un miglio, con orti, fontane, piazze, spazi fioriti e opere d’arte che attraversa il Financial District lungo il fronte del porto. 
Merito di un cinese è anche un vanto del Theatre District, il Boch Center Wang Theatre, il teatro e cinema più grande del mondo quando fu costruito nel 1925. In uno stile barocco così eccessivo da essere affascinante, fu music hall negli anni ’60 e venne riportato agli antichi fasti da An Wang di Shangai, mecenate divenuto a Boston un pioniere nel campo dei computer e degli elaboratori. Il palcoscenico è così grande da ospitare non solo balletti classici ma musical colossali e i 3500 posti consentono concerti di grande richiamo come quelli di Lady Gaga, dei Rolling Stones, dei Queen, di Elton John, artisti di cui si conservano memorabilia in una sala del foyer
Se invece si preferisce una musica più intellettuale e intima in un ambiente raccolto, la città ha moltissimi club, come Beehive, dove farsi una dozzina di ostriche del New England ascoltando le band di jazz, reggae, soul; o il Wally’s Café, piccolissimo e storico, che offre ottimi cocktail e jam sessionininterrottamente 365 giorni all’anno.

Sì perché Boston ha anche un animo musicale. Lo conferma Matteo Casini, insegnante di storia del Rinascimento alla University of Massachusetts, nonché bluesman di talento che in città suona con diversi gruppi: «Per le mie ricerche è importante poter consultare il grande patrimonio librario di Harvard. Qui inoltre la musica, l’altra mia grande passione oltre alla storia, è radicata nel vivere quotidiano delle persone e sovente i musicisti si ritrovano per improvvisate jam session».  
La musica a Boston è davvero alla portata di tutti: tanto che la School of Honk è un meeting domenicale frequentatissimo, dove la gente si trova e suona insieme. Anche chi non è capace, tanto per provare e divertirsi. Magari steccando le note, ma in perfetto accordo con il genius loci della città.

Testo e foto di Elena Bianco

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