DANIELE GIANNAZZO, L’ARTE DI RACCONTARE STORIE 

Potrebbe essere un “medical drama”, come E.R. o il longevo Grey’s Anatomy, o un vecchio show con le cui repliche siamo cresciuti: in fondo, chi non ha mai visto un episodio di Happy Days o Friends? La verità è che ognuno di noi, in maniera bulimica o più rilassata, è un fruitore di serie televisive. Non si contano i titoli che hanno cambiato il modo di concepire la televisione, innovativi per immagini o per linguaggio, da Lost a Il Trono di Spade, da Euphoria a White Lotus, da Downton Abbey a Bridgerton
Con il cambiare dei tempi e con l’arrivo dei canali in streaming si sono centuplicate le proposte, ma si sono anche create vere e proprie community di appassionati. Anche la figura del critico televisivo ha saputo modularsi su questi tempi più veloci: alcuni hanno creato un seguito e sono diventati voci autorevoli grazie ai social, ma non solo. Una di queste figure è Daniele Giannazzo, presentatore fiorentino, scrittore e creator, con un focus preciso e personalissimo sul mondo del cinema, delle serie e dell’entertainment.

Daniele Giannazzo
Total look Antonio Marras

La nascita di Daninseries

Ormai dieci anni fa, prima della diffusione dei servizi streaming, del fenomeno di Instagram e di TikTok, Daniele ha creato una vera e propria community, portando in Italia qualcosa di originale e adatto allo spirito dei tempi. Riuscendo a coniugare in modo inedito e fresco più stili e linguaggi, è stato un pioniere del nuovo modo di parlare di serie televisive nel nostro Paese. Ha creato Daninseries, community web sul mondo del cinema e delle serie, diventata ormai un punto di riferimento. Dal 2016 è anche in edicola con la rubrica MillennialZ – L’opinione di Daniele Giannazzo sullo storico mensile CIAK. Ma è anche autore di romanzi per Mondadori e sono molti i progetti che ha in cantiere.
Se nell’ambito della critica televisiva c’è un personaggio da seguire è Daniele. La sua creatività, forgiata dalla passione per le arti visive, sembra davvero inarrestabile e poliedrica. Lo abbiamo intervistato non solo per conoscerlo meglio, ma anche per fare un po’ il punto della situazione sulle nostre amate serie tv.

«Tutto comunque nasce da un bisogno: trovare persone “come me” amanti di serie. E anni fa, prima di Netflix, era davvero difficile»

Come ti sei avvicinato al mondo delle serie televisive e quando è nata questa tua passione? E in secondo luogo, vorrei capire come questo sia diventato un lavoro anche e soprattutto grazie ai social…

Ho sempre amato le serie tv, addirittura da quando era considerato “da sfigati” guardarle. Dai tempi di Buffy, l’ammazzavampiri, di Dawson’s Creek e poi The O.C. Mi sono avvicinato prima da semplice appassionato. Poi all’università ho iniziato a studiare materie sia letterarie, come Storia del Cinema, Analisi e Critica Televisiva, ma anche di economia come Management dello Spettacolo e Marketing. Credo che mi abbiano dato le prime basi, insieme alla mia cultura amatoriale, per creare qualcosa di personale e di nuovo che poi si è trasformato in un vero e proprio lavoro. Tutto comunque nasce da un bisogno: trovare persone “come me” amanti di serie. E anni fa, prima di Netflix, era davvero difficile. Eravamo una nicchia felice, Daninseries era (e fortunatamente lo è tuttora) il ritrovo di tutti gli appassionati di serie in Italia. 

Dal tuo punto di vista, cosa rende una serie un potenziale successo? Qual è la formula che ha reso in questi anni una serie un fenomeno mediatico?

C’è un punto che accomuna tutti i generi seriali: la scrittura. Quella è la base, ciò su cui si fonda tutto. Sul resto, a volte, si può anche sorvolare. Ci sono tanti prodotti oggi che hanno una bellissima fotografia, ottimi attori, ma se viene a mancare una scrittura solida, mancano proprio le fondamenta.

