Lucrezia Guidone: teatro, cinema d’autore e serie cult

Abruzzese, 36 anni, Lucrezia Guidone vanta una formazione di prim’ordine, costellata di premi e collaborazioni con nomi di rilievo del panorama artistico italiano.
Diplomata all’Accademia Silvio d’Amico, ha proseguito gli studi al Centro teatrale Santacristina, diretto da Roberta Carlotta e da un mostro sacro del settore, Luca Ronconi (che l’ha voluta in tre opere, In cerca d’autore. Studio sui Sei personaggi, Panico, Celestina laggiù vicino alle concerie in riva al fiume) e al Lee Strasberg Institute di New York.

Lucrezia Guidone
Total look Giorgio Armani, earrings vintage

Vincitrice del Premio Ubu nel 2012, due anni dopo il ruolo in Noi 4 le vale un secondo, importante riconoscimento, il Premio Flaiano. Seguiranno numerose altri parti, per le quali si divide tra palco («una vera casa», il suo ultimo spettacolo, in scena fino al 6 aprile al Piccolo Teatro, è Romeo e Giulietta, regia di Mario Martone), cinema e tv.
Recita in Dove cadono le ombre, Senza distanza, La ragazza nella nebbia, Qui rido io, è però un terzetto di titoli su Netflix a garantirle notorietà e plauso unanime di spettatori e critica: Luna Nera, Summertime e Fedeltà, in cui brilla nei panni di Margherita, moglie – tradita e a sua volta traditrice – di Carlo/Michele Riondino; parlandone oggi, traccia un bilancio «molto positivo» di quest’ultima serie, «non solo per la meravigliosa risposta di pubblico, ma anche e soprattutto perché ho avuto la possibilità di lavorare con un cast di attori e attrici che amo. Tante donne si sono riviste in Margherita, se mi incontrano mi salutano un po’ come un’amica… Quando succede significa che ti sei avvicinata, hai fatto risuonare qualcosa».

Lucrezia Guidone serie
Trench Ermanno Scervino, earrings vintage, tights Calzedonia

“In futuro, oltre a Mare fuori 4, mi vedrete in un film e in una nuova serie Rai, poi ancora un giro a teatro”

Da quest’anno, è nel cast di un altro serial cult, Mare fuori 3: la sua Sofia dirige l’istituto penale minorile di Napoli, che fa da sfondo alle vicende di Filippo, Carmine, Rosa & Co.
Ne parla come di «un’esplosione, un’ondata di calore che ti avvolge, anche in modo inaspettato. La sceneggiatrice, Cristiana Farina, ha definito il mio personaggio “un cuore d’inverno”, un’immagine che mi piace molto». Per il futuro, invece, «oltre a Mare fuori 4, mi vedrete in un film e in una nuova serie Rai, poi ancora un giro a teatro».

Lucrezia Guidone 2023
Total look Giorgio Armani, earrings vintage

Lucrezia Guidone attrice
Total look Federica Tosi

Lucrezia Guidone Instagram
Total look Valentino vintage

Credits

Talent Lucrezia Guidone

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Davide Musto

Stylist Valeria Marchetti

Ph. assistant Valentina Ciampaglia, Giacomo Gianfelici

Make-up  Fulvia Tellone @Simone belli agency

Nell’immagine in apertura, Lucrezia Guidone indossa total look Valentino vintage

Versailles, cantante dirompente in continua mutazione

Potentino, 27 anni, chioma color platino (che ha da poco sostituito quella blu elettrico cui aveva abituato gli spettatori di X Factor 2021, la sua prima ribalta), una vena punk che declina tanto nei brani che nei look sfoggiati sul palco, Luca Briscese – aka Versailles – non ha mai nascosto le proprie ambizioni.

Total look Louis Vuitton

A cominciare dal nome d’arte, scelto, aveva spiegato, per evidenziare la portata innovatrice, dirompente di un progetto musicale inedito, un blend di metal, hard rock, electro e hip hop apparentemente assurdo (l’ispirazione, per usare le sue parole, viene dalle «sonorità del passato, rock e post rock, ma anche più moderne a livello di ritmica, su tutte hip hop e trap»), come del resto apparve all’epoca la scelta del re di Francia Luigi XIV, che costruì una magniloquente reggia appena fuori Parigi. Dovendo descrivere la sua musica, lui la definirebbe «in continua mutazione, si adatta molto a ciò che sto vivendo in quel momento, che provo a tradurre in suoni e immagini».
Il suo ultimo lavoro, uscito a febbraio, è il repack dell’EP -Patico, con cui aveva esordito nel 2022, preceduto – nell’ordine – dal singolo di debutto Truman Show (presentato alle audizioni del talent musicale targato Sky) e da Lisa dagli occhi blu ray e Assolo; le canzoni più recenti, Comfort Fit (feat. Missey) e Salute e Malattia, come pure Giustissimo, sono incluse nella suddetta versione arricchita del disco, ribattezzata A-Patico.

“L’ispirazione viene dalle sonorità del passato, rock e post rock, ma anche più moderne a livello di ritmica, su tutte hip hop e trap”

Total look Celine Homme

Fautore di uno stile venato di suggestioni rockettare e street, tra choker, t-shirt stampate, chiodi in pelle, anfibi e denim customizzato, si presta volentieri anche all’attività di modello: ha calcato la passerelle delle ultime due sfilate (primavera/estate 2023, autunno/inverno 2023-24) di Simon Cracker, marchio con cui condivide l’approccio radicalmente disruptive, iconoclasta al vestire (con la moda, puntualizza, «ci stiamo ancora conoscendo e corteggiando, al momento però mi piace»). Al momento, spiega, sta lavorando «a molti nuovi brani, però sono ancora alla ricerca del fil rouge che, nella mia testa, li leghi, dandogli un senso, work in progress insomma».

Credits

Photograper Alberto Alicata

Creative Direction Fabrizio Bezzi

Stylist Giorgia Melis

Hair Manuel Ian Farro

Grooming Giuseppe Paladino

Executive Producer Lucilla Spagnuolo

Production Iku Agency

Location and cars Brixia Motor Classic

Nell’immagine in apertura, Versailles indossa total look Louis Vuitton

Pitti Immagine Uomo, il meglio dell’edizione numero 104

Aggirandosi tra gli stand di Pitti Uomo, giunto quest’anno alla 104esima edizione, riservata alle collezioni primavera/estate 2024, si ha la conferma del fatto che il punto di forza della fiera, oggi come non mai, sia rappresentato dal mix ottimamente calibrato delle proposte, che coprono l’intera gamma del menswear, tanto nelle sue declinazioni più formali, afferibili alla categoria del classico, che in quelle più casual e sperimentali, così da intercettare ogni variazione – grande o piccola che sia – di un settore, quello dell’abbigliamento maschile, ben più dinamico di quanto non appaia.

Da Herno a KNT, le novità dei brand simbolo del made in Italy

La conferma arriva innanzitutto dai big del made in Italy che, lungi dal dormire sugli allori, riproponendo con minime variazioni i best-seller che gli hanno consentito di farsi conoscere – e apprezzare – in tutto il mondo, continuano a battere sul tasto dell’innovazione, ampliando ulteriormente guardaroba già ricchi e strutturati.
Herno, ad esempio, porta al Teatrino Lorenese, in Fortezza da Basso, la summa dei valori che persegue da sempre, ossia qualità ineccepibile, eleganza effortless, materiali pregevoli, trasversalità e un quid tecnologico necessario affinché gli abiti siano performanti e sostenibili; sugli scudi il capospalla, pilastro dell’offerta del brand sin dalle origini, accompagnato da maglieria, polo, t-shirt, camicie, pants e bermuda in diversi tagli e filati, dal cotone in differenti grammature al nylon tecnico, oltre che da un’ampia varietà di accessori coordinati.

Guarda (come anticipato a MANINTOWN da Walter De Matteis, founder e direttore creativo dell’etichetta insieme al fratello Mariano) a Procida, ai colori e al lifestyle rilassato di un’isola che è un concentrato di mediterraneità, la proposta per la prossima stagione calda di KNT, marchio che combina l’impareggiabile know-how artigianale di Kiton con la visione contemporanea dei gemelli De Matteis, terza generazione di una famiglia divenuta sinonimo di tailoring italiano. Il viaggio della label, stavolta, parte dal golfo di Napoli e arriva oltreoceano, precisamente a Los Angeles, simbolo della coolness californiana, mantenendosi in equilibrio fra tradizione e contemporaneità, formale e informale, materiali tecnici (ma lavorati a regola d’arte) e tessuti naturali, dalla seta al fresco di lana leggerissimo, al cotone (crispy, garzato, lavato e dalla mano vellutata…).

“Un abbigliamento che non rinuncia allo stile streetwear ma riscopre la bellezza dell’abito, il piacere di indossarlo”

Cromie sature quali turchese, rosa e giallo sono affiancate da tonalità must (nero, bianco, grigio, blu navy); tingono abiti dall’aria nonchalant, che pure rispettano tutti i crismi della sartorialità cara all’azienda: le vestibilità risultano ammorbidite, relaxed, come nei completi destrutturati e fluidi, negli smoking ultralight percorsi da minute fantasie ton sur ton, nei blazer mono e doppiopetto in seta canneté, con bottoni ricoperti.
Per quanto riguarda i pantaloni, atout del brand, i pantalaccio con coulisse in vita vengono affiancati dal nuovo modello “WD”, classico sul davanti, con gamba ampia e soffice sul retro, mentre il denim integra tre new entry dai volumi affusolati, carrot, multitasche e skinny fit. Non mancano accenti sportivi e urban (felpe e bomber oversize, trench, shirt con coulisse applicata e gilet, indumento trasversale par excellence), per un ready-to-wear che – chiosa Walter De Matteis – «non rinuncia allo stile streetwear ma riscopre la bellezza dell’abito, il piacere di indossarlo».

La maglieria deluxe di Piacenza 1733

Piacenza 1733, eccellenza italiana del knitwear, per la prossima primavera/estate rilegge l’heritage che solo un’azienda ultracentenaria qual è il lanificio biellese può vantare, conciliando un’allure giocosamente nostalgica, rètro e una ricerca stilistica proiettata al futuro. Si alternano così pezzi che simboleggiano al meglio la nozione di classico senza tempo, in lana merinos dalla finezza extra o mischie impalpabili di seta e cashmere, essentials che non possono mancare nel guardaroba dei globetrotter più esigenti.

E ancora, maglie ultra-contemporanee dalle vivaci lavorazioni tridimensionali, evergreen dell’armadio maschile (polo, camicie e pullover in svariate versioni, in maglia rasata, con microstrutture bicolori e finiture rigate, ornati da fantasie di marca vintage o effetti geometrici a rilievo, in mouliné a coste zig-zag, a costa inglese traforata, a punto losanga…) e capi versatili come la overshirt patchwork o il cardigan in spugna, il tutto in una palette sensoriale, legata ai colori naturali della terra, in contrasto con tinte che appaiono sbiadite dal sole e luminosi pastello.

Pitti Uomo 104 Piacenza 1733
Piacenza 1733 p/e 2024

Fiorio Milano, savoir-faire e artigianalità declinate (anche) nel beachwear

Altre storiche realtà tricolori, pur mantenendo salde le proprie radici, trasferiscono il proprio saper fare artigiano (anche) nella categoria estiva per definizione, il beachwear. È il caso di Fiorio Milano, celebre per le cravatte, disponibili in un’infinità di misure e motivi, dai regimental ai paisley.
I costumi del brand si distinguono per le stesse qualità che contraddistinguono la cravatteria, vale a dire raffinatezza, artigianalità, attenzione meticolosa ai dettagli; sono espressione di una qualità superiore, tailor made, riscontrabile in ogni particolare, interno o esterno, dalle asole alle cuciture di assoluta precisione, dalle comode coulisse in vita al taschino posteriore, per non parlare dei materiali, che spaziano tra filati manopesca, assai gradevoli al tatto, ai nylon e poliesteri ad asciugatura rapida, rifiniti con cura e resistenti, sostenibili in quanto, ad eccezione delle parti in metallo, sono biodegradabili.

I boxer da mare stagione p/e 2024 si accendono in un tripudio di cromatismi energici, bold, movimentati da allegri pattern floreali o folk: si va dalle stampe di ibiscus, su fondi che ricordano i muri scrostati delle case della Costa Azzurra, a quelli marmorizzati in grigio dégradé nei toni del verde, azzurro, giallo, rosé, con disegni che tracciano piume d’uccello d’ispirazione gypsy, passando per quadretti vichy e righe (che evocano lo stile da spiaggia della Saint Tropez anni ‘60), fantasie otpical, pois irregolari, riproduzioni di conchiglie, coralli o stelle marine, grandi fiori stilizzati.

Un estro decorativo allargato al fiore all’occhiello di Fiorio Milano, le succitate cravatte, confezionate in garza e mogador come pure in tricot, seta stampata, jacquard, cotone egiziano, lino mélange. Un’offerta in linea con l’obiettivo prefissosi dalla griffe, cioè parlare alle nuove generazioni che hanno (ri)scoperto il formale ma in modo inaspettato, rivisitato attraverso codici e contaminazioni che lo rendono accattivante e moderno.

La filosofia “Saving the Ocean” di Keeling, il debutto dello shoemaker Dario Zanco Milano

Sempre in tema sostenibilità, va menzionato il debutto di un’impresa che si propone di salvaguardare l’ambiente, quello marittimo in particolare, ergendosi idealmente a portavoce ed espressione vestimentaria delle meraviglie degli oceani, popolati da un’incredibile varietà di fauna e flora. Keeling, questo il nome dell’etichetta (dal nome delle isole Cocos o – appunto – Keeling, atolli situati a circa 1300 km a sud-ovest di Giava), esordisce sul mercato italiano con la collezione p/e 2024, un total look dal design distintivo pensato espressamente per gli amanti del mare, realizzato con materiali green e ricorrendo a tecniche come la rivoluzionaria Clean Color, procedimento brevettato di tintura tessile che riduce fino al 98,9% l’impiego dell’acqua, permettendo oltretutto alle molecole del colore di penetrare in maniera irregolare nelle fibre, così da conferire un aspetto irregolare, one of a kind alle texture.

Tra gli esordienti alla kermesse anche Dario Zanco Milano, brand di calzature luxury che affonda le radici nel sogno dell’omonimo fondatore, estasiato fin bambino dal lavoro artigianale svolto dal nonno nel laboratorio meneghino. Allontanatosi per scelte lavorative dallo shoemaking, decide infine di abbracciare in toto la sua passione lanciando una collezione dedicata al golf e la linea Reptile, scarpe in cuoio pregiato e suola XXX flessibile.

Dopo il Covid, Zanco, forte della continua interazione con la propria clientela, che gli ha permesso di verificare le esigenze del mercato, rilancia il marchio, fautore di uno stile classico che rifugge mode e stagionalità, imperniato su cult quali derby, mocassini, Oxford, polacchine e, da ultime, le sneakers, completamente made in Italy, dal disegno originario alle finiture, e in pellami sontuosi, dal coccodrillo allo struzzo, al rettile.

Pitti Uomo Dario Zanco
Sneakers Dario Zanco Milano

La capsule a tutela degli animali di Calabrese 1924, l’evento dedicato all’alta sartoria partenopea di Le Mani di Napoli

È animata da intenti ammirevoli la speciale capsule di Calabrese 1924, prestigiosa manifattura partenopa specializzata in cravatte ed eleganti accessori pour homme, realizzata per la non profit Humane Society International (HSI)/ Europe, dedita alla tutela di tutti gli animali. Denominata Calabrese 4PETS, consta di fazzoletti in cotone, da collo e da taschino, popolati da simpatici cani e gatti, stilizzati e dal flair vintage, tra dolci bassotti contornati da fiori dalle sfumature flou e felini dandy in papillon. La collezione sarà in vendita esclusivamente sul sito dell’organizzazione, per contribuire alla raccolta fondi a favore della mission che porta avanti dal 1991.

Pitti Uomo Calabrese 1924
Calabrese 4PETS, Calabrese 1924

A proposito di artigianalità made in Napoli, da segnalare la presenza, in Fortezza da Basso, dell’associazione Le Mani di Napoli, per una conferenza o meglio, una tavola rotonda sul tema Napoli dentro. Napoli addosso, animata da personalità quali il sindaco del capoluogo campano, Gaetano Manfredi, il rettore dell’università Federico II Matteo Lorito, il neopresidente di Pitti Immagine Antonio De Matteis, il sindaco di Firenze Dario Nardella, lo chef Gennarino Esposito, un «appuntamento imperdibile per raccontare la città e il suo talento nel campo sartoriale e degli accessori», nelle parole del primo cittadino napoletano.
Per l’occasione, viene inoltre esposto il Disciplinare della Sartoria Napoletana, un documento destinato a rivoluzionare il settore, con Le Mani di Napoli che si fa carico di codificare e rispettare i processi tradizionali che interpretano al meglio lo spirito della scuola partenopea.

Pitti Uomo Le Mani di Napoli
I partecipanti alla tavola rotonda di Le Mani di Napoli

Antony Morato tra stile timeless e pop culture

Eclettismo e versatilità sono le parole d’ordine per gli attori del mondo contemporary e sport presenti alla kermesse. Antony Morato, ormai habitué della manifestazione, lancia a Pitti una collezione che, al solito, viaggia nel tempo e nello spazio, prendendo a modello tre specifici decenni (gli anni ‘70, ‘80 e ’90) e altrettante città, Osaka, Seattle, Malibù; un blend di influenze disparate che trovano un denominatore comune nel gusto tipicamente italiano degli abiti, che rimane la stella polare della label. Nella p/e 2024 confluiscono, quindi, i caratteri distintivi dei periodi storici e contesti urbani menzionati, un brassage di tonalità brillanti, print astratti, floreali e geometrici, tocchi neon, tessuti naturali che si accompagnano a quelli dal sapore utilitarian.
Vengono aggiornati i must dell’armadio maschile, ossia camicie a righe, overshirt, pezzi in lino dai tagli lineari, sofisticati, mentre il grunge dei Nineties informa look mutuati dal workwear, con cargo pants sotto bomber leggeri. Le superfici, sovente grezze, materiche, donano un tocco edgy a capi e accessori di stampo minimal, facilmente adattabili a qualsiasi outfit. Non mancano colorazioni e grafismi d’impatto, che confermano la predilezione di Antony Morato per i pilastri della cultura pop, richiamati da tre capsule collection, omaggi ai Rolling Stones (con l’irriverente linguaccia della band), ai mitici Simpson e al logo Chupa Chups, dietro cui si cela il genio di Salvador Dalí, pubblicitario ante litteram di razza.

U. S. Polo Assn., uno show nel segno dell’unione tra moda, sport, arte e musica

Pitti Uomo 104 U. S. Polo Assn.
U. S. Polo Assn. p/e 2024 (ph. Filippo Maffei)

Fa le cose in grande stile U. S. Polo Assn.: oltre a svelare una collezione grintosa, esplicitamente sporty, che riprende nuance e atmosfere delle vacanze nel Mar Mediterraneo (perciò infinite gradazioni di blu, forme casual, fibre leggere, nobili quali lino o cotone seersucker, per una reinterpretazione sensibile ai trend dei capisaldi della casa, dagli elementi vintage inspired alle rigature, dal color block alle classiche polo), il brand ufficiale della United States Polo Association allestisce, infatti, uno spettacolo nel segno dell’unione tra moda, sport, arte e musica in una cornice magica, il Giardino Torriggiani, gioiello naturalistico nel cuore di Firenze.

Lo show si conclude con una cena esclusiva, allietata prima dalla performance di Antonio Signorini, scultore di fama mondiale che, per l’occasione, espone le sue opere con cavalli volanti in bronzo in tre piazze del centro (piazza del Carmine, San FirenzeA Firenze il laboratorio green di Cassetti per gli orologi di lusso e del Grano), poi da quella di Santi Serra, artista equestre capace di stabilire un’assoluta simbiosi con i cavalli, quindi – dulcis in fundo – dall’esibizione live dei mitici Planet Funk.

Pitti Uomo 104 U. S. Polo Assn.
Il concerto dei Planet Funk al Giardino Torrigiani (ph. Filippo Maffei)

The Pineider’s Timeless Passions

Non si può non menzionare, infine, l’evento organizzato da Pineider nella boutique di Lungarno degli Acciaiuoli, dunque fuori dai confini fieristici strettamente intesi, e che però ricalca alla perfezione il tema dell’edizione numero 104, Pitti Games, il gioco concepito come dimensione ludica, sfidante ma – soprattutto – creativa.

Aspetti condivisi in toto dalla maison toscana, i cui prodotti artigianali sono espressione di un lifestyle dinamico, energico, in costante movimento, tanto che oltre agli articoli di scrittura per cui è rinomata, ha da tempo in catalogo linee di pelletteria e valigeria ugualmente preziose, raffinate, completate adesso da borse da viaggio bicolor in sfumature (zafferano, sabbia, color cuoio naturale) e materiali (pelle martellata, bottalata, liscia, Mini Franzi, scamosciata) inediti, nonché dai nécessaire per arricchire il tempo libero e gli interessi personali degli intenditori, tra watch, jewelry e game holder e porta-racchette; novità salutate dalla griffe, mercoledì 14 giugno, con la serata The Pineider’s Timeless Passions, he ha avuto un anfitrione d’eccezione, Pierfrancesco Favino, ambassador del marchio.

Pitti Uomo 104 Pineider
Pierfrancesco Favino, ospite d’eccezione dell’evento The Pineider’s Timeless Passions

Per l’immagine in apertura, Pierfrancesco Favino all’evento The Pineider’s Timeless Passions (ph. Nicola Muro)

S|Style, a Pitti Uomo i designer emergenti che coniugano sostenibilità e ricerca creativa

Tracciabilità, filati riciclati (e riciclabili), tessuti di recupero o upcycled, uso della tecnologia per contrastare gli sprechi che, per una delle industrie in assoluto più inquinanti qual è la moda, costituiscono un gigantesco problema; sono alcune delle parole d’ordine adottate dai brand di S|Style, area di Pitti Immagine Uomo che, da tre anni a questa parte, porta avanti uno scouting dall’impronta fortemente inclusiva e internazionale, promuovendo il lavoro di designer emergenti che, nel realizzare le proprie collezioni, ricorrono a pratiche virtuose sotto il profilo etico e ambientale, unendo eco-responsabilità e desiderabilità dei capi.
A illustrarci le peculiarità dei marchi protagonisti quest’anno nella Sala delle Nazioni, in Fortezza da Basso (nello specifico, Ksenia Schnaider, Dalpaos, Permu, Cavia, Dhruv Kapoor, Isnurh, Steven Passaro, Jeanne Friot, Olooh Concept, Young n Sang), soffermandosi anche su credenze più o meno infondate ed esempi lodevoli, da imitare, è la giornalista e stylist Giorgia Cantarini, curatrice e ideatrice del progetto.

S|Style Pitti Uomo
Giorgia Cantarini, curatrice del progetto S|Style di Pitti Immagine Uomo

S|Style Pitti 104
Steven Passaro

“La soddisfazione maggiore è l’arrivo negli store, vedere che i brand di S|Style hanno riscontri commerciali e riscuotono il gradimento sia della stampa sia del pubblico”

S|Style è giunto alla settima edizione, a tre anni dal varo qual è il bilancio di quest’iniziativa, gli obiettivi già centrati e quelli a cui puntare negli anni a venire?

Sicuramente tra quelli già raggiunti il fatto che buona parte dei designer passati da S|Style abbiano fatta molta strada; sono approdati nei negozi più importanti e, in diversi casi, sono state offerte loro collaborazioni prestigiose o riconoscimenti. Steven Stokey-Daley (fondatore e creative director del brand S.S. Daley, ndr), ad esempio, che ha presentato con noi la prima collezione, ha vinto l’LVMH Prize 2022, Phipps ha firmato una collab con Boss, Uniforme è stato selezionato per la finale dell’Andam Fashion Award, Vitelli ha iniziato a lavorare con Collina Strada… Insomma, parecchi di loro si sono fatti notare e stanno portando avanti il proprio percorso. Personalmente, la soddisfazione maggiore è però l’arrivo negli store, vedere che hanno riscontri commerciali e riscuotono il gradimento sia della stampa sia del pubblico, cominciano ad essere nomi su cui puntare nel contesto del menswear. 

Nell’immediato, invece, ci attende la partnership con Kering, uno step ulteriore, perché potremo offrire una fase di formazione, avviando una mentorship col Material Innovation Lab, il centro di ricerca del gruppo che si occupa di tutto ciò che concerne la sostenibilità. Questo darà l’opportunità ai creativi selezionati di accedere a risorse difficili da ottenere per le rispettive griffe, di dimensioni ridotte; sicuramente potranno acquisire un know-how unico nel suo genere e saranno legati a una multinazionale che garantisce enorme visibilità. L’auspicio è che i più dotati vengano notati anche da altre maison e, di nuovo, riescano a entrare nelle boutique di riferimento in tutto il mondo. 

S Style sostenibilità
Isnurh

“La sostenibilità è un percorso estremamente lungo e tortuoso, che interessa il business a 360 gradi”

Da Cavia a Dalpaos, sono dieci i marchi selezionati per la 104esima edizione di Pitti Uomo, potresti fornirci una panoramica, illustrare brevemente le caratteristiche precipue di ciascuno?

Sono marchi piccoli, perciò si avvalgono tutti di materiali “fine pezza”, cioè le giacenze che si accumulano nei magazzini delle aziende manifatturiere. Alcuni hanno attive delle partnership con altre realtà del settore, si possono citare tra gli altri Permu e Steven Passaro, che fanno ricorso alla prototipia 3D, evitando di realizzare un numero eccessivo di pezzi di campionario e modellando tutto prima, per gestire al meglio l’intero ciclo produttivo; Ksenia Schnaider, che collabora col produttore di denim sostenibile ISKO; i danesi di Isnurh, coi loro capi in cotone organico certificato Oeko-Tex, che hanno trovato il modo di stampare senz’acqua, inoltre una parte della linea di ready-to-wear è artigianale, lavorata a mano (come avviene anche da Cavia), un’altra ancora viene ottenuta da tessuti certificati o vintage (e lo stesso vale per Dalpaos). 

“Sono esempi di best practice le imprese che mettono tutto in piazza, comunicando in maniera onesta e chiara, fornendo un quadro d’insieme che sia verificabile”

La sostenibilità è un argomento ormai all’ordine del giorno, eppure la confusione in materia è ancora tanta, basti pensare che un recente studio della Commissione europea ha evidenziato come oltre la metà delle indicazioni fornite dai brand siano vaghe, fuorvianti o del tutto infondate, mentre quasi la metà dei 230 che si professano “eco” non può fregiarsi di adeguate procedure di verifica. Puoi indicarci alcuni falsi miti da sfatare sull’argomento e, all’opposto, le best practice?

La sostenibilità è un obiettivo ad oggi irraggiungibile, non a caso la denominazione S|Style sta per sustainable style, quello perseguito dalle nostre label, responsabili e con un’attitudine – sul lungo termine – sostenibile; ci mettono il massimo impegno, però non possono definirsi pienamente tali, perché a monte c’è un percorso estremamente lungo e tortuoso, che interessa il business a 360 gradi, non riguarda solo la produzione dei capi, ma anche la tipologia dei materiali, la catena del valore, i fornitori, gli standard da adottare…
Nessuna griffe, a parte eccezioni virtuose alla Patagonia, può dirsi sostenibile al 100%, quelle della sezione sono però un esempio di cosa voglia dire essere coscienziosi, avere a cuore certe tematiche fin dal principio…

Tra i falsi miti, innanzitutto la pelle vegana, che purtroppo in termini di sostenibilità è peggio di quella naturale, infatti si stanno sviluppando alternative bio-based o rigenerative; bisogna comunque ammettere che, fintanto che continueremo a consumare carne, perlomeno con la concia dei pellami si evitano sprechi, reimpiegando gli scarti alimentari.
Si può fare un discorso simile per la finta pelliccia: i trattamenti e coloranti usati per riprodurre l’effetto del pelo animale la rendono più inquinante delle pellicce classiche, per quanto siano allo studio soluzioni meno impattanti. Si parla tanto, poi, di tessuti riciclati, ma il nodo riguarda la riciclabilità degli stessi, altrimenti rimane il problema di dover reimmettere sul mercato prodotti nuovi.
Sono esempi di best practice, al contrario, le imprese che mettono tutto in piazza, comunicando in maniera onesta e chiara se e come si stiano muovendo in tale direzione, fornendo un quadro d’insieme che sia verificabile. Rientra tra le best pratice anche il tenersi aggiornati sulle innovazioni e migliorie tecniche introdotte man mano (in particolare sulle lavorazioni che consentono di sprecare meno acqua o prevedono un limitato consumo di suolo, mi viene in mente l’agricoltura rigenerativa), come pure seguire gli aggiornamenti a livello legislativo e di certificazioni; sotto quest’aspetto, l’azienda migliore, trasparente in tutto e per tutto, è – ancora – Patagonia, che arriva a dire esplicitamente ai consumatori “se non vi serve, non compratelo”.

“Il focus di S|Style è la selezione, con marchi scelti non solo per l’approccio sostenibile, ma anche per l’effettiva vendibilità, per il valore intrinseco delle proposte”

S Style Pitti Firenze
Permu

Come vorresti evolvesse il progetto da qui ai prossimi anni?

Certamente sarebbe bello aprirsi anche alle realtà femminili, sebbene al momento non credo avremmo la capacità di gestire più di dieci label per volta; voglio che il focus di S|Style resti la selezione, i marchi devono essere scelti non solo per l’approccio sostenibile, ma anche per l’effettiva vendibilità, per il valore intrinseco delle proposte.
Di brand ce ne sono tanti, fin troppi, spesso si dà grande rilievo alla sostenibilità mentre la creatività passa in secondo piano, eppure le maggiori resistenze dei potenziali clienti sono dovute proprio al fatto che non vogliono mettersi addosso abiti esteticamente poco validi, non desiderabili. Non possiamo farci illusioni, nessuno acquista – o meno – un prodotto solo perché “buono”, comprare un vestito è un gesto emozionale, è nella natura umana essere attratti da ciò che ci piace, trasmettendoci sensazioni gradevoli. 

S Style 2023
Kseniaschnaider

Nell’immagine d’apertura, Giorgia Cantarini, curatrice del progetto S|Style di Pitti Immagine Uomo

Eli Russell Linnetz, narratore dai mille talenti

Definire fashion designer Eli Russell Linnetz (ospite d’eccezione, col suo ERL, di Pitti Uomo 104) è quantomeno riduttivo, dato che questo 32enne californiano dall’aria scanzonata è un creativo poliedrico dalle mille virtù, che si diletta volentieri anche di regia (ha diretto videoclip per Kanye West, Shawn Mendes e Tyga), fotografia (ha all’attivo servizi per brand – Yeezy, Skims – e testate quali Interview, GQ o Vogue), produzione musicale et similia, collaborando a vario titolo con titani dello show business odierno come il citato Ye, Lady Gaga, Kim Kardashian, Kid Cudi.

Tuttavia è col marchio che porta le sue iniziali, in cui ha trasfuso le vibe e la rilassatezza nel vestire tipiche della metropoli dov’è nato e cresciuto, Los Angeles, e in particolare del quartiere di Venice Beach, col suo crogiolo di etnie, culture e tipi umani, dai graffitari ai surfisti perennemente in shorts sbiaditi dal sole, agli skater coi loro abiti baggy, che si è fatto un nome nel circuito degli iniziati alle cose di moda (l’etichetta, non per niente, è distribuita da Dover Street Market, eldorado del fashion di nicchia), fino all’esplosione mediatica garantitagli dalla collaborazione con Dior.

Eli Russell Linnetz
Eli Russell Linnetz

Esattamente un anno fa, infatti, ha co-firmato la collezione Men Resort 2023 California Couture, un cortocircuito tra la sofisticatezza estrema della griffe parigina e l’immaginario edonistico della West Coast, tra suit rivoltati, tonalità zuccherine contrappuntate da fiammate di colore saturo, fitte incrostazioni di perle e paillettes.
A seguire, la vittoria del premio Karl Lagerfeld nell’edizione 2022 del LVMH Prize e, ora, la chiamata della kermesse di riferimento, a livello internazionale, per il menswear, dove porterà un’installazione speciale dal sapore hollywoodiano, che promette di fare faville.
Nulla di così strano per chi, come lui, parte «sempre dalla storia, prima ancora di sapere come sarà la collezione».

“ERL è casual, senza pretese, spensierato. Contempla tutta una serie di prodotti e personaggi, così da potersi adattare a tante situazioni diverse”

Sei il guest designer della 104esima edizione di Pitti Uomo. Come ti senti alla vigilia di un appuntamento tanto importante, che ti vedrà protagonista nella principale vetrina internazionale dell’abbigliamento maschile?

È un vero onore sfilare a Pitti Uomo, a Firenze, nella culla del Rinascimento; un sogno che ha del magico.

Cosa possiamo aspettarci dalla collezione Spring/Summer 2024 che presenterai nel capoluogo toscano? Puoi svelarci qualcosa in anteprima?

Ho studiato sceneggiatura alla USC (University of Southern California, ndr), perciò parto sempre dalla storia, prima ancora di sapere come sarà la collezione.
In questo caso, ad emergere è stato il tema del make believe (“fare finta” in inglese, ndr), con innumerevoli richiami ai film, universi di pura finzione, dalle scenografie ai costumi di scena, alle composizioni sonore; stavolta, dunque, era fondamentale che la sfilata includesse ogni possibile particolarità del cinema.

ERL Fall/Winter 2023
ERL Fall/Winter 2023

Hai fondato ERL cinque anni fa, i traguardi più significativi raggiunti finora? E quelli cui ambire in futuro?

