L’oltre-ristoro di Motelombroso: affinità & contrasti in armonia tra spazio & materia

Contenuto o contenitore? Forma o sostanza? L’attenzione riposta dall’ospite sugli elementi che compongono un ristoro è estremamente individuale: le singole portate assaggiate, l’ambiente o gli arredi,  il servizio in sala, la scelta enologica, il rapporto tra spesa e appagamento, la posizione ove il tutto è locato. Questi sono solo alcuni degli aspetti tirati in ballo.
Non penso che un fattore primeggi sugli altri, piuttosto che a trionfare sia il dialogo coeso e fluente tra le varie parti. Sommando magari con garbo ulteriori discipline, per rendere il ristorante qualcosa di unico, che non si risolva nell’atto riduttivo di “uscire fuori a mangiare”.
Motelombroso, a Milano, incarna un puntuale paradigma di questa meccanica sinergica, scevra da ostentazioni o vincoli espressivi.

Motelombroso Milano
Motelombroso

Alessandra & Matteo

Siamo a un tiro di schioppo dai Navigli (sul versante Pavese – Na.Pa.), ma al tempo stesso sottratti all’immaginario idealizzato della Milano città. Un primo segnale, determinato da una scelta geografica, per introdurci in un luogo fatto principalmente di scelte, allineamenti esistenziali e incessanti moti passionali: qui non ci si casca per caso, bisogna venirci.

Quel che ora appare come un eclettico approdo ristorativo – contrassegnato da peculiari tinte rosa sui muri esterni e da una cura assennata per il design degli spazi – era in origine una casa cantoniera, rimessa a nuovo dai due artefici, nonché titolari del progetto: Alessandra Straccamore e Matteo Mazza. In coerenza con l’entità dell’edificio e con l’approccio trainante di questo duo (insieme come coppia nella vita e nel lavoro), il timbro del focolare domestico è rimasto inalterato nel tempo: al piano superiore della struttura sorge infatti la casa dove i due condividono la propria intimità. Da queste basi si sviluppa un dedalo di storie e intenti che rendono Motelombroso detentore dell’unicità citata all’inizio.

Motelombroso
Alessandra Straccamore e Matteo Mazza, titolari di Motelombroso (ph. Valentina Sommariva)

Il background sui generis dei titolari

Già il rispettivo background di chi l’ha creato è manifesto di un’identità non conforme a questo settore. Matteo, di radici sabaude, custodisce una formazione in filosofia e una carriera di spicco nel mondo della moda, avvalorata prima a Torino e poi a Milano, sino ad operare fianco a fianco con Antonio Marras. Alessandra, originaria di Frosinone e dall’acceso vissuto capitolino, alterna una laurea in giurisprudenza a digressioni nel campo artistico e musicale, per poi trasferirsi nella city meneghina alla ricerca di una svolta personale. Se lo chiederai a entrambi – intervistandoli separatamente – affermeranno senza esitare che il motivo che li ha traghettati verso la ristorazione è sempre stato un amore innato rivolto al bello in qualsiasi applicazione: intaccando inevitabilmente anche cibo, vino e convivio.
Lanciata nell’organizzazione di eventi a Milano, Alessandra si fa l’ossatura sul campo con un coraggioso salto nel vuoto, coniando un ritrovo di spicco nel panorama urbano quale ‘Al Cortile’ affiliato alla scuola Food Genius Academy. In parallelo al percorso nella moda, Matteo affina invece visione e palato nel comparto enologico con un corso AIS, lasciando eruttare una predisposizione verso la dialettica dell’elisir dionisiaco che gli scorreva nel sangue sin da giovanissimo.

