Chi è Teddy Santis, il nuovo direttore creativo di New Balance che vuole cambiare lo streetwear

Lo scorso 5 aprile New Balance ha annunciato la nomina di Teddy Santis al timone creativo della linea Made in USA.La notizia equivale a un sigillo sull’annata 2020, rivelatasi eccezionalmente positiva per la società che si è piazzata quarta nell’annuale Current Culture Index di StockX, report che fotografa al meglio lo stato dell’arte del mondo street. Il merito di questo exploit è da ascrivere anche al neodirettore artistico, che ha collaborato varie volte con NB, infondendo un appeal per certi versi scanzonato, ma convincente, nelle calzature più emblematiche della label.



Santis non è certo un neofita del fashion system, in cui è entrato ufficialmente nel 2014 con il brand Aimé Leon Dore e da allora, pur mantenendo l’alone di outsider allergico al presenzialismo e alquanto complicato da inquadrare nelle categorie abituali (streetwear, lusso, high-end et similia), continua a mietere consensi di critica e (soprattutto) commerciali.

Newyorchese doc, nato e cresciuto nel Queens, è in effetti un designer atipico, dal curriculum privo della consueta trafila di fashion school e griffe blasonate, e si avvicina quasi casualmente alla moda, attratto dalla prospettiva di farne il connettore delle sue tante passioni ed esperienze, dai brani rap e hip hop che hanno cadenzato gli anni ‘90 (Tupac, Nas, Moob Deep ecc.) ai campetti da basket del borough, dall’eleganza old school della buona borghesia cittadina, codificata nelle collezioni di marchi come Ralph Lauren, Brooks Brothers e Gant, al culto per lo sportswear coevo e relative icone, Michael Jordan über alles.

Alla fine dei Duemila, Santis lavora nella tavola calda dei genitori nell’Upper East Side, a rischio chiusura per la costruzione di una linea metro; valuta quindi il proverbiale piano B, concretizzandolo nell’impiego in un negozio di occhiali dove gestisce la parte marketing, e alcuni clienti, apprezzandone le doti creative, lo incoraggiano a provare con l’abbigliamento. Nel 2010 comincia così a familiarizzare con l’idea di un suo brand, in cui trasferire i suddetti interessi e declinarli in capi dalle vibe metropolitane, che puntino sulla pulizia di linee e volumi, una sorta di casualwear racé. Procede per tentativi ed aggiustamenti graduali, evitando da subito la tentazione (comune alla quasi totalità delle etichette street che, contemporaneamente, assurgono alla notorietà globale) di sfornare ad libitum magliette, hoodie, tute & co, concentrandosi piuttosto sulla definizione di un’estetica riconoscibile, precisa nella costruzione eppure variegata come la città da cui trae linfa vitale, New York.



Quattro anni dopo il marchio viene registrato come Aimé Leon Dore, unendo l’equivalente francese di “amato”, il soprannome del padre di Santis e le quattro lettere finali del suo nome di battesimo, Theodore. Viene aperto anche un pop-up a NoLiTa, vivace quartiere incastonato tra East e West Village, che finisce con l’essere uno store a tutti gli effetti.

ALD – come viene generalmente indicato – inizia a farsi la reputazione di risposta newyorchese ad A.P.C. (label che dimostra come, nella moda, si possa rimanere rilevanti pur rifuggendone i ritmi forsennati e la ricerca esasperata della novità): il suo è uno streetwear in salsa preppy (o viceversa), che tiene insieme i key pieces dello stile college (camicie Oxford, chinos, polo a righe, cardigan e compagnia bella) e quei capi sportivi – dalla felpa alla tracksuit, dallo smanicato al bomber – ormai dogmatici nel menswear.
Santis mette infatti sullo stesso piano realtà (all’apparenza) antitetiche, citando Ralph Lauren come Nom de Guerre, un collettivo che i bene informati sostengono abbia, di fatto, inventato lo streetwear.



Le collezioni dei primi due anni puntellano quella crasi tra athleisure e tailoring che diventerà la specificità della griffe, tra overcoat piazzati sui pantaloni in felpa e fleece jacket nobilitate dal cappotto spigato, intervallando il tutto con capsule in coppia con l’amico Ronnie Fieg di Kith (altro nome in rapidissima ascesa nell’industria fashion) e una prima co-lab di spessore nella S/S 2015 con Puma, in cui le sneakers States vengono aggiornate e colorante di nuance ricorrenti nella palette di ALD, ossia crema, ghiaccio e burgundy.

A partire dalla F/W 2016, alle proposte più sensibili a gusti e umori del pubblico viene affiancata la linea Uniform Program, che raccoglie evergreen quali t-shirt, maglie girocollo, jeans e sweatpants, tendenzialmente monocromatici e dalle tonalità sobrie (blu navy, verde militare, bianco ecc.).

Le collaborazioni, nell’ottica di ALD, non sono uno stratagemma per ottenere profitti e visibilità nel minor tempo possibile, bensì un’opportunità da perseguire solo nel caso in cui si intraveda un reale valore aggiunto. Sotto questo aspetto, con quelle del biennio 2017-18 si registra uno scarto nell’evoluzione stilistica del brand, che dapprima realizza modelli in lana e pelo di cammello degli inconfondibili cappellini New Era con le iniziali intrecciate dei New York Yankees, poi fa squadra con un’istituzione dell’outerwear come Woolrich (sbizzarrendosi con parka abbreviati a mo’ di blouson, gilet in pile zeppi di tasche e puffer jacket a maniche corte), quindi rilegge i classici boots Timberland, trasformandoli in scarponcini bicolor con punta squadrata, stringhe laterali e lacci che abbracciano il collo della scarpa.
A queste partnership verrà dato impulso con ulteriori edizioni limitate, tra boat shoes in pelle pregiata (nel caso di Timberland) e duvet in velluto millerighe, giubbotti dalle cromie sgargianti, camicie e pantaloni attraversati da trapuntature ondulate, piumini color block (in quello di Woolrich). In seguito verranno siglate nuove collaborazioni con Paraboot, Drake’s (una collezione che esalta il côté sartoriale del marchio) e Porsche, per cui Santis customizza la leggendaria coupé 911 Carrera 4, con annessa capsule di capi e accessori coordinati.



Nel 2019 ALD inaugura il nuovo flagship di Mulberry Street, tutto modanature, legno e parquet, ma soprattutto vengono presentate le runner New Balance 997, rinvigorite da sprazzi di colore pop, che danno il la al sodalizio creativo di cui sopra: l’azienda affida infatti al marchio l’upgrade di altre trainers d’archivio, dalle 990v2 e v5 (le dad shoes par excellence, qui giocate sulla giustapposizione di materiali e pannelli differenti) alle P550, sneakers dichiaratamente nostalgiche, che sembrano uscite da un match Nba degli eighties. Ogni uscita è accompagnata da campagne pubblicitarie d’antan, con fondale neutro e slogan sardonici, i cui protagonisti sono modelli “improvvisati” epperò cool: signori agée impeccabili nella tenuta d’ordinanza ALD, eccentrici locals, giocatori amatoriali di basket.

L’intesa tra la griffe e New Balance è in tutta evidenza proficua, e adesso viene coronata dalla direzione creativa dello stesso Santis; chissà che, anche grazie al nuovo incarico, il fondatore di Aimé Leon Dore non riesca a promuovere una diversa concezione dello streetwear, che anteponga la qualità alla quantità e si liberi dell’ossessione per l’hype. 

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