Sicuramente è stato un onore vincere il premio Karl Lagerfeld nell’ambito del LVMH Prize 2022, e lo stesso vale per la collaborazione con Kim Jones da Dior Men.
Cito anche l’outfit di A$ap Rocky per il Met Gala 2021, dove si è presentato con Rihanna, e l’apertura del primo spazio retail ERL a Kyoto, in Giappone.

Come descriveresti l’estetica di ERL, quali sono le peculiarità del brand, cosa lo rende unico?

ERL è casual, senza pretese, spensierato. Contempla tutta una serie di prodotti e personaggi, così da potersi adattare a tante situazioni diverse, dipende dalla singola persona, dal modo in cui indossa i propri abiti.

“I miei lavori sono sempre provocatori, ma la provocazione può essere usata in modi diversi”

L’anno scorso hai co-firmato la collezione Dior Men Resort 2023California Couture, primo guest designer in assoluto nella storia della gloriosa maison francese. Come valuti a posteriori il tutto, cosa ti è rimasto più impresso di quell’esperienza?

Si è trattato di un processo completamente effortless, guidato solo da intuito e fiducia reciproca. Kim Jones e il suo team sono meravigliosi, a volte ci siamo trovati ad operare in silenzio, non c’era bisogno di parole che spiegassero ciò che stavamo facendo. Non ci sono state forzature né momenti in cui mettersi in discussione a vicenda, una pura gioia, sono davvero grato di aver avuto l’opportunità di collaborare con lui.

L’etichetta di stilista ti sta decisamente stretta, visto che sei anche fotografo, regista, produttore, scenografo, attività che ti hanno permesso di collaborare con il non plus ultra dello showbiz e grandi nomi dell’industria fashion ed editoriale. Qual è il minimo comun denominatore, il collante che tiene insieme le varie sfaccettature della tua creatività?

I miei lavori sono sempre provocatori, ma la provocazione può essere usata in modi diversi, ad esempio incanalandola in soluzioni giocose che sfidano chi guarda, oppure gli fanno vedere con occhi nuovi qualcosa di quotidiano.

Eli Russell Linnetz Pitti
ERL Fall/Winter 2023

“Il brand cresce e si evolve di continuo, come me del resto”

Il menswear non è mai stato tanto dinamico, secondo Euromonitor International crescerà a un ritmo medio annuo maggiore del womenswear, inoltre la pandemia ha ulteriormente scombinato le carte, prima con la casualizzazione dettata dai lockdown, poi col ritorno generalizzato a un’eleganza old-fashioned, rigorosa e misurata. In qualità di fondatore e direttore creativo di una delle label più “hot”, godi di un punto di vista privilegiato sulla moda maschile, qual è la tua impressione in merito?

Per quanto mi riguarda, non bado alle tendenze, non mi approccio alla moda in maniera tradizionale, lo spirito è piuttosto quello del costumista, gioco a vestirmi e immagino nuovi personaggi.

Come immagini ERL tra 10 anni? 

Il brand cresce e si evolve di continuo, come me del resto.

Eli Russell Linnetz 2023
ERL Fall/Winter 2023

Nell’immagine in apertura, un ritratto di Eli Russell Linnetz, founder e direttore creativo di ERL

Red-Eye Metazine, raccontare moda e arte nel metaverso

Se c’è un tema su cui oggi si riversano fiumi di parole, lanciandosi nelle speculazioni più ardimentose che prefigurano – alternativamente – scenari distopici in cui tutto viene smaterializzato in bit o, viceversa, un eden 3.0 dalle possibilità sterminate, quello è il metaverso, ovvero – stando alla definizione che ne dà un articolo pubblicato sul sito della Treccani – «un ecosistema costituito da spazi tridimensionali, all’interno dei quali le persone possono muoversi, condividere e interagire».

Metaverso moda arte
Red-Eye

Sono comunque in molti a pensare che rappresenti the next big thing, e la moda, che storicamente ha la sua raison d’être nella capacità di intercettare – e rielaborare – i fermenti in atto nella società, a tutti i livelli, ha guardato subito con interesse alla punta di diamante del cosiddetto web3, moltiplicando sforzi e iniziative, talvolta velleitarie, estemporanee (tra Nft, avatar dalle sembianze cartoonesche, outfit destinati a rimanere confinati sullo schermo del device di turno, collaborazioni con piattaforme o videogame quali Twitch, Roblox o Fortnite), talaltra ben più calibrate. È questo il caso di Red-Eye, un magazine, anzi, metazine che fa della contaminazione, della mescolanza tra fashion, arte, natura e musica, filtrate attraverso una visione avanguardistica (che contempla molteplici soluzioni tech, dalla virtual reality alla computer graphics, alle scansioni 3D) il proprio credo.

Il primo «metazine nativo per il metaverso»

Metaverso Red Eye
Gloria Maria Cappelletti

Nato alla fine del 2022 e giunto al terzo issue (dal titolo immaginifico, Bloomtopia), lo dirige Gloria Maria Cappelletti, vulcanica Editor-in-Chief: una vita nel settore della moda, dove ha ricoperto svariati incarichi (agente e producer di fenomenali fotografi quali Steven Klein, Stéphane Sednaoui e Daniel Sannwald, curatrice del Fashion Film Festival Milano, Editor at Large dell’edizione italiana di i-D, docente alla NABA, advisor del Circular Fashion Summit by Lablaco), ha l’entusiasmo e il trasporto di chi sembra aver colto appieno le potenzialità del medium, destinato – ne è convinta – a innescare una rivoluzione epocale, a tutti i livelli, compreso quello editoriale.

Prima di addentrarsi nei tanti progetti portati avanti col suo team, è d’uopo capire esattamente di cosa si occupi il primo «metazine nativo per il metaverso», domanda che rivolgiamo alla diretta interessata: «La parola chiave – specifica – è meta, suffisso connotato, associato ormai al metaverso, al punto che la casa madre di Facebook e Instagram se n’è appropriata. A mio avviso, bisognerebbe tornare invece a Platone, alla meraviglia del decifrare la dimensione digitale come nel mito della caverna, in cui le ombre, unica realtà possibile per i prigionieri della grotta, erano solamente delle sagome.

Lavorare sul digitale conduce a una riscoperta del reale, è questa secondo me l’accezione migliore del termine phygital, la compresenza di fisicità e virtuale, naturale e artificiale, che alla fine sono la stessa cosa, perché il mondo viene definito dal modo in cui lo si vive e interpreta. Sono nella moda dagli anni ‘90, ho vissuto l’evoluzione dello storytelling, il passaggio dall’analogico al digitale, dal racconto fotografico statico al fashion film; ora siamo di fronte a una tecnologia che può operare in un ambiente tridimensionale compartecipato, una realtà (non solo) virtuale di cui non siamo spettatori passivi, bensì fruitori attivi».

Metaverso magazine
Red-Eye, Bloomtopia

“Lavorare sul digitale conduce a una riscoperta del reale, è questa secondo me l’accezione migliore del termine phygital”

Una realtà, quella di Red-Eye, che fa regolarmente ricorso all’intelligenza artificiale (ad esempio per redigere la newsletter RADAR o in progetti come la mostra DUNE: Not for Spice, dedicata ad Alejandro Jodorowsky), argomento particolarmente caldo, tra previsioni dai toni millenaristi (ad opera, in verità, anche di esperti che hanno lavorato alacremente per svilupparla) e polemiche quotidiane su ChatGPT.

Viene spontaneo chiedersi in che modo possa risultare utile al lavoro editoriale uno «strumento potentissimo – per usare le parole di Gloria Maria – che dà la possibilità di effettuare ricerche impossibili da replicare col semplice Google Search». L’idea di base, spiega, è imbastire un dialogo con l’IA, «definendo un contesto specifico per il suo utilizzo, da abbinare ad altre stratificazioni, rimandi, operazioni di editing. Dal mio punto di vista, stimola chi la usa, lo rende un utente attivo. È una questione, per tornare alla filosofia, di maieutica, di estrapolare dall’algoritmo ciò che si vuole; tutto sta, infatti, al singolo utilizzatore, che ha a che fare con una sorta di specchio».

Per lei, quindi, il metaverso offre innumerevoli opportunità, anche e soprattutto al settore dell’editoria, di moda e non, in primis quella di «trovare modalità inedite per raccontare delle storie e documentare quanto avviene intorno a noi, sviscerando il lavoro di un artista attraverso interviste, focus sulle opere, link… Il punto, fondamentalmente, è esplorare i contenuti in maniera diversa, con layer ulteriori che completino l’articolo tradizionale»; in effetti, una volta inforcato il visore Oculus, ci si ritrova catapultati in un virtual reality assai particolareggiata, costellata di totem e isole verso cui spostarsi in souplesse per accedere ad ulteriori ambienti, muovendosi potenzialmente all’infinito di finestra in finestra.

“Penso che il metaverso possa contribuire a stimolare la curiosità, a (ri)scoprire la meraviglia”

L’industria fashion, lo si è visto, si è gettata a capofitto sul metaverso: fra le varie iniziative, una delle più chiacchierate è la Fashion Week dedicata su Decentraland, che l’anno scorso ha coinvolto marchi della caratura di Dolce&Gabbana, Etro, Paco Rabanne, Boss, Hogan; il risultato, a parere di chi scrive, non è stato dei migliori, tra figurini “plasticosi”, grafiche tutto sommato rudimentali e ambienti ricalcati fedelmente sul centro commerciale americano. Gloria Maria ne conviene, «sembrava di essere in un mall, era tutto fin troppo reale, su Red-Eye, invece, creiamo spazi completamente differenti, li customizziamo. Nella sezione delle sfilate, per esempio, abbiamo stanze ad hoc: accedendo – poniamo – a quella della collezione Diesel autunno/inverno 2023, si visualizzano immagini della passerella, scatti di backstage e altri approfondimenti, in una cornice dominata dalle sfumature di rosso e blu denim caratteristiche del brand».

Red Eye magazine
Red-Eye Metazine

“Il metaverso, per certi versi, non è altro che una sconfinata galleria”

Viene da chiedersi quale sia, in ultima battuta, il valore aggiunto apportato da tutto ciò al racconto della moda, alle dinamiche che la regolano, alle griffe che la plasmano e veicolano. «Penso – suggerisce – che possa contribuire a stimolare la curiosità, siamo arrivati a una saturazione dei contenuti, noto un affaticamento sempre maggiore nel fashion world, è tutto velocissimo, foto, post, calendari compressi, mille stimoli da gestire.
È importante, dunque, (ri)scoprire la meraviglia, una componente fondamentale; lavoro nella moda da anni, ricordo i défilé in silenzio, la ressa per entrare agli show di Alexander McQueen, come pure il tempo dilatato che portava ogni volta a sorprendersi davanti alle cover story di Vogue Italia firmate Steven Meisel, ciascuna un universo a sé, un viaggio eccezionale.

Ecco, per me il metaverso può aiutare a ottenere quell’effetto wow, io esplorandolo scopro una marea di cose, mi meraviglio, appunto, mentre la stessa dinamica temporale della suddetta attesa si stabilisce con l’IA, creando un prompt e aspettando, lasciandosi poi sorprendere dal risultato. Si stabilisce un dialogo in cui è contemplata una parentesi, il momento dell’attesa e quindi la rielaborazione, che dà vita a processi inediti.
La liquidità – per così dire – degli algoritmi, inoltre, richiama la fluidità che contraddistingue svariate collezioni contemporanee, basti considerare l’immaginario legato agli avatar, con look futuristici, cangianti, dai movimenti e texture stupefacenti, onirici, quasi; mi ricordano la visionarietà di McQueen».

Metaverso fashion
Red-Eye

Presente e futuro di un medium (potenzialmente) rivoluzionario

Il giudizio della direttrice è corroborato dalla sua competenza in materia di arte, il secondo pilastro, insieme al coté modaiolo, di Red-Eye. Con Gloria Maria Gallery, del resto, aveva cominciato a occuparsi di artisti digitali già nel 2009, quando erano visti pressoché all’unanimità come «giovani che perdevano tempo al computer» (ipse dixit).

Un’esperienza che ricorda come «assolutamente positiva, abbiamo ospitato autori come Petra Cortright, ora esposta in musei quali MoMa, New Museum o LACMA, che all’epoca lavorava solo su YouTube, noi trasmettevamo i suoi interventi in streaming, poi abbiamo introdotto il QR code e altre interessanti sperimentazioni; mi sono state utili, come pure avere una simile struttura da allestire; per me è fondamentale lavorare con gli artisti partendo dallo spazio e il metaverso, sotto quest’aspetto, non è che una sconfinata galleria». Non vanno trascurate, prosegue, «le possibilità incredibili in tema di presentazione ed espansione degli artwork, che risultano “esplosi”; vedendoli  in uno spazio così dilatato e avvolgente, gli autori rimangono sbalorditi».

Metaverso moda sfilate
Red-Eye issue 1, Fall 2022

“Il vero cambiamento, nel metaverso, avverrà con l’implementazione dell’intelligenza artificiale, una rivoluzione paragonabile a quella del passaggio dal Tuttocittà a Google Maps”

Eppure, le facciamo notare, il dibattito in materia è fortemente polarizzato, si va dalla visione incensante di chi auspica uno sconvolgimento epocale ai detrattori che, al contrario, sottolineano i passi falsi della Meta di Mark Zuckerberg. «Il metaverso attuale – riflette –  è solo una parte, va inquadrato nell’ottica di una compresenza di realtà aumentata, IA, virtualità e spazi altri; è in fase di sperimentazione, il vero cambiamento credo avverrà con l’implementazione dell’intelligenza artificiale, una rivoluzione paragonabile a quella con cui siamo passati dal Tuttocittà a Google Maps. Sul piano creativo, poi, è ancora tutto da definire, saranno gli stessi creator a occuparsene.

Il pericolo, invece, è costituito dall’uso che potrebbero fare governi e istituzioni di una tale quantità di dati, però il fatto di essere inseriti dal principio in un sistema permette di sviluppare prospettive critiche. L’altra sfida riguarda i singoli utenti, che avranno a disposizione uno strumento dalla potenza inaudita e dovranno mantenere un senso etico nell’approcciarvisi, per questo è importante educare i giovani, sensibilizzarli».

Nella visione di Gloria Maria Cappelletti, insomma, il metaverso è in un periodo ancora transitorio, gravido di occasioni e cambiamenti repentini; valutazioni che riportano alla mente un passaggio del libro Snow Crash, in cui l’autore, Neal Stephenson, scrive: «Le cose interessanti accadono lungo i confini, nelle transizioni, non nel mezzo, dove tutto è uguale»; e se lo dice lui, guru della letteratura sci-fi che coniò il termine metaverse proprio nel romanzo in questione, uscito nel 1992, c’è da credergli.

Metaverso arte
Red-Eye issue 2, Winter 2022

Metaverso moda
Red-Eye issue 2, Winter 2022

Beba, un (forte) punto di vista femminile nell’urban

28 anni, torinese, Beba (pseudonimo di Roberta Lazzerini), può fregiarsi di un curriculum musicale corposo, da far invidia a quelli di colleghi ben più navigati.
Ha il pallino del rap fin da piccola, quando viene folgorata dall’ascolto del ritornello di Nicki Minaj in Monster di Kanye West («mi ha colpito così tanto che mi son detta “ok, voglio farlo anch’io”»).
Partecipa a vari eventi hip hop e firma i primi pezzi, nel suo percorso professionale è però decisivo l’incontro con la dj e producer Rossella Essence, che diventa la sua doppelgänger; dalla collaborazione tra le due nascono, dal 2017 in poi, hit quali Fenty, 3nd, Vaniglia, Chicas, Morosita, Tonica.
Arrivano rapidamente le prime partnership di livello, con Lazza e Machete Crew, che la include nel disco da record Machete Mixtape 4, nel 2019 in vetta alla classifica italiana per settimane. Partecipa, inoltre, al popolare format Real Talk, in una puntata che alla fine raccoglie oltre sei milioni di visualizzazioni su YouTube.

Beba urban rap
Total look Ferragamo, shoes Giuseppe Zanotti, jewels Amants de la Lune

“L’ispirazione si può trarre davvero da tutto, perciò vivo con le antenne sempre alzate”

Nel 2021, per l’album d’esordio Crisalide, fa il pieno di collab d’autore (Carl Brave, Miss Keta e Willie Peyote, per citare solo tre nomi); il progetto, come suggerisce il titolo, simboleggia una rinascita per Beba, decisa a espandere i confini della propria cifra artistica in direzione di soluzioni più ibride, nel segno del pop.

Confessa di aver iniziato a fare musica «perché volevo essere il punto di vista femminile, nel rap e in generale nell’urban (genere in cui mi colloco ora), che a me è mancato». Per quanto riguarda l’ispirazione, è convinta che «si possa trarre davvero da tutto, perciò vivo con le antenne sempre alzate». Se le si chiede quale canzone abbia, per lei, un significato particolare, cita «Narciso, uno dei brani cui sono più affezionata, è una storia vera, incentrata su una relazione tossica; gli sono così legata perché, raccogliendo i feedback degli ascoltatori, mi sono resa conto di come abbia aiutato molte persone».
Per il 2023, ci confida, «è in cantiere un nuovo album, ci sto lavorando con Rosella Essence, dunque chi mi segue può aspettarsi un bel disco – lo spero, perlomeno».

Beba rapper
Coat and swimsuit Bally, shoes Sonora, necklace Rosantica

Beba album
Total look Sportmax, jewels Bea Bongiasca

Beba rap
Total look and Jewels Vivienne Westwood

Credits

Talent Beba

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Pietro Lucerni 

Fashion Direction Veronica Bergamini

Stylist Luigi D’Elia

Stylist assistants Noemi Baris, Giovanni Aiuto

Make-up & hair Elina Straume 

Videomaker Antonio “Boc” Bocola 

Ph. assistant Lorenzo Gariboldi 

Location Unimaginable Milano Studios 

Nell’immagine in apertura, Beba indossa total look Sportmax, jewels Bea Bongiasca

Designer e stylist, la new wave creativa. Un portfolio

Il ruolo di designer e stylist, nel fashion system contemporaneo, è imprescindibile. Il loro lavoro, poi, è strettamente correlato, perché se i primi plasmano l’estetica dei marchi che dirigono, i secondi provvedono a veicolarla attraverso lo styling, che si tratti di outfit da passerella, shooting o look della celebrità di turno.

MANINTOWN ha selezionato dodici figure di spicco nei rispettivi ambiti che, oltre a posare per l’obiettivo del fotografo Filippo Thiella, ci forniscono un prezioso insight sulla creatività che alimenta il loro operato.

Walter Chiapponi

Quali sono i tratti distintivi, i capisaldi stilistici del “tuo” Tod’s?

Mi piace che le collezioni siano l’espressione moderna dei segni iconici del brand, ovvero la sartorialità e il concetto di selleria, filtrati anche attraverso l’ottica del tipico lifestyle italiano.

Cosa ti ispira maggiormente, da dove prendi spunto per disegnare capi e accessori?

Guardo molto ai grandi personaggi del passato, come Gianni Agnelli, Marcello Mastroianni o John John Kennedy, che riuscivano a definire un’estetica con pochi elementi, ma giusti. Sono convinto che la nonchalance del loro stile, la capacità di sentirsi a proprio agio con tutto ne sottolineassero già all’epoca la contemporaneità.

I must assoluti del guardaroba, quelli su cui magari torni con regolarità nelle collezioni del marchio.

Il capospalla non manca mai, sia nelle collezioni invernali che in quelle estive, perché in qualche modo chiude il look. Un altro must è rappresentato dalla giacca in pelle, nella versione leggera come una overshirt o a mo’ di Valstar, oppure in versione più pesante, tipo biker jacket; in ogni caso, un capo in pelle esprime carattere.

Andrea Adamo

Quali sono i tratti distintivi, i capisaldi stilistici del brand che porta il tuo nome?

L’elemento centrale dell’estetica AndreĀdamo è la nudità intesa come verità. A volte essere nudi spaventa o intimidisce, nella visione del marchio, invece, il corpo e la nudità sono essenziali, così come l’approccio positivo alla propria fisicità, alla percezione di sé. Il colore nudo, in questa filosofia, è universale, per questo non abbiamo voluto dare nomi alle cromie utilizzate, denominandole tutte semplicemente “nudo”, come a significare che si tratta di una diversità visibile solo agli occhi, che bisogna andare oltre qualsiasi etichetta. AndreĀdamo è pensato per esprimere se stessi, i capi prendono vita e diventano unici, seguendo la forma specifica del corpo.

Cosa ti ispira maggiormente, da dove prendi spunto per disegnare capi e accessori?

Sono ispirato dalla vita quotidiana, dagli amici, dalle persone che conosco o da quelle in cui m’imbatto per caso. Tutte le esperienze che vivo nella quotidianità si traducono in suggestioni che elaboro negli abiti, capita che si declinino in un particolare, una silhouette, un taglio o che, più semplicemente, definiscano un mood, un’attitude.
Un’altra grande ispirazione è rappresentata da tutti quei luoghi, persone, culture ed energie che accumulo durante i miei viaggi; per me viaggiare significa libertà completa, immersione nella quotidianità di un posto sconosciuto.
Mi piace perdermi per le strade di una città dove non ero mai stato, sedermi in un bar di quartiere, entrare in contatto con persone che hanno una cultura diversa dalla mia. Esperienze simili sono un’inesauribile fonte d’idee per il mio lavoro, sotto forma di sfumature che, magari, non sono direttamente leggibili per chi vede o indossa un outfit ma, nella mia sensibilità, innescano un ricordo diretto e immediato dell’esperienza vissuta.

I must assoluti del guardaroba, quelli su cui torni con regolarità nelle collezioni del marchio.

In tutte le collezioni AndreĀdamo non mancano capi che originano o si rifanno alla lingerie, dato che parto sempre dal corpo umano, la mia principale fonte d’ispirazione. L’underwear si evolve e modifica, diventando di volta in volta il punto di partenza per un capospalla, il dettaglio di un top o la caratteristica peculiare di un pantalone. Per me è una costante, mi riporta all’idea centrale della mia estetica, all’ispirazione primaria: esaltare le forme naturali, con naturalezza e un pizzico di provocazione.

Christian Boaro

Quali sono i tratti distintivi, i capisaldi stilistici del brand che porta il tuo nome?

Le proposte firmate CHB-Christian Boaro nascono dai contrasti: bianco e nero, maschile e femminile, forza e fragilità. Ho sempre trovato affascinante osservare come il guardaroba dell’uomo e quello della donna potessero dialogare, influendosi a vicenda, così ho scelto di progettare dei capi che si allontanassero il più possibile dalla distinzione binaria di genere. Il messaggio è, semplicemente, di totale libertà.

Cosa ti ispira maggiormente, da dove prendi spunto per disegnare capi e accessori?

Mi ispira la gente comune, la strada, il cinema, la musica, l’arte e qualsiasi cosa catturi la mia attenzione. In ogni collezione ci sono molteplici ispirazioni e riferimenti, tratti da mondi completamente diversi tra loro.

I must assoluti del guardaroba, quelli su cui torni con regolarità nelle collezioni del marchio.

Sicuramente i capi sartoriali, quelli che provengono dal guardaroba maschile; il pizzo, un tessuto sensuale che mi piace utilizzare in modo inusuale; e poi, immancabili, i rimandi allo streetwear e alla couture, tutti elementi che convivono in una “perfetta” dicotomia

Andrea Pompilio

Quali sono i tratti distintivi, i capisaldi stilistici del brand che porta il tuo nome?

Parto dalla storia della sartoria maschile italiana, per rivisitarne le proporzioni, e dalle nuance, per ottenere un look finale molto contemporaneo, in linea con i tempi e gli orientamenti culturali del momento. Colore e abbinamenti cromatici hanno sempre avuto una grande importanza nel mio lavoro. 

Cosa ti ispira maggiormente, da dove prendi spunto per disegnare capi e accessori?

Prendo spunto da tutto, ogni cosa può essere fonte d’ispirazione, la mia mente non sta mai ferma purtroppo, a volte mi sveglio nel cuore della notte con un’idea, un ricordo che risale a uno dei miei tanti viaggi, e sono costretto ad alzarmi per farne uno schizzo. Può trattarsi di un frammento della mia vita frenetica, di un’immagine rubata in aeroporto, del frame di un bel film visto nel fine settimana… Assorbo e colgo continuamente sfumature, che poi si tramutano in idee.

I must assoluti del guardaroba, quelli su cui torni con regolarità nelle collezioni del marchio.

Amo follemente i capispalla e in particolare le giacche, parto sempre da loro per realizzare una collezione; un’ossessione acquisita probabilmente quand’ero piccolo, da mio nonno. Altro mio “feticcio” sono i boxer maschili e la classica t-shirt bianca, sembrano tutte uguali ma in realtà non lo sono affatto!

Alessandro Vigilante

Quali sono i tratti distintivi, i capisaldi stilistici del brand che porta il tuo nome?

Il marchio si esprime attraverso il sottile balance tra erotismo e rigore, tagli iperfemminili e sartorialità maschile, fibre seconda pelle e tessuti scultorei, cut-out grafici e volumi over, colori neutri e tonalità inaspettate (acide, shocking, fluo).

Cosa ti ispira maggiormente, da dove prendi spunto per disegnare capi e accessori?

La danza contemporanea è la mia fonte d’ispirazione primaria; nelle collezioni, la prospettiva e l’estetica di Merce Cunningham si fondono alla carica emotiva di Pina Bausch. Da un lato, la mia attrazione per i cut-out viene sicuramente dall’abbigliamento indossato dai ballerini durante le ore di lezione e prova, o dai loro costumi di scena; dall’altro, è riconducibile alla voglia di lavorare all’essenza dei capi, di togliere piuttosto che aggiungere, scartando e riducendo il tessuto al minimo, incorniciando le parti del corpo che trovo espressive, in particolar modo la schiena.

I must assoluti del guardaroba, quelli su cui torni con regolarità nelle collezioni del marchio.

I miei pezzi iconici – e best-seller – sono il blazer maschile, la gonna midi con spacco stondato, il pantalone dal fit rilassato, il body con dettagli cut-out. La giacca sartoriale tailored in neoprene, con la schiena nuda, è un omaggio a Carolyn Carlson (di cui porta il nome), coreografa e danzatrice americana di fama mondiale; quella oversize con revers lunghi fino al fondo, invece, si chiama Pina Bausch: l’iconica danzatrice e coreografa tedesca, infatti, portava ampi suit di taglio mannish, modellati appositamente per lei da Yohji Yamamoto, suo amico. Per quanto riguarda i tessuti, la natural vegan rubber è immancabile, subisco da sempre una grande fascinazione per questo materiale, la cui lavorazione richiede una tecnica artigianale che non fa che aumentarne il valore.

Salvo Rizza

Quali sono i tratti distintivi, i capisaldi stilistici di Des Phemmes?

Il brand trae ispirazione da ogni forma d’arte, focalizzandosi in particolare sull’immaginario fotografico dei Nineties, legato all’idea di giovinezza e sovversiva femminilità sublimato, all’epoca, da Kate Moss.
Sono affascinato dal rapporto tra luce e corpo, e utilizzo le superfici decorate per accentuare e sottolineare ulteriormente quest’opposizione.
Nel mio lavoro c’è un concetto di “tensione”, originato da antinomie quali uomo e donna, minimalismo e massimalismo; in quello spazio di mezzo, c’è un mondo nuovo che rende interessante il progetto. Nelle collezioni prevalgono dunque capi semplici, arricchiti però da contrasti, dettagli, sproporzioni che li rendono subito più interessanti. È proprio la tensione a generare un elemento di novità, facendo sì che il “difetto” venga valorizzato, diventando un segno di unicità.
L’approccio stilistico di Des Phemmes è a suo modo istintivo, con pezzi ricamati e speciali, dalla matrice quasi couture, mescolati a proposte daywear e street. Ogni capo, da quello più speciale all’ultrabasic, ha lo stesso valore, ma è proprio dalla fusione, dalla costante tensione tra universi opposti che nasce il marchio.

Cosa ti ispira maggiormente, da dove prendi spunto per disegnare capi e accessori?

La mia principale fonte d’ispirazione è la vita stessa, le persone che la costellano. Des Phemmes è una lettera d’amore a tutte le donne che fanno parte del mio percorso, o lo hanno fatto, spesso vengo ispirato da ricordi o indumenti che vedo addosso a chi mi circonda, portati magari con una particolare attitudine, che diventano il punto di partenza per sviluppare un’intera collezione. E poi i richiami fotografici agli anni ‘90, gli scatti di Corinne Day e Juergen Teller, che hanno plasmato la mia estetica personale.
A mio avviso il miglior modo per essere autentici è parlare di se stessi e del proprio vissuto, che per definizione è e resterà unico, differente da quello di chiunque altro.

I must assoluti del guardaroba, quelli su cui torni con regolarità nelle collezioni del marchio.

La camicia mannish in popeline, sempre presente nelle mie collezioni, declinata ogni volta in chiave diversa. L’idea del capo da uomo, oversize, sul corpo della donna è parte integrante dello stile Des Phemmes, la dualità continua tra maschile e femminile è un pò l’emblema di tutto il mio percorso. La camicia, ad esempio, può essere abbinata indifferentemente a longuette ricamate o cargo pants in denim. 

Mauro Biasiotto

Quali sono le peculiarità dei tuoi styling, a livello di reference, estetica, scelta di capi/accessori…?

Una delle principali caratteristiche è l’uso del colore, potrei dire che ricerco delle cromie forti in un mondo minimal, ispirato principalmente all’estetica di fine anni ‘90/inizio anni 2000. Cerco di realizzare degli styling che non si distacchino troppo dalla realtà ma, allo stesso tempo, abbiano un minimo di azzardo e follia, attraverso una ricerca a livello di forme o materiali.

Quali sono le principali fonti d’ispirazione dei tuoi lavori?

Sono cresciuto con Mtv, che ha rappresentato anche il mio primo lavoro come stylist, tanti anni fa, dunque musica e vecchi video sono la mia più grande fonte d’ispirazione, in particolare quelli degli autori che si distinguevano per l’uso minimalista dei colori, da Michel Gondry a Chris Cunningham. Negli ultimi anni, invece, a influenzarmi sono stati soprattutto i fotografi che si sono spinti “oltre”, nella moda o nei reportage, come Viviane Sassen o Pieter Hugo.

Lo stylist, oggi, è tra le figure di spicco dell’industria fashion, ha assunto una centralità per molti versi inedita. Cosa può fare la differenza, in una scena sempre più affollata e competitiva?

Credo che la cosa più importante sia sempre non smettere di crederci, seguire il proprio cuore e istinto. Non bisogna avere paura di rischiare, andando avanti per la propria strada senza farsi troppo condizionare né scalfire dalla superficialità della moda (un aspetto, questo, cui contribuiscono anche i media), proseguendo con la propria ricerca personale e restando fedeli al proprio credo.

Leonardo Caligiuri

Quali sono le peculiarità dei tuoi styling, a livello di reference, estetica, scelta di capi/accessori…?

Le mie scelte sono sempre basate sul mio istinto, preferisco non farmi fuorviare da mode a me non consone. Amo l’eleganza, la femminilità e tutto ciò che può definirsi timeless. Per la mia donna, lo styling non ha tempo, risulta sempre contemporaneo, sussurra sensualità e giocosa innocenza .

Quali sono le principali fonti d’ispirazione dei tuoi lavori?

La mia più grande fonte di ispirazione, fin da bambino, è mia madre; la mia visione della moda nasce dalla sua forte influenza, in termini di stile, carattere, esuberanza. Amavo guardarla quando si vestiva o si muoveva, era bellissima, sempre alla moda pur senza mai rinunciare alla sua femminilità.
Per anni, la mia unica fonte di ispirazione, a livello editoriale, è stata Vogue Paris, amavo quel tipo di estetica e quella tipologia di femminilità per veicolare uno styling. In termini fotografici e iconografici, invece, mi sono sempre piaciuti autori del calibro di Helmut Newton, Guy Bourdin, Mario Testino e David Sims.

Lo stylist, oggi, è tra le figure di spicco dell’industria fashion, ha assunto una centralità per molti versi inedita. Cosa può fare la differenza, in una scena sempre più affollata e competitiva? 

Stiamo vivendo un momento storico “schizofrenico”, nel quale tutto è possibile. La figura dello stylist è certamente cambiata, ma non sempre o per forza in senso migliorativo. La differenza, nel nostro lavoro, la faranno sempre la professionalità, l’esperienza, la cultura. Mai cambiare il proprio modo di essere per adeguarsi a tendenze passeggere, è fondamentale rimanere fedeli a se stessi.

Christian Stemmler

Quali sono le peculiarità dei tuoi styling, a livello di reference, estetica, scelta di capi/accessori…?

Ho un approccio piuttosto realistico, indossabile, che il più delle volte presenta un legame con le subculture degli anni ‘90/primi anni 2000, ma anche con il glam e il punk degli anni ‘70.
Nei mie styling sono predominanti elementi grunge, techno, denim, pelle, come pure lo sportswear e i codici street. I modelli che vesto indossano boots o sneakers tecniche, spesso anche occhiali da sole; sono visioni di creature divine, che si dirigono in un club chiuso ormai da tempo.

Quali sono le principali fonti d’ispirazione dei tuoi lavori?

Sono le persone la mia eterna fonte d’ispirazione, le guardo e parlo con loro, ovunque, per strada, nei bar, sulla metropolitana, nelle discoteche, in palestra, nelle stazioni…

Lo stylist, oggi, è tra le figure di spicco dell’industria fashion, ha assunto una centralità per molti versi inedita. Cosa può fare la differenza, in una scena sempre più affollata e competitiva?

Sicuramente essere un buon ascoltatore e un acuto osservatore, nonché dimostrarsi capaci di creare una narrazione e un’atmosfera, un mondo intorno agli abiti che dia loro vita.