L’inizio dell’avventura di Motelombroso

Il loro incontro, una decina d’anni fa, avviene in un contesto tanto atipico quanto fatale: ancora impegnati nelle rispettive occupazioni, si trovano per caso in un ristorante cinese scoprendo amici comuni in contesti diversi. Il post-serata, nelle aule a porte chiuse della Food Genius, stipula tra i due un’alchimia tanto forte da fargli decidere all’istante di andare a convivere e di lavorare insieme. Sperimentano un format di successo che li mette alla prova sempre negli spazi della scuola, ma quando i volumi sfuggono alla loro concezione di ‘ristorare’ si lanciano verso un’attività in proprio. Il lato che spicca nelle loro personalità sincronizzate – oltre al variopinto spessore culturale – è quello di perseguire un disegno rigido di ciò che vogliono, ma con lo spirito imperterrito dei sognatori. Incompatibili alla staticità o all’ipotesi di adagiarsi su modelli preconfezionati che non li rappresentino fino in fondo.

Un luogo plasmato dal design “DIY”

La loro ricerca iniziale verte su qualcosa di “semplice”, ma un intreccio di incontri predestinati li conduce alla scoperta di un’antica abitazione abbandonata, ove chi vi risiedeva monitorava le chiuse del canale nella navigazione da Milano a Pavia. Il sopralluogo funge da innamoramento a prima vista: “C’erano delle energie così vivide che non potevamo ignorarle e alle quali volevamo aggiungere le nostre in un periodo di forte cambiamento”, racconta Alessandra.

“Abbiamo cercato di mantenere il più possibile intatte le caratteristiche della struttura, così nei primi lavori di restauro sono emersi affreschi dell’800 e tracce di un bunker risalente alla guerra mondiale. Ammetto che la percezione di cosa sarebbe diventato non era affatto chiara, partendo dalla proposta culinaria, ma ci siamo focalizzati nel far defluire qui tutto ciò che ci piace e che ci appartiene. Elementi derivati da altre passioni, da ricordi, da amicizie avvalorate in altri ambiti e dal comune intento di accogliere nel bello chi sarebbe venuto a trovarci”.

Un ambiente ricco di storia, arte e design

Partendo da zero, Matteo recluta suo padre (restauratore) per una manodopera titanica che non lascia nulla al caso e che ricama un ambiente da “sfilata”, soprattutto per il tenore umano che lo ha reso tale: “Insieme al mio amico Stefano Bongiorno abbiamo progettato la sessione di interior, disegnando tutto ex-novo con l’ausilio di artigiani piemontesi per la parte pratica”, ricorda Mazza. “Non volevamo occultare la storia che questa casa già traspirava e ci siamo concentrati sul recupero, anche risalendo ai colori originali seguendo le scale dei vecchi Pantoni. Sempre Stefano ci ha poi seguiti nella selezione di opere e di artisti esposti nelle diverse sale con la visione condivisa di far contemplare e cooperare cibo, arte e design”.

Nell’intero perimetro del ristorante si alternano in continuità, come in un’istallazione permanente, pezzi d’arte di Jonathan Monk, Giulio La Ferrara, Fischli and Weiss, Koikoi, Alessio Gianardi, Raw Vision, Studio Job. “Qui è tutta una condivisione, dall’artista all’ospite, senza distinzione”, argomenta Matteo. “C’è un rapporto molto stretto con le realtà artistiche presenti qui, dunque ci è sembrato naturale renderle parte integrante del luogo. Non doveva esserci divario tra come viviamo la tavola e come interpretiamo la nostra vita oltre queste mura”.

Lo spazio all’aperto del locale, curato nei minimi dettagli

Matteo la tocca piano – è fin troppo modesto svestito dal ruolo di narratore enologico – ma è stato lui in prima linea a concepire anche i tavoli in marmo sorretti da ottone brasato e acciaio o le sedie: pensate di 5 cm più basse delle sedute canoniche per garantire un comfort da poltroncina senza l’imbarazzo di sprofondare sotto la mise en place. Calici per il vino, piatti da portata, ceramiche e caraffe per l’acqua seguono la medesima premura artigiana. Il riguardo per il design da Motelombroso si respira in ogni centimetro, ma è talmente funzionale e aderente all’entità complessiva da non esigere spiegazioni in esubero.

