Il “caso” Ferragni insegna: guardare l’arte con i soli occhi può essere un problema

Alcuni look di Chiara Ferragni a Sanremo mi hanno triggerata, e non poco. Il motivo è semplice: ci sono cascata pure io. Vedo un abito con richiami all’arte e mi entusiasmo, volo alto, poi sorge un dubbio e allora torno sulla terra, faccio qualche ricerca: eccallà, la trappola, quella “iconografica”, come la chiamo io. Ossia una certa tendenza della moda a cogliere del lavoro artistico soltanto l’aspetto più facile, immediato, superficiale e accessibile, quello visivo.
L’attitudine iconografica è subdola, si ciba di bellezza, rifiuta l’imprevedibilità del processo creativo e si fa largo nella pancia del ricevente, evitando accuratamente di incontrare il pensiero. 

Le sue origini si possono, a mio avviso, rintracciare nel Romanticismo, che ha deciso che l’arte aveva il potere precipuo di saper parlare “al cuore di tutti” (spoiler: non è vero). Associandola all’emotività piuttosto che alla politica, alla religione o alla società, com’era stato fino a quel momento, l’effetto diretto fu quello di allontanarla dalla vita delle persone, impegnate nella lotta alla sopravvivenza e non certo nell’elevazione spirituale. In poche parole, l’arte diventa uno status symbol appannaggio dell’élite, perdendo la dimensione della quotidianità a favore di una più nobile trascendenza. L’atteggiamento iconografico del sistema moda, potremmo dire, in sostanza non è altro che la conseguenza della supremazia nell’arte dell’io sul noi, della preminenza della contemplazione sulla funzione sociale. Quanti danni ha fatto quel Viandante sul mare di nebbia.

Chiara Ferragni arte Sanremo
Ph. dall’account IG di Chiara Ferragni

L’attitudine iconografica è subdola, si ciba di bellezza, rifiuta l’imprevedibilità del processo creativo e si fa largo nella pancia del ricevente, evitando di incontrare il pensiero

All’atteggiamento iconografico si aggiunse poi, con lo sviluppo industriale, quello strumental(izzant)e: le “belle arti”, in virtù della loro presunta estraneità alla pecunia, vennero usate dai settori produttivi come coperta di Linus per autorizzare scelte di stile coraggiose, per caricare di unicità gli oggetti delle arti applicate, per donare sacralità alle merci, alla pubblicità e all’editoria (come, più tardi, nel programma lucidissimo di Paul Poiret), nonché per imprimere su beni di uso quotidiano il sigillo dell’eternità.
Quale comparto in debito d’aura davanti a una promessa certa di riuscita non tenterebbe l’impresa? Soprattutto se, notoriamente, viene tacciato di frivolezza. L’arte divenne così il re Mida della moda, grazie alla capacità di intellettualizzare per osmosi anche le fogge più inette.
Volendo fare un esempio recente, questo atteggiamento iconografico-strumentale è alla base della sfilata Autunno/Inverno 2023-24 di Bottega Veneta, con i Corridori di Ercolano del I secolo a.C., provenienti dal Museo archeologico nazionale di Napoli, posizionati lungo la passerella per rappresentare un generico “passato” in dialogo con un’altra scultura, la fusione marinettiana di Forme uniche della continuità nello spazio di Umberto Boccioni, conservata nella Galleria nazionale di Cosenza, che invece evocava lo slancio della maison verso il futuro (immagino la frustrazione dei docenti di storia dell’arte che ogni anno spiegano la differenza tra futuro e Futurismo). Nessun riferimento al reale significato delle opere.

L’arte è diventata il re Mida della moda, grazie alla capacità di intellettualizzare per osmosi anche le fogge più inette

Per tornare a Chiara Ferragni a Sanremo, è sempre tale approccio iconografico-strumentale a far sì che in tutti i corpi delle donne rappresentati nell’arte si veda un gancio per parlare di empowering femminile. Ma l’insidia è dietro l’angolo. È infatti dovuto ad un consumo meramente retinico l’abbaglio di interpretare le Anthropométrie de l’époque bleue di Yves Klein – una serie avviata nel 1958, a cui l’abito Body Painting di Schiaparelli, indossato dalla regina delle influencer nella serata finale, si è ispirato – come la volontà dell’artista francese di liberare il corpo della donna, chiamandolo «a imprimere autonomamente le proprie forme su grandi canvas bianchi da dipingere in blu».

Non c’è altra spiegazione (alla riattualizzazione non voglio neanche pensarci), sennò avrebbero saputo che quelle performance poco e niente avevano a che vedere col femminismo; che le modelle erano “living brushes”, cioè strumenti; che i loro movimenti nello spazio erano perfettamente orchestrati da Klein («again a little more to the right, there, come back by rolling on that side, the other corner is not yet covered, come over here and apply your right breast»); e che il senso delle silhouette risiedeva nel desiderio di testimoniare un’esistenza, un passaggio, il ricordo della vita che supera la morte (soprattutto se pensiamo che l’intuizione venne all’artista dopo una visita a Hiroshima nel ’53, durante la quale aveva visto l’ombra impressa nella pietra di un uomo incenerito dalla bomba atomica).

