GABRIELE FALSETTA: UN ANIMO TEATRALE AL CINEMA

Diplomato alla scuola del Piccolo di Milano diretta da Luca Ronconi, del quale è stato allievo, Gabriele Falsetta smette di fare teatro nel momento in cui inizia a fare cinema. Confermato nella seconda stagione di Monterossi (diretta da Roan Johnson e ora tra i contenuti più visti su Amazon Prime), è Farinacci in M. Il figlio del secolo diretto da Joe Wright e il 14 dicembre sarà in sala nel cast di Finalmente l’alba di Saverio Costanzo presentato alla Mostra del Cinema di Venezia.

Vidi Gabriele a Roma alle Carrozzerie N.O.T. nell’ultimo spettacolo che fece in teatro. Mi colpì per la sua fisicità. «Quello spettacolo – racconta Gabriele come un fiume in piena – è stato uno spartiacque a livello esistenziale e professionale. È coinciso con una crisi profonda, ma è stato l’inizio di quello che sono adesso. Venivo da dieci anni di Piccolo di Milano, dieci anni di Ronconi. Per me quello spettacolo è stato una sorta di atto di disobbedienza civile. Ma da lì sono rinato».

Ritratto di Gabriele Falsetta, ph. Gioele Vettraino
Ritratto di Gabriele Falsetta, ph. Gioele Vettraino

Gabriele Falsetta tra teatro e cinema

Hai smesso di fare teatro nel momento in cui hai iniziato a fare cinema. Perché?

Vengo dal teatro e credo nella teatralità all’interno del cinema. Credo che vada riconquistata la nostra attitudine teatrale al cinema: è nel nostro DNA. I nostri grandi sceneggiatori, registi, attori, attrici, vengono dal teatro e lo traducevano per il cinema. Mi riferisco alla grande sceneggiatura, da Flaiano a Pasolini, da Zavattini a Pirro e con loro tutti i registi che li hanno portati sullo schermo.

Quest’anno ho terminato la più grande esperienza professionale che ho fatto finora: M dal romanzo di Scurati, con la regia di Joe Wright, che ha diretto la metà degli attori che vorrei essere. Al primo colloquio abbiamo parlato per un’ora solo di teatro. Joe ha messo in scena il testo al cinema. Il suo approccio è teatrale. Quando ci siamo conosciuti abbiamo parlato di Visconti, Petri, Rosi, Mani sulla città, Il conformista, La caduta degli dei. Siamo partiti da un cinema che parla di teatro. Magari la mia è una crociata contro i mulini a vento, ma questo è il cinema che ci ha reso famosi nel mondo. Il minimalismo non ci appartiene, come stile. Noi siamo estremamente teatrali.

Nel teatro ho sofferto molto. Mi ha disciplinato nella vita, nello studio, nel procedere per step. Ma come attore ho cominciato a fare l’attore quando ho cominciato a fare cinema. Credo di funzionare meglio nel caos del cinema. I mezzi che utilizzo, l’analisi del testo, la mappatura dei personaggi, viene dal teatro. Poi scegli lo stile. Come dice Nicolas Cage, puoi scegliere il realismo, il naturalismo, l’iperrealismo, l’astrazione, puoi essere Einaudi o Stockhausen, ma a teatro questo per me era difficile. Forse è un mio limite o forse non ho incontrato le persone giuste o non le ho cercate abbastanza.

Gabriele Falsetta e l’esordio a teatro con Luca Ronconi

Sei stato diretto diverse volte da Ronconi e anche da altri registi. Può accadere che un maestro, per quanto valido, non sia adatto a tirare fuori il sacro fuoco da quell’allievo…

Immagina un ragazzo che, approcciando il teatro, incontra Luca Ronconi, un uomo di 74 anni ma che ne dimostrava 50, non ancora malato e con una forza fisica impressionante. A scuola andavo male e lui mi ha salvato perché, non sapendo chi fosse, ho cominciato a giocare con lui e lui con me. Non sapevo cosa volesse dire fare stare sul palcoscenico. Luca mi ha dato tantissimo in termini di struttura, disciplina, analisi del testo, spazialità, vocalità. Poi però con lui diventavi una sorta di sintetizzatore di suoni e di gesti: uno strumento potentissimo e meraviglioso, ma dovevi accettare la sua visione e, quando ho iniziato a prenderne coscienza, ci sono stato stretto. Ma non finirò mai di ringraziarlo. Mi manca tanto e vorrei poter avere con lui un dialogo maturo oggi. Ronconi aveva un intelletto magmatico, ma a vent’anni non puoi renderti conto di quello che ti sta dicendo.

