Disembody: la mostra in cui il corpo diventa protagonista

Si chiama Disembody la mostra fotografica di Manuel Scrima presentata alla Fabbrica Eos a Milano a inizio Ottobre e prolungata fino al 19 Novembre dato il grande successo riscosso durante le ultime settimane.

L’esposizione, a cura di Chiara Canali, raccoglie un corpus di lavori inediti di grande formato (100×100 e 50×50 cm) stampati su lastre di vetro e plexiglass montate assieme, in una sovrapposizione di più livelli che ricreano la complessità dell’immagine finale. Sarà presente, inoltre, un pavimento a mosaico, costituito da un puzzle di 400 mattonelle di pietra tagliate a mano, che riportano le stampe fotografiche con i soggetti creati dall’artista. Le mattonelle sono composte da materiali a base quarzo, prodotte da Stone Italiana, una delle aziende più all’avanguardia nella produzione di quarzo e marmo ricomposto.

Noi abbiamo incontrato il fotografo che ci racconta nell’intervista il suo percorso e l’ispirazione per Disembody, per cui tra l’altro sono previsti degli sviluppi futuri…

Quando hai iniziato a fotografare e con quali intenzioni?

Quando mio padre regalò una macchina fotografica a mio fratello maggiore. Avevo credo 6 anni e andammo subito allo zoo a scattare foto eccezionali: noi con le tigri. L’intento era già quello di creare un mondo immaginario, alla Sandokan. Già i miei primi scatti non erano le banali foto di famiglia, che ad esempio faceva mio padre, ma volevano essere qualcosa di nuovo. Poi, da allora, non ho mai smesso.

Se intendi quando ho iniziato a fotografare a livello professionale, è nel 2006. Terminata l’università ho subito trovato lavoro, un buon lavoro a tempo indeterminato, eppure non ne ero soddisfatto. Con grande disappunto della famiglia e sconcerto degli amici, ho lasciato tutto per andare a vivere in Africa e tentare la carriera di fotografo e regista. Ho passato 3 anni in Africa per fare ricerca su me stesso a contatto con quella che era la cultura più lontana dai miei orizzonti formativi. Ho vissuto tra le popolazioni tribali della Rift Valley (Kenya, Etiopia, Uganda e sud Sudan), la culla dell’umanità, e in questi posti ho toccato con mano la sapienza e la spiritualità. L’incontro con queste culture mi ha fatto riflettere. Chi sono? Cosa voglio? Cosa mi accomuna e cosa mi distingue dai miei simili? Lo scopo della vita è sempre quella di conoscere se stessi.

Cos’è per te la fotografia?

È uno strumento che mi è utile per ricreare qualcosa che ho sognato o immaginato. Qualsiasi soggetto è un pretesto per avvicinarsi al senso della vita. Ma chi sono davvero ancora non l’ho capito. Mia madre è belga, di origini francesi, e mi ha educato in un modo molto diverso dagli altri miei coetanei italiani. Mio padre è arbëreshë, appartenente a una etnia che ha resistito in Italia quasi intatta per 500 anni. Seppur io sia nato in Italia, non mi sono mai sentito del tutto italiano, anche se ho respirato fin da bambino la cultura del nostro paese. Credo che l’incertezza dei riferimenti favorisca la creatività.

Quale macchina fotografica utilizzi e che particolari accorgimenti tecnici usi?

Di solito utilizzo macchine Nikon e mi trovo bene. Per realizzare le foto della serie Disembody utilizzo un grande telo retroilluminato e una luce laterale dura, ad esempio una parabola come diffusore. Ciò che più conta è che tutto sia geometricamente allineato e simmetrico in ogni foto: che l’asse ottico passi esattamente nel centro del cubo che fotografo e che il soggetto sia parallelo al piano focale della macchina fotografica. Una volta che tutto è ortogonale ci si può lasciare andare alla libera ispirazione. Sono pignolo e perfezionista.

In che modo la tua fotografia si rapporta con la cultura classica e umanistica?

È più forte di me: la mia fotografia è sempre ispirata dalla cultura classica o neoclassica. Quando non seguo i canoni di bellezza classici lo faccio consapevolmente per creare un’immagine di rottura, per violare le regole dall’interno. Non posso prescindere dalla mia formazione, dal gusto che ho formato durante l’adolescenza, anche se so che il mondo va avanti e la mia ricerca è in continuo dialogo con il contemporaneo. In fondo, la mia esigenza è anche comunicativa, non è confinata nella torre eburnea dei miei sogni personali. 