Francesco Casarotto

Quali sono le peculiarità dei tuoi styling, a livello di reference, estetica, scelta di capi/accessori…?

Credo che la cosa che mi contraddistingue maggiormente sia, con ogni probabilità, la manualità. Trovo piacevole, spesso e volentieri, lavorare con materiali e accessori per creare qualcosa ad hoc per lo shooting. Adoro la personalizzazione, un elemento, questo, che deriva forse dal mio background in fashion design. Cerco di aggiungere a ogni look un twist, un tocco speciale. La maggior parte delle volte è anche una necessità personale, uno sfogo, motivo per il quale è nato il progetto Agglomerati.

Quali sono le principali fonti d’ispirazione dei tuoi lavori?

Le reference sono le più disparate, penso che ogni creativo sia come una spugna, che assorbe tutto ciò che vede, sente o immagina, per poi filtrarlo e restituirlo in una forma nuova. Un processo che può riguardare un film, una canzone, un’opera d’arte, persino un sentimento.

Lo stylist, oggi, è tra le figure di spicco dell’industria fashion, ha assunto una centralità per molti versi inedita. Cosa può fare la differenza, in una scena sempre più affollata e competitiva?

Secondo me è importante fare una distinzione tra lavoro editoriale e commerciale. Il secondo, svolto per un brand o un’azienda, è assai più complicato. In questo senso la nostra figura è di supporto, perché l’obiettivo di uno stylist non è proporre un’immagine straordinaria in senso assoluto, bensì una che si adatti perfettamente al Dna del marchio, soddisfacendo le richieste sia del marketing che del mercato. Spesso molti stylist si sentono incompresi, creativamente limitati, ma per me creatività significa trovare soluzioni, è una qualità che appartiene a ogni persona che, di fronte un problema o una richiesta specifica, usa la propria testa e i propri strumenti per fornire una risposta, a prescindere dal settore in cui opera.

Lorenzo Oddo

Quali sono le peculiarità dei tuoi styling, a livello di reference, estetica, scelta di capi/accessori…?

Quando inizio a pensare a uno styling, parto ogni volta dal personaggio o dall’estetica che vorrei venisse fuori. Non ho reference precise, mi piace spaziare, essere trasversale. Attingo dalla musica e dal cinema, come pure dall’arte in generale. Credo che nei miei lavori ci sia sempre qualcosa di stridente, quello che io definisco un “errore”, l’elemento “sbagliato”, di distrubo, che poi è la mia ossessione.
Se dovessi scegliere un accessorio cui riservo molta importanza direi le scarpe, ma sono attento anche ai gioielli.

Quali sono le principali fonti d’ispirazione dei tuoi lavori?

Traggo ispirazione da tutto, davvero, film, mostre, fotografie e, più di ogni altra cosa, da videoclip musicali e grandi fotografi, passati e presenti. Se dovessi citare una sola persona, sarebbe di sicuro Manuela Pavesi.

Lo stylist, oggi, è tra le figure di spicco dell’industria fashion, ha assunto una centralità per molti versi inedita. Cosa può fare la differenza, in una scena sempre più affollata e competitiva?

Dietro un lavoro all’apparenza semplice, spesso banalizzato, penso che la differenza possano farla solo dedizione e cultura. Sono avido di cultura, a 360 gradi, cerco sempre di approfondire ciò che conosco meno, spesso vengono fuori proprio da lì idee e cortocircuiti mentali utili, poi, all’ideazione e realizzazione dello styling.

Giovanni Beda Folco

Quali sono le peculiarità dei tuoi styling, a livello di reference, estetica, scelta di capi/accessori…?

Credo risiedano nell’equilibro tra severità, delicatezza e sensualità. Cerco di mischiare ambiti estremamente diversi tra loro, sono ad esempio affascinato tanto dalla sartoria quanto dal mondo degli sport estremi, oppure dalla pelletteria. Ogni mio progetto è definito anche da una rigorosa scelta degli accessori, ed è importante non smettere mai di fare ricerca, soprattutto tra i nuovi talenti.

Quali sono le principali fonti d’ispirazione dei tuoi lavori?

Principalmente navigo con la fantasia nell’immaginario che circonda il corpo maschile. Ho avuto modo di studiare come, negli anni, moda e fotografia abbiano favorito lo sdoganamento di una nuova concezione di “mascolinità”. In particolare, ho un’ammirazione per i codici queer definiti da Robert Mapplethorpe attraverso immagini sessualmente sfrontate, ma al tempo stesso armoniose.

Lo stylist, oggi, è tra le figure di spicco dell’industria fashion, ha assunto una centralità per molti versi inedita. Cosa può fare la differenza, in una scena sempre più affollata e competitiva? 

Lo stylist è una figura poliedrica, ricopre tanti ruoli che, nella definizione che va per la maggiore, vengono a volte dimenticati; per questo, personalmente, mi piace definirmi più un image curator. Nella scena contemporanea è fondamentale avere una visione propria, chiara e distintiva. L’identità personale deve spiccare attraverso il lavoro, è questo a fare la vera differenza.

In tutto il servizio, ph. by Filippo Thiella

Paulo, la nuova promessa dell’alt-pop

Lineamenti affilati, capelli corti, biondissimi, una certa – sana – sfrontatezza, del resto fisiologica per un ragazzo che, a poco più di vent’anni, ha già firmato singoli dai numeri importanti come Cielo Drive, Voglia, J e convinto big del livello di Lodo Guenzi, Carl Brave e Miss Keta, giudici del web talent Dream Hit, cui ha preso parte nel 2020. È questo, in breve, l’identikit di Paulo (vero nome Sergio Valvano), sotto contratto dal 2021 con la Sugar Music di Caterina Caselli, la cui parabola artistica, decisamente ascendente, è stata favorita anche dalla Doom Entertainment di Fedez, che ha organizzato tre anni fa il suddetto social talent.
Ora questo 21enne originario di Calvagese, energico e determinato, sembra pronto a fare un ulteriore salto di qualità, affinando il suo stile (che definisce «pop alternativo, mi piace sperimentare coi suoni, metterci quel tocco in più di diversità, di stranezza») e continuando ad alimentare una passione che si porta dietro dall’infanzia, «quando vedevo su Mtv i rapper impegnati nel freestyle», cresciuta nel tempo ascoltando i pesi massimi della scena internazionale («Il mio modello di riferimento, specie per il carisma, è Kanye West, mi piacciono però anche Post Malone, The Weeknd, Rosalía, Bad Bunny, tra gli italiani invece Battisti, Buscaglione e altri cantautori che mi porto dentro, sono parte integrante del mio bagaglio musicale»).

Paulo cantante
Denim jacket and jeans Moschino, shoes Adi Studios

“Voglio far comprendere ai miei fan che condividiamo gli stessi problemi, perché non si sentano soli e trovino conforto in ciò che comunico con la mia musica”

Il suo brano preferito, rivela, «è il prossimo, quello che devo ancora scrivere», perciò conta di «andare in studio con artisti e produttori nuovi, per cercare suoni inediti e sperimentare», seguendo lo stesso processo creativo perfezionato negli anni, «far partire la strumentale e concentrarmi su ricordi e immagini, per descriverle nel miglior modo possibile, così da rivivere quelle stesse sensazioni attraverso le parole della canzone»; con un obiettivo, che tiene a sottolineare, ossia «far comprendere ai miei fan che condividiamo gli stessi problemi, perché non si sentano soli e trovino conforto in ciò che comunico con la mia musica».

Paulo canzoni
Total look Givenchy, jewels tredici.zerodue jewels

Paulo cantautore
Total look Louis Vuitton

Credits

Talent Paulo

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Pietro Lucerni

Stylist Giulio Casagrande

Stylist assistants Morgan Dildar, Francesco Salimena

Grooming & hair Elina Straume

Videomaker Antonio “Boc” Bocola

Ph. assistant Lorenzo Gariboldi

Location Unimaginable Milano Studios

Nell’immagine in apertura, Paulo indossa total look SSHEENA

‘I miei racconti di fotografia oltre la moda’, a Casale Monferrato gli scatti d’autore di Maria Vittoria Backhaus

È in corso di svolgimento il Middle MonFest, festival fotografico lanciato lo scorso anno dal comune di Casale Monferrato e diretto da Mariateresa Cerretelli, che in questa seconda edizione celebra con una grande retrospettiva il prolifico opus di una maestra dell’obiettivo, Maria Vittoria Backhaus. I miei racconti di fotografia oltre la moda, questo il titolo dell’esposizione (aperta fino all’11 giugno), ripercorre la carriera della fotografa (classe 1942, il suo è un nome ben noto nel settore fashion, come pure in quello del design, degli accessori – dai gioielli all’oggettistica – e del food), dipanatasi nell’arco di cinque decenni, nei quali è passata dai reportage di eventi culturali, politici e musicali (il suo esordio fu sulle pagine del settimanale Tempo) agli editoriali di moda, proprio nel periodo storico in cui erano all’apice della diffusione.

Maria Vittoria Backhaus
Maria Vittoria Backhaus, Cuore di mamma #2, Milano 2001, editoriale per iO Donna

La mostra antologica, allestita negli spazi del castello della cittadina piemontese, è il risultato di un lungo, attento “scavo” di un archivio assai ricco ed eterogeneo, in cui si alternano svariati lavori su commissione per le principali testate, italiane e non, e immagini frutto di un incessante studio personale, still-life e composizioni artistiche, che rivelano il tratto innovativo, spesso controcorrente dell’artista milanese (ma ormai piemontese d’adozione, da tempo ha infatti trasferito la sua casa e studio nel Monferrato).

Una mostra che ripercorre decenni di carriera di un’autrice “in equilibrio tra visione, creatività e metodo”

Il visitatore si trova di fronte, dunque, a una caleidoscopica selezione di foto, a cura di Luciano Bobba e Angelo Ferrillo – e con la direzione artistica di Cerretelli, che restituiscono appieno l’immensa creatività dell’autrice. La sua è una cifra dirompente, sperimentale, rivoluzionaria per la fase storica a cui risalgono gli scatti, sempre un passo avanti rispetto alla staticità, al gusto classicheggiante delle immagini che allora dominavano le pagine delle riviste patinate, come pure le campagne pubblicitarie. Rileggendo in modo nuovo un archivio davvero sterminato, eccezionale quanto a mole e varietà dei materiali, l’exhibition passa in rassegna i vari temi affrontati da Backhaus, creativa geniale che, nel tempo, ha declinato la propria visione in ambito editoriale, pubblicitario e in un ricerca personale del tutto peculiare, indagando una società in costante evoluzione.

Maria Vittoria Backhaus mostre
Maria Vittoria Backhaus, campagna stampa, Milano 1978

Nelle sale del secondo piano del castello si susseguono così gli assi portanti di un racconto per immagini continuamente in progress, vale a dire moda, still-life, accessori, design, natura, statuine, collage, composizioni scenografiche realizzate con miniature di edifici e personaggi; un corpus rappresentativo di quasi mezzo secolo di lavoro, che include anche reportage e ritratti, tra cui quelli degli abitanti di Filicudi, isola del cuore della fotografa, e i più recenti di Rocchetta Tanaro e della gente monferrina.
Una girandola visiva dove il bianco e nero cede il passo al colore, racchiudendo l’essenza di un’iconografia sconfinata, costruita dall’autrice in decenni di carriera, che l’hanno vista cambiare – e studiare in maniera approfondita, per sfruttarne al meglio le specificità -diifferenti macchine fotografiche.


Maria Vittoria Backhaus Casale Monferrato
Maria Vittoria Backhaus, Ritratti di filicudari, Ivana Bonica, Filicudi 2014

“Ho dovuto imparare tutte le diverse tecniche, acquisite ma dimenticate al momento dello scatto, per concentrarmi sul racconto della fotografia”

Bobba, curatore della retrospettiva, sottolinea come questa sia stata studiata «passo dopo passo con Maria Vittoria [Backhaus, ndr]», e paragona il processo al «seguire la linea parallela di uno scambio naturale e spontaneo, senza barriere, in un fluire di pensiero e accordi estetici profondi e immediati, che derivano dalla comune passione per l’arte fotografica». Da parte sua, il co-curatore Ferrillo pone l’accento su un singolo termine, «immaginifico. È l’aggettivo che mi ha pervaso la prima volta che ho avuto la fortuna di vedere il lavoro di Maria Vittoria. Conoscendola poi a fondo, vivendo la produzione e approfondendo il suo pensiero, mi sono reso conto di quanto la sua fotografia si muova in equilibrio tra visione, creatività e metodo».
La diretta interessata dichiara, invece, di aver lavorato «con tutti i formati possibili, dal formato Leica ai grandi formati con il soffietto sotto il panno nero 20 x 25. Ho dovuto imparare tutte le diverse tecniche per poterle usare, acquisite ma dimenticate al momento dello scatto, per concentrarmi sul racconto della fotografia».

Maria Vittoria Backhaus fotografia
Maria Vittoria Backhaus, campagna stampa per Walter Albini, Milano, 1978

Monferrato festival fotografia
Maria Vittoria Backhaus, Biancaneve #2, Milano 2001, editoriale per iO Donna

Ad affiancare I miei racconti di fotografia oltre la moda, nell’edizione 2023 del Middle MonFest, è l’esposizione Fotografia in Vetrina (a cura di  Ilenio Celoria), ospitata nella Sala Marescalchi dell’edificio, con i commercianti cittadini in posa per gli studenti dell’Istituto Leardi, che per ritrarli hanno seguito lo stile di un altro virtuoso assoluto dell’obiettivo, Francesco Negri.

festival fotografia Monferrato
Maria Vittoria Backhaus, Cuore di mamma #1, Milano 2001, editoriale per iO Donna

Nell’immagine in apertura: Maria Vittoria Backhaus, Biancaneve #1, Milano 2001, editoriale per iO Donna

‘Gianni Versace Retrospective’, a Groningen una mostra monumentale sullo stilista calabrese

Quello di Gianni Versace, gigante della moda tricolore (che tra gli anni ‘70 e ‘80, insieme a un manipolo di illustri colleghi, contribuì a plasmare, rendendo il made in Italy sinonimo di eccellenza artigiana e savoir-faire senza pari), è un nome che non ha certo bisogno di presentazioni. Eppure, a dispetto di quanto si potrebbe pensare, finora sono state relativamente poche le mostre dedicate alla monumentale opera dello stilista nato a Reggio Calabria. Una lacuna cui prova a sopperire, ora, il Groninger Museum, nell’omonima città dei Paesi Bassi: l’edificio tutto spigoli e asimmetrie dell’istituto, frutto del lavoro congiunto di Alessandro Mendini, Michele De Lucchi e Philippe Starck, ospita infatti, fino al prossimo 7 maggio, la più grande esposizione mai realizzata sul fondatore del marchio della Medusa, a cura di Karl von der Ahé e Saskia Lubnow.

Groninger Museum
Il Groninger Museum visto da Jacopo Ascari

Gianni Versace top model
Gianni Versace and his models, Milan, 1 March 1991 – ©Vittoriano Rastelli/ Corbis Historical/ Getty Images (ph. courtesy of Groninger Museum)

Una mostra d’eccezione, che raccoglie una quantità impressionante di materiali d’archivio

I visitatori del museo hanno, dunque, la possibilità d’immergersi nell’immaginifico universo estetico del couturier, un mix unico nel suo genere di abbigliamento, pop culture e design, tra sontuose creazioni di prêt-à-porter, passerelle che hanno fatto la storia dell’industria fashion, videoclip, top model e nomi di spicco dello star system. La mole di materiali d’archivio raccolti per l’occasione è impressionante, e spazia tra abiti, accessori, tessuti, bozzetti, elementi d’arredo, filmati di spettacoli teatrali, tutti risalenti agli anni d’oro della maison, quelli compresi tra il 1989 e il 1997 (anno della tragica morte del designer, ucciso sulle scale della sua villa di Miami), testimonianze esemplari di una creatività che non conosceva limiti.

Gianni Versace, del resto, è stato un autentico precursore nel suo ambito, tra i primi in assoluto a unire moda e linguaggi espressivi eterogenei, in primis musica, fotografia e graphic design, aprendo la strada alla trasformazione di sfilate e campagne pubblicitarie in artwork a tutti gli effetti, in grado di segnare l’immaginario collettivo.

Versace camicie seta vintage
Gianni Versace, Silk Shirt Army – ©Dirk Patschkowski (ph. courtesy of Groninger Museum)

Tutti gli oggetti esposti sono pezzi originali, provenienti da collezioni private internazionali, in particolare da quella di Antonio Caravano; la curatrice di quest’ultima, Sabina Albano, ha intrapreso da tempo un personale viaggio-omaggio al lavoro dello stilista calabrese, di cui è tra le massime esperte. Commentando la mostra di Groningen, pone l’accento sul «desiderio di valorizzare costantemente il linguaggio della moda che interpreta il tempo. È una linea temporale che va dal passato al presente, quasi reperti archeologici con cui decifrare i nostri mondi».

Il percorso espositivo si snoda in stanze tematiche, dedicate alle “ossessioni” del fondatore del brand

L’esposizione (che, va precisato, non è legata in alcun modo al gruppo Capri Holdings, attuale proprietario del brand, né è stata autorizzata dalla famiglia) si configura, più che come una “semplice” celebrazione dell’heritage del founder, come un racconto sui generis, articolato in assonanze e intrecci con altre forme di creatività. Ad aprire il percorso tematico, il celeberrimo, scollatissimo “Safety Pin Dress” della collezione Punk (1994), indossato da Liz Hurley alla première londinese di Quattro matrimoni e un funerale, che tramutò l’attrice britannica in una star di caratura mondiale.

Liz Hurley Versace dress
“Four Weddings and a Funeral” premiere in London, 1994 – ©Dave Benett/ Hulton Archive/ Getty Images (ph. courtesy of Groninger Museum)

A seguire, le diverse ispirazioni che hanno alimentato, negli anni, il ready-to-wear griffato Versace, con un focus specifico per ogni sala: si va dalla pop art di Andy Warhol alla Magna Grecia, dal rapporto dello stilista con celebrità del calibro di Lady Diana o Elton John alla collezione Freedom, del 1991, che sostanzialmente sancì la nascità del fenomeno delle supermodel, nello specifico Cindy Crawford, Naomi Campbell, Linda Evangelista, Christy Turlington.

Gianni Versace visto da Jacopo Ascari e Bruno Gianesi

Gianni Versace mostra 2023
(Artwork by Jacopo Ascari)

Versace mostra
(Artwork by Jacopo Ascari)

Ad interpretare, per MANINTOWN, i must della retrospettiva (dagli outfit più spettacolari agli allestimenti delle varie stanze) è Jacopo Ascari, i cui coloratissimi disegni, in questa pagina, fanno il paio con quelli – straordinari – di Bruno Gianesi, pubblicati in esclusiva sul magazine. Storico collaboratore di Gianni Versace, Gianesi fa il suo ingresso nell’ufficio stile del marchio nel 1984: vi rimarrà per i successivi sedici anni, in qualità di capo stilista e responsabile dei sontuosi progetti teatrali che coinvolgono all’epoca il brand, curando la realizzazione dei costumi di scena per coreografi e registi del livello di Roland Petit, Maurice Béjart, William Forsythe e Bob Wilson e, in parallelo, disegnando gli abiti indossati dalle star coeve, i già citati Elton John e Lady D, Sting, Madonna e tanti altri, curandone anche le relative illustrazioni per la stampa.

Diversi suoi bozzetti sono stati selezionati proprio dal Groninger Museum, per l’exhibition in corso di svolgimento: quello olandese, d’altro canto, è solo l’ultimo museo, in ordine di tempo, a includere in una sua mostra il lavoro del prolifico artista, esposto negli anni in istituzioni culturali d’eccezione, dai Musei Civici di Palazzo Farnese, a Piacenza, alla Galerie Quadrige di Nizza, passando per il Teatro Litta di Milano, il Kronprinzenpalais berlinese…

Versace Magna Grecia
Illustrazione di Bruno Gianesi presentata alle mostre Gianni Versace Magna Grecia Tribute (Museo Archeologico di Napoli, 2017) e Gianni Versace Retrospective (Groninger Museum, 2022)

Versace costumi teatro
Dionysos di Maurice Béjart,costumi Gianni Versace (illustrazione di Bruno Gianesi)

“Con Gianni Versace non si faceva solo moda, ma arte e cultura”

Parlando con MANINTOWN dei suoi trascorsi nella casa di moda, Gianesi sottolinea in particolare un concetto: «Parlando di Gianni Versace – afferma – non si può non parlare di “bellezza”, definirei l’essenza di Versace proprio con questa parola. Gianni amava il “bello”, in tutte le sue sfaccettature ed espressioni artistiche, una bellezza non omologata né costretta entro i imiti imposti da una morale bigotta; un senso di bellezza che andava oltre gli stereotipi, i pregiudizi, i luoghi comuni, senza tempo né confini, che guardava al futuro senza scordarsi del passato. Ecco allora la sua passione per il neoclassico e la Magna Grecia, ma anche per l’avanguardia, il futurismo ,il pop, che amava accostare e contrapporre, facendoli dialogare. Da queste premesse sono nate collezioni cult, come Bondage (autunno/inverno 1992-93) o Punk (primavera /estate 1994), quella dell’iconico abito con tagli laterali trattenuti da spilloni d’oro».

Versace top model
Marpessa, bozzetto di Bruno Gianesi

«Sono rimasto a lavorare per la maison dal 1984 al 1999», aggiunge. «Ho avuto la fortuna di vivere gli anni d’oro della moda, della vera creatività, delle top model e del glamour, ma soprattutto, stando accanto a Gianni, ho imparato ad amare l’arte e il teatro, ad avere una mente più aperta, a viaggiare per conoscere altri paesi e culture. Ho imparato ad avere una mente veloce, lui era sempre avanti, la sua curiosità per tutto quanto lo circondasse lo portava ad anticipare tendenze e mode; non era mai fermo, sempre pronto ad affrontare nuovi progetti e sfide. Con Gianni Versace non si faceva solo moda, ma arte e cultura, e questo proprio attraverso i lavori e le progettazioni degli spettacoli teatrali, nonché lo studio attento del passato, così da poterlo rivisitare in chiave moderna e contemporanea».

Linda Evangelista Versace
Linda Evangelista, bozzetto di Bruno Gianesi

Nell’immagine in apertura, un allestimento della mostra visto da Jacopo Ascari

Le migliori collezioni co-ed delle fashion week di Milano e Parigi

Terminato il tour de force del cosiddetto fashion month, si può cercare di mettere ordine nella messe di show autunno/inverno 2023-24 succedutisi, dal 10 febbraio in poi, sull’asse New York-Londra-Milano-Parigi, soffermandosi in particolare sulle sfilate co-ed che, mostrando nello stesso contesto menswear e womenswear, permettono di cogliere la visione d’insieme di un determinato brand. A fare la parte del leone, in questo senso, sono state – ça va sans dire – la città lombarda e la capitale francese, diverse spanne sopra le altre capitali modaiole per quantità e qualità dei défilé misti nei rispettivi calendari; ad attestarlo sono (anche) le collezioni uomo e donna seguenti, opera di venerate maison come Valentino, Ferragamo, Alexander McQueen.

Diesel

Diesel A/I 2023

Alimentando il poderoso repêchage che, dal suo arrivo alla corte del patron Renzo Rosso, ha riportato Diesel in cima ai desideri dei consumatori, con l’A/I 2023-24 della griffe Glenn Martens alza ancora l’asticella, dando fondo alla visionarietà irruenta che connota in profondità il suo lavoro; a testimoniarlo, plasticamente, la piramide rossa che svetta nell’enorme spazio del Superstudio Maxi, migliaia di scatole di profilattici Durex (con cui è in arrivo una capsule collection).
L’ode alla positività sessuale è servita, i look si adeguano al mood libertario, compiaciutamente edonistico della passerella, col designer belga che scatena la sua verve creativa. Non si può ridurre il tutto, però, al mero sensazionalismo, ad uso e consumo di chi assiste alla sfilata, perché le iperboli del direttore artistico s’intrecciano all’ottima manifattura dei capi, gli eccessi al fiuto commerciale per accessori che mandano in solluchero torme di fan, le sperimentazioni radicali alla perizia dei laboratori dell’azienda, abilissimi a trattare il denim; quest’ultimo è il materiale d’elezione della collezione, stressato in ogni modo possibile e immaginabile, fino ad assumere un’aria più che invecchiata, tra screpolature, graffi, candeggi, ombreggiature, chiazze, abrasioni ripetute che lo rendono tenue come carta velina, mostrando la pelle dell’indossatore (o indossatrice) di turno.

Sexiness, d’altro canto, è tra le parole chiave della stagione: i volumi sono ridotti e cascanti, tra maglie microscopiche, spacchi, pantaloni scesi sui fianchi, sottovesti tenute su alla meglio da graffe di metallo o catenelle; fanno eccezione i capispalla, autentiche tele bianche per il virtuosismo degli artigiani Diesel, che si sbriglia in ecopellicce ricondizionate, paletot in jersey lavorato per dare l’effetto della nappa craquelé, giubbotti dalle superfici plastificate o metallizzate, per non dire delle serigrafie che zoomano su volti sorridenti dal sapore posticcio, stampigliate nel finale sugli ensemble, ulteriore, sapido ingrediente del godibile pot-pourri di Martens.

Diesel A/I 2023 (ph. credits Diesel)

Ferragamo

Ferragamo A/I 2023


A capo, dal marzo 2022, dell’ufficio stile Ferragamo, con lo show A/I Maximilian Davis seguita a perfezionare la sua idea di una label che, nell’anno domini 2023, deve necessariamente dotarsi di un’identità stilistica forte, distinta, complementare al retaggio di un nome conosciuto ovunque per la pregevolezza di borse, calzature e foulard. Il punto di partenza, dunque, è il periodo di massimo splendore della casa toscana, dagli anni ‘30 ai ‘50, che coincide coi trascorsi hollywoodiani del capostipite Salvatore, il «calzolaio dei sogni» (s’intitola così la sua autobiografia, trasposta sul grande schermo, due anni fa, da Luca Guadagnino) che, nella mecca del cinema, trovò la definitiva consacrazione, guadagnandosi il favore del jet set, attrici della caratura di Marilyn Monroe o Sophia Loren in testa.
Davis ammette di subire il fascino della loro bellezza, del glamour che vuol «rendere moderno», ancorato al qui ed ora, perciò s’immerge negli archivi, in cerca degli articoli o temi più rappresentativi della legacy della maison (tra gli altri i carré, la Wanda bag, le forme a campana o cocoon della couture novecentesca, l’esotismo dei print di metà secolo, i monili in bachelite…), attualizzati dal suo tratto svelto, grafico, perentorio, volto ad asciugare e slanciare la figura.

Il lavoro è minuzioso, coinvolge svariati aspetti, dalle sfalsature causate da asimmetrie e tagli di sbieco all’utilizzo di materiali lucidi (lamé, vernice, resina) o tecnici (lana stretch, nylon), dagli intagli attraverso cui rivelare cromie a contrasto alle costruzioni rubate all’abbigliamento da moto, dalle cerniere che restringono o dilatano le proporzioni dell’outfit alle scarpe che, in dettagli quali i tacchi a spillo dal profilo angolare o la corda tressé, riprendono il lessico dei modelli introdotti dal founder. L’intera collezione si risolve, alla fine, in una – suggestiva – polarizzazione tra soavità e rigore, da un lato la grandeur dell’età d’oro di Hollywood, dall’altro un afflato futuribile, entrambi centrali nel nuovo corso di Ferragamo.

Ferragamo A/I 2023 (ph. courtesy of Ferragamo)

Off-White

Off-White A/I 2023

Dallo scorso maggio art and image director di Off-White, Ib Kamara, stylist di successo, amico e collaboratore di lunga data di Virgil Abloh, è stato chiamato al compito – per nulla agevole – di garantire continuità al prolifico opus del fondatore, scomparso prematuramente nel 2021, figura titanica del fashion contemporaneo, che ha cambiato in profondità abbattendo gli steccati tra lusso e streetwear, boutique e marciapiede, preziosità da atelier e subculture metropolitane.
Una sfida immane, eppure il creativo sierraleonese, dopo le incertezze del debutto, in cui si era limitato a perpetuare gli assiomi di stile del brand, mostra di poterla affrontare nel migliore dei modi, rinvigorendo la primigenia vena artisticheggiante dell’etichetta, in un détour ardimentoso tra effettismo e giocosità, linearità e guizzi visivamente accattivanti.

L’atmosfera al Tennis Club de Paris è lunare, nel vero senso del termine, perché, come a segnare idealmente un nuovo inizio, il direttore artistico immagina un viaggio sul nostro satellite, evocato dai cumuli di terra rossiccia che attorniano la sfera riflettente al centro del setting, da cui sbucano modelle e modelli bardati con tenute parecchio elaborate, in bilico tra sci-fi e utilitarismo.
Le silhouette, tese e puntute, si smussano via via; a strutturarle provvedono zip (che corrono sui pantaloni, sostituiscono gli orli, fendono cargo e giacche), pannelli, cinghie, coulisse, imbracature reali (perfette per accogliere borse di ogni tipo e dimensione) o dissimulate dai trompe l’oiel, come pure le tracce degli pneumatici, usati anche a mo’ di ready made duchampiano per sagomare orecchini o bracciali fuori scala. Richiama la luna, il suo paesaggio colmo di crateri e asperità, pure l’infilzata di oblò, squarci, forature distribuita nelle 56 uscite, per non dire delle file di occhielli metallici, dispiegati in lungo e in largo sulle superfici.
L’ispirazione spaziale trova degna espressione nella tavolozza cromatica, che passa dai toni baluginanti dell’argento, ghiaccio e celeste alle sfumature pastose del sabbia, ocra, beige, khaki; queste ultime, in realtà, evocano i colori caldi, arsi dal sole, dell’Africa occidentale in cui è nato e cresciuto Kamara, che, pur conscio della statura ineguagliabile di Abloh («poteva esserci un solo Virgil», riconosce), sembra determinato a dare il suo contributo alla crescita di una griffe che, ne è certo, saprà «reinventarsi e resistere alla prova del tempo».

Off-White A/I 2023 (ph. credits Off-White™)

Andreas Kronthaler for Vivienne Westwood

Andreas Kronthaler for Vivienne Westwood A/I 2023

Data la scomparsa, neppure tre mesi fa, di Vivienne Westwood, tra i défilé più attesi della fashion week parigina non poteva non esserci quello del marchio eponimo, disegnato già dal 2016 da Andreas Kronthaler. Il marito, suo ex allievo e delfino, ha preparato per Dame Viv un tributo toccante, sotto forma di una struggente lettera, lasciata sulle sedute degli ospiti, in cui versi d’amore («sei stata la mia ragione, tutto ciò che ho fatto l’ho fatto per te», scrive) si confondono con la lode alla sua immensa eredità creativa; e poi, in pedana, di un compendio ragionato – e aggiornato – dei leitmotiv che hanno garantito gloria imperitura al brand, frammisti in una panoplia di ensemble dai mille colori e riferimenti, che annulla le differenze di genere, vestendo le donne da uomini e viceversa.

Ci sono dunque leggings dai motivi pittorici, sovrapposizioni e drappeggi intricati, gonnelloni a campana, stampe tappezzeria, rigidi tweed so british, tartan a non finire, mashup di fantasie e tonalità, accumuli di stoffe finemente lavorate («tessuti antichi, raccolti per dar loro nuova vita», recita il comunicato); ancora, giubbe, fiocchi, jabot e altri vessilli dell’estetica new romantic (saccheggiata varie volte dalla stilista inglese, in particolare per le memorabili collezioni degli Eighties) come pure corsetti, pizzi, balze, panier e tutto l’armamentario della femminilità più svenevole, passé, che lei seppe prodigiosamente tramutare in pezzi statement, assertivi e desiderabili, alla stessa maniera delle gigantesche platform, al limite della calzabilità, che fecero soccombere sul catwalk persino Naomi Campbell, o delle zeppe Rocking Horse, entrambe riproposte in varianti inedite. Fino al gran finale, con la nipote di Westwood, Cora Corré, avvolta in un robe-bustier di pizzo operato, virginale e impudente in egual misura. Abbraccia Kronthaler, visibilmente commosso, applaudito da un parterre all star che vede in prima fila Jared Leto, Halsey, Jean-Paul Gaultier, Julia Fox, accorsi al magniloquente Hôtel de la Marine, affacciato su Place de la Concorde, per un ultimo, sentito omaggio alla signora del punk.

Andreas Kronthaler for Vivienne Westwood (ph. courtesy of Vivienne Westwood)

Alexander McQueen

Alexander McQueen sfilata 2023
Alexander McQueen A/I 2023 (ph. by Chloé Le Drezen)

Al rientro nella ville lumière dopo le sortite a Londra e New York dell’ultimo triennio, per l’A/I di Alexander McQueen Sarah Burton decide di tornare ai fondamentali, a una parte forse meno nota, ma basilare, dell’operato del suo mentore e predecessore, che mosse i primi passi come apprendista a Savile Row, tempio dell’eleganza maschile made to measure. Già il titolo della sfilata, Anatomy, è una dichiarazione d’intenti, lascia supporre che a dominare la passerella sarà uno studio approfondito del vestire, dei suoi rudimenti (ovvero «sartoria, tessuti sartoriali, attenzione al taglio, alle proporzioni e alla figura», puntualizza lei), ed è effettivamente così. Non vi è traccia, tuttavia, di conservatorismo, né volontà di indottrinare chi guarda sui principi aurei del tailoring, l’obiettivo è invece «upside down», sovvertire il classico. Vaste programme, ma Burton è stata l’ombra del compianto Lee, ne ha assorbito le tecniche, il metodo, la tensione costante all’eccellenza, da raggiungere attraverso la confezione a regola d’arte del capo, può quindi permettersi una lectio magistralis sulle infinite potenzialità della sartoria.
Sulla passerella si materializzano silhouette verticalizzate, un secco tratto di matita ispessito dai volumi potenti, affilati, che di look in look si fanno più scolpiti, tra la solidità delle spalle, affilate come rasoi, e la robustezza delle calzature, che fa il paio con quella dei preziosi bold, pendenti, anelli e collane dai riflessi argentei o dorati.