In questi tempi di sovrapproduzione televisiva diciamo però che serve qualcosa di più per diventare un successo virale e mediatico: un mix tra scrittura, originalità ed effetto nostalgia che guardi al passato e che riesca a catturare più target possibili. Il marketing e i social sono fondamentali. 

«In un panorama di siti e persone che facevano a gara a chi faceva la recensione migliore e che trattavano solo serie qualitativamente eccelse, nella mia community si poteva guardare e parlare di tutto»

Quale è la prima serie alla quale ti sei effettivamente appassionato come spettatore e quale invece la prima che hai approcciato da un punto di vista professionale? Il Daniele spettatore ha delle serie che ama, ma che invece al Daniele critico non piacciono? In breve: le due figure corrispondono sempre?

La prima serie che veramente ho amato a livello personale è stata Streghe. M ricorda l’infanzia, il divano verde su cui mi sedevo ogni sera con la mia mamma e insieme aspettavamo queste tre sorelle che combattevano i demoni. Sono sensazioni ancora vivide che mi scaldano solo a pensarci, e per questo motivo Streghe (o Charmed) sarà sempre parte del mio cuore.

Non ricordo la prima volta che ho trattato una serie a livello professionale, ma alla fine l’approccio non cambia molto. Ciò che ha reso Daninseries “qualcosa di nuovo” è stato il fatto che in un panorama di siti e persone che facevano a gara a chi faceva la recensione migliore e che trattavano solo serie qualitativamente eccelse, nella mia community si poteva guardare e parlare di tutto. Consapevoli che Twin Peaks non è Pretty Little Liars, ma non per questo evitando di parlarne con quella puzza sotto al naso che per tanti anni ha caratterizzato chi ambiva a lavorare in questo mondo. 

La serie più sottovalutata di sempre e quella più sopravvalutata? Quella che avrebbe meritato più stagioni e quella invece che è andata per le lunghe?

Tra le più sottovalutate ci metto Ugly Betty, che personalmente consideravo un’iniezione di buon umore e di sentimenti, ma purtroppo non tutto il pubblico era del mio stesso parere. Ad essere sopravvalutata sin da prima dell’uscita, per via delle aspettative che il cast infondeva (c’erano da Nicole Kidman a Bobby Cannavale e Melissa McCarthy), è Nine Perfect Strangers. Un inizio promettente che si è perso in dinamiche e retroscena veramente surreali.
A meritare più stagioni, invece, ci metto intanto
Ugly Betty perché ho la testa dura, ma anche serie con un po’ lo stesso spirito come Chiamatemi Anna o Fleabag, che so essere tratto da un testo teatrale ben definito, ma del talento di Phoebe Waller Bridge non se ne ha mai abbastanza. Riverdale, infine, è nato sotto i migliori auspici, mettendo insieme un cast che sullo schermo e nella vita aveva e continua ad avere un’ottima alchimia, ma ha spremuto talmente tanto i suoi personaggi e le sue dinamiche che l’incantesimo a un certo punto si è rotto, senza che i suoi artefici abbiano avuto il coraggio di dire basta.

Se si pensa agli show televisivi, uno dei premi più importanti è quello degli Emmy. Alcuni show hanno fatto incetta di statuette, ma poi ci si chiede il motivo di tale risonanza. Quanto il riconoscimento della critica e la vittoria di premi influenza il vero successo di una serie?

Dietro l’assegnazione di questi premi non c’è sempre (anzi forse quasi mai) una scelta veramente democratica, ma molte volte meccaniche e calcoli interni all’industria. Per tale motivo, spesso, dopo l’assegnazione dei premi, si parla delle serie o di interpreti “snobbati” da queste manifestazioni. Prima dell’avvento dei social, questi premi servivano anche per spingere i titoli e farli conoscere da un pubblico più ampio. Oggi questo potere un po’ si è perso, e sono i premi stessi a seguire l’onda del successo, anziché il contrario. 