Quali sono i fotografi o gli artisti a cui ti ispiri?

Non mi ispiro a fotografi, ce ne sono tantissimi bravi, ma la mia ispirazione arriva dall’arte o a volte dalla musica. Non posso dire di ispirarmi a qualcuno in particolare. Trascorro la maggior parte del tempo in viaggio e quando posso visito velocemente e distrattamente gallerie, musei, città d’arte. Per vedere e assimilare il più possibile. Da bambino ho ereditato da mia madre belga l’amore per la pittura simbolista, misteriosa e inquietante, di Fernand Khnopff. Quando frequentavo il liceo ero fanatico della pop art di Andy Warhol: non avevo il diario dei calciatori, ma quello di Keith Haring. Oggi, complice la sovraesposizione di Internet, devo ammettere di essere piuttosto frastornato da mille cose diverse, senza riuscire a concentrami. Rimpiango la sicurezza di gusto che avevo da adolescente. Non so se peggiorerò o se si arriverò a un momento in cui potrò focalizzarmi ancora come prima della frammentazione culturale indotta dal web.

Cosa significa per te la rappresentazione del corpo nudo?

Ciò che ci accomuna tutti come essere umani è la forma del corpo, ma è anche ciò che ci rende diversi gli uni dagli altri. Il corpo umano è un simulacro, un mondo di perfezione ipnotica. Ne sono attratto. È il soggetto più interessante che io possa immaginare. Non voglio rappresentarlo come è già stato fatto da altri, voglio trovare il mio linguaggio. Per farlo ho fotografato più di 50 soggetti diversi componendo i corpi a formare ideogrammi, maschere, figure casualmente simili alle immagini di Rorschach. 

In che modo la tua ricerca si relazione con il tema dell’erotismo?

Il sesso e la morte sono le pulsioni profonde che governano ogni nostra azione. Ma l’impulso va sublimato! Ecco perché nelle mie foto l’erotismo risulta velato e nascosto. Mi porto dietro un’educazione chiusa rispetto a queste tematiche e inconsciamente disapprovo tutto quello che è ostentato ed esplicito. È infatti la prima volta, con questa mostra, che espongo al pubblico una serie di fotografie di nudo, fotografie erotiche. Per tanti anni ho evitato sistematicamente il tema, finché non ho trovato un modo per me interessante di affrontarlo.

In un’epoca di mercificazione del corpo, vorrei restituire all’anatomia umana il suo erotismo originario.

In che modo la tua fotografia si rapporta con il mondo delle immagini divulgate sui social network?

Questa mostra è anche una protesta contro l’estetica dei social, che vivo e viviamo tutti i giorni. Copro i corpi perché reagisco alla bruttura e alla decadenza delle immagini di oggi e all’estrema esposizione sessuale sui social. Da qui deriva quell’urgenza di classico, di riserbo stilistico, di forma ideale e filtrata, non esposta alla volgarità e all’improvvisazione stilistica. Non sfugga poi che tutte le opere sono quadrate come le foto su Instagram: è come un Instagram censurato. 

La tua professione di fotografo di moda ispira la tua ricerca personale oppure sono due ambiti di lavoro distinti?

Sono cresciuto con il mito di Warhol, che non faceva distinzione tra arte commerciale e arte da galleria. Anche la fotografia di moda rientra nella mia ricerca personale, anzi è fondamentale per creare nuovi stimoli, proprio perché limita la libertà espressiva e comporta uno sforzo maggiore per ottenere ciò che si vuole. Inoltre, il continuo confrontarsi con altri professionisti – stilisti, stylist, art director, scenografi, truccatori – fa crescere e suscita nuove idee. Scherzando dico a me stesso che in questa mostra non ci sono abiti perché ne fotografo già abbastanza. 

10. Cosa ti piacerebbe fotografare in futuro?

Sto preparando l’evoluzione di Disembody. Fotografo sempre quello che prima immagino, cercando di conferire forma a sogni di bellezza lungamente accarezzati. Citando l’Ode a Psiche di John Keats, il poeta romantico innamorato del classico: «Sì, ti costruirò un tempio, in qualche remota regione della mia mente».

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