Nel menswear, le linee filanti di jumpsuit, soprabiti e completi sagomati dialogano con le svasature dei pants, mai troppo aderenti, il cappottone tagliato a uovo con l’appiombo perfetto della giacca, l’opacità di filati quali lana, cotone, gabardine e maglia con la lucentezza della nappa, usata in abbondanza, i pattern della tradizione brit, su tutti gessato e pied-de-poule, coi top filamentosi simil-corazza, rifulgenti di paillettes. A disturbare l’imperio cromatico di nero e bianco, qualche stampa dégradé (ingrandimenti di orchidee) e le nuance sature del rosso e viola, anch’esse funzionali a un racconto che, per proiettare il marchio nel futuro, ne rinverdisce con acribia il passato.

Alexander McQueen A/I 2023 (ph. credits Alexander McQueen)

Valentino

Valentino Black Tie
Valentino A/I 2023 (ph. credits Valentino)

Saldo come non mai al timone creativo di Valentino, Pierpaolo Piccioli prosegue, con la destrezza e l’acume propri del couturier di razza, il percorso di risignificazione dei codici della maison avviato qualche stagione or sono, che gli ha permesso di conferire loro valori inediti, oltremodo attuali.
L’ennesima prova d’autore del designer romano, ospitata dai saloni ovattati, tutti stucchi e dorature, dell’hôtel particulier Salomon de Rothschild, si foggia sul Black Tie del titolo, da intendersi non solo nell’accezione letterale di “cravatta nera”, ma anche in quella di dress code massimamente elegante, richiesto per cene di gala, premiazioni, eventi in odore di “solennità”. Bisogna poi dire che, nel generale laissez faire che attanaglia l’abbigliamento formale, legare al collo una striscia di stoffa può risultare paradossalmente un gesto di rottura, anziché il cedimento a una leziosaggine superflua, antidiluviana, com’è ritenuta da un numero sempre maggiore di uomini.
Terreno fertile, comunque, per la sensibilità in materia di Piccioli, specializzatosi da tempo nell’attribuire nuovi, (potenzialmente) dirompenti contenuti semantici a indumenti, categorie, perfino colori (vedasi alla voce Pink PP). Il filo rosso che attraversa il guardaroba stagionale (intercambiabile, le mise di lei e lui sono sostanzialmente identiche), una teoria di coat, camicie, pullover, blouson & Co., è rappresentato pertanto dalle cravatte, onnipresenti, punto focale di outfit dall’esattezza adamantina, con shape in teoria antitetiche (soprabiti extra-lunghi e shorts esigui, caban dalla linea boxy e pantaloni smilzi, orli che lambiscono il pavimento e blazer sforbiciati sull’addome…) bilanciate alla perfezione.
A scalfire la precisione euclidea dell’insieme, col tocco punkish associato ormai indelebilmente a Valentino, le borchie coniche, che listano gli accessori, dalle suole dei boots lucidi ai manici delle borse, e i gioielli per il viso, piercing, ear cuff, cerchietti da apporre su labbra o naso, mentre la palette si riduce a poche, simboliche cromie, oltre alla combo black & white lo speciale rouge del marchio, il giallo, l’azzurro, il verde vivo.

Per ribadire l’assenza di qualsivoglia formalità, saltano tutte le distinzioni, comprese quelle tra maschile e femminile, daywear ed eveningwear; lo scopo, mette in chiaro il creative director, è «arrivare a un’uniforme che evidenzia le differenze, pronta per essere trasformata in un look personale. Anche perché credo sia necessario che il fashion crei delle ossessioni»; come quella, magnifica, di Piccioli per la moda, con la M rigorosamente maiuscola.

Valentino A/I 2023 (ph. credits Valentino)

Nell’immagine in apertura, il finale della sfilata Valentino A/I 2023-24 (ph. dal sito valentino.com)

Sanremo 2023, le anticipazioni sugli outfit dei big

Il countdown per Sanremo 2023 sta per terminare e, parallelamente, monta la curiosità per gli abiti che sfoggeranno i big in gara alla 73esima edizione del Festival. Da quando, in maniera un po’ inaspettata, il Teatro Ariston si è trasformato in una poderosa ribalta modaiola, con i look dei cantanti passati ai raggi X, in presa diretta, sui social, il “chi veste cosa” è infatti un genere a sé, dominato dagli stylist, autentici deus ex machina dai quali dipende la riuscita – o meno – della tenuta festivaliera di turno. A loro si affidano tutti, titani della canzone italica e giovani promesse in cerca del riconoscimento definitivo, ed è perciò naturale che siano figure come Lorenzo Posocco, Nick Cerioni o Simone Furlan a fornire indicazioni o, semplicemente, indizi sulle mise che, da martedì 7 a sabato 11 febbraio, alimenteranno il buzz mediatico intorno alla kermesse nazionalpopolare par définition.

La parola agli stylist, dominus dell’estetica sanremese

Il primo, ad esempio, già artefice degli outfit ad alto tasso di spettacolarità di Dua Lipa, incoronato dall’Hollywood Reporter nel 2019 «stylist più influente della musica», seguirà quest’anno Elodie, Marco Mengoni e Ariete. Nessuna certezza sui brand scelti per l’autrice di Tribale e il superfavorito della vigilia, né per quelli della 20enne cantante romana, sebbene siano gettonate, per Elodie e Mengoni, le ipotesi Versace (entrambi, alla finale di Sanremo Giovani dello scorso dicembre, hanno sfoderato capi della Medusa) e Valentino, per Ariete The Attico.

Cerioni, tra gli antesignani della professione, responsabile dello stile on stage di svariate celebrità musicali, da Jovanotti a Laura Pausini, curerà gli ensemble di Paola & Chiara (le indiscrezioni le vogliono in Dolce&Gabbana) e Tananai. Fa invece dei nomi Furlan, in quest’occasione al fianco di Mara Sattei (che, rivela in un’intervista a Fanpage, «indosserà un brand di alta moda per tutte le serate, sul palco vedremo momenti di sartorialità assoluta, un lavoro molto elegante e sofisticato»), Lazza (vestirà Missoni, con abiti disegnati appositamente per lui dal creative director Filippo Grazioli, «un mix tra l’identità di questo storico marchio e la sua, più street, hip hop, trap, legata a un certo tipo di immaginario») e Madame, che attraverso gli abbinamenti «concettuali» di Off-White «racconterà la storia di un personaggio che trova la forza in sé e diventa qualcos’altro».

Il mix sul palco dell’Ariston, tra suggestioni punk, simboli del made in Italy, label di nicchia

Giorgia Cantarini, mente creativa dietro i look sanremesi dei Coma_Cose, anticipa che il duo si presenterà sul palco dell’Ariston in Vivienne Westwood, con pezzi sartoriali dal gusto punk e british, tipici della griffe. La collaborazione è nata dal desiderio di omaggiare la leggendaria stilista britannica, recentemente scomparsa, «un mito senza tempo» secondo Fausto Zanardelli e Francesca Mesiano, che si dicono «onorati di andare a Sanremo con la sua moda. Oltre alla bellezza dei suoi abiti, ci ha sempre affascinato il suo essere anti-establishment e controcorrente, i messaggi sociali e culturali che ha voluto diffondere con il suo lavoro».

Coma Cose Sanremo 2023
I Coma_Cose in Vivienne Westwood (foto Attilio Cusani, styling Giorgia Cantarini, grooming Greta Ceccotti, ph. courtesy of Vivienne Westwood)

Rosa Chemical, seguito da Simone Folli, in Moschino sia sul red carpet iniziale che nelle serate successive, manterrà anche nel vestiario l’approccio dissacratorio che lo caratterizza musicalmente. Jeremy Scott, direttore artistico della maison, ha curato ogni dettaglio, con l’obiettivo di creare una sinergia tra i singoli capi e il brano Made in Italy, un inno alla libertà e all’accettazione, destrutturando i classici della sartoria maschile per infondergli un’allure inedita, distintiva, di forte impatto visivo e simbolico.
Non solo grandi maison sugli schermi Rai, però, gli esordienti Olly e Sethu, ad esempio, si affideranno alla creatività irruenta, scevra da schemi e preconcetti, di – rispettivamente – Çanaku e JordanLuca.

Moschino Rosa Chemical
Il bozzetto di un look disegnato da Moschino per Rosa Chemical (ph. courtesy of Moschino)

Le scelte dei big, da Blanco a Giorgia

La rentrée di Anna Oxa, al suo 15esimo Sanremo, dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – essere accompagnata dalle creazioni di Dolce&Gabbana, che grifferà le mise di un altro pezzo da novanta, Blanco, tra gli ospiti d’onore dopo l’exploit del 2022 con Brividi. Nessuna certezza neppure per Giorgia, che stando ai rumor dovrebbe optare per Dior.
Sebbene non ci siano conferme ufficiali, si dà tuttavia per scontato, vista l’intesa duratura tra i due, che a vestire per il Festival Levante sarà l’amico Marco De Vincenzo, oggi al timone di Etro.

Gianluca Grignani, altro frequentatore abituale della manifestazione, fedele alla tempra da irregolare che ne ha segnato ascese e cadute, sfoggerà i completi dal flavour rockeggiante di John Richmond. Non sarebbe Sanremo, poi, senza re Giorgio: ad indossare le ultime proposte della sua Emporio Armani saranno Leo Gassmann, gIANMARIA e, a quanto pare, Ultimo.

Meritano un cenno, infine, gli outfit dei conduttori: Amadeus, al solito, ricorrerà agli smoking di Gai Mattiolo, amico di famiglia, Gianni Morandi, con tutta probabilità, a quelli di un nome simbolo della moda tricolore (Armani?), la co-host più attesa, Chiara Ferragni, come abbondantemente preannunciato a mezzo Instagram, alternerà Dior e Schiaparelli. La gara (anche) vestimentaria può cominciare.

Nell’immagine in apertura, i Coma_Cose in Vivienne Westwood (foto Attilio Cusani, styling Giorgia Cantarini, grooming Greta Ceccotti, ph. courtesy of Vivienne Westwood)

Sestini, l’eyewear che combina ricercatezza e sostenibilità

Nonostante i numeri (quasi 490mila follower su Instagram) lo classifichino inequivocabilmente come tale, Carlo Sestini, fiorentino 29enne, sguardo di ghiaccio, charme d’altri tempi e affabilità da vendere, è un influencer per molti aspetti atipico. Di nobile lignaggio (la sua è una storica famiglia aristocratica toscana), studi in diplomazia e diritto internazionale a Londra, pacato, cortese, sfugge i facili cliché sulla categoria; anche sui social, non si segnala certo per l’iperattivismo osteso dalla maggior parte dei “colleghi”, piuttosto sembra attenersi al precetto latino del cum grano salis.

Carlo Sestini 2023
Carlo Sestini (ph. courtesy of Sestini)

Dopo aver collaborato con i pesi massimi della moda, da Dolce&Gabbana a Dior, da Versace a Canali, due anni fa decide di dedicarsi al pallino di sempre, l’occhialeria, ma anziché limitarsi ad apporre la firma sull’accessorio bell’e finito di un brand X, avvia la propria start-up, per seguire da vicino ogni passaggio della realizzazione, dall’ideazione dell’occhiale all’astuccio che lo contiene. Il risultato è il marchio che porta il suo nome, Sestini, montature luxury che sposano le ferree convinzioni del fondatore in tema di circolarità ed etica, rispolverando alla bisogna il sempreverde “meno, ma meglio”. Gli acetati provengono dai magazzini di produttori specializzati, la plastica di custodie e panni per le lenti è riciclata, imballaggi e spedizioni sono a emissione zero in quanto, per ogni nuovo paio, viene piantato un albero, in collaborazione con l’organizzazione One Tree Planted.
Lui, d’altro canto, ritiene i sunglasses un accessorio «necessario, non un effimero “it” o “must have” del momento»; l’ambizione, per converso, è ottenere «un’immagine classica, senza tempo, per occhiali made in Italy sostenibili, da tenere e usare tutta la vita».

Una start-up che ha già convinto i buyer di prestigiose boutique e department store

La seconda collezione, “Gloriosa”, è stata presentata qualche settimana fa, nel pieno della fashion week maschile di Milano, nella cornice pregevole e però intima, raccolta, di una suite dell’hotel Principe di Savoia. Perfetto anfitrione, Sestini si aggirava fra i tavoli con impilate le novità della griffe, un ventaglio di colorazioni e silhouette considerevole, a suggellare l’evoluzione di una realtà giovane ma seguita con attenzione dai buyer, già approdata, infatti, in boutique, department store e hotel blasonati.

Carlo Sestini brand
Il laboratorio dove vengono realizzati – a mano – gli occhiali firmati Sestini (ph. courtesy of Sestini)

«Per il debutto nella settimana della moda milanese – dichiara l’imprenditore e founder – ho pensato a una proposta audace»; il packaging è rinnovato (in chiave green, ça va sans dire), i modelli «senza loghi, perché mi piace pensare che il focus di chi indossa i miei occhiali da sole siano le persone».
Osservando le montature esposte, il pensiero corre subito ai fuoriclasse del cinema che fu, utilizzatori seriali che hanno sancito l’immortalità dell’equazione divo/a del grande schermo uguale occhiali inforcati accaventiquattro. Si fanno i nomi di Rodolfo Valentino, Elizabeth Taylor, Marcello Mastroianni, Stanley Kubrick, Sergio Leone. Il coté cinematografico, tuttavia, è solo uno dei pilastri della label, come si evince dalle risposte fornite da Carlo Sestini alle domande di MANINTOWN.

“Ho voluto creare degli stili timeless, senza inseguire mode e tendenze”

Quali sono i i tratti distintivi del marchio?

Qualità, artigianalità, sostenibilità, unicità. Ogni occhiale è creato in Italia a mano da un maestro artigiano, usando esclusivamente materiali recuperati dagli archivi di aziende italiane produttrici di acetato.
Ho voluto creare degli stili timeless, senza inseguire mode e tendenze, per questo ho scelto di non utilizzare loghi; a mio avviso, la personalità e lo stile di una persona non vengono definiti dalle etichette. Mi piace pensare che il focus di chi indossa i miei occhiali da sole siano le persone. Il volto è al centro della scena, non il brand e, anche se gli occhi sono schermati, la personalità di chi li sceglie dev’essere protagonista.
L’attenzione all’artigianalità, unita all’uso di tecniche all’avanguardia, fa di Sestini una collezione pregiata, luxury ma senza ostentazione, estremamente contemporanea nella sua predilezione per un gusto vintage.
Il design è essenziale ma ricco di dettagli: i telai sono realizzati a mano in quantità limitate, nessuno stile viene riprodotto una volta esaurito il lotto originale. Ogni paio è numerato, per ricordare a chi li indossa l’unicità del manufatto. Le lenti Carl Zeiss sono utilizzate su tutti gli occhiali, per garantire il massimo livello di protezione dai raggi UV.

Carlo Sestini occhiali da sole
Un occhiale da sole della nuova collezione Sestini (ph. courtesy of Sestini)

“Il tema della sostenibilità è fondamentale, l’ho affrontato a 360 gradi”

Sestini è fortemente improntato alla sostenibilità, sotto quest’aspetto come si concretizza l’impegno green dell’azienda? 

Il tema per me è fondamentale, l’ho affrontato a 360 gradi. I materiali usati sono interamente ecologici, a partire dalla confezione, progettata pensando alla totale funzionalità e sostenibilità della stessa. Ogni occhiale viene infatti proposto in un contenitore di pelle vegana, una custodia in seta riciclata, un panno per lenti in plastica riciclata, un biglietto di ringraziamento e un opuscolo in carta biodegradabile.
Nulla è lasciato al caso. Tutte le emissioni di carbonio delle spedizioni commerciali e dei clienti sono state compensate, aderendo al programma UPS Carbon Neutral Shipment, che permette di compensare l’impatto climatico delle operazioni. Sestini pianta, inoltre, un albero per ogni paio di montature venduto tramite One Tree Planted, un grande programma di riforestazione mondiale.

Carlo Sestini brand
Ph. courtesy of Sestini

Cosa caratterizza l’ultima collezione in termini di modelli, colori, ispirazioni…? 

Ho voluto omaggiare le star del cinema, reinterpretando le forme vintage più belle. I grandi nomi del settore, attori o registi, rappresentano a mio avviso un’eleganza aspirazionale che vorrei trasferire ai giovani, ovviamente lasciando loro totale libertà espressiva.
Potrei dire che la bellezza è la mia primaria fonte d’ispirazione; in particolare quella della mia terra, la Toscana, che ti travolge con la sua arte, cultura e natura.

“La mia mission è creare un vero e proprio lifestyle”

I riscontri ottenuti finora dagli addetti ai lavori sono lusinghieri, quali sono i prossimi passi? Novità o sorprese in arrivo di cui puoi anticiparci qualcosa? 

Sono molto soddisfatto dello sviluppo di Sestini, calcolando che si tratta pur sempre di una start-up. Dal lancio della prima collezione nel 2020, ho stretto collaborazioni con Eden Rock St. Barth, The Dorchester, Modes, LuisaViaRoma. Oggi siamo venduti da Level Shoes a Dubai, Harvey Nichols Riyadh, Galeries Lafayettes Doha, Modes Milano e Sankt Moritz, Curio at Faena Bazaar (Miami), Esmeralda in Sardegna.
Per carattere, tuttavia, non mi accontento mai e continuo a guardare avanti, cercando nuove sfide e traguardi. A livello distributivo, sicuramente l’obiettivo più strategico è l’ingresso nel mercato asiatico.
La mia mission è creare un vero e proprio lifestyle, inserendo nuove brand extension come, per esempio, le 300 bottiglie di vino che ho recentemente lanciato (un omaggio, non in vendita), a breve si potranno trovare in esclusiva… Ma non voglio svelare troppo!
Concludo con un ultimo pensiero, per me importante: mi piacerebbe essere considerato un giovane imprenditore che ha dato via a un progetto serio e coerente, aprendo la strada a una nuova generazione di giovani businessmen liberi e interessanti agli occhi dei player. Ho ancora tanto da fare, siamo solo all’inizio.

Sestini brand
Ph. courtesy of Sestini

Sestini sunglasses
Ph. courtesy of Sestini

Nell’immagine in apertura, un ritratto del fondatore e imprenditore digitale Carlo Sestini (ph. courtesy of Sestini)

Maison storiche, designer orientali, collettivi: il melting pot della PFW A/I 2023

A prescindere da durata (sei giorni scarsi) e numeri relativamente modesti, se paragonati a quelli della manifestazione gemella riservata al prêt-à-porter donna, la Paris Fashion Week Men’s è pur sempre un formidabile barometro, un indicatore delle direzioni che prenderà la moda pour homme da qui ai prossimi mesi. Tanto più che l’edizione Autunno/Inverno 2023-24, chiusa il 22 gennaio da Maison Margiela, ha registrato il rientro all’ovile di alcuni nomi eccellenti, dalla label belga (guidata da quel geniaccio di John Galliano), appunto, al menswear di Saint Laurent, nuovamente nella Ville Lumière dopo un lustro di peregrinazioni ai quattro angoli del pianeta, dal comeback – col format della presentazione – di Berluti, Ziggy Chen e Uniforme, a quello in passerella di brand come White Mountaineering, Sacai, Wales Bonner o Bode, che negli ultimi tempi avevano optato per show digitali.
Poi si sa, la capitale transalpina è la mecca del fashion, suona dunque persino ovvio ribadire, adattando la nota massima di Enrico IV di Francia, che Parigi val bene una gallery dei défilé, magari quelli seguenti.

Issey Miyake

Homme Plissé Issey Miyake A/I 2023

Inverando, per l’ennesima volta, il pensiero fondante del lavoro di Issey Miyake, modellato sulla pregnanza assoluta del design («è per la vita», ricordava lui), l’ufficio stile dell’etichetta Homme Plissé fa di un mirabile ossimoro, quello della semplicità complessa, l’asse portante della sfilata A/I 2023. Triangoli, cerchi, rettangoli e altre figure geometriche basilari costituiscono, infatti, le fondamenta sulle quali edificare silhouette diversificate, a raggio, dritte, arcuate e longilinee e cilindriche, mai banali, quasi sempre, per giunta, modificabili ad libitum grazie alla presenza di accorgimenti come bottoni a pressione, cordini regolabili, cinghie.

Backstage, ph. by Anthony Pomes (skin prep and make-up: Shiseido)

Nel Palais de Tokyo, trasfigurato dalla videoinstallazione della compagnia Adrien M & Claire B in un ambiente dove le percezioni risultano sfocate, s’incalzano le linee di cui consta l’offerta complessiva della griffe, come tante collezioni nella collezione, a cominciare dalla Monthly Color July, abiti in colori pieni, carichi, associati a toni smorzati (verde prato col panna, viola col bianco, arancione col senape…), e dai tagli smussati, con le plissettature che s’irradiano dal collo alle spalle, tracciando shape tubolari. Quindi gli Edge Coat, capispalla grafici; Skew Grid, outerwear, gilet e pants solcati da griglie in nuance chiare adagiate su fondi scuri, che ingannano l’occhio; le sovrapposizioni, personalizzabili tramite le abbottonature, di Unfold; infine, le formazioni esagonali di Three by Six e le fantasie optical di Triangular Grid, ispirate all’architettura di Richard Buckminster Fuller, sequenze di triangoli stampati dalle dimensioni scalari, per conferire tridimensionalità alle texture.
Un amalgama di geometrie indossabili, che riunisce nella stessa cornice, aggiornandoli, gli insegnamenti più preziosi del maestro giapponese, scomparso nell’agosto del 2022. Le immagini del fotografo Anthony Pomes consentono di apprezzarle al meglio.

Homme Plissé Issey Miyake A/I 2023, ph. by Anthony Pomes

Juun.J

Juun.J brand
Juun.J A/I 2023 (ph. courtesy of Juun.J)

Dopo tre anni di presentazioni digitali, lo stilista sudcoreano Jung Wook Jun, mente creativa di Juun.J, sfila in modalità co-ed all’Institut du Monde Arabe, nel V arrondissement. Il titolo – programmatico – della collezione A/I 2023 è Broken, una trasposizione nel prêt-à-porter dei tropi punk-rock, mirando a insufflare un che di nuovo, di – atipicamente – lussuoso in vestiti vecchi, malconci, afferibili al mondo militare, biker o workwear.
I modelli marciano spediti nella venue parzialmente illuminata, sorretta da alti pilastri; sono infagottati in mise corpulente, tutte cerniere e fibbie penzole, dai volumi sotto steroidi, strascicati, estesi a dismisura, oppure ridotti all’osso (esemplari, in tal senso, i top femminili, esili triangoli che coprono a malapena il seno). I fondamentali dell’estetica da motociclista, utilitaristica o army ci sono tutti, dal chiodo di pelle (opaca, dall’aria vissuta) ai giubbotti aviator in montone rovesciato, dalla maxi felpa col cappuccio al jeans, e assumono sovente conformazioni inaspettate, vedi il perfecto o la shearling jacket che si allungano fino a diventare abiti con la coda.
Lo styling deraglia volentieri in stratificazioni selvagge, per cui il cappottone va sul total denim (pieno di squarci, ovviamente), il bomber foderato sul completo délabré, la giacca tuxedo sulla minigonna in nappa. La tavolozza parca, notturna di neri, blu, marroni e verdi, come gli accessori (sacche, collari e bracciali irti di spuntoni metallici), si accordano al tono duro, spilogoso che ammanta lo show, una silloge di twist inaspettati per «superare i confini dei nostri capi signature», chiosa il direttore artistico.

Juun.J A/I 2023 (ph. courtesy of Juun.J)

Dior Men

Dior Men 2023
Dior Men A/I 2023 (ph. courtesy of Dior)

Saldamente al timone del menswear della casa, Kim Jones ha acquisito piena padronanza dell’heritage maestoso, ma talvolta ingombrante, di quel potentato della moda che è Dior. Può permettersi perfino di scomodare l’allievo più eminente del fondatore, Yves Saint Laurent, che gli succedette appena 21enne nel 1957 e subito ringiovanì il figurino principesco, ultra-bourgeois che aveva consacrato la griffe.
La parola chiave è dinamismo, lo stesso che marcò le passerelle del giovane Saint Laurent, e qui fa rima con fluidità, movimento, facilità. Le correnti, citate nelle note stampa, del Tamigi e della Senna (il designer, londinese doc, fa la spola tra la sua città e Parigi) si prestano al parallelismo col concetto di scioltezza, di suprema noncuranza intrinseca al je ne sais quoi, assunto fondativo dello stile parigino; viene adeguatamente distillato nei 60 look dell’A/I 2023, nelle forme dei calzoni, illiquidite, nei nastri, che oscillano a ogni passo, nella soavità degli ornamenti, coi filati irrorati di trapuntature, embroderies, perle che tradiscono la sbalorditiva abilità degli atelier.

Un’uscita dopo l’altra, prende corpo una miscela equilibrata di abbigliamento sportivo (parka, smanicati, cappelli a secchiello, bermuda, stivali glossy al polpaccio) ed estrema sofisticazione, affettazioni da dandy uso al bespoke e volumi svelti, grisaglie e nylon. Tutto, comunque, parla di Monsieur Christian e di chi ne ha proseguito l’operato nei decenni: i mughetti (fiore che lui considerava un portafortuna) ricamati sul golf, il monogramma Dior Oblique, le maglie a righe marinare, i revers delle giacche ripiegati verso l’interno, le cromie neutre, pastose. Una sintesi appropriata della collezione la fornisce lo stesso Jones, parlando di «idea della semplicità che si sente ovunque, dietro la precisione e la complessità di queste creazioni». Massima immediatezza, dunque, pur nella laboriosità dell’esecuzione: what else?

Dior Men A/I 2023 (ph. ©Morgan O’Donovan)

Sankuanz

Sankuanz brand
Sankuanz A/I 2023 (ph. courtesy of Sankuanz)

Una sinfonia in nero, notturna, minacciosa, battezza il catwalk Sankuanz, brand del creativo cinese Shangguan Zhe che, già nel 2013, si è dato la missione di provare come moda “alta” e street style possano e anzi, debbano coesistere, arricchendosi reciprocamente. Poi irrompono i baluginii dell’argento, il rosso torbido delle clutch, i drappeggi tortuosi dei dress aderenti da femme fatale, i profili acuminati di borchie coniche e pugnali (questi ultimi una sorta di trademark del marchio), a decorare cinture, tracolle delle borse, tacchi dei boots a punta. L’ispirazione è dichiaratamente noir: il creative director raggruppa una banda di vedove nere e assassini dallo sguardo torvo, minacciosi, sinistri eppure, in qualche modo, branché.
Shangguan calca sull’accrochage tra ready-to-wear ed estetica stradaiola di cui sopra, assemblando senza soluzione di continuità sneakers massicce e rielaborazioni delle vesti tibetane, camouflage e scollature da vamp, tutoni e orli frastagliati, l’allure sostenuta delle spalle da power suit e il caos cromatico dei graffiti che, a un certo punto, inondano gli outfit, alla ricerca di un equilibrio – precario, inevitabilmente – tra gli opposti.

Sankuanz A/I 2023 (ph. courtesy of Sankuanz)

At.Kollektive

La PFW, storicamente, dà spazio anche ai nuovi attori del settore, garantendo loro una visibilità che non teme confronti. È il caso di At.Kollektive, progetto voluto da ECCO Leather, azienda all’avanguardia nella lavorazione dei pellami: una – virtuosa – piattaforma di scambio tra artigiani e designer, con il know-how dei primi, esperti nei trattamenti più innovativi della pelle, messo a disposizione dell’inventiva dei secondi. I capi della Season 2, presentata durante la fashion week e raccontata visivamente dagli scatti di Drew Vickers, portano la firma di un quartetto d’assi, Natacha Ramsay-Levi, Isaac Reina, Kostas Murkudis e Bianca Saunders.
L’ex direttrice artistica di Chloé ripensa articoli quali stivali, trainers, borse, top e camicie, in un pastiche sintetizzato in maniera incisiva dalle stampe accese di Tchane Okuyan. Reina, da parte sua, sfida le capacità dei laboratori aziendali, rinuncia per quanto possibile alle cuciture e lavora sulle singole pezze, discostandosi dalle silhouette pure, lineari per cui è noto. Nasce dall’affastellarsi di forme curve e spinte contrapposte (Borromini, il punk, scorci della Repubblica Democratica Tedesca, car design), invece, la collezione di Murkudis, estremamente personale pure nella colour palette di grigi, rosa e blu “industriali”.
Chiude il cerchio Bianca Saunders, wunderkind della moda britannica, che sceglie di valorizzare le qualità naturali del materiale, in primis malleabilità e resistenza, per «esplorare tutte le sfaccettature della morbidezza, della bellezza e del movimento della pelle».

Nell’immagine in apertura, il finale della sfilata Dior Men A/I 2023-24 (ph. ©Adrien Dirand, courtesy of Dior)

Milano Fashion Week A/I 2023: debutti, conferme e nuovi protagonisti del menswear

Inossidabili del made in Italy, “outsider” pronti a raccogliere il testimone dai big storici, orde di fan adoranti davanti alla Fondazione Prada, in visibilio per gli Enhypen, i magnifici sette – a quanto pare – del K-pop. Ristretta nei tempi (quattro giornate effettive di défilé/presentazioni, con gli show digitali a chiudere il calendario) ma intensa, la fashion week meneghina, appena terminata, ci consegna una discreta quantità di insight sulla moda uomo Autunno/Inverno 2023-24; da esaminare singolarmente, caso per caso, anche attraverso i disegni di Jacopo Ascari, che ha interpretato per MANINTOWN gli outfit di alcune delle principali maison.

Gucci 

Gucci autunno inverno 2023
Un look della collezione Gucci A/I 2023 (artwork by Jacopo Ascari)

Dopo il terremoto dello scorso novembre, col divorzio tra Gucci e Alessandro Michele, era scontato che la sfilata più attesa fosse quella del marchio fiorentino, orfano del demiurgo che ne ha (ri)plasmato l’identità a suo piacimento, dando fondo a una visionarietà randomica, pantagruelica, capace di unire Rinascimento e cyberpunk, pomposità da vecchia Hollywood e hippismo, trine e BDSM.

Un esercizio di sintesi complicato, che rasenta l’impossibile, infatti il team interno che per ora lo sostituisce se ne tiene alla larga, mantenendo sì qualche cardine della sua estetica passatista (le forme liquide di blazer, pantaloni con la piega e capispalla di derivazione ‘70s, la predilezione per le tonalità pastello, versioni rivedute e corrette dei tormentoni introdotti dallo stilista romano, come la borsa Dionysus, qui ampia e destrutturata, o le slipper Princetown, l’utilizzo – contenuto – del monogramma, che infittisce il canvas d’archivio Crystal GG), mescolato a lessemi del vocabolario gucciano desunti dal passato (ad esempio le chiusure a pistone della valigeria, volute da Tom Ford, o l’abbigliamento biker e il denim delavé, tra i bestseller dell’azienda all’inizio del millennio), ma asciugando sensibilmente uno styling che, da otto anni, procedeva per accumulo, per stratificazioni.
La prova, nel complesso, risente della mancanza di una direzione univoca, aggregatrice, trattandosi però di una collezione di transizione è giusto sospendere il giudizio, in attesa della nomina del successore di Michele.

Gucci A/I 2023-24 (ph. courtesy of Gucci)

Dolce&Gabbana

Dolce e Gabbana autunno inverno 2023
Dolce&Gabbana A/I 2023 (artwork by Jacopo Ascari)

Archiviato il more is more che aveva caratterizzato le ultime passerelle del brand, con l’A/I 2023-24 Dolce&Gabbana cambia drasticamente rotta, centrandosi sull’essenziale o meglio, sull’Essenza (titolo della show) del menswear poiché, argomentano Domenico Dolce e Stefano Gabbana, «avevamo voglia di tornare al Dna, abbiamo tutti gli occhi così pieni di immagini che ci siam detti “facciamo ciò che siamo, togliendo tutto”». Il duo, perciò, sfronda il guardaroba stagionale di barocchismi e orpelli vari, disegnando figure nette, chirurgiche nella loro precisione, costruite sugli evergreen dell’etichetta (inappuntabili completi di sartoria, coat lunghi, avvolgenti, camicie immacolate, maglioni handmade, stringate…), cui il nero profondo che domina in pedana (sostituto, occasionalmente, da toni di grigio – perla, ardesia, ghiaccio – e bianco), dona un gradiente ulteriore di compostezza.

Nella linearità rassicurante dell’insieme, ci si concede però qualche guizzo alla D&G, ad esempio nell’uso di panciere e fusciacche per sagomare la vita, configurando silhouette a clessidra (le stesse che vengono ottenute da lievi imbottiture sui fianchi della giacca), oppure nell’abbondanza di ricami in cristalli, en pendant col total black prevalente, un rimando, puntualizzano i direttori creativi, «alla roccia vulcanica bagnata dell’Etna e dello Stromboli». Strizzando l’occhio alla Gen Z, ossessionata dalle tendenze dei primi anni 2000, vengono poi riproposti i baluardi di quella (non più) vituperata decade, dunque jeans generosamente strappati, underwear da ostentare con fierezza, targhette in metallo con logo apposte un po’ ovunque, per parlare a una clientela che «usa la felpa perché è a portata di mano, ma ha la sensibilità per capire il valore del sartoriale».

