Radiografia di un cult: la polo di Ralph Lauren

Polo e Ralph Lauren, due termini che si richiamano vicendevolmente in modo pressoché automatico e, unendosi, formano il nome della linea di prêt-à-porter più conosciuta del designer statunitense. A suggellare un legame inestricabile, appena giunto al venerando traguardo dei cinquant’anni tondi, arriva adesso il libro Ralph Lauren’s Polo Shirt (Rizzoli International), consacrato proprio al capo d’abbigliamento che, in quanto sintesi tra la formalità della camicia e la basilarità della maglietta, incarna l’essenza stessa del brand, l’ubi consistam dell’american style codificato da un signore che, a 82 anni, dirige con mano sicura una multinazionale da 4,4 miliardi di ricavi. Un impero il cui asse portante sta proprio nella maglia in oggetto, se è vero, come si legge nel primo capitolo del volume (un’antologia della stessa, celebrata attraverso fotografie, aneddoti, ricordi personali e altri contenuti esclusivi) che «rappresenta ciò che Mickey Mouse è per la Disney o l’Empire State Building per New York».

Polo Ralph Lauren advertising
La polo Ralph Lauren (foto dal sito ralphlauren.it)
Ralph Lauren polo book
La copertina di Ralph Lauren’s Polo Shirt

Le origini del capo, tra polo e tennis

Un’icona, per dirla in breve, che ha contribuito a scrivere pagine memorabili della storia della griffe, sebbene non sia una novità ascrivibile a Mr. Lauren. L’origine data effettivamente al XIX secolo, quando fu introdotta in Occidente dai soldati britannici di stanza in India, che l’avevano vista addosso ai giocatori locali di polo, e importarono nel Vecchio Continente sia l’indumento che lo sport omonimo. Il presidente della Brooks Brothers John E. Brooks, a sua volta, dopo averla notata in Inghilterra, la commercializzò oltreoceano, replicandone il colletto abbottonato anche sulle camicie button-down, appunto. Sulla sponda opposta dell’Atlantico, negli anni Venti, Jean René Lacoste ne faceva la divisa d’elezione dei tennisti, non prima di averne accorciato le maniche, cucendola inoltre con un cotone fresco e leggero, il piqué.
Pur non avendola inventata, lo stilista newyorchese intuisce che la maglia è la base perfetta per edificare quella sorta di via americana al ben vestire che ha in mente da quando, nel 1968, esordisce con una collezione maschile completa. Il suo è infatti un casualwear ammantato di sofisticatezza, nel quale usi e costumi dei wasp (white anglo-saxon protestant, sostanzialmente la buona borghesia, che studia negli atenei della Ivy League, pratica sport elitari, trascorre le vacanze nelle cittadine à la page sulle coste del New England) si saldano alla fascinazione del nostro per la classe inscalfibile dei divi della vecchia Hollywood (dal venerato Cary Grant, di cui impara a memoria ogni outfit, a Gary Cooper), per il mito della frontiera (idealizza, su tutti, i topoi estetici del cowboy), per gli oggetti dalla patina vissuta, che abbiano una storia da scoprire.

Ralph Lauren Bruce Weber
Uno shooting realizzato da Bruce Weber per GQ, negli anni ’80

La nascita della Polo Shirt di Ralph Lauren

La polo del 1972, insomma, è la logica conseguenza di un racconto stilistico preciso e dettagliato: sportiva ma con juicio, strutturata pur senza ingessature, adatta alle aule dei college come ai weekend fuori città, priva di orpelli ad eccezione del provvidenziale logo col giocatore a cavallo, piazzato sul lato sinistro del petto (introdotto giusto l’anno prima sui polsini della camiceria femminile, riscuoterà un successo straordinario, finendo con l’identificare il marchio tout court). Altre caratteristiche sono il tessuto, puro cotone interlock, la vestibilità regolare, sagomata quanto basta, le spalle leggermente scese, l’orlo posteriore allungato, il collo a costine, chiuso da due bottoni. Nelle parole di Lauren, «un indumento magnifico e ricco di colori» perché, oltre agli imprescindibili bianco, blu e azzurro, è declinata in giallo e rosa. Nel giro di qualche anno, poi, si passa alla modalità “tuttifrutti”: aumenta il numero di nuance disponibili, 17 e perlopiù pastellate; lo slogan che accompagna il lancio promette inoltre che il modello «migliora con l’età», connotandolo perciò subito come un capo timeless, avulso dal ciclo continuo delle mode.