Appena superata la discesa che distanzia il locale dalla strada, si è strattonati dolcemente in un riquadro arboreo voluto come area verde da fruire in massima libertà: un giardino costellato d’alberi da frutto e un boschetto di bambù dall’accento giapponese, ove gli ospiti possono perdersi per poi ritrovarsi nell’arco del pasto o durante gli eventi trasversali (d’arte, musica, letteratura) che la coppia non manca di organizzare. Con la bella stagione, il dehor scandisce i battiti dei servizi, tra pietre massicce a mo’ di sedie (importate da cave del Piemonte) e i cromatismi purpurei (rosso, giallo, arancio) del “sole” modellato appositamente da Mandalaki Design Studio.

Ristorante Milano Navigli
Il giardino di Motelombroso

La sala bar

La sala bar a ridosso dell’ingresso invece – che emula la hall di un motel – funge da camaleontica anticamera per immergersi nell’indole dei titolari. In questa stanza domina un bancone in marmo dall’assetto fluttuante, che si trasforma in passerella per cocktail o in console musicale a fine serata (la soundtrack per i due è una questione serissima). Sempre con Stefano Bongiorno è stato progettato un divano angolare e sospeso di 8 metri, rivolto a una scultura in pietra del Subasio e Carrara, modulabile sia come seduta che come piano d’appoggio. Lampade-scultura di foggia organica circoscrivono la geometria della sala sfruttando materiali grezzi e impattanti, mentre alle spalle del banco bar una vetrata strategica riflette quel che prende corpo in quest’area confidenziale.

spazio e materia
la sala bar di Motelombroso

Segue la “GreenHouse” (serra in vetro e acciaio che consente di ammirare il giardino esterno): ovvero il nucleo pulsante ove si concretizza l’offerta eno-gastronomica. I quindici tavoli in marmo, volutamente asimmetrici e lasciati nudi da apparecchiature ingombranti, fungono da palcoscenico per il pranzo o la cena, in combo ad elementi in ferro e ottone o al diagramma di neon sartoriali che producono un’illuminazione tenue, calibrata per le ore serali.
Al piano superiore c’è invece una stanza privé puntellata di bottiglie scelte dalla cantina di Matteo. Un antro riservato, fuori da spazio e tempo che, su prenotazione, consente di cenare lungo un tavolo ovale in pietra e marmo, composto da tre lastre di fior di pesco, breccia e ardesia.

L’idea dietro la scelta del “format” motel

Sorvegliati da una sfera in vetro appesa sul soffitto, ci si inoltra maggiormente nell’idea di motel: a ribadirlo troviamo la scritta “amore” in neon affissa sulle pareti (curata dall’artista Miriam Gili) con la M lampeggiante che rivela a intermittenza il provocante claim “amore a ore”. Se infatti vi state chiedendo il perché del nome posto sull’insegna, la risposta alberga nell’identità stessa del luogo: “Volevamo davvero tramutare questi spazi in un motel”, ricorda Alessandra.

“Ci piaceva il concetto di ospitalità in un determinato lasso temporale, che si legava a fughe veicolate da piaceri intensi e carnali. La parola ‘ombroso’ si è accostata in chiave elettiva perché amiamo il suono neutro che produce. Lettere in fila di un nome composto che usiamo come un sostantivo. Un modo per ribadire a noi stessi e a chi ci fa visita, che abbiamo tutti il diritto di riservarci un rifugio olistico, anche per poche ore, ove abbandonarci al piacere in ogni sua manifestazione”.

I punti fermi del progetto Motelombroso

Necessario, a questo punto, fare un balzo indietro al quesito iniziale: quale è il contenuto edibile in questo caleidoscopico contenitore? Tema sensibile per la coppia che fin dall’apertura ha collaudato vari esempi gastronomici, tutelando solo tre inviolabili punti fermi: materia prima impeccabile (procacciata da piccole realtà di stampo artigiano e realmente sostenibili), vini vivi, quali frutto di stoici vignerons (buoni alla beva prima di essere contrassegnati dal bollino generalista di ‘naturale’), celebrazione dell’otium (di stampo primigenio, ovvero un tempo di svago ricreativo dedito al rifocillare intelletto e corpo fuori dagli obblighi lavorativi).