Dolce&Gabbana A/I 2023-24 (ph. courtesy of Dolce&Gabbana)

Fendi

Fendi autunno inverno 2023
Fendi A/I 2023 (artwork by Jacopo Ascari)

Inventiva, solidità, comfort, raffinatezza: si muove lungo simili direttrici l’uomo immaginato da Silvia Venturini Fendi per la griffe eponima, facendo collimare dimensioni in teoria oppositive («la moda – nota – cerca qualcosa che sembra non esistere, formale ma casual, sportivo ma sexy, elegante ma rilassato, ho voluto condensare tutto») in maniera esemplare, senza mai prendersi troppo sul serio, ché nel suo ready-to-wear leggerezza calviniana ed eccelsa artigianalità vanno a braccetto. Ci riesce puntando sui tratti caratterizzanti della casa, ovvero proporzioni calibrate, armoniche, accessori funny (categoria nella quale grandeggia, potendo rivendicare la paternità della Baguette, it bag primigenia, che stavolta si porta all’altezza della cintola, come un lussuoso marsupio extra size, nonché della Peekaboo, ora arricchita da imbracature e tracolle), preziosità dei filati, lavorati a regola d’arte; l’elenco di questi ultimi è corposo, include cachemire reversibile, sete jacquard, pellami bruniti, shearling sottoposto a complessi trattamenti, dall’intarsio alla ceratura.

Materiali che, solo a vederli, trasmettono un senso di calore, impiegati nell’outerwear (variegato, preferibilmente cocoon, tra overcoat, caban, piumini, mantelle…) ma anche in top monospalla, borse, berretti, coperte frangiate, enormi sciarpe su cui s’imprimono, cubitali, le FF, che di quando in quando si estendono pure su golf in mohair e, in modo più discreto, sulle calzature, stivaletti o mocassini.
In ossequio al mood disco dello show (la soundtrack è opera di Giorgio Moroder, nientemeno), nel finale si largheggia in decori e appariscenza delle mise, con spruzzate generose di dischetti in metallo, per riflettere le luci della scenografia.

Fendi A/I 2023-24 (ph. courtesy of Fendi)

Neil Barrett

Neil Barrett fall winter 2023
Neil Barrett con i modelli che indossano la collezione A/I 2023 (ph. courtesy of Neil Barrett)

Nello showroom del quartier generale di Neil Barrett dove si tiene la presentazione, volutamente disadorno, tra cemento a vista, canaline e teloni di plastica, non c’è distinzione tra backstage e passerella. I modelli posano per i fotografi, a poca distanza da moodboard, relle, polaroid di ogni uscita; sfoggiano subculture uniforms, così le definisce il creativo britannico, che in – apparente – contraddizione col significato letterale della parola («abito uguale per tutti coloro che fanno parte di determinati corpi, associazioni, categorie», recita il dizionario Garzanti), sono concepite per distinguersi, per valorizzare l’individualità, aprendosi a infinite variazioni attraverso la scelta di specifiche cromie, accostamenti, modi d’indossare il singolo capo, che spetta sempre a chi lo acquista. Le uniformi cui si fa riferimento, peraltro, sono quelle di gruppi e sottoculture musicali seminali, che hanno contribuito a scrivere pagine fondamentali nella storia del menswear: punk, post-punk, rocker, casual, new wave.

Giubbini, paletot, pull d’ascendenza grunge, intessuti con motivi nordici distorti, quasi optical, pants dai tagli affilati, anfibi e altri pièce de résistance del marchio rappresentano, quindi, addendi di stile il cui risultato, contravvenendo alla proprietà commutativa, cambia a seconda dell’ordine in cui sono disposti. Il padrone di casa, in questo senso, suggerisce delle possibilità, giustapponendo volumi asciutti e rilassati, tracksuit e smoking, maglieria a rombi e cinquetasche metallizzati, tonalità sobrie e punte acide di azzurro, rosa, viola, senza mai derogare da una certa compostezza, dal minimalismo che, a cavallo tra gli anni ‘90 e 2000, permeava le collezioni della label, come provano gli occhiali da sole Metropolis, realizzati in collaborazione con Siens, compendio perfetto del menswear Neil Barrett.

Neil Barrett A/I 2023-24 (ph. courtesy of Neil Barrett)

Shanghai Tang

Shanghai Tang Milano
Shanghai Tang A/I 2023 (ph. SGP/courtesy of Shanghai Tang)

Le sale affrescate di Palazzo Serbelloni, gioiello neoclassico nel cuore della città, accolgono il défilé A/I 2023 Shanghai Tang, luxury brand di Hong Kong che si propone, fondendo armoniosamente cultura orientale e modernità occidentale, heritage e avanguardia, mestieri d’arte del Regno di Mezzo e sensibilità stilistica ultracontemporanea, di sradicare i tanti, coriacei preconcetti sul made in China.
L’intento è ambizioso, la griffe ha però dalla sua un patrimonio impressionante per quantità e qualità dei mezzi espressivi, pratiche millenarie tramandate da generazioni (pittura a inchiostro, calligrafia, tessitura della seta, ceramica, tra le altre).

In passerella, il clash tra un tale bagaglio di tecniche artigianali dell’Estremo Oriente e modellistica europea è potente. Il rischio di scadere nel folcloristico viene subito eluso, poiché silhouette ed elementi tipici del costume cinese s’integrano bene con i codici classici del prêt-à-porter. Così il tradizionale abito Tang, se guardato di lato, sorprende per il profilo leggermente architettonico delle maniche, mentre fitti ricami manuali (leitmotiv della maison, prendono spesso la forma della stella policroma, inscritta nel logo ufficiale) e stampe rigogliose istoriano ensemble basici, svelti, dalle linee sciolte, che restano leggiadri anche quando la figura si assottiglia, con giacche segnate sul punto vita dalla cintura. 

Ricorre il nastro, emblema dello spirito celebrativo infuso nella collezione (intitolata Tuanyuan: una riunione di famiglia, da intendersi come momento di condivisione e vicinanza), presente su cravatte, sciarpe, maglioni; alamari e colletti stondati vanno ad inserirsi, con delicatezza, su casacche di lana che imitano il denim, bluse, soprabiti, jeans dall’aplomb sartoriale.
A rimarcare il tono allegro, sfaccettato di «un mondo pieno di contraddizioni giocose» (così viene descritto nel comunicato), la ricchezza della palette colori, accesa dalle nuance corroboranti del verde fluo, fucsia, vermiglio, blu elettrico. 

Shanghai Tang A/I 2023-24 (ph. SGP/courtesy of Shanghai Tang)

Magliano

Magliano collezione 2023
Magliano A/I 2023 (ph. launchmetrics.com)

Ormai habitué della MFW Men’s, Luca Magliano, con l’ultima collezione della linea che porta il suo cognome, si conferma tra gli autori più maturi dell’orizzonte creativo italiano. Nonostante debba ancora compiere 36 anni, infatti, ha una visione nitida, personalissima della moda e, in generale, della mascolinità odierna, tarata su contenuti e voci relegate generalmente ai margini dall’industria fashion, cioè l’umanità varia che popola la provincia del Belpaese (operai, viveur, giovani ansiosi di farsi notare attraverso i vestiti, discotecari…).
Un discorso di nobilitazione delle figure “periferiche”, delle loro abitudini e tic vestimentari, che in quest’occasione prosegue al ritmo indolente, rallentato dei modelli (la maggior parte non professionisti), che sostano di fronte a una parete di sedie ammassate; oggetti che evocano mancanza, introspezione, precarietà, le medesime qualità riscontrabili nei look in pedana, dall’aria – ingannevolmente – rabberciata, dissonante, tra superfici contorte dall’(ab)uso di coulisse, asole e tasche modulabili, drappeggi sconnessi aggrovigliati sul torso, indumenti puramente utilitaristici, nodi sbagliati, pantaloni cadenti, fibre soffici (mohair, tulle, jersey, pile) intersecate da tessuti tecnici, spessi, compatti.
Un assemblage in apparenza confusionario, che assorbe persino vecchie coperte militari, tele macchiate, scarpe antinfortunistiche fornite da U-Power, leader nel settore dell’abbigliamento da lavoro, epperò del tutto coerente con la poetica dell’imperfezione di Magliano.

Magliano A/I 2023-24 (ph. courtesy of Magliano)

Dhruv Kapoor

Dhruv Kapoor brand
Dhruv Kapoor A/I 2023 (ph. Sonny Vandevelde)

Alla seconda sfilata nel calendario meneghino, Dhruv Kapoor (promotore di un approccio circolare al ready-to-wear, incardinato su materie prime di scarto, inclusione, valorizzazione dell’artigianato tessile indiano, con progetti che coinvolgono villaggi e comunità di tutto il paese) vuole dimostrare il potenziale insito nei paradossi di un’epoca contrassegnata da percezioni divergenti; secondo lui, sono sinonimo delle innumerevoli sfaccettature dell’animo umano, da vagliare per portare alla luce il nostro io migliore, propositivo, curioso, aperto al nuovo, lasciando nell’ombra i lati più ostili, problematici.
Date le premesse, è ovvio che l’A/I del designer viva di polarità, di costanti rimodulazioni e cambiamenti, nel segno dell’inusualità, dell’abbinamento stridente, della mise alternativa (nell’accezione più positiva del termine). Sfilano outfit investiti da colate materiche di colore, che paiono liquefarsi sulla stoffa, completi percorsi da zip o bottoni a pressione, tute oversize, denim orlato da copiose sdruciture, per enfatizzarne i profili, capi dai ricami articolati, su cui vibrano paillettes, cristalli e filamenti, che delineano fiori, volti, cuori arsi dalle fiamme.

Quattro le collab stagionali: Marsèll firma le calzature, Huma Eyewear gli occhiali, Bijules i gioielli. Merita un capitolo a parte la capsule con la casa di produzione nipponica Toho, quella della saga di Godzilla, riprodotto con dovizia di particolari in illustrazioni iperrealistiche, strisce a fumetti, disegni tipo anime. Kapoor traccia un parallelo tra la mostruosità del lucertolone creato, negli anni ‘50, da Ishiro Honda e gli alter ego “oscuri” di cui sopra, immaginando che anche i suoi poteri straordinari siano «un modo per accogliere, proteggere e rinnovare la nostra essenza».

Dhruv Kapoor A/I 2023-24 (ph. courtesy of Dhruv Kapoor)

Nell’immagine in apertura, il finale della sfilata A/I 2023-24 di Dolce&Gabbana (ph. courtesy of Dolce&Gabbana)

Addio a Vivienne Westwood, regina incontrastata del punk

Scompare a 81 anni, «serenamente, circondata dalla sua famiglia, a Clapham, nel sud di Londra» (recita il comunicato del marchio eponimo, che nella serata di ieri ha dato la notizia sui propri canali social) Vivienne Westwood, figura monumentale della moda inglese (e non solo), un personaggio larger than life, come direbbero gli americani. Ribelle, anticonformista, irriverente, Dame Viv, com’era soprannominata (ché dama dell’Impero britannico, in fondo, lo era davvero, a nominarla tale fu, nel 2006, l’allora principe Carlo), in oltre mezzo secolo di onorata carriera ha saputo conferire piena dignità estetica a un movimento, il punk, per sua natura elusivo, magmatico, fino a renderlo un vero e proprio vessillo ideologico, una filosofia di vita, oltreché professionale.

Vivienne Westwood ritratto
Vivienne Westwood in un ritratto di Tim Walker

Gli inizi con Malcolm McLaren

Nata Vivienne Isabel Swire (Westwood è il cognome del primo marito, Derek, sposato nel 1962, da cui si separa nel 1965, dopo la nascita del figlio Ben) nel 1941, in un paesino del Derbyshire, da adolescente si trasferisce nei sobborghi della capitale dove, per sbarcare il lunario, lavora come insegnante. Sono gli anni della Swinging London, di una città ombelico del mondo tra cultura pop e minigonne, Beatles e prodromi della liberazione sessuale, per lei è però fondamentale l’incontro con un’altra personalità a dir poco carismatica, Malcom McLaren – futuro pigmalione e manager dei Sex Pistols, nientedimeno, cui si lega sentimentalmente e professionalmente.

Vivienne Westwood sfilate
La stilista al termine di uno show, nel 2017 (ph. Reuters)

Lo store di King’s Road, tempio dei freak londinesi

Insieme, nel 1971, aprono un negozio al civico 430 di King’s Road, che diventa in breve il sancta sanctorum della controcultura londinese, frequentato da giovani “alternativi” che vengono ad acquistarvi le creazioni outré dell’eclettica proprietaria. Inaugurato sotto l’insegna Let it Rock, lo spazio viene rinominato più volte (Too Fast to Live, too Young to Die, Sex, Seditionaries, Worlds End), rispecchiando i vorticosi cambi di registro stilistico della Westwood, che lo riempie, volta per volta, di maglie ricoperte di ossa animali, allineate a formare la parola “rock”, t-shirt perforate da spille e catene, indumenti borchiati, accessori in lattice dal sottotesto peccaminoso, bric-à-brac in metallo.

Vivienne Westwood Let it Rock
Vivienne Westwood davanti al negozio Let it Rock, negli anni ’70

Pezzi al limite dell’oltraggioso per la rigida morale vigente all’epoca, non a caso la polizia la costringe in diverse occasioni a chiudere i battenti, ma lei non si lascia certo intimidire, anzi, incoraggiata dal clamore suscitato dai primi, scandalosi articoli, si decide a compiere il grande passo, varando l’etichetta che porta il suo nome.

Il debutto in passerella di Vivienne Westwood

Il défilé d’esordio del 1981, Pirate, assurge ad autentico manifesto programmatico della designer (lo scopo, dichiara, è “distruggere il termine conformismo”), dando il via a una stagione che trasla sulle passerelle i codici musicali del new romantic. L’ispirazione, come si può supporre dal titolo, rimanda ai corsari, a modelli e modelle viene lasciata la libertà di scegliersi i propri outfit, e loro si presentano in pedana agghindati con marsine, cappelli a tricorno, gilet, stivali al ginocchio, tuniche guarnite di merletti, camicie pittate di rosso, giallo oro e blu, tra arabeschi ondulati e motivi wax.

Vivienne Westwood Pirate
Vivienne Westwood, collezione Pirate (ph. By David Corio/Getty Images)

Seguono collezioni consegnate da tempo al mito: Buffalo Girls (autunno/inverno 1982-83), col suo campionario carnascialesco di gonnelloni a ruota, reggiseni indossati sul top e stampe folk, modellato sull’abbigliamento tradizionale delle donne peruviane; Punkature (primavera/estate 1983), distopia in forma di prêt-à-porter che vagheggia il ritorno all’età della pietra, conseguente a una guerra nucleare, tra materiali sbrillentati, tele rustiche dipinte a mano, vestiti che, pur sostenuti dalle bretelle, appaiono sul punto di disfarsi; Witches (A/I 1983-84), con le superfici dei capi brulicanti di vivaci grafismi, mutuati – per ammissione della diretta interessata – dai celebri omini di Keith Haring, enfant prodige della graffiti art d’oltreoceano; Mini-Crini (P/E 1985), uno sberleffo alla pomposità delle crinoline settecentesche, qui riconfigurate in dress più che succinti.

Vivienne Westwood corsetti
I corsetti della collezione A/I 1990 del brand (ph. by John van Hasselt – Corbis)

Vivienne Westwood anni 90
Una sfilata Vivienne Westwood degli anni ’90 (ph. dal sito ufficiale del marchio)

Lo stile iconoclasta di Dame Viv

Vivienne Westwood the Orb
Il logo the Orb su una borsa della griffe (ph. dal sito ufficiale del marchio)

Inarrestabile, refrattaria alle convenzioni, nel 1985 lascia McLaren, ormai lanciata nell’empireo della creatività internazionale, affascinato dalla verve iconoclasta con cui la stilista dalla chioma rossa fa strame degli archetipi, passati e presenti, dell’eleganza comunemente intesa.

Sconquassa, a ogni piè sospinto, lo status quo fashionista, saccheggiando epoche storiche  e correnti artistiche, iniettando una grinta sfrontata nel vestiario della buona società inglese (i completi in tweed, l’impermeabile, il tartan, il girocollo di perle, trasformato in un choker sul quale, al centro, è effigiato the Orb, il logo del brand, un globo ripreso dallo stemma della Corona, circondato dagli anelli di Saturno e sormontato da una croce) oppure recuperando, in chiave dissacrante, l’armamentario femminile d’antan, dalla tournure ai falpalà, dagli strascichi alle trine, fino ai corsetti che, nelle sue mani, da simbolo di una sessualità castigata, quasi negletta, diventano un capo da esibire con orgoglio, decorato ad esempio, per l’A/I 1990-91, dai soggetti classici dei quadri di François Boucher, che stridono assai con la scollatura abissale dello styling di sfilata.

O, ancora, estremizzando l’ossessione della moda per i tacchi a stiletto con plateau “impossibili” (memorabile, in questo senso, il capitombolo di una certa Naomi Campbell durante uno show della griffe, nel 1993, causato dall’altezza stratosferica – superiore ai 30 centimetri – delle pumps calzate dalla top model).

Vivienne Westwood Obe
Vivienne Westwood a Buckingham Palace per la cerimonia d’investitura dell’OBE, nel 1992 (ph. PA)

Dallo sberleffo alla Thatcher all’OBE, le provocazioni della stilista

La comunicazione dell’azienda non è da meno, trainata dalla sua esuberante fondatrice che, nel 1989, arriva a schernire la premier Margaret Thatcher, di cui avversa in toto la politica conservatrice, posando per la copertina del magazine Tatler con un look che ricalca esattamente quello della Lady di ferro, trucco e parrucco compresi, corredato dalla scritta ironica “this woman was once a punk”. Westwood non rinuncia alla provocazione neppure in un contesto solenne come la nomina a Officer of the Order of the British Empire, onorificenza concessale nel 1992 dalla regina Elisabetta: terminata la cerimonia d’investitura, solleva la gonna davanti ai fotografi, svelando così l’assenza dell’underwear nella mise scelta per l’occasione.

Vivienne Westwood Thatcher
La stilista sulla cover del numero di aprile 1989 di Tatler

Le battaglie ambientali e civili della creativa inglese

Negli anni Novanta, per dare stabilità finanziaria al marchio, moltiplica le linee (Red e Gold Label, Anglomania), affiancata dal fido braccio destro Andreas Kronthaler, sposato nel 1993; quando quest’ultimo, nel 2016, assume la direzione creativa della maison, Queen Viv può spendere tutto il suo carisma ed energie per le battaglie che l’appassionano maggiormente, moltiplicatesi esponenzialmente nel corso del tempo.

Vivienne Westwood adv 2022
Vivienne Westwood e Andreas Kronthaler (ph. Juergen Teller)

Sposa senza remore la causa della sostenibilità (oltre il 90% della collezione A/I 2021-22, per dire, è stato realizzato con materiali dal ridotto impatto ambientale, tra cotoni e sete organiche, nylon riciclati, viscosa certificata Fsc), si batte caparbiamente per la pace, i diritti civili, la liberazione del fondatore di WikiLeaks Julian Assange, inscena proteste spettacolari nelle strade del Regno Unito, manifestando contro la Brexit, le armi nucleari, lo sfruttamento dei lavoratori, si spinge fino a guidare un (finto) carro armato davanti all’abitazione del primo ministro David Cameron, richiamando l’attenzione sulla controversa tecnica estrattiva del fracking.

Merita un capitolo a sé, poi, l’impegno ambientalista, abbracciato in tempi non sospetti e declinato in innumerevoli iniziative, dal supporto alle principali Ong (Greenpeace su tutte) a slogan d’impatto quali “Make Love, not Fashion” o l’attualissimo “Buy less, choose well, make it last” (cioè “compra meno e meglio, fallo durare”), convogliate da ultimo nella Vivienne Foundation, società senza scopo di lucro che sarà operativa dal prossimo anno; l’attività della fondazione, spiegano i vertici, verterà su quattro pilastri, «cambiamento climatico, stop alla guerra, difesa dei diritti umani e protesta contro il capitalismo». Difficile immaginare un lascito migliore per la stilista brit, che (anche e soprattutto) su certi temi non è mai scesa a compromessi.

Vivienne Westwood manifestazione

Nell’immagine in apertura, Vivienne Westwood a una manifestazione in supporto di Julian Assange (ph. © PA Archive)

Le proposte (stilose) di Antony Morato per le feste

Il periodo delle feste porta con sé innumerevoli occasioni in cui abbigliarsi di tutto punto, privilegiando mise studiate fin nei minimi dettagli, è cosa buona e giusta. Col ricordo in fondo ancora fresco dell’emergenza pandemica (tradotto in concreto: mesi interminabili trascorsi fra quattro mura e momenti di convivialità azzerati, o quasi), poi, si è ulteriormente stimolati a concedersi look comme il faut, improntati alla sofisticatezza, da ravvivare coi necessari twist di stile, siano essi cromie calde e avvolgenti, in perfetto spirito natalizio, o una dose extra di sbrilluccichii, per celebrare come si deve l’ultimo giorno dell’anno, che vanno innestati, però, su basi vestimentarie che non si discostino troppo dalle regole auree dell’eleganza, costruite intorno ai pilastri del menswear, cioè capispalla, maglieria, abiti d’impeccabile fattura, scarpe e accessori di pari livello.

Antony Morato collezione
Antony Morato A/I 2022-23

La collezione autunno/inverno 2022-23 di Antony Morato, col suo mix di proposte ispirate all’estetica di quattro capitali europee (Berlino, Amsterdam, Londra, Stoccolma), cui si aggiungono camicie, giubbotti e altri essentials della linea denominata Timeless, viene in soccorso di chiunque sia alla ricerca di pezzi trasversali, curati, espressione di una sensibilità marcatamente metropolitana, tra note pop e accenti retrò, che nel complesso definiscono un guardaroba «versatile, sovrapponibile, abbinabile», per usare la parole del Ceo del brand, Lello Caldarelli.

Capi e accessori raffinati, versatili, che si prestano ad essere mescolati – e interpretati – liberamente

I tratti essenziali dei diversi “temi” stagionali, infatti, si prestano perfettamente allo scopo, delineando un assortimento di capi eterogeneo, da cui attingere in piena libertà per comporre l’outfit festivo di turno. La scelta è ampia, si può spaziare tra i volumi rigorosi, affilati della selezione Berlin (influenzata, anche nella palette notturna e nelle grafiche, dal melting pot della città tedesca, dove convivono tradizione e avanguardismo, architetture severe e movimenti underground); il vintage rivisto e corretto di Amsterdam, infuso di reminiscenze anni ‘70, con la sua teoria di tartan, lane bouclé, velluti lisci e a coste; la pulizia visiva di Stockholm, tutta giocata su silhouette essenziali e nuance fredde, anche in color block; la mescolanza di codici street e militareschi di London, che tiene insieme tecnicismi e monogram, nylon lucidissimi e stampe camouflage, grafismi energici e suggestioni sporty.

Focus sul binomio black & white, arricchito da dettagli inaspettati e scelte di styling estrose

I possibili abbinamenti, lo dimostrano le immagini che accompagnano l’articolo, risultano “immediati” eppure d’impatto, centrati come sono sul fascino inossidabile del binomio black & white, al quale conferiscono carattere dettagli inaspettati (che possono essere il motivo jacquard all-over, per vivacizzare la superficie scura del blazer, i revers cosparsi di glitter della giacca avvitata, le fantasie minute, tono su tono, della camiceria) o scelte di styling fantasiose, che prevedono ad esempio di portare la biker jacket in morbido suède, percorsa da zip oblique, sulla camicia immacolata, chiusa dalla cravatta per un’aria più habillé, oppure di non indossare il cappotto candido a tre bottoni (tra gli irrinunciabili della stagione A/I), ma di adagiarlo disinvoltamente sulle spalle, incorniciando così il suit doppiopetto nero, tagliato col bisturi.

A completare – con garbo – il look firmato Antony Morato intervengono infine gli accessori, una serie ragionata di zaini, pochette, marsupi e cartelle portadocumenti dalle forme clean, armoniche, pensate per accompagnare l’uomo del marchio in ogni contesto, aperitivi di natale, pranzi in famiglia, veglioni et similia compresi; e che, una volta passata la tornata di festività prossima ventura, sarà naturale usare per rifinire le uscite invernali, cominciando il 2023 nel migliore dei modi, stilisticamente parlando.

Nell’immagine in apertura, un look Antony Morato della collezione A/I 2022-23

Rosa Chemical, bipolarità (musicale) elevata a forma d’arte

Tra gli artisti che parteciperanno al prossimo Festival di Sanremo, in programma dal 7 all’11 febbraio 2023, c’è – per la prima volta – Rosa Chemical. Rapper dalla verve iconoclasta, impostosi a colpi di sonorità sincopate e testi abrasivi, incanalati in brani da milioni di stream come il disco d’oro Polka, Britney, Londra e Tik Tok (insieme a Radical). Ma anche performer camaleontico, deciso a sfidare il machismo imperante – a suo dire – nella musica italica con look sgargianti, tra decolorazioni, glitter e make-up marcato, (ex) modello di Gucci, abile polemista (ha attaccato il “politicamente corretto”, in quanto si limiterebbe a proibire determinate parole o sbandierare supporto alla causa Lgbtq, illudendosi di arginare l’omofobia) intenzionato, però, a confrontarsi col grande pubblico, raggiunto di recente grazie al duetto con Tananai sul palco di Sanremo 72, nella serata delle cover.

Rosa Chemical, nom de plume di Manuel Franco Rocati, è tutto questo e altro ancora, ed è dunque piuttosto complicato rendere conto delle sue tante sfaccettature, artistiche e personali; ci abbiamo provato, rivolgendo alcune domande al cantante 24enne, originario di Grugliasco, nel Torinese, autodefinitosi, in un’intervista a Repubblica, «una sorta di alieno».

Rosa Chemical 2022
Bodysuit Paolo Nocilla, tracksuit Antonio Marras, hat Gianmarco Bersani

“Penso di essere uno dei pochi in Italia a fare quello che gli pare, senza preoccuparsi del giudizio del pubblico e dei colleghi”

Un disco (cui si è poi aggiunta un’edizione deluxe), un EP, feat. con – tra gli altri – Gué Pequeno, Ernia, Tananai, Gianna Nannini, una serie di hit virali tra Spotify e YouTube… Un pezzo, o più d’uno, cui sei particolarmente legato, che pensi esprima appieno la tua cifra artistica.

Sicuramente Boheme, scritto per una persona che non sa di esserne la protagonista e non lo scoprirà mai, però mi ha fatto vivere delle emozioni intense. Non c’è mai stata una storia tra noi, ma le sensazioni che ho provato hanno ispirato le parole giuste per scrivere una delle canzoni finora più belle della mia carriera. Poi è il primo pezzo cui ho lavorato con Bdope dopo un po’ di serate all’insegna di trasgressione e rock’n’roll. Ho un ricordo piacevole di quel brano.

Rosa Chemical Sanremo
Total look Dolce&Gabbana, earrings Radà, handpiece Myril Jewels, boots Sonora

Un alieno (come quello del tuo singolo) sbarca in Italia e si imbatte in Rosa Chemical: come gli descriveresti la tua musica?

È troppo difficile descrivere la mia musica senza darmi la zappa sui piedi, la mia arte contiene parecchia bipolarità; c’è chi la chiama poliedricità e chi dice che faccio tutto, io penso invece di essere uno dei pochi in Italia a fare quello che gli pare, senza preoccuparsi del giudizio del pubblico e dei colleghi.

In alcune interviste ti sei scagliato contro il machismo di cui è ancora intriso l’ambiente del rap e l’ipocrisia del politically correct. Sotto questi punti di vista, qual è lo stato dell’arte della scena musicale italiana nel 2022?

Critico, non è cambiato nulla dall’ultima intervista in cui ne ho parlato. Fortunatamente sono tornato per salvare ancora una volta il Paese.

“La moda è sempre stata un chiodo fisso, un modo in più per dire a chi mi guarda che ho stile, che sono diverso anche in questo”

Hai posato e sfilato per Gucci, collaborato con Danilo Paura, sei «super fan delle borse» e prediligi «accessori vistosi». Che rapporto hai con la moda, nel senso più ampio del termine?

La moda è sempre stata un chiodo fisso per me, un modo in più, oltre l’arte e la musica, per dire a chi mi guarda che ho stile, che sono diverso anche in questo. Ho sempre cercato di prenderne le regole per infrangerle a mio piacimento, fin dai tempi in cui mi sentivo gabber e cercavo le bluse dell’Australian più stilose, oppure, nella fase metallaro, volevo le borchie più lunghe, i trench più cool, gli ombretti più neri; ora passo da momenti in cui mi sento più femminile, e ricerco perciò una borsa di Valentino o una giacca di Prada, ad altri in cui mi percepisco più maschile e vesto “full” Saint Laurent o vado di look Maison Margiela. Sono amante di tutto ciò che porta un’innovazione.

Rosa Chemical canzoni
Jacket, trousers and earrings Yezael by Angelo Cruciani, hat Borsalino, necklace Radà, shoes Anja Zecevic

Cosa possiamo aspettarci in futuro da un artista che ha fatto dell’ecletticità, del funambolismo (anche) estetico il suo marchio di fabbrica?

Ho sempre consigliato alle persone di non aspettarsi nulla da me, in quanto faccio solo quello che mi va, davvero. Posso solo dirvi che ultimamente mi sento mooolto brillantinato! 😉

Rosa Chemical Polka
Total look Roberto Cavalli, earrings Radà, boots stylist’s archive

Rosa Chemical Instagram
Total look Chicken Turtle, shoes Giuseppe Zanotti

Credits

Talent Rosa Chemical

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Kali Yuga

Stylist Simone Folli

Ph. assistants Letizia Montanari, Matia Chiodo

Stylist assistants Nadia Mistri, Melania Musci

Grooming Mara Bottoni

Nell’immagine in apertura, Rosa Chemical indossa total look Dolce&Gabbana, orecchini Radà, handpiece Myril Jewels, boots Sonora

Passato, presente e futuro di Arav Group nelle parole della Ceo Mena Marano

Un traguardo significativo, quello del ventennale, appena tagliato; un portfolio di marchi ben assortito, con cui presidiare i diversi segmenti del fashion, dal prêt-à-porter di John Richmond, intriso di flavour rock (com’è normale per uno stilista che, dagli anni ‘80 ad oggi, ha vestito parecchie divinità del pantheon musicale, da Mick Jagger a Lady Gaga), alla moda ricca di estro, coloratissima, targata MarcoBologna, fino alle collezioni accessibili – ma briose – di Silvian Heach; i dati lusinghieri del 2022, che hanno visto il gruppo crescere del 26% rispetto all’anno precedente, con l’ultimo semestre che ha segnato addirittura un +39%. I numeri, è risaputo, non mentono, e nel caso di Arav Group testimoniano la bontà del lavoro svolto finora.

Orgogliosa dei risultati già conseguiti, l’azienda campana, nelle parole della Ceo Mena Marano, non nasconde le proprie ambizioni, che interessano tutte le griffe controllate, da valorizzare ulteriormente per «costruire un’impresa che, al di là delle dimensioni, abbia uno standing internazionale».

Mena Marano
Un ritratto di Mena Marano (ph. courtesy Ladisa Communication)

Intervista con Mena Marano

Il gruppo Arav celebra nel 2022 due decenni di attività, c’è un traguardo, fra i tanti raggiunti in questo lungo arco temporale, che la rende particolarmente orgogliosa?

Una storia di vent’anni comprende innumerevoli momenti, troppi per poterli ricordare tutti, di certo l’inizio è stato tra i più entusiasmanti. Altro traguardo rimarchevole è senz’altro l’acquisizione di Richmond, che ha rappresentato un’enorme soddisfazione perché giunta al termine di una negoziazione complessa, durata quasi un anno. E ancora, il primo Pitti Bimbo (un mondo completamente nuovo per noi), con una collezione che ha riscosso un successo strepitoso, visionata da tremila persone messesi in fila davanti allo stand. Di ricordi e passaggi felici ce ne sono in quantità, probabilmente i principali sono i due appena menzionati, che mi hanno trasmesso un’energia incredibile.

“Svolgere il compitino senza assumersi rischi non è mai stato il nostro modo di pensare e agire, abbiamo sempre cercato di andare oltre”

Tutto è partito nel 2002 da Silvian Heach, con collezioni che hanno trovato un ottimo riscontro nel pubblico. A suo modo di vedere qual è stata – ed è – la chiave di successo del brand?

Credo che a suscitare l’interesse dei consumatori siano state le proposte, diverse da ciò che offriva il mercato, imperniate su capi facili, accessibili, con un price point interessante. Oggi può suonare banale, ma vent’anni fa un marchio simile, con un’identità forte, netta, lontana dal pronto moda di allora, e però immediata, accessibile, risultava dirompente. La chiave era, e rimane, proprio questa, un’idea democratica dello stile; le donne che compravano Silvian Heach erano contente di acquistare un prodotto che le faceva sentire cool, nonostante potessero permetterselo tutti.

Cosa l’ha spinta, nel 2017, a puntare su John Richmond?

Da un lato, la mentalità imprenditoriale per cui, raggiunto un gradino della scala, si vuole subito passare al successivo; venendo dal fast fashion, l’ambizione di arrivare al lusso penso fosse comprensibile, perfino scontata. Dall’altro, quel pizzico di sana follia che contraddistingue il nostro operato; il rischio era elevato, abbiamo rilevato un nome su cui pendevano 32 cause tra civile e penale, solo persone un po’ folli potevano imbarcarsi in un’impresa simile. Tuttavia, è proprio questa “pazzia” a spingerti ad alzare l’asticella, svolgere il compitino senza assumersi rischi non è mai stato il nostro modo di pensare e agire, abbiamo sempre cercato di andare oltre.

