Creo, dunque sono: l’identità spiegata dai creativi Bipoc

Quello che avete fra le mani non è un articolo pieno di rimostranze, ma un insieme di storie che raccontano l’esperienza di sette giovani, sette creativi BIPOC. Storie che illuminano e sorprendono quando si parla di creatività italiana. Non è facile. Di fronte alla parola italiano c’è infatti chi evoca un sistema di cose cristallizzate. Eppure, come spiega lo storico John Gillis in Commemorations: The Politics of National Identity: «L’identità non è un’entità fissa, ma piuttosto una rappresentazione della realtà incastonata in classi complesse, genere e rapporti di potere che decidono cosa viene ricordato o dimenticato, da chi e per quale fine».
Scrive lo storico d’arte Tomaso Montanari in Se amore guarda (Einaudi, 2023): «Quella geografia di cicatrici che è il patrimonio culturale parla del nostro rapporto col tempo, della nostra intima pluralità. E ci offre tutto il contrario di quello che ci offre la cartolina patinata dell’appartenenza monoculturale: un luogo dove impariamo la fragilità e la limitatezza, la provvisorietà e la contraddizione. Non una marcia trionfale, con le bandiere che garriscono al vento, ma un cammino doloroso e lento, pieno di deviazioni e ripensamenti, di vicoli ciechi e felici illuminazioni. Un cammino fatto di incontri».

Questo è, dunque, il nostro obiettivo: contribuire al cambiamento più difficile, quello della nostra mente. È una questione di sguardi, prima di tutto. Perché l’arte insegna che, laddove sembra si vedano il bianco o il nero, c’è tutta una scala di grigi.

Valeria Weerasinghe: «Siamo storie che stanno trovando la forza di uscire»

La creatività per Valeria Weerasinghe, illustratrice, regista e programmatrice, è fatta di storie che trovano la forza per uscire. Nelle sue animazioni la linea non è mai retta: si rompe, si contorce, ondeggia in un moto perpetuo che supera i confini. Se la diversità venisse insegnata nelle scuole, forse si smetterebbe di insegnare a colorare entro i margini. Valeria lo ha imparato vivendolo. Nata in Italia da genitori originari dello Sri Lanka, spiega la vita come fatta di chucks, di pezzi: «Avellino, Milano e Londra sono i miei pezzi di vita. Per le famiglie che provengono da ex colonie inglesi, come la mia, c’è sempre una forte spinta a uscire».
Pezzi che si smontano e ricompongono in un gioco dove la differenza, come un diverso colore, non è altro che una tavolozza ricca di sfumature: «All’inizio, in quanto italiana, non mi sono mai fatta domande. Poi, leggendo il libro di Nadeesha Uyagoda, L’unica persona nera nella stanza, ho iniziato a fare attivismo». È la differenza fra reale e percepito che Valeria colma con il suo lavoro nell’animazione, genere da sempre visto come relegato al mondo infantile: «C’è questa idea dell’animazione come un genere dell’infanzia. Eppure, col mio lavoro ho imparato che l’animazione è un mezzo per raccontare una storia con la stessa potenza di un live action movie».
Da diversi anni Valeria è Head Animation Programmer al La Guarimba Film Festival, che si tiene ogni estate ad Amantea, in provincia di Cosenza: «Ogni anno coinvolgiamo degli illustratori per realizzare la locandina del festival con la sua immancabile mascotte, una scimmia. È bello vedere come uno stesso tema può essere interpretato in modi così diversi».