Motelombroso è una sfida continua, in primis con noi stessi, per garantire il meglio con i nostri mezzi

“Agli esordi potevi pizzicarci a cuocere carne su fuoco vivo, perché eravamo privi di cucina e in cerca di una figura che colmasse questo gap”, rimembra Alessandra. “L’offerta che volevamo non è mai stata vincolata dall’estetica di questo spazio, piuttosto il cibo si è adattato al ristoro come una conseguenza di ciò che siamo noi, di quel che ci piace mangiare e, al tempo stesso, condividere anche con gli ospiti. Avevamo dei binari da seguire quali la valenza dei prodotti da trattare e la volontà di non scadere nell’ovvio con una proposta che ci annoiasse.“

“Scegliere di venire a trovarci doveva giustificare un’esperienza sensoriale a tutto tondo, per forza connessa all’essenza del ristorante, ma libera da condizioni di forma. Potrei servire anche un grande hamburger su questi tavoli se avesse una logica che sentiamo nostra, non per questo stonerebbe con l’ambiente che abbiamo creato. È una sfida continua, in primis con noi stessi, per garantire il meglio con i nostri mezzi. Io stessa mi sono catapultata in sala quasi priva di esperienza, indaffarata a gestire un servizio di un certo livello che mi procurava ansia all’inizio. Forse non so ancora se ne sono in grado, ma dedico ogni mia abilità per far in modo che funzioni”.

Nuovamente un caso unico che sfida le regole dell’assonanza e rintraccia affinità anche nei possibili contrasti, tra quel che si mangia e la dimensione che accudisce il tutto. Un avanzamento da eroici funamboli lungo il filo retto dell’autenticità identitaria.

Diventiamo custodi dei momenti che la clientela trascorre da noi

“Motelombroso è prima di tutto un luogo”, interviene Matteo. “Luogo destinato ad accogliere le persone che arrivano con varie sfumature di sentimenti. Quello primario è legato naturalmente al cibo, perché quando sorridiamo e accogliamo le persone lo facciamo con il fine di farle mangiare. In questo scambio però c’è un sottofondo potente legato all’otium nel significato più nobile. Chi transita qui è perché ci sceglie, non ci casca per caso. Diventiamo quindi custodi dei momenti che la clientela trascorre da noi. Una permanenza che cambia e si dilata in base ai desideri di ciascun individuo.“

“Chiunque cucini qui deve essere aderente a questa filosofia sopra qualsiasi velleità stilistica. Non significa castrare la propria personalità, bensì fonderla con la nostra per un fine comune. Ci vuole molta più testa che tecnica per lavorare in questo luogo e la fortuna ha voluto farci rintracciare in Nicola quel che cercavamo. Con lui ci siamo trovati prima sul lato umano che su quello culinario, perché è una persona che ascolta, assorbe e apporta senza andare mai fuori passo. Ci confrontiamo sulla genesi di ogni piatto partendo dalle basi, dall’ingrediente e dal risultato che vogliamo ottenere. Evolviamo insieme senza dimenticare chi siamo”.

Otium, vino e cucina by Nicola Bonora

Entra in gioco il terzo elemento in questo affiatato duo, ovvero Nicola Bonora: cuoco classe ’90 di origini sarde (Torre Grande, in provincia di Oristano), temprato dai gesti rurali della sua terra e da esperienze pregne di contaminazioni (Gordon Ramsay al Fort-Village; Enrico Bartolini e il ristorante cinese-fusion Serica, sempre a Milano). Nicola è un giovanotto che fa cantare i fatti prima di dar fiato alla voce, mettendo in rima i sapori con un lessico degno di un rapper veterano. Nella sua cucina convivono i flussi impetuosi del suo amato mare, il tepore contundente dell’entroterra e le note agrodolci di un’influenza orientale che ha sposato per elezione e che livella quasi magicamente ogni sua preparazione.