“Con Club Richmond forniamo una cornice in cui musica e fashion convivono, esaltandosi reciprocamente”

La label è sinonimo (anche) di rock’n’roll, avete intenzione di rafforzare lo speciale legame che, sin dagli esordi, unisce l’estetica del designer britannico all’universo musicale?

Se parliamo della sinergia tra moda e rock, inteso come fenomeno musicale, John Richmond è stato un pioniere, sarebbe un grave errore non insistere su questo tasto, specialmente nel contesto odierno, in cui il Dna stilistico di un marchio è fondamentale. Altri devono costruirselo, noi dobbiamo mantenere un modus operandi che risale agli anni ‘80, quando John iniziò a vestire personalità musicali di primissimo livello (indica una foto appesa alla parete dello showroom: Lady Gaga in total look della maison, scattata nel periodo in cui la superstar americana aveva appena cominciato ad affacciarsi sulla scena, ndr).
Mi racconta spesso di come, all’epoca, gli artisti comprassero i suoi capi, a volte era costretto a dire di no o a farli aspettare, non riusciva a star dietro al processo di design e produzione, perciò rimane esterrefatto di fronte allo scenario attuale, in cui la situazione si è ribaltata e sono i testimonial a pretendere un compenso per indossare l’abito.

Comunque sia, parte ancora tutto da lì, vista l’accoglienza del Club Richmond di Milano (evento tenutosi durante la fashion week di settembre, ndr) vorremmo portare avanti il format, creando nuovamente momenti che uniscano i due mondi, consolidando un’iniziativa che, in futuro, potrebbe diventare itinerante; per adesso la ospitiamo nella nostra sede di Napoli, rompendo un po’ gli schemi perché portiamo le persone all’interno di una realtà aziendale, mettendo da parte il discorso puramente imprenditoriale per fornire una cornice in cui musica e fashion convivono, esaltandosi reciprocamente e radunando attorno al brand, in modo dinamico, coinvolgente, una community di performer, dj, fan, talenti più o meno affermati.

Club Richmond moda
Club Richmond (ph. courtesy Ladisa Communication)

“Crediamo tanto in MarcoBologna, i riscontri, specie per quanto riguarda il posizionamento della griffe, sono più che interessanti”

Ultimo arrivato, nel vostro portfolio, è MarcoBologna, quali saranno in questo caso i prossimi step?

Per me Marco e Nicolò (Giugliano e Bologna, fondatori e direttori artistici dell’etichetta, ndr), a livello creativo, sono fenomenali. Certo, il contesto è particolare, sono entrati a far parte del gruppo nel 2020, in un momento sfavorevole dal punto di vista economico, che tende a penalizzare i marchi “piccoli”.
Nonostante tutto, però, crediamo tanto in loro, e i riscontri, specie per quanto riguarda il posizionamento della griffe, sono più che interessanti; celebrities come Madonna, Paris Hilton e i Måneskin ne sono stati attratti, chiedendoci capi e accessori.
Il potenziale, insomma, è enorme, non si è ancora tradotto in un business strutturato ma siamo convinti che i risultati arriveranno, perciò continuiamo a investire e coinvolgere partner internazionali, per rafforzare l’allure del brand e, soprattutto, penetrare in quei mercati dove potrebbe rendere al meglio.

“Penso che gli imprenditori abbiano il dovere di partecipare, ciascuno secondo la propria disponibilità, a un’azione corale per ridurre le diseguaglianze del Paese”

Nella vostra azienda i risultati economici sono sempre andati di pari passo con la solidarietà e l’inclusione sociale, vuole dirci qualcosa in più?

È un fatto culturale, non mediatico, ci tengo a precisarlo. Da Arav, alla base di tutto, ci sono i valori, l’attenzione a quanto accade nella società, che nel tempo ci ha portato a sostenere numerosi progetti di sostegno a ospedali e bambini con alle spalle famiglie disagiate, o quello “al femminile” che ha coinvolto le detenute del carcere di Pozzuoli (che mi ha segnato in profondità, ne sono orgogliosa). Il punto sta nel dare una chance alle donne – e non solo loro – meno fortunate, alle volte non ci si rende neppure conto di cosa e come vivano alcune di esse, dei motivi per cui sono finite in prigione, della mancanza cronica di opportunità che le mettano in condizione di emanciparsi.

Ecco, toccando con mano situazioni del genere si comprende come gli imprenditori abbiano il dovere di partecipare, ciascuno secondo la propria disponibilità, a un’azione corale, mirata a ridurre le croniche diseguaglianze del Paese. Da parte nostra, abbiamo sempre cercato di fornire un piccolo contributo; è una questione di ascolto, di rispetto, non si tratta tanto di regalare qualcosa a queste persone, bensì di dar loro una possibilità.

Arav Group
La sede di Arav Group (ph. courtesy Ladisa Communication)

Pensando al futuro, cosa sogna per i prossimi vent’anni di Arav Group?

A dire la verità il sogno è lo stesso degli inizi, cioè costruire un’impresa che, al di là delle dimensioni, abbia uno standing internazionale, che possa aggregare nuove realtà, magari altri dieci brand, e radicata in almeno due o tre aree cruciali, Stati Uniti, Cina, Medio Oriente.

Arav Group Napoli
L’ufficio stile dell’azienda (ph. courtesy Ladisa Communication)

Nell’immagine in apertura, un ritratto di Mena Marano, Ceo di Arav

Alessio Praticò, l’arte della versatilità

Studi alla scuola di recitazione del Teatro Stabile genovese, un’infilata di parti ottenute subito dopo esserne uscito, due importanti riconoscimenti nel giro di tre anni (il premio Federico II al festival La Primavera del Cinema Italiano, nel 2016, il premio Vincenzo Crocitti International nel 2019), la partecipazione, dal 2016 in avanti, alle produzioni “giuste” (Il cacciatore, Il miracolo, Lo spietato, Il traditore, Blocco 181…) che ne fanno un volto familiare per gli spettatori di serie e film italiani. Si potrebbe riassumere così la traiettoria ascendente di Alessio Praticò, attore 36enne tra i più richiesti – e dotati – della sua generazione; come dimostra la manciata di titoli in arrivo a breve sui nostri schermi, che gli hanno permesso, confida a Manintown, di tenere «vivo il lato fanciullesco, il bambino che alimenta la passione e mi fa vivere questo mestiere con entusiasmo, sopportando volentieri i sacrifici che richiede».

Hai parecchi lavori in uscita, è un periodo intenso per te…

Decisamente, dal 26 ottobre è disponibile su Disney+ Boris 4, sono una delle new entries. Il 30 novembre, poi, sarà la volta di Il mio nome è vendetta su Netflix, action movie “puro” (genere cui non siamo abituati in Italia), dove impersono l’antagonista di Alessandro Gassmann. Sulla stessa piattaforma, a dicembre, arriverà Odio il Natale, versione italiana del serial norvegese Natale con uno sconosciuto. Uscirà prossimamente, infine, la serie Rai Il nostro generale, sulla figura di Carlo Alberto Dalla Chiesa.

“Credo che ogni regista ci lasci qualcosa, soprattutto alle prime battute del proprio percorso di crescita, sia umana sia professionale”

Un fermento professionale accresciutosi dopo l’ottima accoglienza di Blocco 181, come hai vissuto quel progetto?

Per fortuna ho sempre lavorato con una certa continuità, detto ciò Blocco 181 è stato una novità anche per me data l’idea alla base, cioè inscenare una sorta di sequel di Romeo e Giulietta, inserendolo però in una cornice crime. Si è creata così, a mio avviso, una narrazione coinvolgente di cui è stato bello essere parte, lavorando con i tre autori avvicendatisi alla regia, Giuseppe Capotondi, Ciro Visco e Matteo Bonifazi.
Un’esperienza davvero interessante, condivisa con Alessandro Tedeschi, che ho ritrovato sul set (i due hanno recitato insieme in Lo spietato e Blackout Love, nda), del resto quando si ha a che fare con la serialità il team diventa un po’ una famiglia.

Alessio Praticò serie
Ph. by Alessandro Rabboni

Tra i registi con cui hai collaborato, ce n’è qualcuno cui ti senti più legato?

Credo in verità che ogni regista ci lasci qualcosa, soprattutto alle prime battute del proprio percorso di crescita, sia umana sia professionale. L’Alessio degli inizi è diverso – ovvio – da quello che oggi si prepara per un nuovo lavoro. Per quanto ci sia stata una maturazione, però, rimane sempre vivo il lato fanciullesco, il bambino che alimenta la passione e mi fa vivere questo mestiere con entusiasmo, sopportando volentieri i sacrifici che richiede.

“È innegabile che le piattaforme abbiano creato maggiori possibilità, aumentando il numero di sceneggiature da portare sullo schermo”

I big dello streaming, cresciuti enormemente negli anni e ormai imprescindibili per il settore, hanno imposto una visione inedita dell’intrattenimento, difficile da classificare. Qual è la tua opinione in materia?

Netflix e simili hanno lanciato una nuova modalità di comunicazione, non starò qui a dire se è un bene o un male, comunque esiste, bisogna farci i conti. Chiaramente l’esperienza della sala o del palco manterranno la loro funzione, sono convinto che andare al cinema non sia paragonabile al vedere un film a casa; d’altro canto è innegabile che le piattaforme abbiano creato maggiori possibilità, aumentando le produzioni e, di conseguenza, il numero di sceneggiature da portare sullo schermo, soprattutto in forma seriale, dandoci la chance di raccontarle attraverso un arco temporale più lungo, caratterizzando al meglio i personaggi sia sotto l’aspetto della scrittura che di quello di chi dovrà effettivamente interpretarli o dirigerli.

Di personaggi, appunto, ne hai interpretati molti, spesso lontanissimi l’uno dall’altro, per quali ruoli ti senti più portato?

Per una mia indole un po’ “cialtronesca” preferisco confrontarmi con storie che virano sul comico o il tragicomico, tuttavia mi è capitato di frequente di dovermi calare in parti che richiedevano drammaticità, o comunque personalità sfaccettate. Resto convinto che la componente legata alla comicità sia fondamentale anche per opere all’estremo opposto dello spettro, si dice spesso che gli interpreti del genere soffrono due volte, necessitano di filtrare ciò che poi tireranno fuori. Nella commedia mi diverto forse di più, ma ho la fortuna – o sfortuna – di potermi adattare abbastanza bene al resto.

“Cinema e teatro sono due attività bellissime ma profondamente diverse e, in quanto tali, vanno gestite in maniere diverse”

A quando risale il tuo primo ingaggio?

Al periodo immediatamente successivo alla scuola del Teatro Stabile di Genova, con Antonia, opera prima di Ferdinando Cito Filomarino sulla vita della poetessa Antonia Pozzi, in cui interpretavo Remo Cantoni, filosofo suo contemporaneo. Ricordo che mi stavo preparando per l’esame di recitazione, fecero dei provini e, inaspettatamente, iniziai a girare subito dopo il diploma.

Alessio Praticò Boris
Ph. by Alessandro Rabboni

Da attore messosi alla prova con entrambi, preferisci il cinema o il teatro?

Vengo da una scuola in cui il teatro è alla base di tutto, se dovessi scegliere, sinceramente, non saprei rispondere, sono due attività bellissime ma profondamente diverse e, in quanto tali, vanno gestite in maniere diverse. Sul palcoscenico devi buttarti e catturare il pubblico usando voce e corpo, rimanendo credibile, al cinema è l’opposto, è il pubblico che viene a spiarti. Si tratta, perciò, di adeguarsi al mezzo.

Forse è l’action la cosa più lontana dalle tue corde…

(Ride, nda) Mi è capitato in passato di girare scene d’azione, ne Il mio nome è vendetta ho partecipato a qualcuna ma il lavoro sporco è toccato ad Alessandro, che si è molto divertito nel farlo.

Alessio Praticò Instagram
Ph. by Alessandro Rabboni

Nell’immagine in apertura, Alessio Praticò in uno scatto di Alessandro Rabboni

Alessandro Piavani, attore al servizio delle storie

Blocco 181, prima in-house Sky Studios italiana, andata in onda a maggio, gli ha regalato notorietà e qualche soddisfazione extra (vedi alla voce premio Kinéo 2022). In attesa dei nuovi episodi della serie (definita dallo sceneggiatore Paolo Vari «una favola metropolitana, dark e iperrealista»), Alessandro Piavani è stato impegnato in produzioni di notevole levatura, Nata per te (di cui ci parla più approfonditamente nell’intervista) e La bella estate, pellicola tratta dal romanzo eponimo di Pavese, di cui sono appena terminate le riprese; due nuove opportunità per mettere in pratica il credo artistico dell’attore 29enne, originario di Romano di Lombardia, ovvero raccontare «storie, vite, personaggi, esplorando queste dimensioni e permettendo a chi ci guarda di viverle attraverso di noi».

Alessandro Piavani
Total look Calvin Klein Jeans

Blocco 181, di cui avevamo già parlato nell’intervista di maggio, ha ottenuto riscontri più che positivi su giornali nostrani come Vanity Fair o Il Venerdì di Repubblica. Ex post e nel complesso, come valuti il tutto?

È stato incredibile, ho potuto girare per sette mesi con un gruppo di professionisti fantastico, vivendo Milano per tutto questo tempo e conoscendo persone di ogni parte del mondo (sia il cast che la troupe erano internazionali), uno scambio davvero proficuo, formativo. La serie in sé, inoltre, racconta cose non banali in modo coinvolgente, quindi è stato bello anche vedere i feedback ricevuti in Italia e all’estero. Vivendo a Londra, mi son trovato coi miei coinquilini che si sono sparati tutte le puntate su Sky, apprezzandole. Dà soddisfazione vedere una storia del genere che arriva oltre i confini nazionali.

Blocco 181 Ludo
Coat and trousers Marsēm, silk chiffon shirt Maison Laponte, shoes Giuseppe Zanotti

“Sto cercando di limitare giudizi e critiche a ciò che può davvero tornarmi utile e, per il resto, lasciare andare, ricordandomi che tutto ciò che faccio è per il pubblico, non per me”

Che effetto ti ha fatto rivederti in video? Potendo tornare indietro, cambieresti qualcosa nel modo in cui hai reso la figura di Ludo?

In linea di massima, sì. Tuttavia la questione è più articolata, riguardarsi fa sempre effetto, specie considerando che il cuore della recitazione, a mio parere, sta nel farlo mettendosi al servizio degli altri; raccontiamo storie, vite, personaggi, esplorando queste dimensioni e permettendo a chi ci guarda di viverle attraverso di noi. La performance attoriale, dunque, non può essere fine a sé, basti pensare al teatro, dove non c’è nemmeno la possibilità di vedersi dall’esterno. Nel cinema o nella tv, purtroppo o per fortuna, ciò che fai è immutabile, impresso su pellicola.
Per me rimanere soddisfatto dopo un lavoro è difficile, cerco sempre di migliorarmi, di individuare i punti sui quali potrei intervenire, alla fine però sono contento perché mi pare si percepiscano dei lati di Ludo che volevo si notassero. Oltretutto il mio giudizio in merito è relativo e – per forza di cose – differente da quello di uno spettatore che, ovviamente, non può sapere cosa stava succedendo sul set, cosa pensassi in quell’istante e così via; colgo degli elementi che chi guarda la scena non nota neppure. Comunque sto cercando sempre più di limitare giudizi e critiche a ciò che può davvero tornarmi utile e, per il resto, lasciare andare, ricordandomi che tutto ciò che faccio è per il pubblico, non per me.

“Nata per te è un progetto di cui sono orgoglioso, sicuramente verrà seguito e apprezzato da tante persone”

La serie è stata rinnovata per una seconda stagione, cosa possiamo aspettarci?

È ancora in fase di scrittura, non ne so nulla effettivamente, di certo spero che i protagonisti vengano esplorati – ancora più – a fondo nei nuovi episodi. Secondo me parecchi aspetti della prima stagione erano preparatori per un continuo, come dimostra il finale aperto, che lascia la possibilità di sviluppi diversi per ognuno. Sarà interessante vedere dove sia finito Ludo, sono curioso io per primo.

Hai girato da poco Nata per te di Fabio Mollo, dove condividi il set con Teresa Saponangelo, Barbara Bobulova e Iaia Forte. Puoi darci qualche anticipazione sul tuo ruolo e la pellicola in generale?

Si basa sull’omonimo romanzo scritto da Luca Trapanese (insieme a Luca Mercadante), per raccontare la sua vicenda di single omosessuale che è riuscito ad adottare una bimba con la sindrome di Down. Interpreto Lorenzo, il suo compagno, col quale condivide il desiderio di avere una famiglia, sebbene concepiscano la genitorialità in modo diverso; un ruolo molto stimolante da interpretare, porta una nota politica nel film, è evidente che è mosso da un senso di dovere nei confronti della comunità Lgbtq, dalla volontà di portare avanti delle istanze e ottenere dei diritti.
Tra l’altro abbiamo girato a Napoli, città meravigliosa, con un team favoloso; sono stato felice di ritrovare sul set Barbara Bobulova dopo Saremo giovani e bellissimi, ma il resto del cast non è da meno, Teresa Saponangelo, Antonia Truppo, Pierluigi Gigante… Un progetto di cui sono orgoglioso, sicuramente verrà seguito e apprezzato da tante persone.

Alessandro Piavani Blocco 181
Suit Marsēm, shirt Çanaku

“In occasioni come i red carpet cerco di divertirmi, di mettere qualcosa che mi stia bene ma si discosti dai capi che uso solitamente, trovando, nelle proposte di un brand che veste tanti artisti come Zegna, la mia cifra”

A settembre hai ricevuto, alla Mostra del cinema di Venezia, il premio Kinéo 2022, com’è stato ritornare in una rassegna cinematografica così prestigiosa per ricevere un riconoscimento dedicato alle “giovani rivelazioni”?

Il premio è stato una prima assoluta. Io poi sono non dico restio, ma dubbioso di fronte a certi riconoscimenti, mi chiedo sempre cosa significhino. Lo prendo come una conferma del fatto di essere sulla strada giusta – utile perché in questo mestiere si è spesso in balia delle incertezze, spero sia di buon auspicio per ulteriori lavori. Mi spiace soltanto che, in eventi simili, ci sia pochissimo tempo a disposizione e non si possa vivere appieno il contesto, mi piacerebbe un giorno tornare alla Mostra “in incognito” e guardarmi tutti i film.

Proprio in laguna ti sei presentato sul red carpet in total look Zegna, griffe che vesti spesso e volentieri nelle occasioni ufficiali, hai anche assistito alla sfilata primavera/estate 2023. Cosa ti piace di più della moda di Zegna?

Le ultime novità del marchio, ho avuto il piacere, come dicevi, di partecipare alla sfilata p/e 2023 e si è rivelata uno spettacolo grandioso, per certi versi quasi commovente, non me lo sarei mai aspettato. Proprio lì ho adocchiato il vestito che avrei poi indossato a Venezia, in occasioni del genere cerco infatti di divertirmi, di mettere qualcosa che mi stia bene ma si discosti dai capi che uso solitamente, trovando, nelle proposte di un brand che veste tanti artisti come Zegna, la mia cifra. Ecco, col completo della Mostra è andata così, ho subito insistito per averlo.

“Quello della scrittura è un processo creativo differente dalla recitazione, richiede molto più tempo e una sorta di onda buona, anche interiore”

Mi ricollego allo stile appariscente di Ludo in Blocco 181, rispecchia in qualche misura il tuo?

Non credo proprio (ride, ndr), per quanto ci sia stato un momento, mentre giravo, in cui nell’armadio avevo un sacco di camicie hawaiane “alla Ludo”, appunto, lì ho capito che forse mi era rimasto appiccicato qualcosa di suo. Per la prima della serie, a Milano, il tentativo fatto con Etro, che mi ha vestito per l’occasione, è stato proprio quello di richiamare l’immagine del personaggio. Mi piace, se sto presentando un film o una serie, creare un link tra lui e me; è una cosa bellissima e, con ruoli come quello di Ludo, ci si può davvero sbizzarrire.

Ci avevi già rivelato che cerchi sempre di scrivere e collaborare coi tuoi amici, in una recente intervista hai poi confidato di avere «molte storie incompiute nel cassetto», pensi di concluderne presto qualcuna, di portarla – chissà – sullo schermo?

Magari! Non necessariamente sullo schermo, andrebbe benissimo pure il palcoscenico, però è un processo creativo differente dalla recitazione, richiede molto più tempo e una sorta di onda buona, anche interiore. Sicuramente me lo auguro, forse un domani…

Manintown fashion uomo
Jacket, cargo pants and turtleneck Calvin Klein, necklace De Liguoro

Credits

Talent Alessandro Piavani

Photographer Cosimo Buccolieri

Fashion Editor Rosamaria Coniglio

Grooming Kim Gutierrez @Studio Repossi

Stylist assistant Federica Mele

Nell’immagine in apertura, Alessandro Piavani indossa total look Calvin Klein Jeans

Artissima 2022, il direttore Luigi Fassi svela i punti cardine della 29esima edizione

174 gallerie, nel 59% dei casi straniere, provenienti da 28 stati; quattro sezioni ormai consolidate e tre curate; cinquanta tra curatori e direttori di musei di assoluto rilievo, selezionati per far parte di giurie o coinvolti in iniziative speciali; dieci tra premi, riconoscimenti e supporti assegnati durante la manifestazione. I numeri appena elencati danno la dimensione dell’importanza di Artissima, fiera di riferimento per l’art world (non solo) nazionale, che dal 4 al 6 novembre torna ad animare Torino con una messe di esposizioni, percorsi monografici, approfondimenti e progetti satellite che, dalla sede principale dell’Oval, si estendono a vari altri place to be culturali della città.

A unirli, il tema individuato quest’anno come minimo comun denominatore, Transformative Experience, un concetto elaborato dalla filosofa L. A. Paul che, nell’eponimo saggio del 2014, ne parla come di un’esperienza in grado di modificare nel profondo chi la vive, mettendone in crisi le aspettative più “razionali” e aprendogli prospettive inedite.

Artissima direttore
Luigi Fassi (ph. by Giorgio Perottino/Artissima 2022)

Ad illustrarci obiettivi, peculiarità e sfide raccolte dalla rassegna, sensibile per definizione allo zeitgeist di un’epoca attraversata da molteplici crisi e trasformazioni impetuose, è il neo-direttore Luigi Fassi; intervistato da Manintown, anticipa le novità di un’edizione, la numero 29, che «è anche un’enorme kunsthalle, dove si incrociano centinaia di opere, dalle quali si dipanano connessioni, narrazioni e incroci, dunque un luogo dove lasciar spazio ai propri desideri, alla speranza di sapere come l’arte sia oggi uno strumento di fiducia, ispirazione e ottimismo».

“Nel 2022 abbiamo voluto privilegiare un tema che raccontasse la volontà di ripartire e guardare avanti e, al tempo stesso, potesse approfondire cosa si cela nel nostro desiderio di lasciarci ispirare dall’arte”

Quali sono le aspettative alla vigilia di un’edizione che segna il ritorno al format fieristico canonico, dopo la parentesi “unplugged” del 2020 e quella “ibrida” dell’anno scorso?

La priorità, dopo due anni importanti per la fiera, benché caratterizzati dai limiti del Covid, è stata rilanciare tutta la forza della rete internazionale di Artissima, nei due pilastri attorno a cui è costruita, gallerie e collezionismo. In questo senso, il 2022 è stato un anno di viaggi, ricerche e contatti ad ampio raggio a livello globale, dall’Europa all’America, dall’Africa all’Asia.
In termini numerici, un dato chiave è quello delle 42 gallerie, per la maggior parte internazionali, che nel 2022 partecipano per la prima volta alla rassegna, testimoniando la sua attrattività e il suo saper essere un catalizzatore di investimenti di mercato e interscambi in ambito artistico. Ma Artissima opera su tanti livelli, facendo convergere differenti esigenze, quelle dei collezionisti (alla ricerca di scoperte piuttosto che di conferme), dei curatori con volontà di aggiornarsi e dei direttori museali, interessati a trovare idee per la costruzione del programma espositivo nelle rispettive istituzioni.

Marcos Luytens artista
Forbidden Pleasure, Marcos Luytens, 2021; courtesy Alberta Pane and the artist

“In tre decenni il rapporto tra Artissima e Torino è sempre cresciuto in termini di cooperazione e sinergie”

Come verrà sviluppato, in concreto, il tema scelto quest’anno come filo conduttore, Transformative Experience?

Individuiamo un tema guida per ispirare la progettazione di ogni specifica edizione di Artissima. Nel 2022 abbiamo voluto privilegiarne uno che raccontasse la volontà di ripartire e guardare avanti dopo le difficoltà del biennio appena trascorso e, al tempo stesso, potesse approfondire cosa si cela nel nostro desiderio di lasciarci ispirare dall’arte.

Transformative Experience rimanda a un saggio scritto nel 2014 dalla filosofia analitica Laurie Anne Paul, che inquadra il modo in cui affrontiamo le esperienze personali trasformative, che secondo lei sono quelle che non possiamo in alcun modo anticipare o prefigurare razionalmente, perché nulla può sostituirne il vivo manifestarsi come rivelazione di un territorio a noi ancora sconosciuto. Come anticipato, dal pensiero della studiosa americana abbiamo tratto un’ispirazione che vale anche per illuminare il modo in cui da appassionati viviamo l’arte. Chi nella propria vita sceglie l’incontro con un’espressione artistica, in tutte le sue forme rivelative, è già abituato all’esperienza arricchente dell’ignoto, ad avere fiducia nell’innovazione e nel potenziale del proprio cambiamento.

Il calcolo razionale, ribadisce Paul, non è in grado da solo di aprirci all’accoglienza dell’inatteso, anche quando quest’ultimo detiene un potenziale di grande positività. Occorre dunque accendere la dimensione del desiderio, ovvero desiderare conoscere cosa diventeremo attraverso le scelte trasformative che sapremo affrontare.
Abbiamo condiviso l’argomento con gallerie, artisti e curatori coinvolti nella ventinovesima edizione, intrattenendo un dialogo direttamente con L. A. Paul, che ha accettato di essere a Torino per condividere l’esperienza di Artissima; terrà una lecture all’Oval, sabato 5 novembre.

Alessandro Fogo
The brightest hour, Alessandro Fogo, 2022; courtesy the artist and Cassina Projects, Milan

“L’idea è avviare delle riflessioni critiche e interpretative su fenomeni come il rapporto dell’arte con NFT e metaverso, in cui si cerchi di coinvolgere artisti, addetti ai lavori e pubblico”

Accompagna le sezioni principali l’abituale corollario di mostre, premi e progetti speciali, che coinvolgono varie istituzioni e luoghi di Torino, dalla GAM al Museo d’Arte Orientale, fino all’estensione digitale Artissima Voice Over. Può indicarci gli appuntamenti da non perdere, dentro e fuori gli spazi dell’Oval?

All’Oval Artissima si presenta strutturata con le sue quattro sezioni storiche (Main Section, Monologue/Dialogue, New EntriesArt Spaces & Editions) e il ritorno in presenza delle tre curate, Disegni, Present Future e Back to the Future. Queste ultime sono guidate da un rinnovato team di curatori, che hanno fornito un nuovo approccio all’identità di ciascuna. Penso ad esempio a Irina Zucca Alessandrelli, che ha interpretato il disegno come strumento primario di creazione, individuando autori che lo adoperano come mezzo principale della loro pratica. In partnership con Juventus torna anche Artissima Junior, un workshop creativo per bambini, la cui regia artistica è affidata a Giovanni Ozzola.
Fuori fiera, un progetto importante è la mostra Collective Individuals, organizzata alle Gallerie d’Italia – Torino di Intesa Sanpaolo, in piazza San Carlo. Curata da Leonardo Bigazzi, affronta alcuni nodi sociali del nostro tempo presentando opere video – per lo più inedite nel nostro paese – di artisti rappresentati dalle gallerie partecipanti. So will your voice vibrate presenta invece tre lavori sonori di Riccardo Benassi, Charwei Tsai e Darren Bader, rispettivamente alla GAM, al MAO e a Palazzo Madama. Nel Salone delle Feste dello storico hotel Principi di Piemonte, poi, ci sarà un progetto personale di Diego Cibelli, Tempo rizomatico.

Yael Bartana
The Undertaker, Yael Bartana, 2019; courtesy the artist and Galleria Raffaella Cortese, Annet Gelink Gallery, Sommer Contemporary Art, Petzel Gallery

Cinthia Marcelle & Tiago Mata Machado
DÍVIDA [Trilogia do Capital] / Debt [Capital Trilogy], Cinthia Marcelle & Tiago Mata Machado, 2020-21; realization: Katásia Filmes, cinemari, Galeria Vermelho; courtesy the artists and Sprovieri Gallery

“Dalla prospettiva dell’osservatorio di Artissima abbiamo il privilegio di seguire il modo in cui gallerie, artisti e collezionisti si approcciano a cambiamenti e innovazioni”

Al di là dell’ospitare la sede – o meglio, le sedi – della manifestazione, cosa caratterizza lo stretto legame tra Artissima e la città sabauda, qual è il valore aggiunto apportato da quest’ultima?

Artissima è giunta alla sua ventinovesima edizione, in questi tre decenni il suo rapporto con Torino è sempre cresciuto in termini di cooperazione e sinergie. La settimana in cui ha luogo cambia il volto della città, rafforzandone i legami internazionali attraverso la rete artistica, divenendo così un progetto che offre una direzione di sviluppo di rilievo al capoluogo piemontese. Nei giorni della fiera, Torino accoglie un pubblico molto selezionato di operatori professionali dell’arte, collezionisti e anche giornalisti che, senza di essa, non avrebbero la città nella loro agenda.

Si è poi creata, negli anni, un’interazione continua tra Artissima, istituzioni cittadine e Piemonte, mediante un network territoriale che rende la prima un’esperienza esplorativa su più ambiti, dall’arte al turismo culturale, alla cultura agroalimentare. A questo va aggiunto che la fiera è da diversi anni pubblica, la sua proprietà è condivisa dalla Città di Torino e dalla Regione Piemonte, ed è incardinata nella Fondazione Torino Musei.

Diego Cibelli mostra
Totem Fuochi d’artificio 5, Diego Cibelli 2022; courtesy Alfonso Artiaco, Napoli, ph. by Grafiluce

“Artissima è anche un luogo dove lasciar spazio ai propri desideri, alla speranza di sapere come l’arte sia oggi uno strumento di fiducia, ispirazione e ottimismo”

Come altri ambiti, quello dell’arte contemporanea è stato travolto dall’ondata tech di NFT, realtà aumentata & co. e, se nel 2021 era stata lanciata l’iniziativa Surfing NFT, ora la piattaforma Beyond Production, in sinergia con l’OGR Award, esplorerà il metaverso. Lei cosa ne pensa?

Il progetto Beyond Production è nato in stretta cooperazione con la Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT, per affrontare il rapporto tra produzione artistica contemporanea ed evoluzioni della cultura digitale nei suoi sviluppi tecnologici ed economici, tra realtà virtuale e impatto ad ampio raggio sulla società. L’idea è avviare delle riflessioni critiche e interpretative su fenomeni come il rapporto dell’arte con NFT e metaverso, in cui, senza retoriche celebrative, si cerchi invece di coinvolgere artisti, addetti ai lavori e anche il pubblico, per avere degli strumenti in più e comprenderne così i possibili sviluppi. È fondamentale, sotto quest’aspetto, la presenza del polo delle OGR che, tra progetti artistici e incubazione di start up, ha accresciuto la capacità di Torino di produrre ricerca sui temi in questione.

Marco Giordano artist
To Disturb Somnolent Birds, Marco Giordano, 2020; courtesy l’artista e The Modern Institute/Toby Webster Ltd, Glasgow, ph. Patrick Jameson

A suo parere, quali sono le principali sfide poste al settore dalle innovazioni tecnologiche epocali che si profilano all’orizzonte, ulteriormente accelerate dal Covid?

Dalla prospettiva dell’osservatorio di Artissima abbiamo il privilegio di seguire il modo in cui gallerie, artisti e collezionisti si approcciano a cambiamenti e innovazioni, dal rapporto con le tecnologie digitali alle logiche di produzione delle opere, sino a quelle di comunicazione e di vendita, sempre all’interno di uno scenario completamente globalizzato. L’obiettivo è seguire e accompagnare questi ed altri cambiamenti in termini attivi e partecipati, contribuendo a valorizzare sempre di più la progettualità delle gallerie partecipanti e l’esperienza dei collezionisti.

“La fiera consente al visitatore un’esperienza speciale, permettendogli di immergersi in uno scenario composto soprattutto da gallerie e lavori di artisti nel pieno della forza creativa, dove domina il senso del cambiamento, di qualcosa colto nel pieno del suo farsi”

In una fase storica più incerta e tumultuosa che mai, tra guerra, strascichi pandemici, effetti del cambiamento climatico e una probabile, ennesima crisi economica, quale ruolo può svolgere una rassegna d’arte?

Una fiera d’arte è un’impresa commerciale finalizzata a massimizzare il profitto dei galleristi che vi partecipano, dunque la loro soddisfazione sotto il profilo economico e di network, e il nostro lavoro è finalizzato a produrre nuove opportunità di sviluppo per le 174 gallerie che partecipano nel 2022. Ma Artissima è anche un’enorme kunsthalle, dove si incrociano centinaia di opere, dalle quali si dipanano connessioni, narrazioni e incroci (che tra l’altro quest’anno, per la prima volta, racconteremo con la nuova iniziativa AudioGuide, in collaborazione con Lauretana e parte di Artissima Digital), dunque un luogo dove lasciar spazio ai propri desideri, alla speranza di sapere come l’arte sia oggi uno strumento di fiducia, ispirazione e ottimismo.