Tommy Kuti: «Racconto la generazione che si costruisce il futuro»

Per il modo in cui si muove, il rapper Tommy Kuti è destinato a straripare: «È l’abilità di rimanere bambini da grandi – spiega – Io sento che sono grande, però l’aspetto creativo del mio lavoro è dare sfogo all’interiorità abitata dall’io bambino». Significa intercettare quella meraviglia che ha preservato sin da piccolo, quando cresceva nel quartiere I Cinque Continenti di Castiglione delle Stiviere, provincia di Mantova: «Ho avuto la fortuna di vivere in una generazione in movimento, che è andata via o ha studiato». E tra le strade del quartiere arriva anche la musica hip hop, che costruisce l’identità di un’intera generazione: «Il nostro modello era 50Cent, ci colpiva il suo modo di essere autentico al cento per cento. Ci ha definiti come generazione, ci siamo ispirati a lui».
Con il disco Summer of Love, Tommy Kuti surfa in cima la nuova wave dell’afrobeat italiano: «Si tratta di una musica spirituale, che sa farti ballare perché entra nell’anima. Anche in Italia ci stiamo arrivando». Questione di ritmo, silenzio e musica che fanno una vita. Il segno della creatività.

Epoque: «La musica mi ha fatto uscire dalla cameretta»

Per Janine Tshela Nzua, in arte Epoque, l’afrobeat era nell’aria della domenica, quando in famiglia si ascoltava musica congolese e i suoi fratelli cantavano hip hop: «Ricordo che avevano un lettore cd e io andavo ad ascoltare la loro musica, che per me era un angolino di felicità, perché mi smuoveva. Poi ho iniziato a fare afrobeat, è venuto quasi naturale». Epoque è una cantante e rapper che ha trovato nella sua Torino il luogo della creatività: «È la mia casa, quando ci ritorno sono davvero contenta, impari sempre cose nuove». Per lei, l’afrobeat è anche un modo per raccontare l’Italia di oggi: «Prima l’afrobeat era una musica vista come qualcosa da ascoltare in casa, quasi da tenere nascosta. Ora il fatto che si balli anche nelle discoteche è fighissimo». È la storia di chi scopre che ha una propria lingua, che anche una sonorità lontana può ritrovarsi.

Miguel Gobbo Diaz: «Ho imparato ad aver cura dei sogni»

Miguel Gobbo Diaz voleva fare il calciatore. Poi, la parte di Lisandro in Sogno di una notte di mezza estate al liceo fa della possibilità di fare l’attore una scintilla poi diventata un incendio. Padre di Vicenza, madre di Santo Domingo, ha trovato nel desiderio del palco un ring dove combattere: «Mentre cercavo di entrare in una delle migliori scuole di recitazione in Italia, mi veniva detto che non ero ‘utilizzabile’ sul mercato». Perché in Miguel, veneto e nero, il colore della pelle c’entrava tutto, ma è riuscito a disinnescare il razzismo: «Se mi fossi focalizzato su quello che certa gente pensava di me, mi sarei bloccato. E invece, ho capito che sarei stato io a scrivere il mio destino, non gli altri».
Oggi è protagonista della serie Rai Nero a metà e non dimentica di aver cura dei propri sogni: «Il mio obiettivo è diventare un attore internazionale. Con un’esperienza a Londra, poi i primi lavori a Roma, sono certo che arriverà il momento giusto. Sono qui per questi obiettivi, c’è sempre tempo per abbassare l’asticella» dice. E c’è da credergli, se si pensa che tutto è nato su un palco dove i riflettori erano puntati su tutto, tranne che su di lui: «Certo, ho subito episodi di razzismo. Ma sono qui a insegnare alle persone che, malgrado tutto, si ha la forza di focalizzarsi sulle cose belle. Perché nell’oscurità è più facile vedere la luce, anche quando è piccola piccola».

Haroun Fall: «Lavoro per dire alla generazione di mia figlia di non aver paura»