polo Ralph Lauren logo
Polo Ralph Lauren modelli
Modelli con polo pastello di Ralph Lauren

L’impasto di semplicità e sprezzatura funziona eccome, se già negli anni Ottanta la Ralph Lauren Corporation dichiara di vendere circa 4 milioni l’anno di Polo Shirt.
Nello stesso periodo, a mitigare l’esclusività di cui era stata rivestita dalla clientela di riferimento (la suddetta upper class degli Stati Uniti), intervengono subculture urban come quella dei Lo-Life, ragazzi di Brooklyn ossessionati dalle magliette col pony (e da cappelli, pullover, giubbotti, calze, tutto ciò che è marchiato RL insomma); ne accumulano quantità industriali grazie a mezzi più o meno leciti, eleggendo il cavallino a effige da sfoggiare a piè sospinto, per rivendicare la dignità della propria cultura, la voglia di ribellarsi a uno status quo che riconosceva solo a determinati gruppi sociali un ruolo “aspirazionale”.

Il successo della maglia col cavallino, tra indossatori celebri e progetti ad hoc

In tutto ciò, la fortuna dell’articolo non fa che aumentare, trainando fatturati e prestigio dell’azienda che lo firma. La hall of fame dei suoi indossatori famosi, d’altronde, è oltremodo varia, annoverando lo yuppissimo finanziere Jordan Belfort (alias Leonardo DiCaprio) di The Wolf of Wall Street, ex ed attuali presidenti (Ronald Reagan, Bill ClintonJoe Biden), popstar (leggasi Pharrell Williams, Harry Styles, Justin Timberlake), attori (Hugh Grant, Russell Crowe, Kit Harington, Patrick Dempsey), un monumento vivente del calcio come Pelé, stelle passate e presenti, da Frank Sinatra a Kanye West.
Nel 2017, a coronamento dello status ormai acquisito nell’immaginario comune, l’inclusione della polo nella rosa di memorabilia esposti alla mostra Items: Is Fashion Modern? al MoMa, preludio all’ingresso nella collezione permanente del museo.

Trattandosi di una pietra miliare del lifestyle by Ralph Lauren, la maison dosa attentamente le modifiche. Se la varietà delle sfumature aumenta (oggi si rischia di perdere il conto di fronte alle decine di tonalità a disposizione, ripartite all’occasione in trame rigate, bande diagonali, blocchi di colore sgargianti), resta contenuto il numero di restyling apportati al logo, passato dall’altezza originaria, di poco oltre il centimetro, ad “estremi” superiori ai cinque. Sicuramente ci si adegua all’air du temps, abbracciando le parole d’ordine della sostenibilità con il modello Earth, in poliestere riciclato; vanno in questa direzione anche i progetti collaterali all’uscita del coffe table book di cui sopra, cioè Polo Upcycled, edizione limitata di pezzi lavorati manualmente dagli artigiani di Atelier & Repairs, e l’estensione del programma Create Your Own, per customizzarla attraverso iniziali, lettere ricamate o combinazioni cromatiche inedite.
Interventi mirati, come si conviene a una maglia che si dimostra indifferente allo scorrere del tempo, forte di una dualità, di un (dis)equilibrio «tra unicità e – poiché molti altri nel mondo la indossano – il sentirsi parte di una comunità» (così scrive Ken Burns nella prefazione del libro); Una contraddizione – felicemente – irrisolta da cinque decenni.

polo Ralph Lauren personalizzate
Esempi del servizio Create Your Own

Nell’immagine in apertura, Jordan Belfort/Leonardo DiCaprio in una scena di The Wolf of Wall Street

