“L’architettura come incontro fugace”: tributo a Gaetano Pesce

L’ultima bottega d’arte italiana, del genere che ha costruito la nostra civiltà artistica a partire dal tardo Medioevo, sopravvive a New York. Fino a qualche anno fa la si trovava in Hall Street, a Brooklyn, al secondo piano di un edificio verde risalente ai primi anni Quaranta. Alto una decina di piani, a due passi dal vecchio porto militare, il palazzo è per il resto suddiviso ai piani superiori tra uffici contabili e i laboratori della fabbrica di peluche che rifornisce i luna park di Coney Island. Al secondo piano, al centro dell’unica ampia sala, seduto su un trono traslucido e colorato, si trova Gaetano Pesce.

Il Maestro Pesce all’opera. Photo courtesy: Olga Antipina.

Lo spazio tutto intorno è popolato da una miriade di creazioni dalle fattezze empatiche, infiniti progetti e oggetti antropomorfi posti senza ordine sugli scaffali e alle pareti. Grandi lenzuola di resina morbida, dette skin o pelli industriali, sono appese per la sala in dialogo con la luce proponendo le stesse suggestioni di antiche vetrate. I tavoli orchestrati come smisurati paesaggi marini o montani, sono ricolmi. Alternati alle opere e confusi con esse latte e bidoni di materiale plastico ancora liquido e informe. Ogni oggetto ha una vita propria ed entrando nel “workshop” di Pesce si è accolti da una folla composta da infinite singolarità: in uno dei templi della progettazione industriale nessun oggetto è uguale all’altro, neanche nei multipli, grazie alle variazioni di casualità insite nel progetto. Ognuno di loro sembra interrogarti con le parole del loro autore: “il futuro rimetterà in rilievo il legame tra una concezione e una nuova realizzazione?”, “i tempi nuovi ci toglieranno il complesso rispetto all’apparente mancanza di identità?”, “la differenza è vita?”, “Esiste un’estetica del difetto?”, “L’uso quotidiano uccide l’oggetto d’arte?”. Domande alla base dell’esercizio creativo contemporaneo, a cui gli oggetti stessi, con la loro semplice e gioiosa esistenza, sembrano dare risposta.

Il Maestro è circondato da assistenti che si muovono intorno a lui come pianeti col Sole. Come fosse avvenuta una pentecoste, con spontaneità, tutti si allineano straordinariamente al suo stile e alla sua volontà. Quasi dimenticandosi di se stessi, continuano a esistere come sue emanazioni. C’è addirittura “un ricettario segreto” ad uso della bottega che fa da guida agli assistenti, un diario su cui vengono annotate le tecniche e le metodologie riguardanti i lavori e le sperimentazioni; quasi un omaggio al Libro dell’Arte di Cennino Cennini. Ecco, ad un certo punto si comincia: nell’operare si ripetono gerarchie e ritualità secolari.

C’è chi assiste il maestro nell’ultimare il disegno preparatorio, chi prepara i colori, chi le resine; c’è chi fa la miscela e chi porge i composti alla mano sicura del Maestro, che nella sulla sua vita di instancabile ricercatore è stato colui che ha attribuito ai materiali plastici la dignità d’arte. Il grande riconoscimento, quello che già prima di giungere in America lo proietta in una dimensione pienamente internazionale, avviene nel 1969 con l’uscita della rivoluzionaria serie “Up”. Si tratta di sette sedute biomorfe realizzate in stoffa e schiuma poliuretanica, materiale che permetteva uno sbalorditivo espediente tecnico: le sedute venivano consegnate all’acquirente sotto forma di disco di plastica piatto, il quale, una volta introdotta l’aria, si gonfiava modellandosi nelle forme voluttuose del modello Up. Veniva su, appunto, come suggerisce il suo nome.

La più famosa della serie è la Up 5, con la sua ancella Up 6 che fa da pouf, diventata fin dal suo esordio uno dei simboli nel mondo del design italiano e del “Made in Italy”. L’opera, come tutta la creazione di Pesce, ha in sé un’esplicita volontà di denuncia: se da una parte con le sue forme rassicuranti, morbide e abbondanti vive gli stessi archetipi delle veneri paleolitiche incarnando l’idea del femminino materno, dall’altra essa si presenta come entità schiava. L’Up 5 è collegata alla sferica Up 6 da un filo che è contemporaneamente cordone ombellicale, vincolo vitale e catena. Una catena di quelle che venivano messe al piede dei condannati ai lavori forzati per costringerli ad una pesante palla di metallo, e rappresenta qui il simbolo del pregiudizio dell’uomo nei confronti della donna.

“È vero che nella storia le donne sono state sacrificate a causa dei pregiudizi degli uomini.È come essere in prigione, è come andare in giro con questo peso al piede tutto il tempo. L’unico modo di esaminare questo concetto era mostrare la palla collegata al corpo della donna con una catena”.

Da quel lontano 1969, celebrato nel suo cinquantesimo durante il Salone Mobile con una gigantesca installazione in piazza Duomo a Milano, “Maestà Sofferente”, Gaetano Pesce non è mai rimasto simile a se stesso: esplora infinite vie, mutando e contraddicendosi, rivendicando il diritto all’incoerenza dell’artista. Per citare solo alcune delle sue opere basta ricordare l’Organic Building del 1989, che propone con trentanni di anticipo, tutte le istanze del celebrato Bosco verticale milanese, o il Pink Pavillion della ex Triennale Bovisa, primo edificio al mondo interamente costituito da schiuma poliuretanica. L’8 novembre Gaetano Pesce compie 80 anni rimanendo bambino con la stessa intatta gioia nel disegnare il futuro.

E festeggiando il suo compleanno sappiamo che saremo noi a ricevere in regalo altre infinite sorprese che racconteranno la diversità di un autore la cui visione sentimentale dell’architettura ha permesso di superare i confini tra l’arte, l’industria e la vita. “L’architettura come incontro fugace, come ritratto rapito, come ricordo d’amore, come museo d’affetti. Architettura amata generosa, che racconta, che ricorda che spera, che crea” Auguri Gaetano, e Grazie!

Testo a cura di Stefano Morelli

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