Diversamente da un museo, inoltre, consente al visitatore un’esperienza speciale, permettendogli di immergersi per alcuni giorni in uno scenario composto soprattutto da giovani gallerie e lavori di artisti nel pieno della loro forza creativa, dove domina il senso del cambiamento, di qualcosa che non è definito e istituzionalizzato, ma colto nel pieno del suo farsi. Immergersi in un simile scenario di trasformazione credo sia un privilegio.

Victoria Colmegna
Embroidering vest during vigil, Victoria Colmegna, 2022; courtesy Weiss Falk and the artist, ph. Gina Folly

 Petrica Stefan
Drawing Series, Petrica Stefan, 2022; courtesy 418, Munich, Cetate  

In apertura, una delle immagini che definiscono la visual identity della 29esima edizione della fiera (credits: FIONDA/Artissima)

Il meglio della Milano Fashion Week donna P/E 2023

A distanza di qualche giorno dalla conclusione della fashion week women’s primavera/estate 2023, si possono tirare le somme di una tornata dai ritmi serrati, distribuita su sei giornate animate, complessivamente, da 210 appuntamenti tra passerelle (nella stragrande maggioranza dei casi, 61 su 68, fisiche), presentazioni (130) ed eventi vari. Trattandosi della settimana della moda femminile, il focus era sul womenswear della prossima stagione calda, non sono però mancate collezioni co-ed e altre che hanno scansato abilmente la canonica suddivisione per genere dell’abbigliamento, percepita sempre più, specie dall’agguerrita generazione dei nativi digitali o Z che dir si voglia, come un vetusto retaggio del passato, asfittico e limitante. Vediamole nel dettaglio.

Il dress to impress secondo Collini Milano

Lo street show organizzato da Collini Milano per la P/E 2023 (courtesy of Collini Milano)

Indicativa della volontà di diluire le differenze tra prêt-à-porter uomo e donna è, per cominciare, la proposta P/E 2023 di Collini Milano, in cui lei e lui si scambiano volentieri i pezzi forti dei rispettivi armadi, in un assemblage a tutto lucore di eccessi rococò da Marie Antoinette del XXI secolo, tropi glam rock e vitalità cromatica.

La donna del brand porta completi con giacche tagliate a mantella, jumpsuit, liquidi abiti drapée, crop top e minigonne XXS su plateau stratosferici, l’uomo si diletta ad appaiare tessuti brillanti e opachi, grammature impalpabili e corpose, pizzo e animalier, anfibi glitterati e nappa, entrambi prediligono spalmature dorate, giochi di vedo-non vedo, pants dall’appiombo morbido, jacquard dai motivi fiorati, il tutto intervallando i colori forti con quelli zuccherosi, che sembrano usciti da una vetrina di Ladurée (rosa in tutte le varietà, giallo candy, verde menta, acquamarina…). Outfit perfetti per party notturni sfrenati, in cui la filosofia del dress to impress diventa uno scudo dai tempi grami che viviamo.

Outfit della collezione Collini Milano P/E 2023 (ph. courtesy of Collini Milano)

La “complessa semplicità” di Aspesi

Da Aspesi, label ascrivibile alla categoria del casual compito, ben fatto, l’approccio alla questione è altrettanto sottile: nello showroom di corso Venezia vengono presentate le novità della P/E femminile, rimodulazioni di capi archetipici («complessamente semplici» recita, con un ossimoro azzeccato, il comunicato stampa) quali set coordinati camicia-pantaloncini, golf, blazer, impermeabili e così via, che però funzionano egregiamente anche sugli uomini, come testimoniano i modelli che si aggirano nella sala in mise speculari a quelle delle colleghe, concedendosi guizzi misurati, ora il pijama a bolli sotto il completo, ora la tuta da lavoro indossata a metà col gessato; è sempre il marchio a dichiarare di voler «fluidificare l’atto del vestirsi», creando pertanto, coi suoi essentials, «un’uniforme contraria all’uniformità».

Il genderless di Ssheena, la maglieria edgy della capsule collection di Domenico Formichetti per Avril 8790

Apertamente genderless, invece, la collezione Ssheena (“ambiguo per scelta” è, d’altronde, il motto dell’etichetta). Sabrina Mandelli guarda alla danza soave di Isadora Duncan (che faceva della fluidità un valore assoluto, nei movimenti come nella struttura dei costumi, semplici tuniche in luogo dei costumi arzigogolati in voga all’epoca) per concepire abiti dal retrogusto biker, tra giubbotti di pelle, lunghe cinghie penzoloni, occhielli e metallerie, che abbracciano dolcemente la silhouette, con alcuni capisaldi condivisi per i look di modelle e modelli, vale a dire addome scoperto, effetti see-through, spacchi, volumi illiquiditi.

Ssheena brand Sabrina Mandelli
La collezione Ssheena P/E 2023


Elementi in comune tra menswear e womenswear anche da Avril 8790, che presenta con un evento pop-up da Antonioli Inner la capsule autunno/inverno 2022-23, frutto della collaborazione con Domenico Formichetti, nome caldo della scena street milanese; il creativo chiazza pull in filati blasonati (dal cachemire alla lana vergine, al mohair) di maculati al neon, oppure li fa attraversare da rombi over, trame ondose e righe multicolor, spingendo sul carattere unconventional della maglieria del brand.

Husky omaggia la monarchia inglese

Non manca, nel proliferio di show e presentazioni meneghine, l’omaggio a The Queen e al nuovo re inglese; a firmarlo è Husky, produttore di outerwear tra i più rappresentativi del british style, oggi di proprietà dell’imprenditrice Alessandra Moschillo. I volti di Elisabetta II e Carlo III compaiono, in rilievo sulla Union Jack aerografata, sul retro di un modello limited edition dell’iconico giaccone trapuntato, apprezzato – e indossato, tra gli altri, proprio dai membri della monarchia britannica. Inventata nel 1965 dall’aviatore Steve Gulyas con sua moglie Edna, la hacking jacket costituisce tuttora il perno dell’offerta del marchio, che continua a rivisitarla e, in questa stagione, le fa assumere le fogge più diverse, dal bomber al trench, dalla sahariana al blouson chiuso da zip, oppure ne sparge qua e là gli elementi identificativi, dalla trapuntatura usata come decorazione alla lunghezza 3/4 elevata a standard.

Il prêt-à-porter metamorfico di Lara Chamandi

Tra le new entry nel calendario di Camera Nazionale della Moda Lara Chamandi, griffe giovanissima (è nata l’anno scorso) che, per la collezione zero, s’ispira al mito immortale di Amore e Psiche, traducendolo metaforicamente nella trasformazione del baco in farfalla; alludono proprio alla fragilità dell’insetto durante il processo di metamorfosi, alla potenza creatrice della natura, che può apparire a volte imperfetta o misteriosa, le lavorazioni degli ensemble, incorniciati dall’installazione site-specific dell’artista Francesca Pasquali, strati su strati di carta dispiegati negli ambienti della boutique Daad Dantone, in via Santo Spirito; hanno un che di non finito, di mutevole, restituito da slabbrature, candidi crochet, drappeggi avvolgenti, contrasti sia materici che estetici (ad esempio tra ampio e stretto, tessuti leggiadri e croccanti, cromie soffuse e cariche), per abiti talismano che ogni cliente può interpretare in totale libertà, lasciandosi contagiare dalla loro energia.

Fashion4Ukraine, Pineider supporta l’artigianato ucraino

Fashion 4 Ukraine Pineider
La collezione Fashion4Ukraine, presentata nella boutique Pineider di Milano

Lodevole, in tutti i sensi, l’iniziativa organizzata da Pineider, che nello store monomarca di via Manzoni (autentico tempio della scrittura, dove oltre alla gamma di stilografiche, carte da lettera, biglietti intestati, pelletteria e altri articoli di lusso del marchio, trovano posto, custoditi sotto teca come in una Wunderkammer, i memorabilia di una realtà d’eccellenza della manifattura toscana, che in due secoli e mezzo di storia ha ammaliato capi di stato, aristocratici, letterati e star del cinema, da Dickens a Elizabeth Taylor) offre un sostegno concreto agli artigiani ucraini, promuovendone l’operato nel momento in cui, inevitabilmente, rischia di venire offuscato dalle notizie di guerra che giungono da Est.

Viene infatti presentata – e messa in vendita, il ricavato devoluto a Save the Children – Fashion4Ukraine, una selezione di tailleur, tubini, dress a portafoglio e altri capi dall’allure contemporanea, impreziositi da broderie di vibrante ricchezza, che la stilista Inha Maksymyuk, nativa di Černovcy, ha fatto confezionare a sarte e ricamatrici del suo paese, per promuovere l’identità e lo spirito nazionali in questi tempi difficili.

Lo show di Moncler in piazza del Duomo per i 70 anni del marchio

Con la celebrazione del settantesimo anniversario di Moncler, infine, si entra nel campo dell’intrattenimento puro: 1952 talenti (numero che corrisponde all’anno di nascita dell’etichetta francese), nello specifico 700 ballerini, 200 musicisti, 100 coristi, 952 modelli, tutti vestiti con un’edizione speciale color panna del piumino bestseller Maya, invadono piazza del Duomo, formando una marea nivea che si muove all’unisono, diretta dal coreografo Sadeck Waff. Il colpo d’occhio è impressionante, aumenta la spettacolarità di una performance corale che, in una piovosa serata settembrina, richiama decine di migliaia di persone, regalando nuovi significati allo storico claim di un’azienda guidata costantemente dal desiderio di “ricercare lo straordinario”.

Moncler 70 anni

Nell’immagine in apertura, la performance organizzata da Moncler in piazza del Duomo per i 70 anni del brand (ph. courtesy of Moncler)

Gli angeli edonisti di Yezael aprono la Milano Fashion Week

Uno show inclusivo e variegato per età, genere e corporatura dei modelli

«Angeli senza limiti, senza definizioni, senza timori. Il sacro silenzio contemplerà ogni bellezza. Guardiamoci meglio». L’ode di Angelo Cruciani ai modelli fuori dai canoni (ammesso che esistano) scelti per l’ultima sfilata del suo brand, letta dall’attore teatrale Angelo Di Genio, risuona in un dehors coperto della Stazione Centrale (dov’è stata disposta la passerella “ufficiale”, che prosegue in realtà nella sala attigua), precedendo la parata finale dei beautiful freaks abbigliati Yezael. È uno show pirotecnico, partecipato e inclusivo, quello allestito dallo stilista marchigiano – che lo dedica al suo paese, Cantiano, sconvolto di recente da un’alluvione che ha causato morti e distruzione – nel Mercato Centrale di Milano lunedì 19 settembre, un giorno prima dell’apertura della fashion week meneghina.
Patrocinata dal Comune, la sfilata si apre infatti agli sguardi curiosi del pubblico, permettendo a chiunque di osservare le diverse fasi della costruzione e svolgimento della stessa, dal backstage all’uscita dei singoli mannequin.

Il casting organizzato a luglio, libero e accessibile a tutti, ha passato al vaglio oltre mille volti, selezionandone infine 36, rappresentanti di un’umanità solitamente negletta dal regno dorato del fashion; ne fanno parte, tra gli altri, ragazzi irsuti, uomini rotondetti, trans, signore agé, una mamma col suo bambino di 14 mesi… Contemporary angels, come da titolo della collezione, edonisti sfacciati e sicuri di sé, che si riconoscono nelle culture – e sottoculture – più varie, usando gli abiti come uno strumento espressivo potente, festoso, liberatorio. Gli outfit, di conseguenza, prorompono in tinte sgargianti, forme rivelatorie, decorazioni a non finire.

Yezael by Angelo Cruciani, Contemporary Angels

In passerella lo stile dirompente degli “angeli contemporanei” vestiti Yezael

I completi, fittati o dalla vestibilità carezzevole, grondano perle, lustrini, jais, ganci metallici a guisa di cuore, quadrato o cerchio, pile di boules che si spargono anche sulla parte inferiore delle mise e sulle calzature, stringate o boots militari. Tonalità ultra-sature (dal rosa satinato al bluette, dal giallo lime al turchese) vengono declinate su capi teatraleggianti, pensati per esteti che urlano al mondo la propria individualità, trasformando la vita quotidiana nella loro personale runway.
Le giacche, generalmente scorciate sulla vita, mettono in evidenza le cinture col simbolo del marchio (la Y, stilizzazione di una figura alata); cingono pantaloni, minigonne che più mini non si può, jeans ridotti a brandelli. Le superfici si fanno viepiù lacere, strapazzate, tra fili penzolanti e orli a vivo, col ricorso a spille da balia e catenelle tintinnanti che si rivela puramente decorativo, un vezzo al pari degli svolazzi delle piume posate qua e là, dei veli evanescenti a mo’ di strascico, di gioielli e applicazioni variopinte che rilucono sotto i flash dei fotografi.

A bilanciare le linee smilze, taglienti della gran parte dei look, la vaporosità di alcuni denim pants, che si aprono in onde spumose di tessuto, oppure la sagoma a trapezio di un lungo dress con scollo all’americana, che cozzano (volutamente) coi colori al neon, con l’uso ripetuto del logo, con la quantità di pelle esibita maliziosamente.
Un guardaroba irruento, risultato anche – e soprattutto – di scelte di styling piuttosto radicali, nette, che non ammettono mezze misure, com’è in fondo naturale per un designer che, folgorato sulla via di Damasco dagli album dei Nirvana, ha introiettato l’insofferenza alle regole del grunge, per poi ergerla a manifesto di stile.

La bellezza contrastata, imperfetta del ready-to-wear di Angelo Cruciani

Difficilmente incasellabile, già collaboratore dei team creativi di X-Factor e Amici, art director del Pride milanese, un’attitudine rabdomantica che l’ha portato a sfilare in metropoli estranee ai circuiti modaioli (come Città del Messico o Shanghai), un legame ininterrotto con l’universo musicale (ha vestito, e continua a farlo, la meglio gioventù canora d’Italia, da Damiano David ad Achille Lauro, passando per Ghali, Elodie, Sangiovanni, Michele Bravi, Rosa Chemical, il deus ex machina del pop italico Dardust…), Cruciani crede nel valore dell’imperfezione, del difetto comunemente inteso.

Li utilizza come grimaldelli per scardinare quel complesso sistema semiotico edificato, nel tempo, dalla moda per inseguire una perfezione del tutto artificiosa, cui lui contrappone un’idea di lusso centrata sulla singola personalità, sul rifiuto delle convenzioni, sull’autenticità, sul come as you are propugnato da Kurt Cobain e soci. Gli angeli della contemporaneità di Yezael, di ritorno a Milano dopo un’assenza ventennale, sono pronti a raccogliere la sfida.

Angelo Cruciani brand
Angelo Cruciani in passerella al termine della sfilata

Nell’immagine in apertura, un look della collezione Contemporary Angels di Yezael by Angelo Cruciani

Joshua Sasse, uno stacanovista che si divide tra set, poesia e ambientalismo

Attore, scrittore, poeta: si presenta così, su Instagram, Joshua Sasse, che da ieri gli spettatori di Fox possono apprezzare in Monarch, musical drama sulla famiglia texana dei Roman, a capo di un impero del country retto dalla matriarca Dottie (la gigantesca Susan Sarandon), attorno alla quale orbitano gli altri personaggi, compreso il “suo” Luke. Tre sostantivi che, effettivamente, danno conto delle tante attività cui si dedica questo 34enne londinese dagli occhi verdi, sempre sorridente e disponibile, nonostante una mole di impegni da far impallidire Stachanov.

Joshua Sasse
Joshua Sasse, ph. by Kevin Scanlon

Già il suo curriculum si discosta parecchio da quello “classico” dell’attore divorato dal sacro fuoco dell’arte: cresciuto in Nepal, si arruola come ufficiale nell’esercito britannico ma, ammaliato dalla possibilità di dar vita a personaggi ogni volta diversi che è propria della recitazione, molla tutto per frequentare la Hurtwood House e, quindi, i corsi del Cygnet Theatre di Exeter, girando le città europee in tournée, prima di trasferirsi oltreoceano alla ricerca di un salto di qualità; che arriva, regalandogli il ruolo principale nella serie musicale Galavant e altre parti in produzioni televisive (Rogue, No Tomorrow) e cinematografiche (Frankenstein’s Army).
In parallelo, coltiva il suo amore per la letteratura scrivendo due romanzi, un libro di viaggio e raccolte di poesie (forma letteraria per cui ha un penchant, al punto da dedicarle il podcast The Poet’s Voice) e si tuffa in varie attività imprenditoriali, lavorando in un’officina di auto d’epoca, gestendo un caffè in Australia, lanciando la Classic Zambia Safaris. Last but not least, l’impegno profuso nell’ambientalismo, che lo porterà presto in Antartide, a documentare le drammatiche conseguenze dello scioglimento dei ghiacciai. Sasse si mostra determinato a supportare le cause che gli stanno a cuore perché «ho dei figli, non voglio lasciare loro il pianeta in condizioni peggiori di quelle in cui l’ho trovato».

“La serie è stata l’occasione per dedicarmi a un’ottima sceneggiatura drammatica, con attori e registi di talento”

Monarch serie tv
Il cast di Monarch (ph. ©Fox)

Verranno trasmessi a settembre i primi episodi di Monarch, come ti senti alla vigilia dell’uscita di un serial atteso e dal cast stellare, con protagonista il premio Oscar Susan Sarandon? C’è qualche aneddoto o ricordo specifico del set che vuoi condividere coi lettori?

È passato più di un anno da quando abbiamo iniziato a girare, quindi siamo tutti eccitati all’idea di condividere col pubblico il risultato finale. Per ciò che concerne gli aneddoti, non sono certo di poterne parlare in modo conciso… Per me la serie è stata l’occasione per dedicarmi finalmente a un’ottima sceneggiatura drammatica, con attori e registi di grande talento. Il lavoro fatto con Susan (Sarandon, ndr) è stato un momento davvero significativo della mia vita, adesso tra l’altro è una delle mie amiche più care.
Ci sono diverse persone speciali nel cast di Monarch, sul set abbiamo legato molto, come una famiglia; certo, il team che ha curato il casting per Fox ha lavorato magnificamente – io e Anna (Friel, che interpreta sua sorella, Nicolette “Nicky” Roman, ndr) ne rideremmo, ci assomigliamo così tanto, ma la dinamica familiare che si è creata era reale, sincera, le riprese sono state splendide.

Susan Sarandon Monarch
Joshua Sasse sul set con Susan Sarandon (foto dal profilo IG @joshuasasse)

In quali progetti sei impegnato al momento?

Contano anche i bambini? Sono stato via quasi dodici mesi l’anno scorso, per i vari impegni lavorativi, quindi adesso mi sto godendo lo stare insieme a mia moglie e i miei figli. Viviamo in Australia, è bello poter sparire per un po’, penso sia necessario.

“Ho sempre trovato insensato avere degli eroi se, poi, non si cercava di perseguire attivamente l’emulazione”

Joshua Sasse actor
Joshua Sasse, ph. by Kevin Scanlon

Attore, poeta (durante la pandemia hai lanciato The Poet’s Voice e stai lavorando al libro The Poetry Orchard), attivista, imprenditore (hai co-fondato Classic Zambia Safaris, specializzato nell’organizzazione di safari che hanno l’obiettivo di far scoprire – e tutelare – la meravigliosa natura del continente africano), avventuriero instancabile… C’è un fil rouge che tiene insieme tutto questo?

Un tempo non era così insolito per le persone avere molte frecce al proprio arco, e poi ho sempre trovato insensato avere degli eroi se, poi, non si cercava di perseguire attivamente l’emulazione. Sono cresciuto in una regione sperduta dell’Himalaya, il mio padrino era un esploratore polare, mio padre un poeta, sto semplicemente tenendo alta quella bandiera. Amo la vita all’aria aperta, in spazi il più possibile remoti, dove trovo un senso di pace, alla fine credo sia questo ad attrarmi. Per quanto riguarda la poesia, è sempre stata una forma d’espressione che sentivo mia.

“La poesia è un modo per spiegare la propria visione della vita, ha a che fare con tutto ciò che ci rende umani”

Parlaci del tuo amore per la poesia: quando è nato, come e perché? Cosa ti piace di più di questo genere letterario?

Come ho detto, mio padre, morto quand’ero giovane, era un poeta; la poesia è stata probabilmente un modo per entrare in contatto con lui.
Ho frequentato la scuola di teatro a 15 anni e iniziato a lavorare abbastanza presto, non ero granché appassionato di musica – tutto ciò che ascolto si riduce ancor oggi a Van Morisson, perciò quest’arte letteraria ha colmato un vuoto adolescenziale.
C’è un verso di Byron che recita «per mescolarsi con l’universo, e sentire ciò che non posso esprimere, eppure non posso celare»; nella vita è insito una sorta di enigma mistico, dobbiamo cercare di tradurre le emozioni che proviamo, quando esperiamo il mondo sulla pagina o con altre persone. Ad essere davvero speciale, della poesia, è la sua struttura, che richiede concisione (immagina un’opera che duri solo 30 secondi!); Paul Valéry sosteneva che le impedisce di dire tutto, bisogna perciò affidarsi a un’assoluta onestà e chiarezza, come pure a una profonda conoscenza del linguaggio. È un modo per spiegare la propria visione della vita, ha a che fare con tutto ciò che ci rende umani.

Galavant serie

“Contrasto del riscaldamento globale e biodiversità sono sinonimi di sopravvivenza”

Supporti diverse cause ambientaliste, ce n’è qualcuna che ti è particolarmente cara, che pensi sia urgente divulgare e affrontare?

Contrasto del riscaldamento globale e biodiversità sono sinonimi di sopravvivenza, non potrei fare diversamente. Ho dei figli, non voglio lasciare loro il pianeta in condizioni peggiori di quelle in cui l’ho trovato.
La situazione del bracconaggio africano, negli ultimi dieci anni, è stata peggiore che nei trenta precedenti, un fatto sconcertante; nel Parco nazionale dello Zambia, dove opera la nostra impresa, sono stati uccisi 12.000 elefanti in un decennio, in un’area sette volte più piccola di Rhode Island, è scioccante, sul serio. Anche in Antartide, dove il mio padrino ha una base, i ghiacci intorno alla terraferma si stanno sciogliendo a una velocità spaventosa. Credo sia solo questione di educazione, se l’opinione pubblica realizza cosa sta succedendo, questo può tradursi in un cambiamento a livello politico.

Cosa pensi – e speri – ci sia nel futuro di Joshua Sasse?

Diciamo che se Paolo Sorrentino o Guillermo Del Toro mi chiamassero a colazione per offrirmi un ruolo, sarebbe fantastico.

Monarch Luke Roman

Nell’immagine in apertura, Joshua Sasse fotografato da Kevin Scanlon

Radiografia di un cult: i Persol 649

Lo scorso giugno, in piena fashion week maschile, un party al bar Martini Dolce&Gabbana ha salutato il lancio di una speciale collezione eyewear, realizzata dal duo di stilisti con Persol. Quattro occhiali, due da sole, altrettanti da vista, impossibili da ignorare dato il carattere bold delle montature, tra silhouette D-frame enfatizzate, audaci combinazioni coloristiche, scritte-logo gigantizzate sulle aste, un cordino gommoso da agganciare ai terminali; in sostanza, una trasformazione – radicale – del modello più rappresentativo del brand sabaudo, identificato dal codice 649. Un’icona a tutti gli effetti, inclusa in quanto tale nella mostra della Triennale Storie. Il design italiano, che nel 2018 ha compendiato il meglio della progettazione tricolore attraverso 180 oggetti innovativi, esteticamente pregevoli e amati dal pubblico.

Persol 649 limited edition
Occhiali della limited edition lanciata per il centenario del marchio, con dettagli in oro 18 carati

Dai tram torinesi al grande schermo, un successo pluridecennale

Disponibili oggi in decine di tonalità, oggetto di (re)interpretazioni d’autore (ci torneremo), le origini dei sunglasses su cui Persol ha costruito buona parte della propria fortuna non lasciavano certo presagire i gloriosi trascorsi che li avrebbero resi un cult. Si parla, infatti, di un occhiale modellato sulle necessità dei tranvieri, che all’epoca (siamo nel 1957) guidano mezzi sprovvisti di finestrini, dunque lenti grandi e frontale sagomato, per proteggersi da polvere e vento.

Persol 649 colori
Varianti cromatiche della montatura 649

Nulla di sorprendente, tuttavia, per una griffe che ha instillata già nel nome, in forma acronimica (è la contrazione di “per il sole”, descrizione tanto sintetica quanto efficace dei prodotti), la sua vocazione alla funzionalità, nello specifico alla schermatura dai raggi solari. Non per nulla i primissimi occhiali, nel 1917, erano tarati sulle esigenze pratiche di aviatori e piloti, che il fondatore Giuseppe Ratti, titolare dell’ottica Berry di Torino, intendeva soddisfare grazie ai Protector, subito adottati da vari corpi aeronautici nazionali e idoli del tempo (due su tutti, il vate D’Annunzio e il campione di Formula 1 Juan Manuel Fangio).

Persol modello 649
I sunglasses Persol 649

Nei decenni successivi, Ratti si sarebbe rivelato un instancabile pioniere, brevettando innovazioni divenute pietre angolari dell’azienda – e dell’occhialeria nel suo complesso, a cominciare dal sistema Meflecto, introdotto negli anni Trenta, con stanghette flessibili che possono adattarsi a qualunque fisionomia, facilitando la calzata. Arriveranno poi Victor Flex, il ponte a tre intagli che garantisce maggiore curvatura e aderenza al volto, e ovviamente la peculiarità fondamentale del marchio, la Freccia, l’attacco a cerniera dalle linee affilate suggerite, pare, dalle spade in uso nell’antichità. Tutti elementi dispiegati, con dovizia di know-how manifatturiero, nei 649.

Persol 649 occhiali

Le star del cinema conquistate dagli occhiali del marchio

Dai tram del capoluogo piemontese al regno rarefatto dello charme maschile, veicolato allora soprattutto dalle stelle del cinema, il passo è insospettabilmente breve; merito di Marcello Mastroianni, protagonista di Divorzio all’italiana. Nel film di Pietro Germi del 1961, il “divo involontario” (come da titolo della biografia dedicatagli da uno dei suoi amici più intimi, Costanzo Costantini) è il barone Cefalù, fedifrago dalla condotta discutibile ma raffinatissimo, col bocchino tenuto sempre di sbieco, le robe de chambre, gli abiti gessati, le cravatte scure sulla camicia inamidata e, giustappunto, la montatura del produttore torinese.

Marcello Mastroianni Divorzio all'italiana
Marcello Mastroianni in Divorzio all’italiana

Dopo qualche anno, precisamente nel 1968, a consegnare al mito il 714, “fratello” della montatura di punta della casa (che, alle succitate qualità costruttive ed estetiche, aggiunge una novità capace di innescare una rivoluzione copernicana nell’eyewear, cioè la struttura folding, che permette di piegare l’accessorio fino a fargli assumere la dimensione di una singola lente) è Steve McQueen. Ne Il caso Thomas Crown, l’attore di cui Vasco Rossi sognava di emulare la vita spericolata indossa i panni – sartoriali, s’intende – del miliardario blasé dedito alle rapine, da compiere però in azzimati completi tre pezzi, maglioni Aran color burro e giacche Harrington; outfit che, inizialmente, non comprendevano i sunglasses Persol, McQueen tuttavia se n’era invaghito e li inforca in questa e altre pellicole capitali della sua filmografia, nell’ordine Bullitt, Getaway!, Le 24 ore di Le Mans, come pure fuori dal set.

Persol Steve McQueen
Thomas Crown/Steve McQueen con i Persol 714 (ph. by Silver Screen Collection/Getty Images)

Persol e Hollywood, un legame solido oggi come ieri

A quel punto il legame con la settima arte è solido, negli anni a venire si snoderà attraverso collaborazioni con le principali manifestazioni internazionali (dalla Mostra del Cinema di Venezia ai Nastri d’argento), campagne pubblicitarie che arruolano fascinosi interpreti americani (Vincent Gallo, Scott Eastwood), uno stuolo di utilizzatori famosi da who’s who hollywoodiano, prima Al Pacino, Jack Nicholson, Isabella Rossellini, poi Leonardo DiCaprio, Ryan Gosling, Daniel Craig, Adrien Brody, Jay-Z, Chris Pine, Alexander Skarsgård, l’Armie Hammer di Chiamami col tuo nome… Star del firmamento cinematografico conquistate, al pari dei comuni mortali, dal connubio di charme e impeccabilità tecnica del modello, frutto del certosino lavorio (richiede giorni interi) necessario per assemblare, a mano, gli oltre 40 componenti di ogni paio nella fabbrica di Lauriano, non troppo distante da Torino.
Persol, insomma, costituisce un ottimo esempio della decantata eccellenza artigiana del Paese, tutelata finanziariamente da Luxottica, gigante del settore che ne ha rilevato la proprietà nel 1995.

Pierce Brosnan
LOS ANGELES, CA – FEBRUARY 08: Rapper Jay-Z arrives at the 51st Annual Grammy Awards held at the Staples Center on February 8, 2009 in Los Angeles, California. (Photo by Larry Busacca/Getty Images)

Ryan Gosling (ph. by Derek Storm/Splash News), Adrien Brody (ph. by Alfonso Catalano/SGP Italia), Pierce Brosnan, Jay-Z

Rivisitazioni d’autore di un’icona dell’eyewear

Si diceva all’inizio della collab con Dolce&Gabbana, d’altronde anche le icone hanno bisogno di aggiornamenti, seppur minimi, per perpetuare la loro allure scansando, al contempo, l’effetto reliquia. La prima risale al 2020, e consta di tre combo cromatiche (con montature in acetato marrone, avana o bianco matt abbinate, rispettivamente, a lenti sfumate nelle tonalità del verde, nocciola e grigio) messe a punto da Jean Touitou di A.P.C., maison parigina che ha fatto dell’abbigliamento basic di buona fattura un (proficuo) credo di stile.

Persol A.P.C. collezione
Le colorazioni della collezione Persol x A.P.C.

L’anno seguente, il bis con un’iniziativa ancor più sorprendente perché coinvolge il brand omonimo di Jonathan Anderson, avanguardista lambiccato uso ai concettualismi, in teoria lontano dal design timeless del best-seller del marchio. Lo stilista nordirlandese, in questo caso, si limita a screziare di colori carichi (rosso, blu) o tenui (ambra, rosa, degradé) frontale e aste dell’originale; un intervento che non intacca minimamente l’essenza dei 649, accessorio che – confida Anderson a Esquire – «mi fa pensare all’idea stessa di perfezione». Se lo dice una delle voci più autorevoli della moda contemporanea, c’è da crederle.

JW Anderson Persol
Il 649 secondo JW Anderson (ph. by Tyler Mitchell)

Persol 649 sunglasses

 

Models to follow: Marcello Thiam

Videomaker, pilota di droni, project manager di The Drop, con cui si dedica allo scouting e promozione di talent che gravitano attorno al design, alla musica, all’arte; quella del modello è solo una delle voci che infittiscono la biografia di Marcello Thiam, ragazzone (è alto quasi due metri) che colpisce per la spigliatezza dei modi e la convinzione nelle proprie idee.

Manintown models to follow
Tank top Sloggi, denim pants Palace x Evisu, shorts Ecko, underwear Supreme, belt, jewels and watch talent’s own

Dreadlock e barbetta incolta, trasmette la sicurezza di chi è riuscito a fare di una presunta “diversità” il tratto saliente del suo lavoro, il perno di una pratica creativa che abbraccia con entusiasmo ambiti più o meno affini, attraverso cui tentare di «esprimere un punto di vista unico in quanto risultato di un certo vissuto, di un percorso».

Da quanto fai il modello e come ti sei avvicinato a questo mondo?

Da due anni, mi ci sono avvicinato mosso da un interesse personale; ho sempre avvertito la necessità di crearmi outfit “giusti”, efficaci, riservando una cura maniacale alla scelta di cosa indossare, capi tecnici piuttosto che firmati dai grandi nomi del settore, così da combinare performance e contenuto fashion. Tramite l’Accademia di Belle Arti di Roma, poi, ho sfilato ad AltaRoma, in precedenza avevo partecipato a campagne per Nike e Diadora. Quest’anno, inoltre, sono stato invitato come guest all’ultimo show di Missoni, insieme a Haroun Fall.

Quali traguardi ti sei fissato nel modelling?

Vorrei contribuire a rimuovere una visione della moda un po’ antiquata, che resiste soprattutto a Roma (per Milano vale un altro discorso). Per questo collaboro con gli studenti dell’Accademia alla realizzazione di progetti e concept inediti, alternativi. Dall’anno scorso, ad esempio, curo con altre persone The Drop, evento itinerante che mira a supportare i giovani talenti.

“ho sempre avvertito la necessità di crearmi outfit ‘giusti’, efficaci”

models to follow Manintown
Tank top Sloggi, denim pants Palace x Evisu, shorts Ecko, sneakers Air Jordan, bandana A Bathing Ape, jewels and watch talent’s own

L’hai appena menzionato, sei il project manager di un progetto che«hal’obiettivo di fornire uno spazio di libera espressione a designer e artisti»; vuoi spiegarci nel dettaglio di cosa si tratta?

È stato avviato nel 2021, dopo il picco della pandemia, in un momento in cui sentivamo la necessità di vivacizzare il panorama socioculturale capitolino con qualcosa di diverso. Per fortuna siamo stati compresi e aiutati da altre realtà che stavano già prendendo piede in città, hanno colto subito la lungimiranza dell’iniziativa, la nostra volontà di impegnarci nella promozione di talent emergenti. The Drop è nato così, fondamentalmente è una serata nella quale tutto ruota intorno a un designer, collezione o performance, ogni volta però cambiamo location, mood, tipo di musica ecc. per adeguarci al progetto specifico, dandogli il massimo dello spazio – e della valorizzazione.

