Brando Pacitto, dalla serie tv Baby al cinema: “Amo cambiare”

Brando Pacitto era alla Festa del cinema di Roma in due produzioni: Troppo azzurro di Filippo Barbagallo con Martina Gatti e Valerio Mastandrea, e The cage di Massimiliano Zanin, presentato ad Alice nella città, con Aurora Giovinazzo e Valeria Solarino.

Romano, a dieci anni interpreta Gesù bambino accanto ad Alessandro Gassmann nella fiction tv La Sacra Famiglia. L’anno dopo recita accanto a Pierfrancesco Favino e Isabella Ferrari in Liberi di giocare. Poi due serie acclamatissime: Braccialetti Rossi e la serie Netflix Baby. Sul suo profilo IG c’è un video dove lo si vede uscire soddisfatto da un barile (quando l’onda si ripiega su se stessa formando un tunnel che i surfisti attraversano). «Il Point Break di Fregene è della mia famiglia. Ho sempre surfato. Sono stato anche in nazionale».

Inizia così la chiacchierata con Brando, parlando dei luoghi storici di Fregene e scoprendo conoscenze comuni.

Brando Pacitto, foto di Onda Pacitto
Brando Pacitto, foto di Onda Pacitto

«Avere la possibilità di cambiare spesso è la cosa che mi interessa di più di questo lavoro, anche a rischio di stare fermo per periodi prolungati»

Tre anni di Braccialetti rossi e tre anni di Baby. Hai mai temuto di rimanere intrappolato in un certo tipo di produzioni?

Sono sempre stato attratto dal cinema, ma sono orgoglioso del modo in cui ho iniziato a fare questo mestiere. Per me due scuole importantissime, perché avere materiale su cui lavorare per tre anni di fila è un po’ come fare un’accademia. Avere la possibilità di cambiare spesso è la cosa che mi interessa di più di questo lavoro, anche a rischio di stare fermo per periodi prolungati. Ma amo il cinema, la recitazione, e il fatto di non avere responsabilità familiari o pesi economici mi permette di avere ancora una visione romantica di questo lavoro. Riesco ancora ad essere libero di rifiutare ruoli che non sento adatti a me.
Ad esempio sono una persona che a volte è in difficoltà con l’utilizzo dei social e con l’uso dell’immagine che è collaterale al ruolo dell’attore. Questo aspetto un po’ mi spaventa
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Ci sono giovani attori che vengono preferiti ad altri in base al numero dei follower che hanno…

È un aspetto del mio lavoro con cui ho difficoltà a relazionarmi. Del mio lavoro amo andare sul set a recitare. La sponsorizzazione dell’attore esiste dagli inizi dell’industria cinematografica, ma ora è aumentata in modo esponenziale e ti si chiede di essere bravo nell’utilizzo di certi canali per venderti. Ma quello non è il mio campo. I miei attori e registi preferiti sono persone che non si fanno vedere se non nel momento in cui recitano.

Brando Pacitto, foto di Gabriele Saladino
Brando Pacitto, foto di Gabriele Saladino

«È stato molto interessante lavorare con Gabriele Muccino perché ha un’energia folle, mentre io ero un ragazzo estremamente timido. Relazionarci è stato particolare: lui esigeva tanto e io ero molto introverso»

Molti produttori si lamentano del fatto che tanti attori vanno obbligati addirittura a prendere parte alle premiere. Questo dovrebbe rientrare nel loro lavoro

Quello è giusto, come presentare i film ai festival, essere i film in sala durante alcune proiezioni, parlare con la platea, essere a disposizione del pubblico e accettare un confronto con loro. Tutto questo è meraviglioso e credo debba far parte del lavoro dell’attore. Mi sta benissimo essere utilizzato dalla produzione per la sponsorizzazione del film, ma non i social. Io voglio fare bene l’attore: questo è il mio lavoro. Farmi foto e video da solo e postarli no. Voi di MANINTOWN pubblicate bellissimi shooting, ma realizzati da fotografi professionisti. Io ho studiato per fare l’attore non il media manager. Se no studiavo strategie di marketing.

Qual è stata la tua esperienza con Gabriele Muccino nel film L’estate addosso?

Con Muccino è stato assurdo. Avevo 19 anni, stavo facendo la maturità e mi sono ritrovato su quel set. Ho girato negli Stati Uniti e a Cuba con tre ragazzi americani più grandi di me. Due mesi e mezzo fuori casa, dall’altra parte del mondo, da solo: è stata un’esperienza pazzesca. È stato molto interessante lavorare con Gabriele perché ha un’energia folle, mentre io ero un ragazzo estremamente timido. Relazionarci è stato particolare: lui esigeva tanto e io ero molto introverso. A volte ci siamo anche scontrati: io avevo difficoltà a tirare fuori certe emozioni, lui si scontrava con certi miei meccanismi. Gabriele ha comunque un marchio di fabbrica nell’utilizzo degli attori e in me evidentemente aveva visto un bagliore, ma io ero un ragazzino titubante e a volte ho sofferto.
Sono però contento che, anche se attraverso l’uso di una certa forza verbale, sia riuscito a farmi muovere su canali diversi rispetto a quelli ai quali ero abituato
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Brando Pacitto, foto di Giorgia Tognoli
Brando Pacitto, foto di Giorgia Tognoli

«Abel Ferrara lo definirei un impressionista: è uno che lancia le indicazioni e coglie quello che gli restituisci. Senza grandi tecnicismi e preparazione prima del set»

E Abel Ferrara?

