Piazzolla, la rivoluzione del Tango di Daniel Rosenfeld

Astor Piazzola è stato un visionario, l’uomo che ha rivoluzionato il tango, come ci racconta Daniel Rosenfeld nel suo documentario in uscita l’8 ottobre in tutte le sale cinematografiche.

Italiano di origine, cresciuto in Argentina per migrare negli Stati Uniti a New York, dove ha continuato a sviluppare la sua passione per la musica che contraddistingue la sua terra: il tango.



Chi era Piazzolla?

Un appassionato, un avanguardista, uno dei più importanti compositori del XX secolo.  In generale, le persone che dicono di essere all’avanguardia non sono all’avanguardia. Piazzolla fu l’eccezione: sapeva che il suo fuoco era unico. Pochi artisti sono capaci di creare un alfabeto proprio. Basta ascoltare sei note per capire che questo suono è Piazzolla.

Era decisamente un personaggio eclettico, ha sperimentato e non solo nella musica, ha persino fatto la caccia agli squali, non è da tutti.

Piazzolla è stato testimone di un cambiamento d’epoca, immaginalo negli anni ’30 a New York, quel mix eclettico credo provenga dalla sua infanzia, deve aver lasciato un segno. Un Piazzolla bambino che ascolta il jazz di New Orleans, un concerto di Al Johnson, che si sveglia con le melodie di quartiere delle comunità italiane e dell’Europa dell’Est, che prende lezioni di Bach con il suo vicino di casa, quando aveva meno di 11 anni si era già esibito in un film di Carlos Gardel girato a New York… Senza dubbio, è stata un’infanzia eclettica, che ha riguardato anche altri aspetti come le lezioni di boxe con Jack Lamotta, o l’essere ritratto in carboncino da Diego Rivera mentre preparava il suo famoso murale.



In che cosa consiste la sua rivoluzione?

La sua rivoluzione è musicale, ha fatto cambiamenti armonici e ritmici, ha creato una sonorità che non era una ripetizione. Ha cambiato la tradizione del tango, ma mantenendo sempre un mormorio di musica tango. Faceva musica che non era per ballare, perché ai vecchi tempi, negli anni ’40 e ’50, le band suonavano per far ballare il pubblico.

È molto singolare che un argentino di origine italiana trasferito a NYC abbia potuto fare questo.

Sì, suppongo che il padre di Astor cercasse una vita migliore. Ha lasciato l’Argentina, “alla ricerca del sogno americano”. Suo padre lavorava da un parrucchiere, nel retro si raccoglievano scommesse, Nonino – come Astor chiamava suo padre – gli comprò il suo primo bandoneón proprio in quel negozio. Credo sia lì che Astor abbia formato il suo carattere, finché non tornarono in Argentina, e Astor non aveva nemmeno 12 anni.

È interessante pensare che all’età di 40 anni, Astor cercò di ripetere la storia di suo padre, portò tutta la sua famiglia a New York, per tentare la fortuna.

Penso che a segnare quel suono malinconico del bandoneón sia stata, più che Buenos Aires, proprio New York.



Libertango ha segnato la svolta per farlo conoscere in tutto il mondo, cosa mi vuoi dire a riguardo?

È un’opera composta in Italia. In Italia ha avuto uno dei suoi periodi creativi più forti, era inarrestabile, un vero e proprio turbine.

Suo figlio Daniel Piazzolla ricevette il demo di Libertango per posta e disse: “questo è Quincy Jones ma con la musica di mio padre”.

Forse ha avuto l’intuizione che la gente non avrebbe più ballato il Tango in quanto nuovi balli come il rock & roll stavano arrivando e lo ha modernizzato?

Sì, forse… All’epoca c’erano nuovi ritmi come il Boggie, che i giovani di allora preferivano al tango tradizionale. Ma Piazzolla era interessato alla musica classica, a Bartok, a Stravinsly, per questo incontrò Arthur Rubinstein per chiedergli un consiglio. C’è da ricordare, poi, che Astor si formò con Ginastera, con la grande maestra di compositori Nadia Bulanger. Ma bisogna dire la verità: l’essenza di Piazzolla c’era già prima di tutti i suoi maestri. Non voleva copiare, voleva innovare, e aveva gli strumenti per farlo.

Perché è stato attaccato così tanto quando ha apportato delle novità al Tango?

Semplicemente perché ha rotto con la tradizione, il che non è poco. L’hanno chiamato “assassino del tango”.

Come ti è venuta l’idea di fare un documentario su Piazzolla?

La vita di Astor sembra dispiegarsi all’infinito da tutte le parti, senza limiti. Per questo ho voluto fare un film che fosse Piazzolla per Piazzolla, senza interviste e con archivi familiari inediti. Questo film, oltre a ritrarre un genio musicale, racconta anche la profondità del legame ancentrale tra genitori e figli. Non solo Nonino e Astor, anche Diana che cerca suo padre e, naturalmente, Daniel Piazzolla e suo padre. E l’amore tra tutti loro; quella parola che a volte suona così banale.

E il centenario è un buon momento per osare la riscoperta di Piazzolla, un’occasione per disarmare il cliché che tutti abbiamo su di lui e le sue composizioni. Ricordo che in una delle proiezioni a Buenos Aires c’era tutta una fila di amici cinquantenni che avevano portato i loro nipoti, perché potessero incontrare Piazzolla. Alla fine ho sentito un adolescente abbagliato dall’ottetto che ha esordito con un: “Zio, questo non è tango!”.