Daniele Giannazzo
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«Le nuove generazioni amano la diversità, sono più curiose e improntate a informarsi su ciò che va al di là dei propri confini, o che più li rappresenta»

A tuo avviso, cosa cambia nell’approccio al fare televisione in Italia rispetto all’estero?

I soldi (ride, ndr). Diciamo che molto spesso si ha la tendenza a non osare e a non andare oltre al proprio orticello. Vediamo sempre le stesse tematiche, con le stesse facce e le storie difficilmente riescono a rappresentare più target, ma si rivolgono sempre alle stesse persone. Anche se negli ultimi anni le serie italiane hanno fatto finalmente quel saltino che le ha effettivamente avvicinate ai livelli di grandi produzioni internazionali.

Alcune nazioni negli ultimi anni sono cresciute molto da un punto di vista di serie televisive: parlo della Spagna, ma anche della Corea del Sud. Cosa, nei loro prodotti, attrae il pubblico internazionale?

Non sono, purtroppo, un grande esperto di K-drama, ma è il mio buon proposito del 2023. Devo però sbrigarmi. Penso che ogni Paese racconti un po’ la propria storia, con il proprio stile. Non penso facciano meglio o peggio, ma che suscitino oggi molto più interesse perché soprattutto le nuove generazioni amano la diversità. Sono più curiose e improntate a informarsi su ciò che va al di là dei propri confini, o che più li rappresenta.

«I social hanno letteralmente cambiato il modo di fare serie tv, o almeno alcuni generi di serie»

C’è stato un momento in cui le serie hanno puntato sui social: ti sembrano ancora un veicolo importante per questo tipo di show o è stata solo una parentesi?

Sì, l’ho proprio vissuto sulla mia pelle. È successo prima ancora dell’arrivo delle piattaforme streaming e perlopiù con i teen drama. The Vampire Diaries, Pretty Little Liars (ma anche altre serie) tenevano conto delle opinioni del web e gli sceneggiatori si lasciavano anche guidare dal sentimento popolare andando a stravolgere un po’ la storia rispetto a come l’avevano pensata inizialmente. Da lì sono nati i termini “fanservice”, “ship”, “canon e fanon”. Ho ancora gli incubi per le guerre tra le diverse ship. I social hanno letteralmente cambiato il modo di fare serie tv, o almeno alcuni generi di serie. 

Instagram e TikTok versus serie tv. Chi ci guadagna di più? Chi ne trae maggior giovamento? 

È tutto un meccanismo che si autoalimenta a vicenda, ma indubbiamente le serie tv. La produzione di serie grazie all’avvento dei social è centuplicata rispetto a dieci anni fa. Prendiamo solo il caso Mare Fuori, una serie esplosa grazie ai social, fino ad attirare l’attenzione degli altri Paesi che ne hanno acquistato i diritti. 

«Credo che col tempo cesserà questa enorme sovrapproduzione di serie, si tornerà a concentrarsi sui contenuti e a essere selettivi»

Come pensi che gli scioperi che ci sono stati influenzeranno il mondo dei tv show negli Stati Uniti?

È una bella domanda. Credo che col tempo cesserà questa enorme sovrapproduzione di serie, si tornerà a concentrarsi sui contenuti e a essere selettivi. Il che non è necessariamente un male. Questo sciopero ha creato un danno economico incredibile in tutta l’industria (non solo per lo slittamento delle serie o dei film), ma penso che le lotte degli attori e degli sceneggiatori siano sacrosante. Senza addentrarmi nel dettaglio, perché ti ruberei almeno dieci pagine, mi limiterò a dire che ho amato il fatto che a guidare la protesta sia stata Fran Drescher, de La Tata. La nostra Francesca Cacace. Sembra di vivere in una simulazione. 

«Mi auguro che quanto sia accaduto nel mondo di cinema e tv ci renda più sensibili verso temi come la meritocrazia o gli adeguati riconoscimenti economici (e non solo) sul lavoro»

Quali saranno, secondo te, i temi più importanti per il futuro?