Prima di indossare i panni di attore, Haroun Fall ha vestito per anni la camicia bianca, dress code della borghesia della Torino in cui è cresciuto: «Ho avuto l’opportunità di frequentare buone scuole. Ma ero l’unica persona nera nella stanza. Per questo, all’inizio ho rifiutato la mia cultura biologica, perché sono nato in un paese che non è abituato all’immigrazione». Poi si è fatta strada l’intima consapevolezza di essere portatore di una storia di cui andare fiero: «È stata una lenta realizzazione personale, un processo che mi ha portato a riscoprire le mie radici. È un percorso di consapevolezza che mi propongo di completare nei prossimi anni andando in Senegal. L’ultima volta che ci sono stato avevo due anni».
Per Haroun nella vita non c’è mai il tempo in cui la vita ti rende pronto: lo sa bene lui, che ha iniziato a fare teatro per dare sfogo al suo iperattivismo. Quando ha deciso di seguire la settima arte, ha compreso che il talento è tale se incanalato: «Penso che ogni artista possa essere creativo, ma creatività significa anche essere preparati, avere gli strumenti per poter raccontare un personaggio. Sennò stai solo leggendo un copione» puntualizza. Solo con questa consapevolezza il cinema può diventare paradigma di altro. Per Haroun questo significa anche aiutare la generazione che verrà dopo di lui, come sua figlia: «Vorrei raccontare che un’integrazione è possibile, che se a una persona nata dal niente viene data l’opportunità può davvero diventare se stessa».

Abreham Brioschi: «Creatività è permettere a due mondi diversi di dialogare»

Abreham Brioschi ha cominciato a pensare al design fin da bambino quando, nella campagna fuori Milano, giocava a costruire pezzi di legno: «Ho capito che tutto ciò che ci circonda è design, e così crescendo mi sono appassionato». Una laurea alla NABA è per Abreham la tappa di una riflessione profonda sul concetto stesso di design: «Per me la parola riempire è centrale. Molti oggetti riempiono le nostre case, occupano uno spazio senza comunicarci alcuna emozione. Altri oggetti, invece, vengono semplicemente posizionati, dimenticando la loro funzionalità. Io cerco di restituire funzionalità all’estetica, creando oggetti legati alle mie origini e al gusto italiano».
Abreham si definisce milanese, ma è molto legato alle sue origini etiopi. Questo gli ha permesso di contaminare il design, prendendo dal mondo africano il senso di comunità e di umanità: «È proprio da questo bisogno che nascono le mie idee, dove le linee armoniche e organiche della cultura africana sono l’ispirazione massima del mio design». Quello di Abreham è lo scontro/incontro di due linguaggi diversi, ma che permettono di imparare e scoprire sempre qualcosa di nuovo da ambo le parti, in un processo di osmosi continuo: «La creatività italiana è artigianalità, che è forza, cultura, storia. Per questo nei miei lavori gli artigiani sono imprescindibili».

Abdou Diouf:. «Scrivo del desiderio di sole che abbiamo dentro»

Per Abdou Diouf, nato in Benin e cresciuto ad Arezzo da genitori senegalesi, la scrittura arriva in modo dirompente, innescata da una circostanza drammatica: «Il 13 dicembre 2011 due senegalesi sono stati assassinati vicino a dove abitavo io, a Firenze. È stato il momento in cui mi sono reso conto che tutto quello che dicevano sui migranti, le discriminazioni, il razzismo, erano sotto casa. Ho compreso di avere Un cuore a metà, come scrivo nel mio libro, dove la parte italiana e quella senegalese vanno in conflitto».
Oggi Abdou è biologo molecolare di giorno e scrittore attivissimo di notte, anche quando la notte non è un tempo fisico, ma uno stato d’animo: «C’è sempre nostalgia in ciò che scrivo, quel desiderio di cieli tersi bagnati dal sole, come in Senegal. La scrittura mi ha insegnato a dare forma a tutto questo: un colore sfumato dove Italia e Senegal sono due luoghi indissolubili». Per Abdou, dare forma ai pensieri attraverso le parole significa anche lanciare un messaggio: «Quando scrivo, lo faccio per chi non mi leggerà mai, perché ho voglia di aprire un pensiero chiuso e ristretto. Ho la fortuna di essere una persona libera, cioè che ha la libertà di scegliere. Credo sia un privilegio: è come trovare il sole dentro sé stessi».

Haroun Fall e Abdou Diouf:

Photographer Erica Fava 

Photographer assistant Susanna Bucci

Location ISFCI Academy Rome

Valeria Weerasinghe, Epoque, Abreham Brioschi, Miguel Gobbo Diaz, Tommy Kuti:

Photographer Amilcare Incalza

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