ALLUVION – MAT COLLISHAW

In occasione dell’inaugurazione della Mostra Alluvion di Mat Collishaw alla galleria G77, abbiamo avuto il piacere di intervistare l’artista riguardo alle opere esposte.


Ieri leggevo che Mishima, celebre scrittore giapponese, raccontò, in forma di autofiction, nel libro Confessioni di una maschera, che il primo istinto di dare piacere a se stesso nacque guardando, quand’era ancora ragazzino, il San Sebastiano di Guido Reni. E ho pensato a te e al tuo lavoro. In particolare c’è qualcosa di molto carnoso, sanguigno, nei tuoi fiori. Perchè caricarli di una connotazione così erotica?

I fiori sono per natura delle creature erotiche: usano le loro forme, i loro colori, il loro profumo, per attirare gli insetti, in maniera che l’impollinazione possa avvenire e si possano riprodurre. In un certo senso gli insetti sono dei mediatori di un amplesso tra fiori, che non può avvenire essendo le piante vincolate al terreno. In particolare, nella mia ultima serie di immagini, volevo esplorare l’imitazione di alcuni fiori delle forme e dei pattern di insetti femminili, per attrarre il corrispettivo maschile. E, come si può vedere dalle immagini, in effetti, c’è continuità tra insetti e fiori, e non è facilmente individuabile quali sono gli uni e
quali gli altri. La bellezza dei fiori è cieca, si è sviluppata inconsapevolmente, e questo mi sorprende.

Mi sembra di scorgere una certa familiarità con le teorie di Richard Dawkins.

Sì, è così. Credo anche io che i geni siano la memoria della specie.

Curioso, potrei citarti un’affermazione di Vincenzo Agnetti che diceva che “l’evoluzione è la storia dimenticata a memoria“. Evidentemente tra due artisti geniali c’è sempre qualche punto di contatto, anche se non si sono mai incontrati!

Beh però nell’intervista precisa che sei stato tu a darmi del genio e che non mi sono lodato e imbrodato da solo!

Per continuare il paragone con Mishima, entrambi sembrate molto interessati al tema della sofferenza e della tortura, e pare che, non tanto la morte, quanto l’idea della morte (Mi vengono in mente Caravaggio e Dalì) sia fatalmente attraente. A testimoniarlo la tua serie di quadri che mettono in scena le ultime cene di alcuni detenuti americani, in chiave tardo-seicentesca.

La morte è un tema enorme, meglio iniziare a trattarlo da subito se si vuole farlo! E così ho fatto, sin da giovane. Più nel dettaglio, in questa serie di quadri ho rimesso in scena determinate scelte dei prigionieri riguardo al loro ultimo pasto, prima di essere condannati a
morte. Volevo giocare con l’immaginario atteso e con la prevedibilità: normalmente, se si immaginano un cheeseburger o una pizza, lo si fa a pieni colori, molto saturi, nessun ombra, perché questa è la rappresentazione dominante dei media, che condiziona e limita anche la nostra immaginazione. Ma se io li dipingo come nature morte del XVII secolo, dove una luce morbida colpisce il soggetto da un lato, i colori si attenuano, e all’improvviso anche una porzione di patatine può evocare le domande che indurrebbe un quadro sulla vanitas mundi: che senso ha tutto questo accumulo di beni ed oggetti? in che termini penso alla mia vita e alla mia morte? Ecco lo scopo, più che riflettere su grandi temi, era mostrare che sono le scelte estetiche, e non i soggetti, a determinare maggiormente come il fruitore percepirà
l’opera.

Qual è stato il pasto che più ti ha sorpreso?

Quello di Adolf Eichmann, funzionario tedesco tra i maggiori responsabili dello sterminio degli ebrei. Ordinò un vino kosher proveniente da Israele. Una scelta alquanto perversa.

I fiori esposti in galleria sono stati generati mediante intelligenza artificiale. Come ti senti riguardo al ruolo, in crescente espansione, che le AIs hanno nella nostra vita?

Per tornare a quello che si diceva nella prima domanda, non vedo differenza tra i geni e il codice con cui le AI generano delle immagini. Quando un anno e mezzo fa questo strumento iniziò a diffondersi, pensai che anche io, in quanto creatore di immagini, dovessi sperimentare con esso. In particolare mi interessava il fatto che, come con l’evoluzione, c’era del mistero. Per quanto dettagliati fossero i prompt inseriti, rimaneva una certa casualità del risultato. Peraltro, come la natura, anche l’intelligenza artificiale agiva in maniera inconsapevole. Detto ciò, io credo che le intelligenze artificiali rimangano solo uno
strumento per creare e comunicare e che l’interazione tra esseri umani, l’essere umano stesso, con la sua goffaggine e imprevedibilità, il suo bagaglio di vita che include gioie e dolori, non possa essere sostituito. Le implicazioni di un futuro con le AIs sono percepite come terribili semplicemente perché l’emozione più comune degli uomini di fronte al nuovo è la paura. Certo, come tutti i nuovi strumenti può fare del male, ma rimane pur sempre vero (quello che già Seneca sosteneva quasi 2000 anni fa) che l’uso è responsabilità dell’uomo e non del mezzo.

Last Meal on Death Row, Adolf Eichmann
Last Meal on Death Row, Adolf Eichmann

Tornando ad Alluvion, credo ci sia una certa somiglianza tra il tuo lavoro e quello di Bruegel il vecchio. Entrambi sono eccedentemente belli a un primo sguardo: e poi, se osservati più da vicino, iniziano ad emanare un aura diabolica, faustiana. I significati si moltiplicano e lo spettatore si sente intrappolato nelle immagini. Mi sembra che i le tue opere vogliano raccontare delle storie terribili, celate dietro un velo di innocenza

Ecco, più che un velo di innocenza, io credo sia un velo naif, un’illusione di poter capire e quindi controllare. Spesso nei miei lavori, come ad esempio nel carosello All Things Fall, ispirato al Massacro degli innocenti, ed esposto al piano terra della galleria, utilizzo le illusioni ottiche per mostrare che le cose non sono mai come sembrano, e che la terribile realtà è che siamo meno razionali di quello che pensiamo. Siamo essere governati da codici genetici che risalgono a milioni di anni fa, e portiamo ancora dentro di noi emozioni primordiali. Possiamo essere ingannati, indirizzati, illusi, proprio sulla scorta di queste emozioni e di circuiti fisiologici e neurologici su cui non abbiamo alcun controllo. Basti pensare ai social media e ai loro algoritmi, che ci trattano alla stregua di animali cui stimolare i circuiti dopaminergici per farci rimanere incollati al telefono. Dalla trappola, dalla caverna, si esce se si realizza che la propria umanità ha molto più da spartire con un primate che con un dio razionale. In questo senso il bello è sempre un’illusione di ordine che ci mantiene entro la caverna, siamo come gli insetti attirati dalla vanità di certi fiori. Ma noi, a differenza degli animali, possiamo spezzare il cerchio, fare breccia nel velo.

Opere di Mat Collishaw - Ph. Lorenzo Palmieri
Opere di Mat Collishaw – Ph. Lorenzo Palmieri

Nell’immagine di apertura, la Mostra Alluvion di Mat Collishaw alla galleria G77

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