Siamo in un momento di rivoluzione per tutta l’industria. Certamente andrà regolamentato l’utilizzo della AI in questo ambito, che a detta di molti potrebbe rappresentare la morte del cinema e della creatività. Inoltre, mi auguro che quanto sia accaduto nel mondo di cinema e tv ci renda più sensibili verso temi come la meritocrazia o gli adeguati riconoscimenti economici (e non solo) sul lavoro. 

Un attore o attrice da riscoprire e un nome per il futuro?

Se me lo avessi chiesto lo scorso anno, ti avrei detto Evan Peters, come ripeto da dieci anni a questa parte. Purtroppo era sottovalutato nonostante il grande talento; poi con Dahmer finalmente tutti si sono accorti di lui. Attualmente ti direi Louis Partidge, ma perché sogno di vederlo protagonista in un ipotetico e futuro film o serie tratto dai miei romanzi. 

Quali sono i volti del passato legati alle serie televisive che ti hanno influenzato o colpito di più? Quali sono quelli che hanno lasciato il segno maggiormente e sono diventati dei trendsetter del settore?

La risposta per entrambe le domande è la stessa: Sarah Michelle Gellar, ovvero Buffy. Una serie e una protagonista che hanno fatto la storia delle serie tv. Buffy è un caso di studio, ha cambiato totalmente la concezione delle serie stesse. Da Buffy niente è stato più come prima e il carisma di Sarah, così come la meravigliosa voce di Barbara De Bortoli nel doppiaggio italiano, mi hanno accompagnato durante l’infanzia. E quest’anno ho coronato un piccolo sogno quando Paramount+ mi ha chiesto di intervistarla

Daniele Giannazzo
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«Viaggiare, soprattutto legando il lavoro alla propria passione, ti apre la mente e ti mette in condizione di migliorare costantemente, o almeno di provarci»

Cosa hai imparato di più da questo mestiere? Ci racconti l’episodio più divertente legato al tuo lavoro e, se puoi dirlo, la delusione più grande?

Questo lavoro mi ha insegnato tutto, a livello professionale e personale. Mi ha permesso di visitare luoghi incredibili e di conoscere realtà che mai avrei potuto immaginare. Viaggiare, soprattutto legando il lavoro alla propria passione, ti apre la mente e ti mette in condizione di migliorare costantemente, o almeno di provarci. In più ti lascia dei ricordi pazzeschi e improbabili: la bellissima première di House of The Dragon a Ferragosto 2022 con il team di Sky, dove a prender fuoco eravamo noi e non i draghi. O il Tudum di pochi mesi fa con Netflix, che mi ha spedito in Brasile per il loro evento mondiale a rappresentare l’Italia.

Un episodio che ricordo sempre con grande piacere è lo switch da “figura dietro le quinte” a “protagonista”. Ero alla première de Il Ritorno di Mary Poppins e questa ragazza che ai tempi lavorava nell’agenzia per Disney, Giulia (che io chiamo la mia Fata Madrina), a un certo punto mi dice: «Perché non fai il photocall?». Io, che ero sempre stato abituato a lavorare dietro a uno schermo e mai a metterci la faccia, timidamente declino. Ma lei letteralmente mi prende di peso e mi getta in pasto ai fotografi, che iniziano a scattare e a urlarmi: «Di qua, di là, guarda su, guarda giù». Fu il mio primo photocall, mi sentivo come la versione poco più nerd di Serena Van Der Woodsen. Da lì non mi sono più fermato, è stato l’inizio di un nuovo percorso.

