La moda romantica di Ann Demeulemeester, dagli Antwerp Six ad oggi

Ha da poco riaperto i battenti, completamente ristrutturata, la boutique ammiraglia di Ann Demeulemeester ad Anversa, tassello importante nella strategia di rilancio avviata nel 2020, che passa adesso da un luogo intimamente legato ai (gloriosi) trascorsi dell’etichetta belga. Lo store è stato ridisegnato da Patrick Robyn, marito e stretto collaboratore della stessa Ann, e si pone a tutti gli effetti come vetrina del nuovo corso della label sotto l’egida di Claudio Antonioli. L’imprenditore, titolare dei multibrand eponimi, già tra i co-fondatori del conglomerato di marchi urban New Guards Group, ha acquisito la griffe un anno fa, deciso a restituirle il ruolo che le spetta nell’olimpo modaiolo. A portarla ai vertici del fashion world era stata infatti la fondatrice, ovvero uno dei mitologici Antwerp Six, i sei stilisti (oltre a lei Dries Van Noten, Marina Yee, Dirk Van Saene, Dirk Bikkembergs, Walter Van Beirendonck) laureatisi nei primi anni 80 alla Royal Academy of Fine Arts di Anversa che, di lì a breve, avrebbero impresso un segno indelebile sulla moda del tempo, entrando negli annali.

E dire che Demeulemeester, nata nel 1959 a Waregem, nelle Fiandre Occidentali, all’inizio pensava di dedicarsi alla pittura, attratta com’era dalla ritrattistica fiamminga, ma resasi conto della forza espressiva degli abiti, si iscrive al corso di fashion design dell’Accademia Reale di Belle Arti. Ne uscirà nel 1981, dando vita con Robyn, quattro anni dopo, al brand che porta il suo nome.
Nel 1986 unisce le forze con i compagni d’università di cui sopra: affittano un furgone, lo riempiono delle proprie creazioni e viaggiano fino a Londra per esporle alla fiera British Designers Show, dove faranno enorme scalpore. Le loro proposte, d’altronde, sono sideralmente lontane dalla pomposità imperante negli eighties, decade caratterizzata, stilisticamente parlando, da spallone, barocchismi, luccichii vari ed eventuali, i punti di contatto sono semmai con il concettualismo spinto degli innovatori giunti qualche anno prima a Parigi dall’Estremo Oriente, Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo.



Ph. Marleen Daniëls, Karel Fonteyne, Erik Madigan Heck

Guadagnatasi la notorietà, Demeulemeester comincia a dettagliare la sua particolarissima visione del prêt-à-porter: l’abbigliamento secondo lei è un mezzo per comunicare, un’emanazione della personalità di chi ne è artefice, delle sue sensazioni, esperienze e interessi. Questi ultimi, per la creativa belga, si appuntano sui versi di poeti come Rimbaud, Blake o Byron, sulla musica che esprime le inquietudini dei giovani di allora (Doors, Velvet Underground, Nick Cave…), su quei dipinti che, in gioventù, l’avevano indirizzata verso la scuola d’arte di Bruges.
Da adolescente, poi, si imbatte nella copertina del disco Horses di Patti Smith, su cui campeggia il ritratto dell’autrice in bianco e nero, con un outfit superbamente androgino (opera di Robert Mapplethorpe, genio maledetto della fotografia americana); si innamora della musica e ancor più del suo stile, negli anni dell’accademia confeziona tre camicie bianche e riesce a spedirle all’indirizzo della cantante, a Detroit. La sacerdotessa del rock diventa la sua musa, tra le due nasce ben presto un rapporto di amicizia e stima reciproca, Smith firmerà persino l’introduzione della monografia pubblicata da Rizzoli Usa nel 2014, che ripercorre con parole e immagini oltre trent’anni di storia della label, soffermandosi sul valore sentimentale che hanno per lei i capi signé Demeulemeester («Traggo un gran potere dall’indossare gli abiti di Ann. Mi fanno sentire sicura […] Sono un talismano»).

