Paolo Roversi, il fotografo che non voleva fare il fotografo

La seconda edizione del Festival des Cabanes a Villa Medici, la splendida sede rinascimentale dell’Accademia di Francia, ha ospitato un incontro con il famoso fotografo di moda, Paolo Roversi.

Roversi, il fotografo che non voleva fare il fotografo. Il fotografo che considera la sua vita come un sentiero senza fine, le cui pietre miliari sono i suoi incontri con Peter Knapp, direttore creativo di Elle, Laurence Sackman, Franca Sozzani.

Punti di svolta: la campagna pubblicitaria del 1980 per Dior, l’incontro con Rei Kawakubo fondatrice di Comme des Garçons  (“sono stato stimolato dalla sua capacità di mescolare la cultura orientale e occidentale e dal rapporto corpo – vestito”), il calendario Pirelli 2020, per la prima volta scattato da un italiano. Ha firmato le tre immagini ufficiali di Kate Middleton, vestita in Alexander McQueen, in occasione dei 40 anni della futura regina inglese.

Ha legato il suo nome a riviste come Elle, Marie Claire, Harper’s Bazaar e Vogue e a grandi stilisti tra i quali Giorgio Armani, Valentino, Krizia, Cerruti, Romeo Gigli, Dior, Yves Saint Laurent, Alberta Ferretti, Hermès, Pomellato, Givenchy, Guerlain, Comme des Garçons e Yohji Yamamoto.

Paolo Roversi vive a Parigi dal 1973, ma non ha mai dimenticato Ravenna, la sua città natale.

“Le mie radici ravennati sono profonde. Anche se vivo da cinquant’anni a Parigi, sono per metà francese, ho una moglie francese, ogni volta che torno a Ravenna io torno a casa. Sono cresciuto davanti alla bellezza dei mosaici bizantini e, quando li rivedo, è come se ritrovassi figure familiari: sento che ci apparteniamo. Ho viaggiato tanto, ma quando torno sento l’amore di cui parla Ungaretti nella poesia “Casa mia”, quando conclude dicendo “credevo di averlo sparpagliato per il mondo”. In quel momento mi rendo conto che il mio amore per la mia città è ancora tutto là”.

Quello con la fotografia è un rapporto che nasce da bambino…

La fotografia per me è sempre più una domanda che una risposta. Ho un approccio mistico e spirituale a quest’arte.

Il mio rapporto con la luce è nato dalla paura del buio che avevo da bambino. Quella luce che filtrava da sotto la porta e che proiettava sui muri figure spettrali. Mi facevano paura, non capivo se fossero realtà o sogni. Quelle immagini sono state le mie prime foto e si ritrovano nei mie scatti, nella sovrapposizione di sogni, ombre, realtà, fantasmi.

La sua prima forma di espressione è la poesia, la fotografia arriva in un secondo momento…

Da ragazzo andai in Spagna. Ero uno studente appassionato di poesia. Scattavo foto come un turista, ma percepii che forse la fotografia poteva essere un modo poetico per esprimermi. Fu allora che avvenne il mio passaggio dalla poesia scritta alla poesia fotografica.

Il suo studio è il suo palcoscenico…

Il mio studio è un piccolo palcoscenico dove tutto può accadere. Non è semplicemente una stanza dove lavoro, ma un modo di fotografare: è uno stato d’animo, un modo di porsi davanti a un soggetto. Il mio studio è ovunque io vada e uso la mia macchina: lo studio sono io, non è semplicemente la mia stanza di Parigi. È un luogo dove non c’è niente di logico. Quando chiudo quella porta, quella stanza si trasforma nel mondo del sogno, delle sensazioni, dei sentimenti, delle memorie, dei ricordi, delle ossessioni, ma di razionale non c’è niente. Il mio studio è parte della mia mente.

Una foto nasce dalla luce. Il suo rapporto con la luce?

Anche il mio rapporto con la luce non si può razionalizzare. Non si può ragionare con la luce: la luce è un sentimento. Quello che è difficile, è imparare il sentiment de la lumière.

Ogni persona ha una luce interiore che porta dentro, una luce che illumina l’invisibile: quella che spesso definisco “anima” ed è quella che cerco di fotografare.

Quando mi chiedono “come fai a fare queste foto?”, rispondo “non lo so”. Non c’è una ricetta. Si lavora, si prova, si vede: è il frutto di tanto lavoro e tanta passione. Per me fotografare non è inquadrare qualcosa del mondo esteriore e portarlo dentro la foto: è risvegliare qualcosa del proprio inconscio e portarlo alla luce. Non si prende una fotografia, si dà una fotografia.

La mia fotografia si basa sulla sottrazione. Ho sempre cercato di rimuovere le maschere che le persone indossano per rivelare la loro bellezza interiore.