«Attualmente mi sento più un animale da set che da palcoscenico. Tornerò a fare teatro quando potrò farlo come dico io»

Sei Farinacci nella produzione M di Joe Wright per Sky… Come hai vissuto questa esperienza?

Stanno finendo la fase di montaggio e doppiaggio. Stare sul set con un regista che ha fatto film come Atonement, L’ora più buia, Anna Karenina, ti fa sentire in un sogno. Essere dentro quella macchina ti dà una sicurezza che non immaginavo e diventa paradossalmente tutto più facile.

Hai incontrato Ronconi in un momento in cui eri troppo giovane, ora Joe Wright, un premio Oscar. Dov’è la diversità nei due rapporti: è solo una questione di età?

La cosa che hanno in comune è la cura ossessiva del dettaglio e la responsabilità di rispettare la sceneggiatura. La differenza sostanziale è che io sono cresciuto, mi sono rassicurato. All’epoca era difficile arrivare a fare quello che Luca ti chiedeva. Adesso non c’è più la difficoltà tecnica ma la sfida è incontrare la visione dell’altro. Paradossalmente, sul set di M io ho fatto il venti percento del lavoro, l’ottanta l’hanno fatto il regista e tutta quella macchina perfetta e meravigliosa che gira intorno a un simile set. Quando la regia e la sceneggiatura sono alte, il lavoro dell’attore si riduce. Anche con Ronconi era così, ma tecnicamente era complesso. Mi sento più animale da set che da teatro.

Amo il teatro e tornerò a fare teatro ma come voglio io, non da scritturato, non con un’idea borghese. Il teatro per me deve essere una provocazione, deve spezzare le gambe a chi lo guarda.

ph. Gioele Vettraino
ph. Gioele Vettraino

«Tutti i ruoli mi mettono in crisi ed è questo che mi piace delle parti che ho interpretato finora»

In Monterossi, Finalmente l’alba, M fai sempre la parte del cattivo. Non vorresti uscire da questo ruolo?

Ora sto facendo un omosessuale. Non volevo accettare: mi spaventava. È con Maria Sole Tognazzi ma non posso dirti altro. È la prossima produzione Paramount con Castellitto.

Il ruolo che ti ha messo maggiormente in crisi?

Tutti i ruoli mi mettono in crisi ed è questo che mi piace delle parti che ho interpretato finora: lo sforzo che devi fare per immaginare il personaggio, il lavoro sulla voce, lo sguardo, l’aspetto emotivo, fisico. Mi piace tantissimo lavorare col corpo. L’idea di aver fatto un ultra fascista filo nazista come Roberto Farinacci in M e di passare subito dopo con Maria Sole a interpretare un omosessuale ironico, spigliato, cinico, mi fa impazzire e non cambierai tutto questo per nessuna cosa al mondo. Mi mettono in crisi i ruoli che sono scritti male.

Il teatro non ti manca neanche un po’?

Collaboro con i miei amici Ivan Aloisio e Lucrezia Guidone (Fedeltà, Mare fuori) a Point Zero, una scuola di formazione a Roma. Io mi occupo della parte cinema però lavorare al loro fianco mi sta facendo riavvicinare al teatro. Prendermi cura dei ragazzi della scuola sta rimettendo in moto qualcosa dentro di me che si era un po’ spento, anche solo guardandoli lavorare. È una bella sensazione. È il mio modo di chiudere il cerchio, almeno in questo momento, tra cinema e teatro. e grazie alla partnership con l’agenzia Volver, vengono moltissimi attori per delle masterclass. Lo spirito della scuola è quello di mettere al servizio le nostre esperienze, come attori di teatro o di cinema, per offrire una formazione che non sia fine a sé stessa. Vogliamo che Point Zero sia un hub e che diventi anche un hub produttivo.

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