“La strada verso casa” di Antonio Di Guida

Partire per viaggiare o partire per ritrovarsi? Nella ricerca del sé, la strada diventa metafora del grembo identitario che accompagna verso la ri-nascita e, insieme, distacco da quelle radici costruite su luoghi e legami. La figura dell’errante in cerca di risposte ricorda, per associazione allegorica, l’immagine del neonato al quale reciso il cordone al momento del ‘parto’ spezza la simbiosi materna per donarsi al mondo e nutrirsi da esso, proprio come fa il viaggiatore che si apre al nuovo lontano dal suo porto sicuro. La presa di coscienza della necessità di un nomadismo, introspettivo e formativo, diventa lo spirito-guida portante della scrittura e del percorso di vita abbracciato dal trentenne toscano Antonio Di Guida, l’italian backpacker che nel 2013, zaino in spalla, lascia la sua terra di origine alla volta del mondo, e dell’ignoto, alla ricerca della sua libertà e della pace della sua anima.

Già autore di altri libri “Africa: viaggio di un muzungu nella savana”, “Australia: Dove i sogni prendono vita”, “L’Iran in bicicletta 1700 km da Bandar Abbas a Teheran”, il 16 dicembre 2020 autopubblica “La strada verso casa”, un libro che attraversa gli angoli più nudi e crudi delle miserie e delle ricchezze dell’Asia dedicato a tutti i viaggiatori che hanno perso la loro vita in viaggio e a chi si è perso e non riesce a trovare la sua strada di ritorno.


“Fin da piccolo sognavo di conoscere l’Asia e compiere un viaggio alla ricerca di me stesso. Sognavo di esplorare nuovi sapori seduto sul ciglio di strade piene di vita, di decidere all’ultimo secondo dove andare, di incontrare viaggiatori con cui condividere la mia esperienza. Sognavo di stravolgere la mia vita. Volevo godermi il mio tempo senza pensare di essere in ritardo…Ho sempre desiderato perdermi per poi ritrovarmi, girare il mondo senza il peso della mia identità. Lo spirito del viaggio conosce la strada che ognuno di noi deve percorrere”. Queste parole rappresentano la calce e il cemento che legano il suo mondo interiore alla vivacità dei paesi e delle culture che ci concede in prestito. L’Indonesia, la Malesia, la Thailandia, la Cambogia, il Vietnam, il Laos, il Myanmar, l’India, il Nepal e l’Iran si tingono così del colore dell’anima che Antonio ha scelto per loro, perché si sa ogni visitatore ha i suoi occhi per guardare il mondo.



“La strada verso casa” è la fotografia di un viaggio in solitaria scandito dalla casualità degli incontri, dall’imprevedibilità degli eventi e dall’autogestione del tempo, a volte volutamente lento per fissare gli attimi di quelle umanità di passaggio vissute alla pari. È un attraversare luoghi nei quali “reicarnarsi” di volta in volta, come un disegno spirituale di tante vite figlie di una sola, per poi lasciarsi dentro moschee, templi e pagode, le distese di risaie e le case in bambù con tegole in amianto, i vulcani e le isole, il cielo rosso fuoco di Siem Reap, i grattacieli di Kuala Lumpur, l’atmosfera anni 50 di Yangoh e l’odore di resina dei pini secolari di Sapa, il Ramadan e il Vipassana, i riti e i rituali, le scatole arrugginite dei treni indiani. Per conservare come madeleine proustiane il sapore dei cibi: il riso fritto del nasi goreng, le verdure con salsa di arachidi del gado, il salak “il frutto del serpente”, la zuppa di noodle piccanti del curry laksa, il pane indiano roti canai, il budino malesiano di sago melaka, i mie goreng gli spagetti fritti indonesiani.



Per fare delle storie incrociate lungo il cammino lezioni di vita: il minatore che per procurarsi il pane estrae zolfo dal vulcano Kawah Ljen; il guardiano dell’isola scappato dalla città dopo aver perso moglie e figlia in un incidente; i bambini speranzosi della scuola di lingue inglese in Cambogia; il nonno di Lin sopravvissuto al genocidio del 1975 e per anni costretto a lavorare in cambio della vita; l’anziana signora di etnia Dao; i malati terminali del Thabarwa Centre in Myanmar; i ragazzini rasati in kesa rossi e arancioni che giocano a calcio in un campo improvvisato; il giovane disabile del mercato di Bagan che dipinge per sfamare la famiglia nonostante le sue sole due dita; la signora londinese malata di cancro che vive ai piedi della montagna Tiruvannamalai con la speranza che qualche guru o santone possa curarla.



Alla fine del viaggio scopriamo che “casa” non è né un luogo né una meta, ma sta nell’arte paziente di coltivare quell’intima e preziosa sensazione di pace che connette l’anima al corpo, quello star bene in qualsiasi luogo ci troviamo. Raggiungere l’armonia dentro di noi, a volte, è una strada lunga da percorrere. “Si smette di imparare solo quando ci si chiude in se stessi e io, in questo momento, non ho voglia di invecchiare nei soliti pensieri. Voglio evolvere stando a contatto con altre culture per conoscere sempre più a fondo l’unica vera religione che vive dentro di me; che non ha un nome o un simbolo, ma solo il compito di farmi sentire vivo qui e ora, amando e rispettando sempre il prossimo”. 

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