“The last dance”, il documentario che tutti aspettavamo

C’è un documentario, del quale si parlava già da molto tempo, che è il protagonista indiscusso dello scenario televisivo mondiale, che ha catturato l’attenzione degli appassionati di basket e non. Stiamo parlando di “The last dance”, distribuito in oltre 190 Paesi e trasmesso, in Italia, dalla piattaforma Netflix.

Il regista, Jason Heir, condizionato dalle esigenze commerciali dipese dalle restrizioni legate al coronavirus, è stato coinvolto in una rapida corsa contro il tempo per poter trasmettere il documentario che non è stato ancora completato e colmare così il vuoto lasciato dall’assenza degli eventi sportivi.

The last dance è uno spettacolo nello spettacolo che racconta, con la voce dei protagonisti, l’epopea sportiva di una squadra diventata un’icona senza tempo, i Chicago Bulls, ed è così che subito prende la scena l’uomo divenuto trascendenza di un’immagine andata ben oltre alle imprese fatte sul parquet di pallacanestro, Michael Jordan, e non poteva che essere lui il protagonista di aneddoti che fanno letteralmente impazzire chi ama lo sport.

La scelta del titolo del documentario è ineluttabilmente legata ad un’espressione usata dalla mente che faceva capo a quel coacervo di personalità così diverse ma complementari tra loro, Phil Jackson, allenatore di quei strepitosi Chicago Bulls, al quale, poco prima dell’inizio della stagione 1997/1998, venne chiesto di recarsi nell’ufficio del General Manager Jerry Krause, il quale gli disse tranchant che quella sarebbe stata l’ultima stagione. La cassa di risonanza della notizia fu forte quanto la consapevolezza che per Jordan e compagni sarebbe stato, appunto, l’ultimo ballo.

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