La moda rigenerata di Rifò: una storia di cenci, cenciaioli e sostenibilità

Una moda assetata di acque restituite impregnate di microplastiche ed agenti chimici. Indumenti già nati per essere rifiuti dismessi di discariche sovraffollate e scarti di invenduto lasciati in pasto agli inceneritori. Vestiti sovrapprodotti in nome di un consumismo globalizzato del non valore a buon mercato. Una moda veloce, “fast”, come la breve durata del suo deperire che nulla ha a che fare con il concetto di tempo, ma che piuttosto si lega a doppio filo a tessuti dozzinali, scadenti e difficili da riciclare che ne decretano la loro obsolescenza precoce. Un abbigliamento venduto come l’eldorado della convenienza a basso costo, ma pagato a caro prezzo a spese dell’ambiente e dei lavoratori orfani di diritti e tutele.



La vulnerabilità di questo anno pandemico ha inasprito queste fragilità già endemiche e radicate in alcune frange del sistema moda, ma d’altro canto ha anche acuito la necessità di una rafforzata sensibilità etica e di un consumo responsabilmente più sostenibile. Un appello che fa da eco a molte voci, tante quante sono le imprese che, da tempo, hanno deciso di remare contro un modello lineare di produzione riponendo le speranze future, e collettive, nella diffusione di una mentalità circolare che vede nel rifiuto una nuova risorsa da reintegrare sul mercato.



Tra queste realtà prende corpo Rifò, la startup del cashmere rigenerato frutto di un crowfunding su Ulule nata nel dicembre 2017 a Prato, in un territorio simbolo, storicamente votato alla cultura del tessile e, per tradizione, terra di lanai e straccivendoli, noti ai nostrani con il nome di cenciaioli o ai più fini letterati con l’appellativo di chiffoniers, come amava declamarli Baudelaire. Quelli che li riconosci perché hanno sempre nella tasca posteriore dei pantaloni un paio di forbici, per separare le cuciture dalla maglia, e un accendino, per bruciare il filo e vedere se c’è una fibra sintetica nella composizione del capo. Dal centenario e quasi estinto mestiere degli artigiani del cencio, per necessità e virtù i primi ignari e inconsapevoli alfieri dell’economia circolare, muove la rivoluzione sostenibile intrapresa dal brand pratese.



Rifò, già a partire dalla fierezza vernacolare del suo nome a “km 0”, è un elogio a quel “rifare” che sfrutta la ricchezza di fibre riciclate per creare dagli scarti tessili un nuovo rigenerato, o un vecchio riscattato di qualità, che vuole farsi portavoce di un valore emozionale destinato a una seconda vita. È un credo stilistico in un futuro non più bisognoso di produrre nuove materie prime, ma autoalimentato dallo sfruttamento di tutte quelle già impiegate, esistenti e dimenticate.



Facendo un passo indietro, cosa ha portato un laureato in Economia internazionale alla Bocconi con esperienze nella cooperazione allo sviluppo per il Ministero degli Esteri a occuparsi di moda?

Un’idea vincente nasce spesso da un intuito, dalla necessità di colmare un gap o semplicemente da quella di porsi come un’alternativa, come ha fatto Niccolò Cipriani, fondatore del marchio. “Durante la mia esperienza di lavoro in Vietnam, ad Hanoi, ho realizzato con i miei occhi il problema della sovrapproduzione che grava su un settore, quello del fast fashion, che produce molto più di quello che viene comprato con un impatto negativo sul consumo delle risorse naturali. Da questa presa di coscienza ho deciso di ritornare in Italia, recuperare la nobile arte dei cenciaioli, profondamente legata alle radici della mia terra, e su questa costruire un brand etico guidato dai valori di qualità, sostenibilità e responsabilità”. Rifò è l’alternativa all’emergenza globale di uno spreco fuori controllo, a cimiteri di abiti abbandonati e ad acquisti anaffettivi inghiottiti nella spirale di saldi e prezzi al ribasso. È l’incontro della conoscenza del distretto tessile di Prato con la consapevolezza che ogni vestito che buttiamo via ha un valore, può essere rigenerato e rigenerabile.



Tutti i capi sono realizzati nel raggio di 30 km da artigiani e piccole aziende a conduzione familiare con il metodo artigianale a “calata”, sostenendo così un modello di prossimità con i produttori e di valorizzazione territoriale a supporto dell’economia locale, limitando l’inquinamento dovuto alla logistica e ai trasporti e snellendo i prezzi finali sul mercato. Le materie prime seconde, frutto del “buon senso” e del risparmio energetico, sono vecchi maglioni in cashmere, jeans almeno 95% cotone e il cotone rigenerato. Scarti industriali e vecchi indumenti vengono sfilacciati, trinciati, riportati allo stato di fibra ed infine a quello di filato pronti ad essere la linfa materica di nuovi maglioni, cardigan, t-shirt, cappelli, sciarpe e mantelle. Alla base di questa “Rifolution” non solo il riciclo di indumenti o il valore della loro restituzione ad un nuovo uso, a nuova vita, ma anche la riduzione dei consumi di acqua, pesticidi e prodotti chimici usati di norma nella produzione. Una rivoluzione silenziosa per sensibilizzare le coscienze individuali verso una sostenibilità, umana e ambientale, incoraggiata da un acquisto consapevole al grido di “meno e meglio”.



Quando scegliamo che abito indossare, scegliamo anche per quale mondo votare.

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