Sano e buono, ecco il drink dell’estate

C’è una onda “healthy” che tocca le vite di tutti noi. Si cercano vacanze salutari, cibi sani, pratiche sportive in sintonia con il ritmo del corpo. Questo trend ha toccato anche un settore che sembra lontanissimo dalla salubrità, quello dei cocktail. «Il requisito più importante per chi fa mixologia – spiega Davide Pinto, proprietario del locale torinese Affini, di Vermuth Anselmo, di Gin Taggiasco Extravirgin e ideatore della manifestazione ToDrink – è saper rispondere alle esigenze di mercato. Quindi le nuove tendenze che si vedono oggi e che sono già in atto con processi di consolidamento sono sicuramente legati al wellness. Ovvero la mixologia che guarda a tutte quelle materie prime che possono essere di qualità ma con dei principi attivi. Penso alla carota rossa, allo zenzero, alla curcuma. Molti di questi ingredienti sono legati all’idea di estrazione o di smoothies (bevanda di frutta o verdura frullata a cui si aggiunge acqua e yogurt magro o latte di soia ndr). Quando hanno incontrato la mixology hanno conosciuto un nuovo ingrediente: l’alcool. Con questi cocktail si risponde ad altre due esigenze che ho incontrato in questi anni: la riduzione sempre più drastica degli zuccheri e della quantità dell’alcool nei preparati. Mentre anni fa le persone chiedevano “aggiungimi dell’alcool nel drink”, oggi l’attenzione è più rivolta a quanto il miscelato è equilibrato. C’è una nuova cultura sullo scegliere un drink perfetto per la quantità di alcool, di zuccheri e materie prime che fanno bene. È di questi giorni l’uscita di “Cocktail low alcohol. Nuove frontiere della miscelazione” un libro di Diego Ferrari dedicato proprio alla miscelazione a basso contenuto alcolico. L’alcool è un ingrediente che mantiene un ruolo di protagonista ma diventa anche un collante fra tutti gli altri ingredienti della ricetta senza sovrastarli».

Davide Pinto

Questo trend interessa anche i giovani?
Sì, la cultura del bere bene sta toccando anche la fascia dei ragazzi. Anche i giovani cercano drink di qualità. Questa tendenza la vediamo in tutte le aziende di alcolici che in questi ultimi anni stanno raccontando le materie prime usate nelle loro preparazioni.

Quali sono le nuove frontiere della ricerca?
Molte aziende stanno lavorato sulla qualità delle materie prime così oggi abbiamo liquori di altissima eccellenza. Ci sono cocktail bar che hanno centinaia di tipi di gin a cui va affiancata un’acqua tonica all’altezza. E questo porta a una ricerca anche nelle acque toniche che impiegano materie prime del territorio. Per esempio in alcuni miscelati si usa l’acqua di fiori di arancio amaro della Vellebona (Imperia) che è un presidio Slow Food, oppure l’Ulivar un liquore alle olive calabresi che nasce nel piccolo comune di Oriolo, nell’Alto Jonio Cosentino o ancora il Jefferson (amaro calabrese premiato come migliore al mondo ndr), un mix di rosmarino di Montalto Uffugo, origano di Palombara, limoni di Rocca Imperiale, arance amare e dolci e i pompelmi di Bisignano, bergamotto di Roccella Ionica e genziana della Sila. Altro esempio è il Taggiasco ExtraVirGin che unisce il Ginepro dell’Alta Valsusa con l’Oliva Taggiasca.


Quali sono i requisiti che deve avere un buon barman?
Un buon barman conosce il proprio territorio. A Torino, per esempio, non può mancare la conoscenza dei liquori alpini, dei vermuth o dei vini della provincia. Un drink nato qua si chiama “Americano Sbagliato” tiene insieme vermuth, il vino Freisa Rosso Villa della Regina e l’Alpestre (fatto con 33 erbe tra cui genepì, verbena, menta, salvia, valeriana, iberico, camomilla, limone, arnica, genziana, issopo e tanaceto) ed è diventato a New York molto di moda tanto che Joe Bastianch lo propone da Manzo, il suo locale all’interno di Eataly Fifth Avenue.

Oltre agli chef, in tv sono approdati anche i bartender. Quanto quello che vediamo sullo schermo corrisponde alla routine di tutti i giorni?
In tv si vede solo il lato più accattivante del nostro lavoro. La gran parte è caricare e scaricare casse di bottiglie, studiare, sperimentare. Quindi i giovani che approcciano, e che rimangono, in questo mondo sono persone che si addestrano alla fatica e che sono consapevoli dei sacrifici che si richiedono a chi fa questo lavoro. Spero che i “nuovi arrivati” si allontanino dal modello star e sappiano che esiste una cultura del lavorare quotidiano e del saper essere un buon bar-manager. Perché prima di tutto un barman è un manager che conosce i prodotti e sa quanto costano e a quanto devono essere rivenduti e che sa gestire il personale. C’è tutto un lavoro all’oscuro della televisione o dei post sui social che è parte importante di questo lavoro.


L’alcool entra sempre più prepotentemente in cucina come ingrediente o come bevanda a tutto pasto, che ne pensa?
L’alcool in cucina è sempre stato usato. A Torino c’è un piatto storico che è il riso al rum. Quindi vedo questa tendenza come una riscoperta. Ormai anche i ristoranti, al posto della bollicina a inizio pasto, offrono un vemuth di benvenuto. C’è una maggior consapevolezza di dove può essere collocato un liquore nel momento in cui si va a pasteggiare. Questo mi gratifica perché c’è una grande cultura sui vini e molto spesso non c’è altrettanta conoscenza sugli spirits. I liquori finalmente hanno trovato la giusta collocazione anche all’interno della ristorazione. Quando poi sai collocare perfettamente un liquore all’interno di un pasto lo si utilizza anche per sperimentazioni in cucina.

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