Nelle collezioni del marchio tutto ciò si traduce in un romanticismo crepuscolare venato di malinconia e spirito bohémien, nell’assolutismo cromatico del bianco e nero (spezzato talvolta da lampi di colore brillante), nella tensione tra elementi opposti (rigore e delicatezza, corposità e leggerezza, forme fluide e altre accostate al corpo) che caratterizza ogni mise, vero e proprio filo conduttore del lavoro della designer.
È del 1991 la prima sfilata donna a Parigi, in una spoglia galleria d’arte dove irrompono look severi, smaccatamente dark, che la critica stronca bollandoli come “funerei”. Lei corregge il tiro, asciuga le silhouette e perfeziona ulteriormente una visione dalla precisione quasi scientifica, sfuggente però a definizioni univoche e facili schematismi, che inizia presto a solleticare l’interesse di stampa, buyer e semplici osservatori, colpiti dall’approccio cutting-edge, sovente decostruzionista, della stilista.



Ph. Marleen Daniëls, Jacques Habbah

Il menswear non tarda ad arrivare, nel 1996 compaiono outfit per lui mescolati senza soluzione di continuità alle uscite femminili, una scelta che verrà ripetuta nelle collezioni successive fino alla nascita di una linea dedicata nel 2005. Demeulemeester del resto non bada troppo alle distinzioni di genere, in netto anticipo rispetto al gender fluid odierno. Uomini e donne condividono pertanto molti dei capisaldi che, una stagione dopo l’altra, forgiano l’estetica della maison: l’insistenza su linee fluide e allungate; i tagli di sbieco; i tessuti di preferenza leggiadri, naturalmente morbidi (seta, rayon, jersey, lino), con le consistenze ridotte ai minimi termini anche nei materiali più densi quali pelle o panno; le superfici puntualmente increspate da giochi di layering o sapienti drappeggi; l’uso copioso di cinture, nastri e cordoncini, come a voler sorreggere capi da cui promana un senso di precarietà, di noncuranza solo apparente che è poi l’essenza della moda di Demeulemeester.
L’uomo del brand ha l’aria perennemente trasognata e un animo nobile ma tormentato; un po’ maudit dei giorni nostri, un po’ ribelle metropolitano acconciato di tutto punto, con pantaloni dal fit rilassato e blazer stropicciati; i polsini, troppo lunghi, scivolano sulle mani, preferisce combat boots e sneakers alte a mo’ di stivaletto, a cingere il polpaccio. Si concede una punta di vanità ricorrendo al plumage, decoro che esemplifica la dialettica tra naturale ricercatezza ed eccentricità cara alla stilista: le piume si posano così sui cappelli a tesa larga, vengono agganciate a collane, bracciali e altri monili o, addirittura, ricoprono i boa che avvolgono gli abiti dello show Fall/Winter 2010.

Il processo di consolidamento della griffe raggiunge l’acme con il défilé S/S 1997, una sinfonia in black & white scandita, per la parte maschile, da accenni di stratificazione, camicette ampiamente sbottonate e pants quasi liquidi nella loro scioltezza. I critici stavolta plaudono entusiasti alla prova da manuale, il Costume Institute del Met newyorchese provvede a comprare diversi pezzi chiave, lo status di marchio cult è ormai acclarato.
Il ritiro dalle scene giunge a sorpresa nel 2013, con una lettera vergata a mano. Le succede Sébastien Meunier, che si muove nel solco dell’illustre predecessora, introducendo di tanto in tanto minime variazioni, qua tocchi fluo (S/S 2016), là mollezze da esteta decadentista chiuso nella camera da letto (S/S 2018).
Nell’estate 2020, la nuova svolta: Meunier lascia l’incarico e a distanza di poche settimane Antonioli, uno dei primi, storici retailer del brand, lo rileva per una cifra che non viene comunicata. La fondatrice viene (ri)chiamata a svolgere il ruolo di consulente creativo, alcuni ipotizzano già un suo maggiore coinvolgimento, lei nicchia, il neoproprietario parla a MFF di un «new beginning», ancora tutto da scrivere. In fondo, è in atto un ripensamento del concetto di mascolinità, chiamata finalmente a riconoscere tutte le fragilità, dubbi e timori insiti nell’animo umano: l’ideale maschile di Demeulemeester è più che mai attuale.



Ph. Alexandre Sallé de Chou, Giovanni Giannoni

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