La più grande delusione, come sempre, deriva dalle persone. Sia a livello personale, sia professionale. In questo ambito non c’è solidarietà, ma se ne finge tanta: si pensa che chi ha successo rubi possibilità a qualcun altro, quando in realtà c’è posto per tutti. Se lavorassimo tutti insieme, condivideremmo tutti più soddisfazioni.
Sono pochissimi i creator o i press con cui negli anni ho instaurato un rapporto sincero, ma per fortuna ci sono. In campo lavorativo forse è anche peggio. Per anni ho tentato di farmi notare sia con i miei contenuti sia con numeri oggettivamente pazzeschi; ma nei lavori, agli eventi e in tante altre opportunità vedevo sempre passare avanti altre persone, spesso non in target, con numeri più bassi, ma (forse) con conoscenze giuste o solo perché ispiravano simpatia a chi di dovere. Credo che succeda un po’ in tutti gli ambiti. Ciò che mi demoralizzava era proprio il fatto che avrei anche potuto avere anche il risultato migliore di tutti, ma non sarebbe bastato. La situazione ora è un po’ cambiata per me e per tanti altri, forse perché chi di dovere ha iniziato a fare un po’ di vera ricerca. 

«Dopo anni passati a commentare le storie altrui, mi sono detto di volerne crearne una mia. Così è nata la trilogia di Roe. Una storia in cui ho riversato tutto il mio stile e la mia passione, e che mi ha dato soddisfazioni che mai avrei pensato di provare»

Sei diventato autore di libri. In che modo la tua attività legata alle serie ha influenzato la tua scrittura e le tue storie?

Dopo anni passati a commentare le storie altrui, mi sono detto di volerne crearne una mia, mettendoci tutto ciò che in libri o serie tv non ho mai trovato. Così è nata la trilogia di Roe, iniziata con Roe e il segreto di Overville. Una storia in cui ho riversato tutto il mio stile e la mia passione, e che mi ha dato soddisfazioni che mai avrei pensato di provare. Ho inserito tutta la mia conoscenza in questo ambito: l’uso dei colpi di scena, il ritmo della narrazione, ci sono anche numerose citazioni dalle più disparate serie tv all’interno del libro. Ho creato un gioco con i miei lettori: trova tutte le citazioni dirette e indirette (come nei nomi dei personaggi, in determinate situazioni e scene). Qualcuno ci è anche riuscito. 

Il tuo nuovo romanzo si intitola Se fosse una commedia romantica, ce ne parli? È legato alle storie precedenti o è una storia completamente nuova?

È una storia nuova, più adulta, ma sempre fedele al mio stile. Ci sarà tanta ironia, ci saranno tanti momenti divertenti, ma anche quel pathos e quei colpi di scena che hanno caratterizzato la trilogia originale. I protagonisti sono un fratello e una sorella e la loro sfortunatissima vita sentimentale, che li porterà a compiere un viaggio che cambierà per sempre la loro vita. Forse ho detto troppo, ma spero davvero che riesca a emozionare come ha fatto Roe e che mi faccia conoscere da un nuovo pubblico.

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«Il sogno è quello di portare sul grande schermo la mia trilogia di romanzi»

Sogni nel cassetto e progetti per il futuro?

Il sogno è quello di portare sul grande schermo la mia trilogia di romanzi. Io ci credo davvero, non so quanto ci vorrà ma sono convinto che ha tutte le carte in regola per diventare quel successo cinematografico (o televisivo, dato che io nasco con le serie). Mi piacerebbe anche un programma tutto mio, dove unirei interviste ad attori, approfondimenti su cinema e serie tv e tanto divertimento. Sono sogni ambiziosi, lo so, ma farò tutto ciò che è in mio potere per realizzarlo. So che non me lo hai chiesto e che fa molto Miss Italia, ma ne approfitto per ringraziare tutte le persone che collaborano da anni con me senza mai lasciarmi: Niccolò, Valentina, Leila, tutto il mio team. Non ultimi i miei genitori, non c’è stato un attimo in cui sia mancato il loro sostegno e questo ha senz’altro contribuito a tutto questo successo.

Credits

Editor in Chief Federico Poletti

Photographer Tito Hu

Stylist Margherita Mazzoletti

Make-up Cecilia Olmedi

Hair Davide Nucara

Photographer assistant Qi Haoyu

Stylist assistants Aurora Di Negro

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