La famiglia, le scelte, il teatro: “Dall’alto di una fredda torre” raccontato da Filippo Gili

Alla Festa del cinema di Roma, tra lo scintillio di gioielli veri e bigiotteria, c’è una perla: Dall’alto di una fredda torre, scritto da Filippo Gili, con la regia di Francesco Frangipane, prodotto da Lucky Red e Rai Cinema.


Dall’Alto di una Fredda Torre, ovvero come si può recitare in maniera contemporanea una classicità.
Il classico “chi butti giù dalla torre? chi scegli tra mamma e papà?” tradotto per la sala. Nel film la collaudata squadra nata vent’anni fa sulle assi del teatro Argot di Roma, formata da Filippo Gili, Francesco Frangipane, Vanessa Scalera e Giorgio Colangeli, alla quale si aggiungono Edoardo Pesce, Anna Bonaiuto, Elena Radonicich e Massimiliano Benvenuto, crea un gioco di scatole cinesi emotive ed emozionali. Un gioco di specchi tra personaggi, figure archetipiche, voci dell’anima.

Scena del film 'Dall’alto di una fredda torre', ph. Arianna Lanzuisi
Scena del film ‘Dall’alto di una fredda torre‘, ph. Arianna Lanzuisi


Il film ha la brillante sceneggiatura di Filippo Gili

Gili scrive, e Frangipane dirige, la storia di un universo che si sgretola un frammento dopo l’altro. Di un mondo di affetti, paure, silenzi, bugie bianche che ipocritamente mettono a tacere la nostra morale. Di una coperta sempre più corta che cerca di nascondere una verità sempre più ingombrante. Alla Festa del cinema – dove Francesco Frangipane ha ritirato il premio come Miglior Opera Prima presso lo spazio Lazio Terra di Cinema – abbiamo incontrato Filippo Gili per affrontare i temi del film.

«In questo momento storico la morte è furbescamente elaborata in maniera esterna a noi, giornalistica. Nella migliore delle ipotesi narrativa. Ma mai come centro fondamentale della nostra esistenza»

Elena (Vanessa Scalera) e Antonio (Edoardo Pesce) in un momento in cui anche la morte è spettacolarizzazione, a cosa ci riportano?

Al fatto che la morte è un patrimonio della spiritualità e non degli eventi. In questo momento storico la morte è furbescamente elaborata in maniera esterna a noi, giornalistica. Nella migliore delle ipotesi narrativa. Ma mai come centro fondamentale della nostra esistenza. La morte è il fondale davanti al quale ogni cosa assume una forma. In questo film, la forma che assume la loro vita è radicale, tremenda, ma è il paradigma di una situazione che, in un’altra epoca, si sarebbe vissuta in maniera più autonoma, più personale. Oggi sono i conflitti in Palestina, in Ucraina, gli atti di terrorismo e gli atti di crimine generalizzato, le tragedie attraverso le quali noi facciamo, superficialmente e comodamente, i conti con la categoria più importante che esista: la morte.

La dottoressa (Elena Radonicich) a un certo punto dice ad Antonio, uno dei figli: «Scegli di pancia, quindi d’istinto». Ma cuore e mente sono così scollegati? Possiamo davvero tirar su un muro all’interno di quella che in realtà è la vita? E poi perché la parte più vera di noi dovrebbe essere quella “di pancia”?

La dottoressa secondo me agisce con dei parametri alla fine quasi scorretti, perché per lei pensa che almeno uno vada salvata. E secondo me gioca d’azzardo, sia con Elena che con Antonio. Lei fa il suo gioco. Dire “agisci di pancia” è dare voce allo strano ricatto che all’improvviso la vita mette davanti ai due fratelli ed è un ricatto che, oggettivamente, crea una forbice tra razionalità e irrazionalità. Perché, attraverso la razionalità, la scelta non è perseguibile. Attraverso la pancia, un indice infantile, istintuale, la risposta a chi è meglio tra papà e mamma, a chi butti giù dalla torre, in teoria si può dare.