Abel Ferrara è stato una di quei regali che questo mestiere a volte ti fa. Mai mi sarei aspettato di poter lavorare con una leggenda simile, in un momento come quello immediatamente successivo al Covid. Non era certo il periodo in cui avevo molte speranze di finire sul set di un grande film. Invece, nel giro di due settimane, mi sono ritrovato a girare con Abel. Lui ha un modo di dirigere completamente diverso da tutti gli altri. Lo definirei un impressionista: è uno che lancia le indicazioni e coglie quello che gli restituisci. Senza grandi tecnicismi e preparazione prima del set.
La sceneggiatura di Padre Pio era di venti pagine: il resto è stato tutto estremamente freestyle.
Padre Pio era interpretato da Shia Labeouf, che è uno dei miei attori preferiti. Per me è stato incredibile e assurdo allo stesso tempo.

Tra Abel Ferrara e Muccino, come è stato essere diretto da giovani registi alla loro opera prima come Filippo Barbagallo e Massimiliano Zanin?

Dopo Baby, a parte Abel Ferrara, ho fatto quattro opere prime ed è una cosa che rivendico con gioia, perché mi piace lavorare con persone che si mettono in discussione per la prima volta. Filippo l’ho conosciuto facendo dei provini. Lavorare con lui è stato meraviglioso per il tono del film, fresco e moderno. Una sorta di chiacchierata tra amici. Poi abbiamo avuto la fortuna di avere sul set Gianni Di Gregorio, regista di Pranzo di Ferragosto e sceneggiatore di Gomorra.
Con Massimiliano Zanin, quello che mi ha spinto ad accettare
The cage è stato il tema del film e la possibilità di lavorare con Aurora Giovinazzo. È un’attrice della mia generazione che stimo molto, una delle mie preferite. È un’attrice con una grande presenza scenica. E di Massimiliano mi incuriosiva anche che era stato sceneggiatore per Tinto Brass.
Mi è piaciuto essere alla Festa del cinema di Roma con due film molto diversi e in due ruoli diametralmente opposti, una commedia coming of age giovane e uno sport movie cupo.

Brando Pacitto durante le riprese di The cage
Brando Pacitto durante le riprese di The cage

«In The cage è stato difficile riuscire a immaginare quel modo di relazionarsi, di vivere. Ma in questa difficoltà ho riscontrato il fascino di questo mio lavoro»

È stato difficile interpretare il personaggio di Alessandro in The cage? Ti è pesato essere un ragazzo che manipola la compagna in un simile momento? Siamo a 106 vittime di femminicidio quest’anno, più tutte le donne che quotidianamente sono vittime di violenza domestica…

Per me è stata un’opportunità per crescere lavorativamente. C’era la possibilità di interpretare una figura negativa, consapevole che ci sono persone che vivono in queste situazioni di disagio, di paura e di pericolo costante. È stato un lavoro estremamente delicato e al contempo affascinante, perché di indole sono molto diverso da Alessandro. È stato difficile riuscire a immaginare quel modo di relazionarsi, di vivere. Ma in questa difficoltà ho riscontrato il fascino di questo mio lavoro. È stato bravo Massimiliano Zanin a dirigermi, ma c’era anche una buona scrittura. È stato fondamentale anche il lavoro con Aurora e la possibilità di avere un’attrice disponibile e attenta con cui relazionarmi. Avere un partner collaborativo con cui creare una sinergia è fondamentale.

Brando Pacitto durante le riprese di The cage
Brando Pacitto durante le riprese di The cage

«Amo i registi che raccontano storie»

Gaber cantava: vorrei essere libero come un uomo. In The cage sei un uomo nudo, dentro una gabbia, davanti a una tigre. Che sensazione hai provato?

Prima di girare quella scena ho fatto un training in un posto meraviglioso che si trova a Padova, dove vengono accuditi grandi felini sottratti al traffico illegale. Tigri, puma, leopardi presi da situazioni borderline, da circhi, da venditori illegali. Abbiamo avuto la fortuna di trascorrere del tempo lì con gli addestratori. Le tigri in realtà sono degli animali meravigliosi e dolcissimi, tranne che nel momento in cui mangiano. Amano ricevere attenzioni ed essere coccolate. Tirano fuori la loro aggressività quando le metti nella gabbia e tiri loro pezzi di carne. Credo sia una cosa che non mi capiterà più nella vita e probabilmente, se non fosse stato per questo film, non mi sarebbe mai accaduto.

I registi o gli attori che ti hanno segnato?

In realtà chi mi ha fatto innamorare della recitazione è un’attrice, Marion Cotillard. Amo i registi che raccontano storie e in questo momento, se proprio dovessi chiedere di finire nel racconto di qualcuno, mi piacerebbe fosse un film di Alice Rohrwacher. Quindi due donne.

Brando Pacitto durante la presentazione del nuovo numero NEXT GEN, foto di Ruben Quaranta
Brando Pacitto durante la presentazione del nuovo numero NEXT GEN, foto di Ruben Quaranta
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