Chiara Ferragni Sanremo
Yves Klein con una modella durante un “body painting” – ph. © Harry Shunk and Janos Kender, J. Paul Getty Trust. The Getty Research Institute, Los Angeles (2014.R.20) © Succession Yves Klein c/o ADAGP, Paris

Chiara Ferragni arte Sanremo
L’ombra sulle scale della filiale della Sumitomo Bank Company di Hiroshima, nel 1945

È l’approccio iconografico-strumentale a far sì che in tutti i corpi delle donne rappresentati nell’arte si veda un gancio per parlare di empowering femminile

È ancora colpa di un modus operandi che parte e finisce negli occhi, piegando biecamente l’artefatto ai propri scopi, se la Venere di Willendorf è stata scomodata, in virtù delle proporzioni delle sue forme, per la collana-utero di Daniel Roseberry (direttore creativo di Schiaparelli) come appello all’autodeterminazione. Poco importa che la comunità scientifica si arrovelli da decenni sull’interpretazione di questa statuetta preistorica, senza arrivare a una versione univoca, né che nelle più recenti teorie si metta addirittura in discussione il binomio dea madre-fertilità, calcificato nell’immaginario collettivo. L’associazione era forte e quindi è stata inserita nel carosello Instagram sui diritti riproduttivi (un atto quasi di tracotanza, per quanto mi riguarda).

Se il contatto con l’arte è epidermico e dominante, allora non si farà neanche fatica a vedere nella Madonna del Latte, un’iconografia di Maria mentre allatta il bambino che affonda le sue origini nell’Egitto cristianizzato, lo stereotipo della donna-madre da demolire. Andando leggermente oltre, il messaggio sarebbe stato praticamente servito su un piatto d’argento: la sessualizzazione del corpo della donna (che pure è un grande topic di Ferragni). Non solo questo repertorio storico-artistico fu infatti censurato dal Concilio di Trento, in quanto ritenuto provocante e quindi sconveniente, ma la Vergine ritratta in quest’atto fu oggetto di devozione popolare, un’immagine amatissima dalle donne che nella scena ritrovavano la misura carnale della maternità e l’umanità dei rapporti affettivi, tutt’altro significato rispetto al presunto asservimento a mere genitrici.

Chiara Ferragni Sanremo
Ambrogio Lorenzetti, Madonna del latte (1325 circa; tempera e oro su tavola, 96 x 49,1 cm; Siena, Museo Diocesano)

Certe storpiature semantiche perpetrano la spoliazione e il conseguente reimpiego scriteriato dei significati del patrimonio culturale a fini di comunicazione e marketing

Purtroppo, però, la vista ha tratto in inganno gli ideatori del primo abito firmato Schiaparelli che, senza saperlo, hanno fatto il gioco del patriarcato (che già dall’antica Grecia osteggiava l’allattamento, un momento intimo da cui l’uomo era escluso), colpevolizzando la povera icona.
Stando a questa ratio, per Dior non dev’essere stato un gran problema estrapolare da un muro di Genova un’opera di street art, visceralmente anticapitalista e pubblica, per cucirla su una stola. Forse la scritta firmata Cicatrici Nere non starebbe neanche su charms e t-shirt se non fosse stata, appunto, una “semplice” scritta dal punto di vista figurativo.
Tali storpiature semantiche potranno risultare marginali a chi legge, ma la verità è che perpetrano la spoliazione e il conseguente reimpiego scriteriato dei significati del patrimonio culturale a fini di comunicazione e marketing. 

Ci sarebbe bisogno di consulenti capaci di far incontrare fashion industry e patrimonio storico-artistico, garantendo il pieno rispetto di entrambe le istanze

I brand perderanno occasioni preziose di farsi ricordare (oltre che di comportarsi da soggetti culturali, come tanto vorrebbero) ogni volta che sceglieranno con gli occhi e non con la testa. Ogni volta che scambieranno il significante per il significato. Ogni volta che useranno l’arte come strumento di marketing e non come driver progettuale. Ogni volta che cercheranno una scorciatoia per sublimare la contingenza dell’abbigliamento. Ogni volta che appiccicheranno un simbolismo autoriferito sul valore culturale. Ogni volta che avranno la superbia di considerare più rilevanti i propri contenuti rispetto a quelli creati nel tempo dalle collettività. 

C’è un modo per compiere bene quest’operazione, e non può essere affidato a marketer, branding manager o entertainment coordinator. Servono figure-cerniera, che conoscano la storia dell’arte (possibilmente anche le istituzioni culturali) e il mondo corporate; consulenti capaci di far incontrare fashion industry e patrimonio storico-artistico, garantendo il pieno rispetto di entrambe le istanze. Che vedano in queste collaborazioni un reale momento di scambio, di generazione di nuova conoscenza, condivisa e condivisibile. Quando il metodo “iconologico” e un’alleanza tra pari saranno applicati sistematicamente alle interazioni tra arte e moda, potrei pensare di scrivere anch’io una lettera alla me bambina: reciterebbe “vittoria!”.  

Nell’immagine in apertura, Chiara Ferragni in Schiaparelli a Sanremo (ph. by Daniele Venturelli/Getty Images)

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