Nicola Bonora chef
Nicola Bonora, chef di Motelombroso

“Quel che si sta generando con Ale e Matteo è quasi un ritorno alle origini, ma muovendomi in avanti”, afferma Bonora. “Non ho mai rinnegato il retaggio gastronomico della Sardegna, ma il mio attaccamento per la cucina etnica tendeva a farmelo mettere in secondo piano. Qui lo sto riportando a galla in una nuova veste, soprattutto grazie all’attenzione maniacale che viene riposta sulle materie prime. Un processo creativo costante, concettuale e materico, che ci porta a restituire dignità a ricette o usanze dismesse. Colloco il gusto e la massima espressione degli alimenti, sfruttati sino al midollo, sopra qualsiasi componente visiva o schiava di tecnicismi. C’è ancora tanto da imparare, ma è davvero stimolante costruirlo con persone così”.

Quel che dice fa, riversandolo fulgidamente nel piatto. Basta affidarsi al menu degustazione più ampio, battezzato non a caso dai tre “Teorema”. Se vogliamo un parallelismo, calza lecito tra la progettazione di interior e lo sviluppo del menu adottati da Motelombroso, perché correda un climax di suggestioni polarizzanti stratificate su più livelli: estetico, tattile, emozionale, artistico e schiettamente godereccio.

Le proposte del menù

Dallo start del Ciclo del Freddo in tre passaggi – che resettano il palato dribblando pleonastici amuse bouche – ove il Broccolo a 360 (in crema con pistacchi, gambi croccanti in conservazione acetica, cous cous delle cimette più alte e granita con quelle laterali) fornisce all’istante una saetta di texture vegetali architettate con perizia balistica.

La tartare di pecora gigante bergamasca, anemoni di mare, sesamo nero e foglia d’ostrica è un fraseggio esemplare di salinità selvagge e brezze pastorali. L’ovino si tramuta al morso in un manzo e viene scortato a pascolare beato lungo il bagnasciuga.

Le memorie del cuoco della sua Cabras, del pescato arrostito alla griglia, si traducono in una terrina di muggine dry-aged con alghe, daikon fermentato, fagiolini e brodo di salamoia dai sussulti ancestrali: masticazione e profondità del Sol Levante avvinghiate ai rituali dei pescatori del Golfo isolano.
Lo stracotto di lumache e seppia (col suo nero), indivia amara e olio alle erbe evoca sontuose salivazioni carnivore, travolti in un ipnotico sottobosco salmastro che spiana la pista all’assaggio seguente.

Memorie del cuoco e contrappunti esotici

Il pescespada alla brace (varietà ittica bistratta ovunque) conquista un assetto iodato regale in salsa di pomodoro secco, capperi, bergamotto. “C’è anche del prezzemolo messo all’ultimo, tagliato male come farebbe mia mamma”, aggiunge Nicola mentre noi cediamo alla scarpetta dell’assuefacente intingolo. Il suo istinto ragionato è un tassello cruciale nell’incisività di quel che cucina, estraendo il bello anche dall’imperfezione.

Vedi il tripudio di callosità e contrappunti esotici delle Orecchie di maiale piastrate con rossetti e curry giallo. Improvvisate nel guizzo di brevettare nuovi prodotti appena riposti in dispensa. O ancora i Filindeu con anguilla alla brace, finocchietto e brodo di pecora: intensità detonanti nel consommé, dal nitido acuto nipponico, elevano un arcaico formato di pasta su traiettorie papillari inafferrabili (il match con il Sauvignon macerato della Côtes Catalanes inanellato da Matteo cristallizza un momento estatico).

