Invocare l’imprevisto e benedire l’incidente: intervista a Martino Cappai

Martino Cappai, maru_yakimono su Instagram, è un artista sardo che crea ceramiche uniche, ispirate alla tradizione giapponese. In occasione della sua mostra, on show dall11 al 13 maggio scorsi presso l’Atelier Natsuko Toyofuku a Milano, abbiamo deciso di intervistarlo.

Lettere a Cagliari, poi Storia dell’arte contemporanea a Siena; tesi in grafica occidentale e in seguito il trasferimento in Giappone. Vorrei sapere di più su questa fase universitaria della tua vita, dominata, almeno in apparenza, da cambiamenti di pista repentini, eppure, alla luce dei tuoi lavori più recenti, embrionale e fondamentale.

È stato un periodo della mia vita all’insegna dello stravolgimento. Durante la triennale in Lettere a Cagliari avevo maturato interessi che spaziavano dalle arti performative a quelle plastiche, dall’estetica alla storia della critica d’arte. Storia dell’arte fu un imperativo ipotetico che sentii categorico. Scelsi Siena per la sua ottima reputazione, e perché questa città, isolata e arroccata nei colli (come nella storia), mi parve da subito un ottimo eremo di ritiro.

Mi avvicinai allo studio della grafica analogica, in opposizione a quello che mi sembrava il vuoto delle tendenze contemporanee, dominate da una speculazione concettuale legata agli aspetti più contingenti della vita e della storia, sempre più “modaiola” e sempre meno “poetica”. Preso atto di alcune dinamiche dell’ambiente accademico, che collidevano con la mia volontà di un percorso libero, rifiutai la terra promessa del PhD, e un mese dopo la laurea ero in Giappone a studiare gli ukiyo-e, un genere di stampe artistiche su carta realizzate con matrici di legno. Ci rimasi quasi cinque anni.

Tokyo e Yakushima; la prima, una metropoli da 15 milioni di abitanti, la seconda un’isola di 15 mila abitanti. Eppure un apparente denominatore comune in queste due realtà c’è: la fusione dell’esperienza di insegnante e al contempo allievo. Potresti dirmi quali sono state similarità e differenze di questi soggiorni in Giappone e come, secondo te, hanno segnato, ognuno a suo modo, la tua produzione artistica attuale?

Tokyo è il regno dei contrasti, il caleidoscopio metropolitano che centrifuga modernità e tradizione, capitalismo sfrenato e templi buddisti. Lì ho visto e capito l’enorme ricchezza della storia e della cultura nipponica, la diversità di forme, materiali e utilizzi possibili. Nei suoi musei ho meditato sulle mie conoscenze e sulla mia formazione europea. Tokyo è stata la mia Accademia di belle arti.

Nella piccola isola di Yakushima mi sono ritrovato a gestire un laboratorio d’arte irregolare frequentato da persone con disabilità cognitive. Inizialmente mi occupavo della parte curatoriale, legata alla piccola galleria del laboratorio. Poi, in maniera alquanto casuale, mi è stato proposto di curare il settore ceramico del laboratorio, previo un periodo di apprendistato presso il maestro ceramista Yamashita Masayuki, nelle foreste sopra il paese di Ambo. Con lui ho iniziato per la prima volta a toccare l’argilla.
L’esperienza tradizionale giapponese, in termini di arte ceramica, ha rappresentato un punto di partenza a livello di studi e di primi lavori, dalla quale, però, mi sono allontanato immediatamente per intraprendere un percorso più intimo, che valorizzasse la mia persona e le mie prospettive. La carica dinamica del mio linguaggio è stata segnata in maniera determinante dalla prima citata esperienza laboratoriale di art brut, che mi ha fatto scoprire un ventaglio di grammatiche estetiche completamente aliene a qualsiasi tradizione, che procedono per automatismi, deformazioni e ripetizioni decorative.
Dopo questo incontro con la materia decisi di contattare una vecchia conoscenza di Tokyo, l’artista Sergio Maria Calatroni, che nel mentre si era trasferito un una casa nei boschi di Kamakura, antica capitale, che conserva ancora i lustri di un passato importante nei suoi templi e altari.

L’incontro con Sergio Maria Calatroni, appunto, dopo quello in cosa è cambiato il tuo paradigma di interpretazione dell’arte, del design e forse della vita? In quell’occasione è stato interrato il germe di un futuro ritorno in Italia o era un’idea che è sempre stata con te?