5 storici brand di maglieria da (ri)scoprire

Si scrive autunno, si legge maglieria: con le temperature che si abbassano sempre di più, bisogna attrezzarsi con i pullover, da preferire in filati caldi e cozy, lana über alles. Le opzioni sono praticamente infinite, tra nuance evergreen quali blu navy, nero e grigio oppure eye-catching, texture a prova di gelo o finissime, quasi impalpabili. È bene ad ogni modo andare sul sicuro, rivolgendosi a quei marchi dall’heritage pluridecennale che è garanzia di qualità e un certo blasone, come i cinque a seguire.

Missoni

Dici knitwear e subito il pensiero corre a una delle dinastie più rappresentative della moda italica, i Missoni: per la maison fondata quasi settant’anni or sono da Ottavio e Rosita, partner sul lavoro e nella vita, è sempre stata il cuore di un’impresa dalla forte connotazione familiare, il viatico per un successo capace di attraversare i decenni e relativi cambiamenti di usi e consuetudini vestimentarie. Grazie ai maglioni straripanti di cromatismo ed estrosità, infatti, negli anni ‘70 esplode la Missoni-mania, al di qua e al di là dell’oceano: impossibile ignorare i pattern fiammati, variopinti, ipnotici che zigzagano sui capi usciti dal laboratorio di Sumirago della coppia di stilisti-imprenditori, un sincretismo gioioso di sfumature, punti e motivi battezzato dagli americani “put-together”.
Incoronata nel 1971 «migliore al mondo» nientemeno che dal New York Times, la maglieria vale al brand il Neiman Marcus Award del ‘73, per avere «osato nuove dimensioni e rapporti di colore». Peculiarità che contraddistinguono tutt’oggi le collezioni della griffe; non fa eccezione quella per l’Autunno/Inverno 2021, in cui il fervore espressivo missoniano irrompe su golf, pull a collo alto e cardigan dai revers sciallati attraverso la consueta ridda di linee, arzigogoli e trame grafiche, tra screziature, chevron ingigantiti, righe dall’effetto optical e cromie digradanti dallo scuro al chiaro, o viceversa.


Credits foto 1: ph. by Oliviero Toscani


Ballantyne

Assurto a grande notorietà negli anni ‘50 grazie al “Diamond Intarsia”, tecnica che permetteva di tracciare sulle maglie i tipici rombi allungati che hanno fatto la fortuna del marchio scozzese, Ballantyne celebra quest’anno il traguardo dei cento anni.
Tra gli ammiratori della trama a diamante dei suoi pullover si contano teste coronate, star di Hollywood e jet-setter di fama mondiale (da Alain Delon a Jacqueline Kennedy, passando per James Dean e Steve McQueen), perfino Hermès e Chanel, colpite dalla capacità della label di trattare a regola d’arte le fibre più nobili, le affidano la propria maglieria; nel 1967 è invece Her Majesty ad onorare il knitwear d’autore di Ballantyne col Queen Award.
Al timone dell’azienda vi è ora l’ex direttore artistico Fabio Gatto, che per riportarla agli antichi splendori affianca ai maglioni intarsiati con l’inconfondibile argyle proposte in pesi e finezze assortite, in grado di accontentare gli amanti dei sottogiacca dalle consistenze ultralight come i patiti dei pullover avvolgenti, oltre alle capsule collection della linea Lab, nelle quali il virtuosismo produttivo della casa incontra la visione fresca dei giovani designer selezionati volta per volta.