La messa a fuoco è un momento importante dello scatto, ma la  messa a fuoco sfocata è una sua cifra stilistica…

La mia infanzia è avvolta dalla nebbia di novembre di Ravenna. Forse da lì nasce il mio amore per le lunghe esposizioni, che danno all’anima il tempo di rivelarsi. Per me la fotografia è una pagina nera sulla quale disegniamo senza matite e sena pennelli: solo con qualche raggio di luce.

Julia Margaret Cameron, che usava una camera come la mia, un giorno fece un ritratto di John Herschel e le dissero: “si bello, però è sfocato”. E lei rispose: “chi ha il diritto di dire qual è il legittimo punto di fuoco?”.

Quando metto a fuoco, non cerco di scattare quando è a fuoco ma quando è bello”.

Come si definirebbe come fotografo?

Più che un fotografo mi sento un artigiano fedele ai suoi strumenti. Per trent’anni ho lavorato con una Deardoff 20×25. È stata la mia compagna di viaggio dal 1930. La Polaroid era diventata la mia materia prima, la mia seconda pelle. Ricordo la trepidazione nell’attesa di quei sessanta secondi prima di aprire il Polaroid, sperando di vedere un miracolo, una magia.

Quando scatto cerco di allontanarmi dalla realtà più che posso: mi piace avere un approccio alla fotografia dove non so cosa viene fuori. Mi piace essere sorpreso, non controllare completamente il processo. Per me la fotografia non è una semplice riproduzione della realtà, ma una rivelazione di quello che è e di quello che non è, quello che mostra e quello che nasconde.

Spesso le foto sono cose che succedono per caso e vanno prese come un regalo della luce, un regalo del destino. Il mio lavoro è cosparso di dubbi. Vanno prese decisioni sulla scelta del soggetto, della luce, dello sfondo, della macchina. Tantissime decisioni e tantissimi dubbi. Credo che il dubbio sia uno stimolo per l’immaginazione e le certezze delle porte chiuse, degli ostacoli alla creatività. Il mio cuore e la mia mente hanno sempre vagato nel dubbio.

Antoine de Saint-Exupery scrisse che l’essenziale è invisibile all’occhio. Io credo che le fotografie siano una porta su un’altra dimensione.  La fotografia, per me, è un processo sentimentale.

Ai miei studenti dico sempre che più si pensa meno si vede. E dico anche: se arrivate a un bivio non andate per la strada conosciuta, non esitate ad andare dove non siete mai stati, verso l’ignoto verso la sorpresa, dove nasce il dubbio. Andare dove si è già stati è più facile, ma meno interessante.

Come interagisce con le modelle e i modelli?

È un rapporto che si basa su una fiducia reciproca: uno scambio di emozioni, di sensazioni. Lancio delle vibrazioni che spesso mi ritornano, forti, sotto forma di emozioni. Questa emozione è il momento della fotografia.  Se non c’è questa emozione, non c’è la fotografia: la guardi e non c’è niente. Se ti annoi guardando una foto, quella scintilla non è scoccata. Uno scatto riuscito è un momento di grande energia e di gioia. La fotografia è una festa, non deve essere un obbligo.

Sapere che una foto potrà essere lavorata in post-produzione, priva i nuovi fotografi delle emozioni di cui ha parlato, della ricerca dell’attimo, della scintilla?

Penso che la post produzione non deve servire a creare la foto o a riempirla di quel sentimento che può esserci solo al momento dello scatto. Può essere utile per ritoccare, togliere una ruga, ma non per eliminare il processo creativo. Non sono un fanatico della post produzione. Vengo da trent’anni di Polaroid, quando le foto così uscivano e così rimanevano: nessuno le metteva in post produzione. Le emozioni del momento dello scatto, l’energia del fotografo, il suo spirito, la sua personalità, la sua poesia: è tutto questo che fa la foto. Spesso mi dispiace che non si facciano più pellicole e io non le possa più usare.

Ha una musica preferita quando scatta?

Mi piace ascoltare la musica lirica, le opere. In studio la musica è importante perché dà uno spirito, un’atmosfera, crea un’energia che dà ritmo a tutta l’equipe. Nel mio  studio si ascolta Johnny Cash, Dalla, Battisti. Non ci sono regole. Cambiare musica può cambiare l’atmosfera. Quando metto su Mozart e dico ai miei studenti “fotografate con questa musica”, ho certe foto. Se metto su del rock, ne ho altre completamente diverse.

La musica influenza lo stato d’animo e una foto è uno stato d’animo.

Come sono le foto di famiglia di Paolo Roversi?

Le fa mia moglie. Io sono come il calzolaio con le scarpe rotte. Ma adoro gli album di famiglia: è un presente continuo, una piccola eternità. Adoro vedere mia madre vestita da sposa e quella luce fermata per sempre in un tempo che diventa eterno.

Nell’immagine in apertura Paolo Roversi (ph. Alex de Brabant)

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