Intervista a Paolo Borghi – Il suonatore di Hang

Era il 1976 quando, per le strade di Berna, alcuni musicisti provenienti dall’isola caraibica di Trinidad suonavano una sorta di tamburo metallico, lo steelpan. «Non si può definire musica. Era una specie di bagno di suoni», ricorda Felix Rohner (l’artigiano inventore dell’hang insieme a Sabina Schärer).

«Tutti ballavano attorno ai musicisti. Sono rimasto colpito dall’effetto di questo strumento sulla gente e così il giorno dopo ho cercato di costruire una sorta di tegame da questo tamburo metallico». 

Da quel giorno Rohner, ha creato diversi tipi di pentole di acciaio e dopo anni di tentativi, modifiche e miglioramenti riuscì a mettere a punto l’”archetipo”, il primo esemplare. Così nel 2000 dalla fusione del gong, del ghatam, del tabla e dei cimbali tibetani prende forma un disco lenticolare a percussione metallica formato da due semisfere di acciaio, l’HANG, che in dialetto bernese significa “mano”.

Il suono, infatti, viene emesso tramite il contatto corporale con il metallo. I polsi, i palmi e le dita toccano e sfiorano a mani nude il corpo dello strumento che, nelle sue vibrazioni ferrose, emette all’udito suoni trascendentali, mistici e intensi con il suo effluvio armonico di colori tonali.

Sulla strada di questo ancestrale “suono idiofono” ci imbattiamo nella storia di un busker dell’hang, Paolo Borghi. Emiliano, classe 1983, performer autodidatta, costruttore di strumenti inusuali e ricercati, musicoterapista e ideatore del metodo di rilassamento Sonum Sound Healing. 

Raccontaci il tuo primo incontro con l’Hang. E di come, questo strumento, ti abbia cambiato (professionalmente) la vita.

Il mio primo incontro con l’Hang è avvenuto 14 anni fa, sbirciando per caso la stampa di un foglio A4. Durante una chiacchierata col fidanzato della mia vicina di casa, anche lui appassionato di percussioni e in attesa del momento “giusto” per acquistare questo strumento, mi disse: “Il suono dell’Hang? E’ una figata!”.

Sulle prime non mi sono fidato della sua opinione. Non essendo riuscito a sentirne il suono, non mi colpì. Il vero e proprio colpo di fulmine avvenne solo dopo. Facendo delle ricerche di musicoterapia mi imbattei in uno strumento simile, lo steeldrum.

Lo cercai disperatamente, ma risultando introvabile mi spinsi più in là con delle ricerche incrociate fino a scoprire l’esistenza dell’Hang e del suo fantastico mondo. L’incontro con questa percussione ha dato il via a ciò che, ora, è la mia vita professionale.

Ero un falegname, costruivo scale in legno, e questo strumento mi permise di intraprendere dapprima il mio percorso lavorativo come suonatore di Hang e, successivamente, di integrarlo e completarlo con la musicoterapia.


Se dovessi spiegare a chi non hai mai visto o sentito il suono di un Hang, emozionalmente come lo descriveresti? 

Ricco, affascinante e armonico. Questi sono i 3 termini che maggiormente descrivono il suono unico dell’Hang. Un suono che rapisce i sensi, tocca l’emotività e, talvolta, può risultare anche sconvolgente.

Spiegare a parole l’impatto di questo suono non è facile. Per me è come un’onda che ti investe per poi lasciarti andare. Coloro che costruiscono gli Hang sostengono che sta tutto all’ascoltatore capire e percepire l’effetto del suono dell’Hang sul proprio “Io”.


Come performer hai viaggiato molto, ma qual è stato il luogo che ti ha dato di più. Quello in cui come musicista ti sei sentito più a “casa”? 

Sembrerà strano ma il luogo dove mi sento più a casa è proprio casa mia! La mia terra mi ha sempre fatto sentire a mio agio.