Scena del film 'Dall’alto di una fredda torre', ph. Arianna Lanzuisi
Scena del film ‘Dall’alto di una fredda torre‘, ph. Arianna Lanzuisi

«Scrivere per il cinema, per me, è un po’ un tornare a casa. Il teatro mi ha però dato la possibilità di approfondire alcune tematiche»

Cosa perde e cosa guadagna il testo passando da una drammaturgia a una sceneggiatura? E qual è stata la parte più difficile da tradurre? In teatro anche il respiro trasmette qualcosa…

Se il montaggio è fatto bene, il respiro si può trovare anche al cinema, in una sapiente cura della dinamica espressiva e temporale della scena. Quello che mi sono perso è la possibilità di andare fino in fondo nella spiegazione della perversità, ricorrendo però a un linguaggio infantile, violento, onirico, per poter arrivare alla stessa conclusione alla quale la razionalità arriverebbe molto prima ma con meno coraggio. Perché non si può salvare la vita né all’uno né all’altro.


La possibilità che dà la dialogalità lunga, estesa, di una scena teatrale, l’ho persa. Ma ho guadagnato, in termini di paradigmi visivi, la capacità di raccontare l’esistenza di due genitori, il fatto che abbiano capito, la leggerezza filosofica con cui si avvicinano alla catastrofe presentita e non domandata perché si fidano. Il padre si fida dei figli: non ha capito la malattia ma ha capito che una catastrofe sto arrivando. O a lui o a lei. E, se ci si ama, è la stessa cosa. Però rispetta in maniera meravigliosa questa educazione dei figli nei loro confronti: questi figli che diventano padri e i padri che diventano figli. Il padre accetta questo ribaltamento dei ruoli con amore, ridiventa un bambino che passivamente accetta la realtà. E questo è un guadagno nella trasposizione cinematografica.

Molti pensano che tu sia un drammaturgo prestato al cinema…

La perversità delle storie che scrivo è che sono tutte nate come sceneggiature trasformate per il teatro. Scrivere per il cinema, per me, è un po’ un tornare a casa. Il teatro mi ha però dato la possibilità di approfondire alcune tematiche.

Scena del film 'Dall’alto di una fredda torre', ph. Arianna Lanzuisi
Scena del film ‘Dall’alto di una fredda torre‘, ph. Arianna Lanzuisi

«Il film ti dice che è ridicolo tentare di scegliere quello che non si può scegliere»

La scena che ami di più?

Quando Elena sta in macchina con Antonio e cerca di scendere dalla macchina in corsa. E Dario, il cavallo bianco, taglia loro la strada. Dario è la sostituzione del problema, è la malattia che corre, ma è anche l’amore che questa malattia fa emergere, perché la malattia rigenera l’affettività. Dario è il super ego che in qualche modo colloca definitivamente Antonio nella situazione di non ritorno.


Perché, anche se dovessero scegliere di non scegliere nessuno dei due genitori, è comunque una scelta. Dario è quello che li guarda da lontano alla fine del film, che torna ma non rientra, li ama ma non li riaccoglie. Ho amato scrivere questa scena perché è la chiave che mi ha consentito di aprire la pièce teatrale trasportandola nel paesaggio cinematografico. Sono soluzioni che in teatro non hai.

Chi ha deciso quel finale? A teatro si è avvezzi a finali aperti. Al cinema pensi che lo spettatore si sentirà un po’ abbandonato?

L’ultima scena è stata pensata da entrambi. Qui Francesco ha avuto un ruolo importante. Il pubblico cinematografico è sicuramente più abituato ad essere accompagnato, mentre quello teatrale è più allenato a dover fare i conti con le proprie elaborazioni, ad affrontare una specie di transfer con il testo. Secondo me, i margini per evadere in maniera occidentalmente soddisfacente, non c’erano. Il finale è chiaro e anche la decisione dei figli si legge benissimo.


Il film ti dice che è ridicolo tentare di scegliere quello che non si può scegliere. Pretendere che il film dica chi muore, lo trovo volgare. Il punto è: come vivi la tragedia che si scatena se arriva l’archetipo nella quotidianità? Che sia complesso di Elettra o complesso di Edipo, che facciamo?

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