La frequentazione con Sergio a Kamakura è stata breve ma intensa, soprattutto cruciale per lo smantellamento di molte sovrastrutture culturali. Mi ha riportato ad uno stato di dialogo con l’elemento primitivo e archetipico della natura. Mi ha ridato gli occhi del bimbo che gioca nella pozzanghera, che guarda la magia del creato, che si acceca fissando il sole, che osserva felice le stelle, i fiori, i germogli, la coccinella. Ho riscoperto la potenza della semplicità.
Il vero maestro è un pescatore di perle, sa dove e come, ma soprattutto se vale la pena farle riemergere dagli abissi. E Sergio è un grandissimo artista e maestro, in cui convivono le avanguardie occidentali e la sapienza materico-formale dell’Occidente, in dialogo costante con la sensibilità e la frugalità dello Zen.
Per quanto riguarda il mio ritorno in Italia, l’occasione è nata dalla convocazione da parte dell’assessore alla cultura di Genova, che voleva aprissi un laboratorio di arte irregolare a Villa Croce. La pandemia ha, purtroppo, fatto naufragare il progetto, che fortunatamente però è stato riconvertito per prendere luogo a Milano, presso il laboratorio Brut Outsider Lab, di cui la settimana prossima ci sarà una grande retrospettiva; siete tutti invitati!

Nel 2020 il ritorno in Sardegna. T. S. Eliot diceva che parliamo con la stessa lingua di Omero, anche se i più non se ne rendono conto; che è la tradizione culturale da cui il poeta può attingere per creare forme, strutture e temi; che la sua mente è un catalizzatore, che innesca reazioni vecchie come l’uomo ma che danno prodotti sempre diversi. Ecco. mi pare che tutto questo possa applicarsi anche alla tue ceramiche. Vorrei ci portassi nella tua mente e ci raccontassi cosa è scaturito da un retroterra culturale occidentale che si è contaminato con l’esperienza nel paese del Sol Levante.

Ho cercato di svincolarmi dalla visione occidentale, ancor di più in Italia, della ceramica come territorio artistico marginale, storicamente concepita come ancella della scultura, relegata a rigide espressioni estetiche territoriali, tra limoni, pavoncelle, pigne e arabeschi a seconda della regione. Dai giapponesi ho imparato la nobiltà della disciplina ceramica, territorio espressivo paritario a tutti gli altri.
La filosofia zen mi ha fatto aprire ad un approccio sacrale e contemplativo nel plasmare la terra, un fare sempre orientato all’ascolto delle sensazioni, del dato naturale. Non mimesis, non imitando la natura, ma cercando di predisporre il mio operato alla spontaneità, assumendo un ruolo ricettivo, in cui anche l’imprevisto viene accolto come un evento gradito, quasi invocato, e l’incidente interpretato come una benedizione.

Tornando alla tua citazione, è esattamente come dice Eliot. Da qualche parte Giorgio Colli, nei suoi lucidissimi strali su Nietzsche, dice, in maniera molto concisa, che l’artista non imita nulla, non crea nulla, ma che ritrova qualcosa nel passato e lo riporta alle contingenze del presente.

Time present and time past
Are both perhaps present in time future,
And time future contained in time past.
If all time is eternally present
All time is unredeemable.
What might have been is an abstraction
Remaining a perpetual possibility
Only in a world of speculation.
What might have been and what has been
Point to one end, which is always present.

T. S. Eliot, Four Quartets

In noi abitano cose molto antiche, siamo biologicamente le stesse creature che abitavano e dipingevano le grotte con cavalli e costellazioni, gli stessi che nel quartiere Ceramico di Atene sedevano tra il fango e plasmavano la grande ceramica d’Occidente. Tutto è più vecchio di noi, tutto è in prestito, viene da chissà dove e da chissà quando. Nulla è nostro, dalla lingua che ora stiamo utilizzando, al gesto dell’aprire una matassa di ceramica al tornio… Sono gesti che hanno millenni di vita. Siamo abitati. La famosa “memoria universale”, il famoso je est un autre di Rimbaud. Vedi, sto perdendo la mia identità nello speculare…

Di recente sono stato all’open studio di un mio amico, Claudio Saviola, che fa ceramiche molto diverse dalle tue, orientate al decorativismo più che al funzionalismo. Puoi spiegare il perchè della tua scelta di creare oggetti che, se pur nella loro specificità, hanno ancora una funzione chiara e riconoscibile?
Non hai mai pensato di lasciar giocare ai fruitori un guessing game con quello che crei? Più in generale non ti senti attratto dall’astrattismo, che è una forza e una moda del momento?

