I 50 anni di Glastonbury nell’estate silente dei festival

“Do you recognise this noise?” È il suono del calpestio danzereccio dei piedi, del battito secco e ritmato delle mani, è l’odore dell’estate e l’eco corale di milioni di voci che colorano i luoghi di “culto” della musica dal vivo. È il rumore insonne e festoso dei figli putativi di “Woodstock” e dell’”Isola di Wight”, di quell’itinerante comunità di revellers che, ogni anno, affolla i “vivai del suono” a partire dai palchi del Coachella, nei californiani Empire Polo Fields di Indio, fino ad arrivare nel cuore dell’Europa, nella campagna verde e fangosa della contea del Somerset, per il Glastonbury Festival.

Nel settembre del 1970, il giorno dopo la morte di Jimi Hendrix, il lattaio di Pilton Michael Eavis allestisce, nella Worthy Farm di 150 acri ereditata dal padre, il primo sperimentale antesignano del “Glasto”, il Pilton Pop, Blues & Folk Festival. Marc Bolan, Keith Christmas, Stackridge e Al Stewart si esibiscono davanti a un pubblico di 1.500 persone simbolicamente paganti, il prezzo di una sterlina incluso il latte gratuito della fattoria. L’anno successivo prende forma e sembianza il Glastonbury Fayre, un grande raduno hippie dal libertino e idealistico spirito da “Summer of Love” documentato, in chiave cut up, nell’omonimo film diretto da Nicolas Roeg e Peter Neal.



La seconda edizione è ricordata come uno degli avvenimenti leggendari della musica underground inglese, una delle rare occasioni in grado di superare le barriere tra il pubblico e i musicisti, con musica, danza, poesia, teatro ed esibizioni estemporanee. È anche l’anno in cui a esibirsi è un giovane capellone, sconosciuto ai più, un certo David Bowie che si presentò bizzarramente vestito in foggia androgina con cappello da moschettiere, pantaloni a zampa e scarpe con tacco alla “Re Sole” e cantava, al levar del sole, il viaggio spaziale di Major Tom di Space Oddity.

Gli anni ottanta hanno visto il Festival trasformarsi in un vero e proprio evento annuale che, nonostante il clima non sempre favorevole, ricordiamo le piogge torrenziali del 1985 (che non impedirono di certo agli audaci partygoers di assistere agli spettacoli con la fanghiglia alta fino alle ginocchia), resta uno degli appuntamenti più attesi e longevi. Uno straordinario melting pot di arte, musica (non c’è nome che conti che non abbia calcato il suo palco) e persone. “Puoi sederti intorno ad un falò qualunque o fare la fila a una bancarella e sentire come un caldo abbraccio collettivo. Guardi un estraneo e ti rendi conto di avere tantissime cose in comune”. Ci sarà un motivo perché i biglietti (al costo di 250 sterline) sono sold out in una manciata di minuti mesi prima dell’evento, quando ancora non si ha la più pallida idea di quale sarà la line up dei cantanti?

Il Glastonbury è un “luna park” ideato su misura per i bambini e fatto a misura di “festival habituè”, è intergenerazionale, è un punto di unione tra culture, è respirare per tre giorni una libertà parallela e anacronistica, è immergersi in una gioviale atmosfera atemporale. 



La bucolica Valle di Avalon, la leggendaria isola di Re Artù e del Sacro Graal, e la distesa da 900 acri della tenuta di Michael Eavis, anche quest’anno, erano pronti ad accogliere gli oltre 180.000 festanti “pellegrini” per celebrare tutti insieme quello che sarebbe stato il Festival dei Festival. I 50 di Glastonbury. Ma il 24 giugno non ci saranno “wellies”, tende e campeggi a calpestare le verdi campagne della storica Worthy Farm. Il Pyramid Satge di Bill Harkin dall’alto dei suoi 30 m non si illuminerà a festa. L’evento è annullato. Così come non ci sarà il consueto raduno, in mezzo al Danubio, della “Love Revolution” con i suoi 400.000 Szitizens e la baldoria dei 60 palchi dello Sziget sull’isola della libertà di Óbuda, a nord di Budapest. Gli spettacoli pirotecnici e i colori iper saturi delle scenografie idilliache e favoleggianti del Tomorrowland non illumineranno il cielo della piccola cittadina belga di Boom. Anche il tempio della musica elettronica spegne le sue console. Nel cuore del deserto del Nevada il grande fantoccio di legno non brucerà nel rituale del Burning Man. La sua comunità non celebrerà il solstizio d’estate nell’immaginaria città dall’anarchia organizzata di Black Rock City. Per le strade di Perugia, nell’Arena Santa Giuliana, in Piazza IV Novembre e nel Chiostro di San Fiorenzo non echeggerà il beat del jazz. 

Dal Sonar di Barcellona all’Ariano Folk Festival, la musica dal vivo indossa la fascia nera al braccio. Tutti gli eventi sono annullati a causa dell’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia di Coronavirus. I lavoratori dei concerti sono stati i primi a chiudere e saranno gli ultimi a riaprire. Se per gli altri ambiti culturali di “visione”, come il teatro o il cinema, è possibile pensare a protocolli di ripartenza, per i luoghi di “interazione”, come i festival musicali, ciò crea dei cortocircuiti. 



Un Festival, come ci suggerisce l’etimo stesso, è una grande “festa” che non conosce, per sua natura, forme di distanziamento. È aggregazione, socialità, condivisione. È massa, contatto, è il piacere di stare insieme. L’idea di contingentare la folla riducendola a mò di soldatini di terracotta trincerati in quadrati divisori, apparirebbe difficile e contro natura. Per questo, in tanti pensano che una vera ripresa del settore dei concerti non avverrà fino alla scoperta e alla distribuzione del vaccino: cioè quando il rischio del contagio sarà riportato allo zero o quasi. Spesso abbiamo sentito la frase “Music will save the world|La musica salverà il mondo”, questa volta ha incontrato un avversario più temibile della sua forza. Ma ritorneremo laddove abbiamo lasciato. È solo un momentaneo “a data da destinarsi”.

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