Drumohr

Con le radici ben salde in Scozia, terra d’origine di questa griffe centenaria (in attività dal 1770), Drumohr parla italiano dal 2006, da quando cioè è stata acquisita dal gruppo Ciocca.
L’azienda del Bresciano ha trasferito la produzione dal Regno Unito all’Italia, prestando però la massima attenzione a mantenere intattto quel saper fare artigiano che, per tutto il Novecento, aveva conquistato attori, aristocratici e modelli assoluti di chicness, dal Re di Norvegia al principe Carlo, da James Stewart a Gianni Agnelli; è quest’ultimo, nume tutelare dell’eleganza maschile eternamente imitato (con scarsi risultati, va da sé), a rendere un must il “razor blade” Drumohr rinominato “biscottino”, motivo che consiste di piccoli rettangoli profusi ritmicamente su lana o cashmere.
Conciliando know-how artigianale e ricerca continua, le collezioni includono oggi giochi di color block, intarsi micro o macro, lavorazioni in rilievo e puntuali rielaborazioni del pattern caro all’Avvocato, che non disdegnano scelte cromatiche piuttosto audaci, accostando per esempio il blu al pistacchio, l’arancione al bordeaux, il turchese al vinaccia.



Malo

Una storia prossima al traguardo del mezzo secolo; una manifattura interamente italiana, concentrata negli stabilimenti di Campi Bisenzio e Borgonovo Val Tidone; un’idea di lusso understated, che lasci parlare la qualità di capi dai filati pregevoli, di squisita fattura. Sono questi gli assi portanti di Malo, brand nato come produttore di maglieria in cashmere nel 1972, quando il dominio scozzese sul settore sembrava inscalfibile, eppure riuscito ad affermarsi grazie alla ricca, vibrante palette dei pull, costruiti alla perfezione, bien sûr.
La parabola dell’azienda raggiunge l’acme a cavallo degli anni ‘90 e 2000, poi il declino interrotto, nel 2018, dal terzetto di imprenditori (Walter Maiocchi, Luigino Belloni, Bastian Mario Stangoni) che ne rileva la proprietà, restituendo una centralità assoluta all’artigianalità dell’offerta, imperniata sul cashmere proveniente dalla Mongolia, mescolato alle volte con materiali altrettanto preziosi, dall’alpaca alla seta, alla vicuña, soprannominata “vello degli dei”.
Le fibre deluxe sono, ovviamente, il fulcro della collezione A/I 2021 Boulevard, in cui nuance, architetture e suggestioni dei grandi boulevard metropolitani – appunto – vengono traslate su lane dalla morbidezza extra, in colori freddi (su tutti i diversi punti di grigio, vero passe-partout della proposta) oppure vivaci, intarsiate di minuti rilievi geometrici o a trecce leggermente distorte, a coste o compatte, per capi dai volumi misurati e clean, che la griffe definisce «timeless e urban-chic».



Pringle of Scotland

In tema di maglieria di alto profilo, grazie a tradizioni secolari ed eccelse varietà di lana, la Scozia non teme confronti, e questo vale a maggior ragione per un marchio che fa riferimento al genius loci del Paese fin dal nome, Pringle of Scotland.
Fondato nel 1815 da Robert Pringle negli Scottish Borders, gli vanno riconosciuti almeno due “brevetti” destinati a incidere in profondità sulle sorti dell’industria laniera: negli anni ‘20 del secolo scorso, idea infatti il pattern argyle, l’iconica – possiamo dirlo – fantasia a losanghe prontamente adottata da Edoardo VIII, il duca di Windsor, elegantone impenitente e sommo arbitro del buon gusto maschile del tempo, subito imitato dagli aspiranti epigoni dell’high society internazionale. Altro fiore all’occhiello dell’etichetta è il twin-set, la combo di maglioncino girocollo e cardigan ton sur ton divenuta un cardine dello stile bon chic bon genre. Un autentico orgoglio nazionale insomma, e non stupisce che la regina Elisabetta, insigne cliente del maglificio, lo abbia premiato nel 1956 col Royal Warrant, onorificenza che certifica lo status di fornitore ufficiale di casa Windsor.
Realizzati tuttora nella fabbrica di Hawick, i capi Pringle of Scotland si possono acquistare comodamente da casa sull’e-shop ufficiale, scegliendo tra una discreta gamma di modelli dal fit rilassato, dai sempiterni maglioni a rombi ai golf dall’appeal vintage, con il leone (simbolo ripescato dagli archivi) intessuto sul petto.



Per l’immagine in apertura, credits: Tassili Calatroni for Crash