Cinecult: La Dea Fortuna di Ferzan Ozpetek

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L’amore inclusivo, quello che unisce e non divide mai perché non conosce separazioni di genere, raccontato con poetica malinconia e lucido lirismo, in una società che ha annegato i sentimenti in una gabbia virtuale, in un bordello senza mura per citare Marshall McLuhan e che annulla le emozioni livellando le sfumature con il risultato di discriminare invece che abbracciare.

Di sfumature ce ne sono tante ne ‘La Dea Fortuna’ l’ultima pellicola di Ferzan Ozpetek distribuita da Warner Bros.Entertainment Italia, nei cinema per Natale.

Finalmente un film anti panettone che punta sulla psicologia, sull’infanzia e la maturità a confronto, una bella riflessione sull’identità maschile e sul concetto di paternità in una società fluida in cui una coppia gay non può adottare e a malapena può sposarsi, proprio come nel Medioevo più oscurantista.

Un Edoardo Leo in stato di grazia, oltre che assolutamente magnetico e super glamour, affianca un elegantissimo e viscerale Stefano Accorsi che già con il bel film ‘Il campione’ ha dimostrato di essere finalmente maturato artisticamente e di aver alzato l’asticella del suo percorso professionale grazie a lavori di rilievo che sicuramente prendono le distanze dal fast food cinematografico di oggi.

Perché il cinema è prima di tutto arte e non solo intrattenimento, e teniamo a sottolinearlo. Qui siamo in una vicenda un po’ complessa: due uomini, Arturo dotto traduttore (Stefano Accorsi) e Alessandro rustico idraulico (Edoardo Leo), coatto e molto sensuale, accettano la richiesta della loro amica Anna Maria (Jasmine Trinca, bella ed elegante) che li ha fatti incontrare.

La giovane donna siciliana, malata di tumore, chiede ai due amici del cuore di tenere per lei durante la sua degenza in ospedale i due piccoli figli Sandro e Martina. E lì nasce tutto l’intreccio. I nodi vengono al pettine.

Dopo 15 anni i due ragazzi si faranno del male e si dovranno rimettere in discussione facendo i conti con un vissuto fatto di bugie e compromessi nel tentativo di portare alla luce i motivi veri del loro innamoramento.

Perdersi per poi ritrovarsi, in mezzo ci sono le tentazioni, i fraintendimenti, le barriere create da apparenti dissidi che solo il vero amore sa superare. Sullo sfondo di una famiglia LGBT a tratti iconizzata con troppi generosi cliché, (lo avevamo già percepito ne ‘Le fate ignoranti’) spuntano due ragazzini figli del tablet e dello smartphone, cresciuti senza padre, teneri e forti, innocenti ma già fin troppo maturi.

Affidiamo alle parole del regista turco, ormai italianissimo, il compito di spiegare questo bel film: “In genere si racconta quasi sempre o la nascita di un amore, magari contrastato, oppure il momento in cui esplode la passione.

Io invece volevo raccontare due persone che stanno insieme da tanto tempo e stanno quasi per lasciarsi perché è passato il momento della passione. Sono quasi come fratelli, l’amore ha cambiato aspetto e loro non sanno più come conviverci. Il fatto che siano due uomini non è determinante, avrebbero potuto essere anche un uomo e una donna o due donne.

Ma quello che mi affascinava era proprio l’idea di come, una volta superato il sesso e la passione, un rapporto possa rigenerarsi in un modo diverso di stare insieme. Credo sia un tema che riguardi molte coppie, al di là degli orientamenti.

Ovviamente la Fortuna ci mette lo zampino facendo arrivare nella loro casa due bambini, figli di una amica che glieli affida per qualche giorno ma poi la loro permanenza si protrae.

I due protagonisti sono costretti a confrontarsi con qualcosa a cui non avevano mai pensato: non si erano mai immaginati “genitori” né la paternità era mai stata una loro fantasia o progetto. Gli capita tra capo e collo e proprio nel momento più delicato del loro rapporto”.

Insomma un gran pasticcio, apparentemente inestricabile, con un plot che prende le mosse da un fatto vero e che non vuole intervenire nel dibattito sulle famiglie arcobaleno (anche se chi scrive vuole sottolineare che invece una posizione andrebbe presa in un paese come l’Italia che non ha ancora una legge contro l’omofobia né un assetto normativo che consenta alle coppie gay di adottare dei bambini).

“Si è genitori dalla cintura in su, non dalla cintura in giù-prosegue il regista-con temi così importanti spero di aver fatto un film di emozioni coinvolgenti, sullo scoprirsi e il ritrovarsi, senza scadere nel sentimentalismo.

Nel gioco dell’alternanza tra commedia e dramma, riso e pianto, spero di essere riuscito a rispondere ai dubbi che mi avevano assalito quando mi capitò un fatto reale che è alla base di questo film.

Un anno fa mio fratello era gravemente malato. Sua moglie, a cui sono molto legato, mi aveva chiesto, nel caso fosse successo qualcosa di grave anche a lei, di occuparmi insieme al mio compagno dei suoi due figli.

Ha voluto che glielo promettessi. I miei nipoti, all’epoca dodicenni, sono bambini intelligenti, che parlano perfettamente altre lingue, si informano, leggono, sono curiosi, facili forse da gestire.

Eppure, questa richiesta mi ha spalancato un mondo di angoscia, di paure, di dubbi sulle mie capacità, mi ha aperto le porte su un mondo emotivo che non conoscevo e a cui non sapevo come avrei reagito. Questo film è stato un modo per esplorare quei dubbi e quelle emozioni. Per darmi delle risposte a domande molto personali”.

Divertente e macchiettistica, molto allegorica di un certo tipo di bigotto fanatismo molto radicato nel Sud Italia, la figura della vecchia Elena, interpretata da una impareggiabile Barbara Alberti, quintessenza di quello spirito tridentino, ipocrita e reazionario che ha istigato un figlio al suicidio e che pervade soprattutto la mentalità ancora troppo arretrata e provinciale soprattutto italica, per scoprire la bellezza di un amore che ancora oggi come diceva Proust “non osa pronunciare il suo nome”.

Nel cast troviamo inoltre la onnipresente Serra Yilmaz, il fascinoso Filippo Nigro, straordinario nel ruolo di uno smemorato sempre partecipe che corrobora la vis comica dei personaggi smorzando le scene più drammatiche, di Matteo Martari che è Stefano e che si sta facendo le ossa con un cinema di qualità e anche Cristina Bugatty, la transgender cool che da Pechino Express approda ora sul grande schermo con stile e ironia dando valore aggiunto a una sceneggiatura molto riuscita, firmata da Ozpetek, Gianni Romoli che è anche produttore del film insieme a Tilde Corsi, e da Silvia Ranfagni.

Ci auguriamo che molte coppie eterosessuali si riconoscano in questa vicenda struggente e intensa, descritta con un linguaggio mai troppo stucchevole né retorico, perché l’amore anche e soprattutto paterno è un diritto di tutti, non una conquista di pochi eletti.

Due parole le spenderemo sulla bellissima colonna sonora di Pasquale Catalano in cui brillano due brani cult: la ballata meravigliosa ‘Luna Diamante’ cantata dalla voce ricca di pathos della leggendaria Mina e tratta dall’album ‘Mina Fossati’ uscito a novembre, e ‘Che vita meravigliosa’ del cantautore Diodato, due perle a impreziosire un film dalla fotografia davvero suggestiva e vibrante, e quell’acqua che lava via tutte le imperfezioni e i drammi, riportandoci alla felicità primigenia.

Da vedere e se possibile da rivedere.

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