Se devo darmi un appellativo, quello più conciso sarebbe “vasaio”. Creo contenitori. D’altronde ho imparato all’interno del contesto tradizionale giapponese, legato al mondo del tè, in cui l’utilizzo del pezzo è praticamente discriminante. La funzionalità è l’unico vincolo che mi impongo. Questo perché la mia gioia massima consiste nel sapere che il mio lavoro verrà utilizzato, che servirà come tramite di condivisione con altre persone, che verrà messo in tavola e utilizzato nell’ultimo baluardo di rito rimasto di questi tempi: il pasto.

Anche nelle forme più irregolari, tengo d’occhio l’ergonomia, e l’armonia delle proporzioni tra il kodai (piede d’appoggio) e la bocca del vaso è per me importantissima. La dicotomia astrattismo/realismo non ha molto senso ai miei occhi: il vello di un cerbiatto, i pigmenti di una foglia, le squame di un pesce, sono astratti o reali? Per quanto riguarda il decorativismo fine a se stesso, non so che farmene, Gropius (secondo cui «il termine di qualsiasi attività plastica è la costruzione. Architetti, pittori, scultori devono reimparare a conoscere e comprendere la molteplice arte della costruzione nel suo complesso. Architetti, scultori, pittori, tutti devono ritornare all’artigianato»), aveva ragione da vendere.

Non so che farmene nemmeno dei dettami di questa o quella moda che, tranne rarissimi casi, è al servizio del potere e inserita in dinamiche consumistiche. Il gesto artistico, poetico, è una dichiarazione di guerra a tutte le forme di giogo o tirannia; esso non si occupa di potere, ma di potenza. Le 51 scariche elettriche da 350 volt sul cranio mal rasato di Antonin Artaud siano da monito.

Ho visto, tra i tuoi lavori, una coppa per Derek Jarman. Sono anche io un ammiratore del regista e in particolare del suo Caravaggio. Come mai questo titolo? E ancora, Il rosa corallo di Paul Gauguin è sottovalutato. Mi sembra che, oltre che con l’argilla, ti piaccia divertirti anche con le parole. Sono gli studi di lettere che emergono prepotentemente dalla memoria? Raccontami di più…

Qui si entra in dettagli creativi abbastanza intimi. Partendo dal presupposto che non si può chiedere la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe, farò un’eccezione: posso dirti che sono stato stregato dal film/poesia Blue, testamento cinematografico lasciato da Jarman prima di morire di Aids. In seguito andai a vedermi tutta la sua filmografia e rimasi affascinato dai colori delle sue pellicole in 16mm: quei verdi cangianti verso il viola/blu! Volevo assolutamente riportarli su ceramica e ci riuscii combinando l’ossido di rame con l’ossido d’argento su cristallina gialla. È tutta una questione di ossessioni e di cedere controllo, lasciarsi ossessionare e possedere, invasare! Di qui l’ispirazione per alcuni pezzi.

Martino Cappai ceramiche
Coppa ispirata all’opera di Derek Jarman

Le serie di ceramiche invece nascono dal fatto che ogni tanto mi areno in qualcosa, una lettura, un film, la vita di un personaggio, e ho bisogno di un progetto che mi permetta un respiro più ampio rispetto al pezzo unico. Infatti le riprendo di continuo, e le affino. Le ultime sono dedicate a John Cage, musicista e micologo. Sto cercando di cristallizzare le mie impressioni sulla sua musica e sul suo lavoro, in tributo al silenzio e alle forme dei suoi amati funghi, quindi ceramiche bianche, assolute, zenitali.

Martino Cappai ceramiche
Ceramiche di Martino Cappai

Tornando ai pezzi unici, il mio ultimo su Gauguin nasce durante una colazione in hangover: sorseggiavo il caffè sfogliando un catalogo dei suoi dipinti polinesiani, tutti quei rosa, ovunque, nei cieli, nelle spiagge, nelle vesti, nei cavalli, avevano qualcosa di eterno, divino. Fu amore a prima vista! Mi piace focalizzarmi su opere uniche, chiuse e irripetibili, provare a dar vita ad un oggetto che sfugga alle codificazioni e sia in grado di aprirsi continuamente al nuovo.

Forse anche per questo leggo più poesia che cataloghi d’arte. La poesia ti aiuta a capire ciò che conta veramente, a discernere ciò che funziona, ti insegna a concentrarti sull’essenza. Se a questo aggiungi la mia formazione da storico dell’arte, che ha scandagliato migliaia e migliaia di immagini, abituando l’occhio al senso di composizione, di armonia, di equilibrio e ci sommi il Giappone, hai la chiave del mio lavoro.

Nell’immagine in apertura, un vaso di Martino Cappai ispirato al film Blue di Derek Jarman

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