Tra pesce, carne e dolci, i piatti a tutto estro dello chef Bonora

Si vola nel finale con due passaggi struggenti: il “bollito alla brace” di diaframma con senape selvatica coniuga in chiave a dir poco geniale due cotture agli antipodi, preservandone con classe i timbri rispettivi; lo “spaghettone al pecorino e limone” fornisce una fiammata così poderosa in soli tre ingredienti (complice lo straordinario Fiore Sardo di 36 mesi di un leggendario casaro settantenne) da non richiedere delucidazioni tecniche. Bisogna correr qui a provarlo. Un esercizio talmente maturo, dinamico e complesso nel suo apparente minimalismo visivo, che sigilla la caratura raggiunta dal terzetto d’animi di Motelombroso: tra l’altro è proprio il signature-dish che li ha uniti in questa avventura gastronomica.

La “torta al cioccolato ai fiori d’arancio”, macchiata dalla salsedine di caramello alla bottarga e dal garum di sgombro, chiude la strofa del cibo con estro e provocazione, spalancando all’unisono la cantina di Matteo, per un approfondimento sul suo pensiero enologico (che tratteggia anche in un esaltante wine-pairing).

Nicola Bonora piatti
Torta al cioccolato ai fiori d’arancio

La scelta dei vini

Faticherete a convincerlo sulle sue doti, ma il modo che ha di leggere, raccontare e orchestrare il vino in un pasto è da puro fuoriclasse del genere.“Ho cominciato dai grandi classici, argomento per me imprescindibile”, spiega Mazza.

“Dall’amore mai cessato per il terroir francese e per le bottiglie principi del mio Piemonte. Avvicinarmi al cosiddetto naturale, al nuovo che ormai dilaga, è stata una necessità culturale, nonché un trampolino per ampliare il mio palato e codificare meglio quel che voglio servire ai tavoli del nostro ristorante. La mia conclusione, oggigiorno, è che un vino si rivela eccezionale quando è fatto da persone eccezionali.

“Quando è buono per definizione, il vino vive e rimane impresso nel ricordo a prescindere dall’uso di appellativi categorizzanti. Seleziono le mie bottiglie con questo registro, cercando vini che posseggano un’anima come quella che può avere un piatto in grado di smuovere le corde emotive dell’assaggiatore. Penso sempre più che vadano cercate anche realtà enologiche fuori dalle zone blasonate, non come accanimento forzato, ma per il bisogno di un mio costante allenamento sensoriale. Prendendomi anche dei rischi quando strutturo il pairing con l’attuale menu, oscillando magari tra un Moscatel andaluso, un Vermentino della Côtes-du-Rhône e un atipico orange delle Azzorre dopo il dessert. Piazzandoci in mezzo anche una Barbera d’Alba di Roddolo o un Sass Russ del Podere di Valloni per il legame che ho con questi produttori.

Milano Motel
Stanza Motel

“Scegliere il vino equivale a lavorare sulla psicologia delle persone per farle star bene, raggiungendo nuovi livelli di percezione”

”Sono un bevitore prima di essere sommelier e ritengo che il vino debba rendere speciale la cena del cliente, per questo non seguo schemi se non quello di versare ciò che a me davvero piace bere. Mi distanzio dai vini troppo cari o dagli abbinamenti ingessati, perché prediligo l’imperfezione di una bottiglia aperta sul momento con il cliente, seguendo le vibrazioni che lui stesso mi rimanda in sponda col piatto appena servito.

”Interpretare le voglie di un tavolo al ritmo della cucina e filtrarle attraverso il mio gusto è fondamentale. Possa risolversi in una sequenza accademica di solo tre calici, o nel poter osare uno straordinario rosso dello Jura accostato a una portata di pesce. Solletico il livello di conoscenza di chi mangia, gioco e provo a far divertire divertendomi. Un pretesto che origina anche scoperte inaspettate. Per me scegliere il vino equivale ormai a lavorare sulla psicologia delle persone per farle star bene, raggiungendo nuovi livelli di percezione. D’altronde è quello che cerchiamo di fare nel nostro luogo sin dall’inizio e che non smetteremo mai di fare”.

Naviglio Pavese ristorante
Dettaglio della sala

Mandalaki Studio
Installazione luminosa creata da Mandalaki Studio per Motelombroso

Nell’immagine in apertura, la sala bar di Motelombroso, a Milano

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