Perché Virgil Abloh è stato una figura fondamentale della moda

Con la scomparsa, a soli 41 anni, di Virgil Abloh, fondatore di Off-White nonché direttore artistico del menswear di Louis Vuitton, il fashion system perde una figura assolutamente centrale, di cui è impossibile sopravvalutare l’operato.
In nemmeno un decennio di carriera, infatti, questo creativo di origini ghanesi nato a Rockford, nel Midwest americano, ha innescato – quando non plasmato – dinamiche diventate una consuetudine per la moda tutta, dall’attesa smodata dell’ennesima capsule collection in edizione – ovviamente – limitatissima al culto per prodotti (sneakers in primis, ma anche felpe, t-shirt, cappelli e altri capi/accessori mutuati dallo sportswear) un tempo marginali e innalzati, ora, allo status di sacro graal dei fashionisti 2.0, dal fenomeno del resell (per cui gli oggetti del desiderio di cui sopra vengono rivenduti sulle piattaforme dedicate) alla contaminazione tra forme di creatività e input provenienti da ambiti quali musica, entertainment, arredamento, showbiz… Soprattutto, è stato il demiurgo dell’ibridazione, ormai pienamente compiuta, dell’abbigliamento urban con la moda racé, spinta ad un livello tale per cui è spesso difficile capire dove cominci l’uno e finisca l’altra; se, insomma, l’espressione luxury streetwear oggi risulta persino banale, e certo non suona più come un ossimoro spericolato, il merito va attribuito in gran parte proprio ad Abloh.



Architetto di formazione, con tanto di master conseguito all’Illinois Institute of Technology, e outsider per vocazione, come ribadirà lui stesso più volte, per la sua carriera è determinante l’incontro con Kanye West nel 2003: per il rapper (e produttore, imprenditore, ex marito di Kim Kardashian e, come dimostra il caso in questione, formidabile talent scout) sarà una sorta di factotum, occupandosi di art direction degli album (cura ad esempio la cover di Graduation, insieme alla superstar dell’arte pop Takashi Murakami, mentre Watch the Throne gli vale una nomination ai Grammy del 2011, nella categoria “Best Recording Package”) come pure del merchandising e dell’immagine dei tour di Ye, fino ad essere nominato alla guida di Donda, l’agenzia creativa di West.
Dopo la parentesi di Pyrex Vision, nel 2012, il salto di qualità avviene l’anno successivo con Off-White, label che lo proietterà nell’olimpo dell’industria fashion, dove si premura di abbattere steccati e distinzioni effettivamente fruste a colpi di pezzi easy e appariscenti, marchiati con segni grafici trasformatisi, in men che non si dica, in sinonimi della visione esuberante, costantemente mutevole di Abloh: virgolette tautologiche, che esplicitano natura o funzione d’uso del capo, frecce divergenti, strisce diagonali (attinte dalla segnaletica stradale), tag dai colori sparati a mo’ di cartellino antitaccheggio.


Backstage at Off-White Men’s Fall 2019

Ridurre a pochi, precisi tratti l’estetica di Abloh è però alquanto complicato, considerato che, da buon dj (altra attività cui presta occasionalmente il suo talento multitasking), campiona di continuo spunti disparati, passando dal rileggere da par suo dieci scarpe paradigmatiche di Nike (nella limited edition The Ten, nel 2017) ai capolavori di Leonardo o Caravaggio replicati sulle magliette, dai cut-out di fontaniana memoria alle linee sempre un po’ sbilenche degli abiti. Per descrivere il suo modus operandi, un iperattivismo che va ben oltre la moda in senso stretto, si potrebbe forse scomodare la Gesamtkunstwerk, il concetto di opera d’arte totale teorizzato da Richard Wagner, sostituendolo con quello di un design totale e totalizzante, da mettere al servizio del ready-to-wear come dei complementi d’arredo in tandem con Ikea, al solito in bilico tra boutade e pura funzionalità, delle automobili (ossia la versione “scarnificata”, di un bianco abbacinante, della Mercedes-Benz classe G, la «scultura di una macchina da corsa» nelle parole dell’autore), delle sveglie Braun ideate dal guru della progettazione industriale Dieter Rams (tinte di arancione o in una pallida tonalità di azzurro), del packaging delle bottigliette d’acqua Evian, e via così.
Il numero di collaborazioni accumulatesi negli anni è sterminato: nell’elenco, per forza di cose parziale, figurano marchi quali Moncler, Rimowa, Jimmy Choo, Chrome Hearts, Timberland, Vitra, Gore-Tex, Moët & Chandon, McDonald’s, e si potrebbe andare avanti.



I riscontri fenomenali delle collezioni di Off-White, idolatrate specialmente da Millennials e giovanissimi della Gen Z, preludono alla definitiva consacrazione di Abloh tra i big del fashion, che arriva nel 2018, annus mirabilis in cui finisce nella classifica delle 100 persone più influenti al mondo del Time e approda alla direzione della divisione maschile di Vuitton, primo afroamericano a capo dell’ufficio stile di una storica maison di lusso. Per l’uomo della griffe sforna a raffica tormentoni dal côté immaginifico, spargendo a piene mani, su pelletteria e abbigliamento, il celebre monogramma, piegato ai suoi capricci e umori del momento, reso ora olografico ora fluo, smaterializzato in nuvolette à la Magritte oppure inserito in “colature” di canvas nelle borse Louis Vuitton X NIGO
Piaccia o meno, la frammentarietà della moda odierna, un magma dai mille rivoli che si riversano anche (e soprattutto) nella dimensione digitale prediletta dalle nuove generazioni, negli ultimi anni ha trovato il suo massimo interprete in uno stilista “per caso”, la cui storia è destinata – a ragione – ad essere raccontata nei libri del settore.



Per l’immagine in apertura, credits: ph. by Peter White/Getty Images

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