Tra i luoghi che mi sono entrati nel cuore ci sono la “Casa della Musica” di Quito e “Casa Bocelli” dove ho avuto l’onore di partecipare ad un evento di beneficienza. In quell’occasione ho potuto respirare davvero aria di “Musica” tra i tanti ospiti celebri di quella serata, tra i quali John Legend, Lyonel Ritchie e lo stesso Andrea Bocelli.

Se, invece, parliamo di un luogo unico allora parliamo della Biblioteca Solvay di Bruxelles. Una biblioteca difficilmente visitabile, in quanto privata, un luogo dove l’architettura in legno e le grandi ricchezze bibliografiche sono contenute in un ambiente di pregio e fascino. Parlando, invece, del luogo dove mi sono sentito più in “simbiosi” con la natura è stato Cape Town. Una città dove ho vissuto e dove ho sentito il reale attaccamento alle origini della musica a percussione.

Quali messaggi si celano dietro le note delle tue due ultime composizioni “Shap Shap” e “Okeanòs”?  

“Shap Shap” e “Okeanòs” nascono in questo periodo di quarantena dovuta al Coronavirus, quindi da un punto di vista emotivo hanno un significato particolarmente importante.

Specialmente “Shap Shap”, che in lingua Xhosa significa “Va tutto bene”, è un messaggio di speranza e di positività e proviene dal lembo più meridionale dell’Africa, da un luogo vicino al Capo di Buona Speranza dove i due oceani, Indiano e Atlantico, si uniscono alla terra.

“Okeanòs”, invece, è un brano composto dal mix di ritmo e dolcezza, che ricorda la divinità greca, il Titano Oceano, capace di dominare e placare anche le peggiori tempeste marine per riportarle allo stato di “Calma”.

Qual è il brano, o i brani, ai quali sei più legato? E perché?

Ci sono diversi brani a cui, per motivi diversi, sono particolarmente legato. “Electronic Flight” mi è entrata nel cuore perché è nata di “getto”. In poco più di una giornata ho composto la ritmica di uno dei brani di maggior successo.

Per il significato, invece, tengo particolarmente a cuore “Antika Goree”, un brano che si intreccia alle origini della musica a percussione ma soprattutto si lega alle “Ninne Nanne” che le donne africane cantavano ai propri piccoli per lenire i dolori provenienti dal rapporto conflittuale della popolazione con la loro terra d’origine. Non posso nascondere, però, che anche “Ametista” e “Verso il Sole” siano entrati nel mio “Io”. 

In un momento “entropico” e disarmonico, come quello che stiamo vivendo, forte è il bisogno di riarmonizzare il nostro equilibrio interiore, da musicoterapista quale consiglio puoi dispensarci da poter mettere in pratica mentre siamo ancora a casa?

Il segreto per affrontare questo periodo disarmonico? Cercare l’armonia. L’armonia si può raggiungere anche e soprattutto attraverso la musicoterapia.

Una disciplina che trova il suo essere proprio nell’ascolto della musica, e dei suoni, come strumento riabilitativo sulle emozioni di cui il nostro animo ha bisogno per stare bene. La musica suscita diversi sentimenti ed emozioni: dal pianto alle urla di liberazione alla felicità.

Affidarsi alla musica risulta, quindi, di importanza rilevante specialmente in periodi dove il nostro “io” è messo maggiormente alla prova e necessita di una profonda pulizia e trasformazione. Il mio consiglio è quello di creare delle playlist personalizzate che rispondano alle necessità individuali nei vari momenti della vostra giornata.

Progetti lasciati in sospeso in attesa di essere realizzati? 

Da buon ex falegname sono abituato a “programmare” le mie attività ed i progetti a seconda del tempo a disposizione, quindi, fortunatamente non ho mai avuto grandi progetti pendenti e sospesi.

Attualmente, nel periodo di stop forzato delle mie attività, ho approfittato per andare ad affinare le mie tecniche sonore seguendo a mia volta dei corsi, ho dato una rinfrescata alla mia immagine ed al mio brand e mi sono sperimentato su alcuni aspetti che non avevo avuto il tempo di provare, come ad esempio le dirette social sulla mia pagina facebook.

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