Manintown fashion shooting 2022
Jacket Supreme, denim pants Palace x Evisu, shorts Ecko, durag A Bathing Ape, sneakers Air Jordan, jewels and watch talent’s own

Citavi Haroun Fall, sul tuo Instagram compare in effetti parecchie volte, che rapporto avete?

È il mio coinquilino, un grandissimo amico. Mi ha suggerito lui di intraprendere una carriera in quest’ambito, del resto se in precedenza volti e misure unconventional non godevano di molta considerazione, ora si è diffusa una certa insofferenza per tutto ciò che veniva reputato “conforme”. È un mondo che attrae entrambi, ci sproniamo a vicenda, proviamo a esprimerci su più piani restando fedeli alle nostre idee, lasciandoci coinvolgere dalle tendenze ma portando avanti, in parallelo, una ricerca personale.
Inoltre essendo italo-senegalesi abbiamo background abbastanza simili, possiamo capire le difficoltà incontrate da persone black che operano in industrie come quelle della moda o dello spettacolo, confrontandoci sull’argomento. Haroun è un artista a tuttotondo, cerco come lui di dedicarmi a molteplici attività, dal videomaking al pilotaggio dei droni, all’organizzazione di eventi, provando a esprimere un punto di vista unico in quanto risultato di un certo vissuto, di un percorso.

“Sentivamo la necessità di vivacizzare il panorama socioculturale capitolino con qualcosa di diverso”

Altra passione che traspare dal feed IG è quella per il basket

Provo un grande interesse per questo sport, sarà che non mi sono mai ritrovato nel calcio né in altre discipline praticate abitualmente in Italia. Nel basket, invece, colgo connessioni stimolanti, ad esempio con l’industria fashion: le stelle dell’NBA, penso su tutti a LeBron James, ormai sono delle vere icone di stile, seguite e ammirate ovunque. Diciamo che, nel complesso, mi trasmette degli ideali culturali, estetici ed espressivi, è qualcosa di più di una semplice competizione sportiva.

La pallacanestro influenza anche il tuo modo di vestire?

Sicuramente nel mio stile riscontro elementi black e americani, più di tipo musicale che sportivo però. Ammetto di essere un profano in materia di musica italiana, mia madre mi faceva ascoltare jazzisti e brani sudamericani, mio padre giganti come Bob Marley, James Brown, Fela Kuti, Tupac… Sono cresciuto immedesimandomi in una realtà che non mi rispecchiava, capendo che avrei potuto trovare personalità cui ispirarmi per altre vie, attraverso canzoni, film, viaggi. Tutto ciò ha inevitabilmente condizionato il mio stile e ciò che faccio – e vorrei fare – nei lavori da modello.

Manintown fashion editorial 2022
Tank top Sloggi, denim pants Palace x Evisu, shorts Ecko, sneakers Air Jordan, bandana A Bathing Ape, jewels and watch talent’s own

Restando sul tuo stile, come vesti solitamente? Opti per una divisa quotidiana o vari il più possibile?

Nella vita quotidiana prediligo abiti sfruttabili appieno, con molte tasche (facendo il videomaker devo portarmi dietro caricatori, card, attrezzi…), la componente utility è fondamentale.
Poi presto attenzione all’aspetto della sostenibilità, che comporta fibre naturali, materiali preferibilmente riciclati, finissaggi non tossici… Sono caratteristiche che controllo, prima di acquistare voglio informarmi sul paese di provenienza di un capo, oppure sul modo in cui è stato confezionato.

“Credo che i settori creativi siano tutti collegati, è fondamentale seguirli, conoscerli a fondo”

Marchi o stilisti da inserire in una personale lista dei desideri?

Senz’altro Kanye West, poi sarebbe stato un sogno collaborare con Virgil Abloh, per Off-White o Louis Vuitton. È stato un mito, ha reso accessibile determinati mondi a persone che prima ne erano totalmente escluse, e lo sarebbero ancora se non ci fossero stati lui o Ye; hanno integrato la cultura black nel proprio lavoro, attuando una rivoluzione dall’interno.

Su quali progetti stai lavorando al momento? Pensando al futuro, invece, cosa ti auspichi?

Attualmente sto lavorando con Silverback, brand che ha debuttato di recente nel mercato nostrano. Si focalizza sul basket 3×3, incluso dal 2020 nelle Olimpiadi ma ancora poco conosciuto qui.
Oltre a proporre collezioni streetwear, alla Supreme per capirsi, hanno allestito una struttura mastodontica ad Ancona. Vogliono fare le cose in grande, collaborando con preparatori atletici, tattoo artist, studi di design, mettendo insieme ambiti differenti. È un po’ ciò che mi ripropongo io, credo che i settori creativi siano collegati, è fondamentale seguirli, conoscerli a fondo, così da stabilire il maggior numero possibile di relazioni, umane e professionali.

male models follow 2022
Jacket Supreme, tank top Sloggi, denim pants Palace x Evisu, shorts Ecko, durag A Bathing Ape, sneakers Air Jordan, jewels and watch talent’s own

Credits

Model Marcello Thiam

Photographer & art director Dario Tucci

Nell’immagine in apertura, Marcello indossa giacca Supreme, canotta Sloggi, jeans Palace x Evisu, shorts Ecko, durag A Bathing Ape, sneakers Air Jordan, gioielli e orologio talent’s own

‘Reflecting Pasolini’, le fotografie di Ruediger Glatz rileggono vita e opere di PPP

A cent’anni dalla nascita, la figura di Pier Paolo Pasolini non ha perso un grammo della propria forza, dell’icasticità di opere che hanno segnato come poche altre la letteratura, il cinema, la politica, in breve la società italiana del Novecento, riverberandosi nel lavoro di autori che continuano ad esaminarne l’eredità artistica, le sfaccettature forse meno evidenti, ma ugualmente pregnanti, del suo opus.

Reflecting Pasolini mostra
L’allestimento della mostra Reflecting Pasolini al Palazzo delle Esposizioni, a Roma

Lo prova una mostra in corso di svolgimento al Palazzo delle Esposizioni romano, in cui l’obiettivo di Ruediger Glatz (fotografo 47enne i cui ritratti concettuali, quasi esclusivamente in bianco e nero, appaiono immersi in un flusso temporale impetuoso, vibrante) si sofferma su aspetti precipui del lavoro di PPP, ossia i film da lui diretti e il rapporto coi luoghi che più lo hanno influenzato, sul piano creativo e umano, indagati nelle oltre 60 fotografie che compongono due serie distinte.

Embodying Pasolini performance
La sala dell’esposizione con le foto della serie Embodying Pasolini

Due serie fotografiche celebrano l’eredità artistica di Pasolini

Nella prima, Reflecting Pasolini – questo il titolo della personale curata da Alessio de’ Navasques, che resterà aperta fino al 4 settembre, si passano in rassegna pellicole seminali della filmografia pasoliniana, Il Vangelo secondo Matteo, Porcile, Il Decameron, Uccellacci e uccellini, Edipo re…; vengono evocate attraverso i monumentali – in tutti i sensi – costumi di Danilo Donati, interpretati, è il caso di dirlo, da una performer d’eccezione, Tilda Swinton, attrice dalla carriera stellare (coronata, nel 2020, dal Leone d’oro consegnatole a Venezia), nonché personificazione di uno stile androgino sommamente chic, corteggiatissima dalle griffe per la facilità con cui riesce a valorizzare anche le mise più ardite.
Esattamente un anno fa, infatti, la musa di Jim Jarmush era la star dell’happening Embodying Pasolini, chiamata a vestire gli abiti di scena dei film citati, ricercando al loro interno, nelle pieghe e sgualciture del tessuto di cimeli provenienti da set passati alla storia, gesti e pensieri dei personaggi che li avevano indossati sullo schermo e, quindi, l’essenza stessa del cinema dell’intellettuale friulano.

Tilda Swinton Pasolini
Credits: Ruediger Glatz, Embodying Pasolini, performance di Tilda Swinton e Olivier Saillard con Gael Mamine – Mattatoio, Roma, 2021

Ad accompagnare la performance, svoltasi al Mattatoio di Roma, erano stati proprio gli scatti di Glatz (sodale di lunga data del curatore, Olivier Saillard), ospitati adesso in una sala al pianoterra dell’edificio di via Nazionale, affissi alle pareti di quella che si configura come una specie di stanza temporale, deputata a raccogliere il ciclo fotografico che ricapitola visivamente l’esibizione.
L’autore tedesco non si limita, effettivamente, a documentare quanto accaduto, ma come un novello esponente della Subjektive Photographie (movimento degli anni ‘50 che opponeva, alla mera registrazione, la necessità di un’interpretazione soggettiva del dato reale), sottopone la pellicola a esposizioni prolungate o multiple, ottenendo riflessi e sdoppiamenti dell’immagine, che rendono appieno il pathos emanato dalla Swinton durante la prova.

Tilda Swinton performance 2021
Credits: Ruediger Glatz, Embodying Pasolini, performance di Tilda Swinton e Olivier Saillard con Gael Mamine – Mattatoio, Roma, 2021

Tilda Swinton “interpreta” i costumi più noti della filmografia pasoliniana

Da sola o attorniata da collaboratori che l’aiutano a vestirsi, in posa con tutta la ieraticità di cui è capace o colta nell’atto di saggiare la consistenza del capo o accessorio di turno, col volto camuffato o nature, l’inconfondibile pixie cut argenteo sempre pettinato all’indietro, l’attrice domina ogni fotogramma, stagliandosi nettamente sul black&white dell’insieme. La vediamo – o intravediamo, dati i succitati effetti ottici – avvolgersi negli abiti liturgici commissionati dal regista per il Vangelo (ricalcati a loro volta, mitra torreggiante inclusa, sulla raffigurazione fattane da Piero della Francesca in alcuni affreschi), oppure nel tabarro di velluto drapée del narratore de I racconti di Canterbury (lo stesso Pasolini).

Altrove si muove delicatamente sul palcoscenico, come danzando, nonostante sia appesantita dalle imponenti tuniche bicolori dell’Edipo re, indugia sui tessuti sfarzosi del guardaroba de Il fiore delle Mille e una Notte, esamina i simboli della vanità femminile che fu, ripescati dall’archivio di Salò o le 120 giornate di Sodoma (corsetti, cappellini, un bouquet floreale), infila il completo scuro e il trilby sfoggiati da Totò in Uccellacci e uccellini, esibendo una mimica indecifrabile.

Pasolini Tilda Swinton
Credits: Ruediger Glatz, Embodying Pasolini, performance di Tilda Swinton e Olivier Saillard – Mattatoio, Roma, 2021

I singoli momenti dello show, insieme al volto ineffabile della protagonista, trasfigurato dall’intensità della performance, rappresentano il punctum delle foto – Roland Barthes, nel fondamentale La camera chiara (1980), lo descrive come «quella fatalità che […] mi punge (ma anche mi ferisce, mi ghermisce)», all’interno del quale i leitmotiv della cinematografia di Pasolini, veicolati dalla Swinton, si riflettono e rifrangono. Da qui la presenza, nel titolo, del verbo reflecting, alla base in realtà dell’intero progetto, completato da immagini di On PPP, che costituiscono un’ideale topografia pasoliniana.

On PPP: un itinerario sulle tracce dello scrittore e regista

Pasolini Roma serie fotografica
Credits: Ruediger Glatz, On PPP, La chiesa di San Felice da Cantalice a Centocelle dal film Accattone, Roma 2022

Nella sala adiacente alla prima, ecco perciò un itinerario sulle tracce dell’autore degli Scritti corsari, tra le ormai note borgate romane, scelte come ambientazioni delle pellicole più rappresentative, eremi in campagna e scorci che esemplificano bene la natura agreste da lui mitizzata.
Il fotografo cattura la luce che investe le architetture di quartieri quali Centocelle o Quadraro, la placidità lacustre di Villa Feltrinelli (ultima residenza di Mussolini, presa a modello per la Salò del film), alternando frammenti (ammassi di sterpaglie, le canne al vento in un parco, una finestra in controluce, le pietre dell’amato rifugio a Torre di Chia, in provincia di Viterbo) e panoramiche, come la foto scattata dall’alto dei tetti del Mattatoio, che abbraccia con lo sguardo il Gazometro. Glatz, in definitiva, sembra voler condividere coi visitatori le coordinate di una mappa (anche) emotiva che, nel centenario di PPP, offre prospettive inedite sulla legacy di uno dei massimi pensatori italiani.

Pasolini Salò film villa
 Credits: Ruediger Glatz, On PPP, Il Grand Hotel Villa Feltrinelli, Salò, 2022

Mattatoio Roma Pasolini
Credits: Ruediger Glatz, On PPP, Vista dai tetti del Mattatoio verso il Gazometro, Roma 2022

Nell’immagine in apertura, credits: Ruediger Glatz, Embodying Pasolini, performance by Tilda Swinton and Olivier Saillard, Mattatoio, Rome, 2021

I 3 brand sostenibili del momento

Acclarato che la sostenibilità è cosa buona e giusta, il punto, per le griffe alle prese con un tema ormai ineludibile, è tenere insieme dettami green e una ricercatezza nel design in grado di scacciare l’associazione degli stessi (il più delle volte frutto di pregiudizio, ma tant’è) con uno stile anonimo, penitenziale. I tre marchi di quest’articolo provano, appunto, come sia possibile conciliare le due esigenze, per la felicità dell’ambiente oltreché dei consumatori.

Veja

Veja sneakers vegane

I numeri di Veja sono oggi ragguardevoli (fatturato in costante crescita, 3000 rivenditori in 60 stati, «prodotto sostenibile più venduto nel 2020» secondo Lyst, un’eccellente rosa di collaborazioni), eppure fino a qualche tempo fa in pochi avrebbero scommesso su una start-up di calzature vegane, guidata da un duo pressoché estraneo al fashion world. Sébastien Koop e François-Ghislain Morillion, infatti, lavoravano per una Ong di consulenza sull’impatto ambientale; frustrati dal velleitarismo in materia di tanti, troppi brand, nel 2005 mettono su la società, individuando nelle sneakers il prodotto giusto per far breccia nei desideri dei clienti.
Concepiscono la sostenibilità come un modus operandi, declinabile in ogni singolo passaggio del modello aziendale, dalla scelta dei materiali (cotone biologico, gomma naturale, fibre ottenute da plastiche riciclate o scarti della filiera alimentare…) ai salari equi dei lavoratori. La certificazione B corp (assegnata ad aziende che si distinguono per l’impatto positivo del proprio operato su persone e ambiente) è la logica conseguenza di tali, virtuosi pratiche.

Mansur Gavriel Veja sneakers
Veja x Mansur Gavriel

Le trainers in catalogo fanno propri gli stilemi degli anni ‘70, quando quelle che allora erano “solo” scarpe da ginnastica (gli sneakerhead erano di là da venire) presentavano un aspetto funzionale, senza fronzoli. Un design semplice eppure efficace, raffinato dalle collab – cui si accennava – con la migliore intellighenzia fashionista (leggesi Agnès b., Lemaire, Bleu de Paname e altri ancora). Le ultime recano la firma di Mansur Gavriel (ginniche in tonalità candy) e Marni, che ha provveduto a scarabocchiare le tomaie con ghirigori energici. Perfino Rick Owens, profeta della moda goth tutta cupezze e slanci scultorei, ha messo mano volentieri, in più occasioni, alle scarpe Veja, in una “collisione creativa” – così è stata ribattezzata – risoltasi in piccole ma decisive modifiche, tra allacciature incrociate, nuance acide e suole stratificate.

Veja Rick Owens collab
Veja x Rick Owens

Re/Done

Dare nuova vita – e stile – ai jeans dismessi, dissezionati e ricomposti per attualizzarne le vestibilità mantenendo, però, la patina used, autentica, che distingue l’abbigliamento vintage: è questa, in sostanza, l’idea perseguita con profitto da Sean Barron e Jamie Mazur sin dalla nascita della label, nel 2014. Un’attività intrinsecamente sostenibile, assai laboriosa, tanto che il primo lotto, appena 300 paia di denim pants Re/Done (nomen est omen), è il risultato di nove mesi di tentativi e ricerche per arrivare ai fit desiderati, a vita media e skinny oppure dalle forme più gentili, sold out in men che non si dica sull’e-shop approntato dai fondatori.

Redone jeans men
Sean Barron e Jamie Mazur nell’headquarter Re/Done (ph. by Jace Lumley)

Nel laboratorio losangelino del brand vengono convogliate cataste di vecchi Levi’s, sottoposti a un certosino lavoro di taglia e cuci che li tramuta in cinque tasche dall’allure contemporanea, unici perché, essendo il processo di upcycling interamente manuale, nessun esemplare può essere identico.
Il successo dei jeans, prontamente adottati dalla fauna modaiola (supermodel – Kendall Jenner, le sorelle Hadid, Emily Ratajkowski, Hailey Bieber, Kaia Gerber, Candice Swanepoel – in testa), convince Barron e Mazur a dotarsi di una linea apparel (che reimpiega, tra le altre, t-shirt di seconda mano fornite dal produttore Hanes) e collezioni maschili. Un paio di capsule collection ben assestate, in tandem con G.H. Bass & Co. (per mocassini che stillano vibe rock, tra motivi animalier e borchie) e The Attico (per capi arricchiti da strass, nastri, grafiche retrò, particolari vezzosi), fanno il resto, cementando la notorietà di un’etichetta venduta in decine tra department stores e mecche dello shopping di nicchia, on e offline, da LuisaViaRoma a Saks Fifth Avenue passando per Antonia, 10 Corso Como, Net-A-Porter, The Boon Shop, Harrods, Kith

Redone jeans collezioni

Blowhammer

Applicare allo streetwear, segmento generalmente avido di novità consumate a ritmi frenetici, i diktat dell’eco-responsabilità, che contemplano molteplici sfide e opportunità. È questo l’obiettivo di Blowhammer (in inglese “colpo di martello”, a sottolineare la dirompenza del progetto), marchio con sede a Nola che fonda la sua filosofia su principi quali la libertà d’espressione, l’autodeterminazione, la ricerca di un’identità creativa che assecondi totalmente le proprie idee e gusti.

Blowhammer brand
Blowhammer

Prima ancora che di azioni (invero esemplari, l’azienda opera quasi esclusivamente sul web, implementando un modello di produzione just in time che, pur velocizzando gli ordini, riduce al minimo emissioni di CO2, invenduti, giacenze di magazzino e scarti, occupandosi inoltre di riciclare o smaltire correttamente gli articoli inutilizzati), il founder e Ceo Salvatore Sinigaglia ne fa una questione di valori, perché, afferma, «chi ci sceglie non indossa solo una maglia o una t-shirt, ma una vera e propria storia che racchiude visioni, aspirazioni, desideri».

Blowhammer collezione
Blowhammer

Scevre dall’omologazione, le collezioni si distinguono per lo stile sincretico, un blend di contaminazioni provenienti da musica, arti figurative, sport, subculture. Si inserisce in quest’ottica la collaborazione con EasyWeasy, Giovanni Maisto e Paskull, tre giovani artisti scelti da Blowhammer per personalizzare altrettante capsule. Il primo, con Outworlds, si serve del digital painting per compiere un viaggio spaziotemporale verso universi altri, massimalisti e alienanti, reso attraverso la ripetizione di figure geometriche, arzigogoli fluo e simboli architettonici. Il secondo usa per Organik la medesima tecnica, tracciando sul tessuto composizioni colorful dal sostrato sci-fi, sul crinale sottile tra realtà e finzione. Il tatuatore Pasquale D’agostino aka Paskull, da ultimo, sparge nella linea OverminD i suoi soggetti preferiti, demoni, teschi e falene bianche su fondo nero.

Felpa della collezione OverminD

Nell’immagine in apertura, una foto della campagna di lancio della collezione Veja x Marni

‘Second Life – Rinascita’, un racconto per immagini dei luoghi abbandonati della Sicilia

Palazzi, chiese, dimore fatiscenti sparse nel territorio siciliano che diventano il palcoscenico di mise-en-scène estemporanee, ispirate da plurime fonti (miti, personaggi biblici, capolavori del cinema, dipinti ottocenteschi…). Oreste Monaco, fotografo e art director catanese, fa un utilizzo metaforico di questi spazi disabitati, fissati su pellicola con l’intento di stimolare una riflessione su due tematiche speculari: lo stato di incuria in cui versano strutture (anche) di grande rilevanza storica e l’abbandono della propria individualità, indotto dai ritmi forsennati, il più delle volte insostenibili, che regolano le nostre vite. «Come questi luoghi sono stati abbandonati a loro stessi, allo stesso modo capita che le parti più belle di noi vengano lasciate nell’ombra», specifica l’artista.

Second life rinascita
Ph. Oreste Monaco

Abbiamo approfittato dell’inaugurazione della mostra Secondo Life – Rinascita, da sabato 30 luglio nei bassi di Palazzo Ducezio, a Noto (dal 2 agosto si sposterà poi, fino al 30 settembre, nella Sala Gagliardi di Palazzo Trigona), per rivolgergli qualche domanda sull’iter produttivo, le influenze e gli obiettivi dell’exhibition. 

“Per quanto sia problematica e complessa, la decadenza è fondamentale, una specie di precondizione”

È previsto per il 30 luglio il vernissage di Second Life – Rinascita, ci racconti la genesi del progetto?

Essenzialmente è nato col mio ritorno in Sicilia, dopo aver vissuto per anni a Milano e poi in Spagna. Durante la pandemia ho deciso di fare ritorno alla mia terra, cominciando a sperimentare, a esplorare i paesi etnei. Un giorno sono andato a vedere la villetta dove sono cresciuto e, sulla strada del ritorno, ho notato una casa abbandonata; entrandovi, ho riflettuto su come sarebbe stato mettersi a nudo in un ambiente che, per quanto scomodo e difficile, trovavo senz’altro suggestivo. Così, insieme a un’amica, ho iniziato a realizzare scatti di nudo all’interno di quest’abitazione fatiscente.
Col tempo ho voluto approfondire due temi affini, l’abbandono degli edifici (nella regione sono davvero tanti, incluse costruzioni di enorme valore, tra cui una chiesa di Noto, in disuso nonostante sia patrimonio dell’umanità) e quello di se stessi, dell’individualità, sacrificata da molti per rincorrere il successo, lontano dalle proprie origini.
Penso che le nostre parti migliori vengano lasciate spesso al buio, proprio come i luoghi disabitati che fotografo; solo noi possiamo riportarvi la luce, seppur nel mio caso in maniera effimera, attraverso set ricreati appositamente per lo shooting, un faro puntato su un argomento per me rilevante, per stimolare una riflessione. Sviluppando il progetto, inoltre, ho capito che mi spronava a ritrovare il contatto con la natura, con valori semplici che però mi fanno star bene.

Second Life Oreste Monaco
Metamorfosi, ph. Oreste Monaco

“Penso che le nostre parti migliori vengano lasciate spesso al buio, proprio come i luoghi disabitati che fotografo”

Individui il fil rouge delle immagini nel «fascino della decadenza», come a voler conferire un’accezione positiva a un termine solitamente sinonimo di abbandono, dissolutezza, sciatteria…

Esattamente, perché ciò che è decadente in precedenza non era tale, ha una storia. È come comprare un oggetto in un mercatino, sebbene sia malandato e scheggiato può raccontarci qualcosa, nasconde dei significati. Il fascino della decadenza si ricollega poi alla voglia che suscita nell’osservatore di superarla, di restaurare una condizione pregressa, come fosse un incipit che sprona al cambiamento.
In fondo accade lo stesso con le persone, possiamo scorgere il bello anche in uomini e donne che dall’esterno ci appaiono in difficoltà, perse. C’è della bellezza in tutto ciò, nel notare la vulnerabilità altrui superando la retorica imposta dai social, che ci inducono a mostrare solo la parte migliore della nostre vite, una finzione che in realtà ci spinge alla tristezza.
Per quanto sia problematica e complessa, la decadenza è fondamentale, una specie di precondizione; abbracciandola, posso comprendere come far risplendere luoghi, menti e persone.

mostra nudo artistico
Medusa, ph. Oreste Monaco

“Second Life – Rinascita è una selezione di storie, delle fiabe se vogliamo”

Riferendoti ai luoghi ritratti parli del valore «terapeutico» associato all’esplorazione degli stessi, di «viaggio introspettivo per riscoprire lati di me». Puoi approfondire questi e altri concetti chiave del lavoro?

Ho avuto un forte rapporto con la natura fin da piccolo, e sono riuscito a mantenerlo. Sentivo puntualmente la necessità di evadere dalle metropoli in cui vivevo, sebbene mi avessero dato tanto e ne percepisca ancora l’attrattiva, al momento sono qui ma in futuro chissà. Ad ogni modo, il contatto con l’ambiente che ci circonda per me era e resta importantissimo, penso ci aiuti a dimenticare, almeno momentaneamente, meccanismi, regole e costrutti sociali alla base della quotidianità, dalla necessità di costruirsi una carriera all’orario lavorativo di 40 ore settimanali.
Vivendo così intensamente la natura, avverto il bisogno di ritagliarmi dei momenti a contatto con essa, fosse solo la pausa pranzo al parco. È una necessità comune a tutti, credo, in quanto esseri umani sentiamo un richiamo ancestrale, innato, eppure finiamo pian piano col perderlo. Gli edifici di cui vado alla ricerca, guarda caso, sono quasi tutti distanti dai centri urbani, abbandonati proprio perché lontani da questi ultimi, dai ritmi che li caratterizzano. Rischiamo di sacrificare il nostro essere per cose che ci auto-imponiamo, scegliendo città affollate e caotiche, complicandoci la vita da soli.

mostra Noto estate 2022
La scala, ph. Oreste Monaco

Mettendo insieme questo corpus fotografico hai potuto visitare numerosi magioni, basiliche, palazzi dismessi dell’entroterra siciliano, ce n’è qualcuno che ti ha particolarmente emozionato?

Li ho scoperti tutti grazie a Carlo Arancio, la mia guida. Il primo amore non si scorda mai e lo condivido con lui, una villa nei pressi di Giarre, con le pareti affrescate. A pensarci bene, tuttavia, il ricordo più significativo è legato forse alla casetta di tre stanze di cui dicevo all’inizio; la decisione di avviare il progetto è scaturita da lì.

“Vorrei arrivare a persone distanti da me, che magari guardando le foto comprendano che certi temi vengono dibattuti da sempre”

Hai appena citato la collaborazione con Carlo Arancio di Sicily in Decay, un excursus visivo su quei «luoghi incantati» che hanno poi attratto anche te. Cosa apprezzi del suo lavoro?

Il coraggio, è continuamente in giro a scoprire questi posti e può essere davvero pericoloso, si può incappare in situazioni al limite, trovando persone che li abitano, giri strani, malintenzionati. Inoltre non si può mai sapere se e quanto siano stabili le strutture, a volte i tetti sono franati, i pavimenti pericolanti… Ci vuole coraggio, poi, per dedicare tutto quel tempo a un progetto di cui non si conosce l’eventuale ritorno economico, un modo di fare che trovo estremamente affascinante, proprio perché contrasta con gli obiettivi che ci si pongono oggi, proiettati al successo, al guadagno.
Mi sono lasciato ispirare da Carlo come da altre persone che vivono qui, decise a inseguire le loro passioni a tutti i costi.

Oreste Monaco
Il palazzo d’oro, ph. Oreste Monaco

“Per me il cristianesimo è una mitologia, al cui interno si possono tuttavia riscontare messaggi positivi”

Soffermandoti sull’universo pittorico ricreato nelle immagini, citi esplicitamente i Preraffaelliti, nell’exhibition sono confluite altre ispirazioni artistiche?

Le ispirazioni sono molteplici, le fotografie con Leona Vegas, per dire, si rifanno a Malèna di Tornatore; ho immaginato una Malèna queer, disprezzata in pubblico e desiderata segretamente. Guardo sicuramente, poi, alla mitologia greco-romana, rappresentando tra gli altri lo scontro tra Perseo e Medusa, che alla fine non avviene, perché il protagonista del mito si imbatte non in una creatura mostruosa, bensì in una bellissima ragazza dai capelli ricci. Dei Preraffaelliti riprendo ad esempio la figura di Lady Lilith, Lilit nell’Antico Testamento, prima moglie di Adamo, ripudiata e scacciata perché rivendicava i suoi stessi diritti, considerata a lungo dalla tradizione post-biblica un demone e, successivamente, riabilitata in quanto simbolo delle lotte femministe.
Un’altra opera riprende L’angelo caduto di Alexandre Cabanel, che diventa un custode chiamato a vegliare su un edificio disabitato.
Second Life – Rinascita è una selezione di storie, delle fiabe se vogliamo; sono ateo, per me il cristianesimo è una mitologia, al cui interno si possono tuttavia riscontare messaggi che, se interpretati e rielaborati, risultano positivi.

mostre fotografiche Sicilia 2022
L’angelo caduto, ph. Oreste Monaco

“È l’occhio a colpire la nostra attenzione, se qualcosa è bello ci spinge ad avvicinarci”

Cosa speri di lasciare ai visitatori di Second Life – Rinascita?

Mi auguro che colgano il significato delle storie, perlomeno di alcune. So di poter contare su amici e conoscenti che capiscono, e apprezzano, il mio lavoro, ma vorrei arrivare a persone anche molto distanti da me, che magari guardando le foto, leggendo le didascalie, comprendano che certi temi vengono dibattuti da sempre; Lilit dimostra come le donne combattano da secoli per affermare i propri diritti, Leona è un simbolo della comunità Lgbtq, storica seppure a lungo nascosta, e così via.
Si tende a etichettare determinate questioni come “mode” del momento, invece sono lì dalla notte dei tempi e, proprio affidandosi a figure realmente esistite, ad episodi storici, si può sperare di trasmetterle a tutti, imitando un po’ la religione, che si appella a esempi antichissimi per estrapolarne verità valide tutt’oggi. Devo sperare che l’estetica sia quella giusta, perché come nella pubblicità (dove ho lavorato a lungo) è l’occhio a colpire la nostra attenzione, se qualcosa è bello ci spinge ad avvicinarci, ad andare in profondità; per questo l’impostazione delle immagini è pittorica, simbolica, quasi didascalica.

Oreste Monaco opere
Lilith e Adamo, ph. Oreste Monaco

Oreste Monaco foto
Luci da palcoscenico, ph. Oreste Monaco

Oreste Monaco mostra
Equinozio d’autunno, ph. Oreste Monaco

Nell’immagine in apertura, Custode, foto di Oreste Monaco

‘Iddi’, in mostra a Noto i beautiful loser di Mariano Franzetti

La culla del barocco siciliano è pronta ad accogliere un drappello di visitatori oltremodo atipici, eppure irresistibili: saranno infatti on show dal 30 luglio al 30 agosto, nelle sale nobiliari di Galleria Palazzo Nicolaci, a Noto, gli umanoidi dai tratti sgraziati di Mariano Franzetti. Iddi, questo il titolo della mostra a cura di Federico Poletti, è la prosecuzione del progetto Putty Toys Tricky, avviato nel 2020, concepito dall’artista italo-argentino come un flusso libero che assume le sembianze di figure «dalle espressioni e movenze distorte, mai a loro agio né perfettamente collocate nello spazio»; o, per essere più precisi, di soggetti dalle fattezze irregolari, esasperate, a metà tra orrorifico e caricaturale ma, proprio per questo, esemplificativi di una bellezza non convenzionale, lontana dai canoni impostisi col tempo nell’arte, che ben riflette le contraddizioni della realtà odierna.

Mariano Franzetti artist

La community ugly but cool dell’artista nelle sale di Palazzo Nicolaci

Mariano Franzetti opere
Una scultura di Mariano Franzetti

Una sorta di armata Brancaleone, decisa a sfidare nozioni comunemente intese e dicotomie irrisolvibili (essenza versus apparenza, materia versus spirito), che vede tra le proprie fila personaggi surreali epperò ricercati, muniti spesso di capigliature appariscenti (ciuffi punk, creste ossigenate), parte di look altrettanto sgargianti che incorporano capi/accessori di griffe quali Prada, Saint Laurent, Celine, Bottega Veneta, tra color block, animalier, camicie stampate, chiodi di pelle e occhiali over. Visitando l’esposizione ci si trova di fronte, perciò, a beautiful loser che popolano un universo visivo stravagante, difforme, pervaso di ironia e disincanto. I meravigliosi perdenti del creativo si stagliano su disegni, dipinti policromi o grandi arazzi dalle tonalità pop, oppure prendono forma in bassorilievi e scoolture (così le definisce lui) di varie dimensioni, singole o disposte a gruppo, impilate per comporre piramidi dall’aspetto alquanto precario o raggrumate in vortici che strabordano da cornici circolari.

Sono impegnati nelle attività più disparate, fissati in atteggiamenti da poser vanesi o posizioni equivoche, che spesso fanno il verso ai topoi dell’iconografia classica (ad esempio deposizioni, naufragi, scenette simil-religiose, creature mitologiche), a cavalcioni su una mucca, sospesi a mezz’aria, o ancora nelle vesti (ultra posh, come si è detto) di prodi cavalieri che affrontano il mostro di turno.

Personaggi eccentrici ma decisamente cool, che riflettono le contraddizioni della società odierna

Proprio per rendere omaggio alle meraviglie della regione che lo ospita, la Sicilia, l’artista amplia il corpus scultoreo di Putty Toys Tricky con opere giocate sui contrasti cromatici, declinate tra gli altri in total black (a richiamare le pietre vulcaniche del territorio), oppure nelle nuance dorate dei rilievi barocchi; sono inoltre presenti, per la prima volta, proiezioni in modalità digital art.

La personale a Palazzo Nicolaci evidenzia come l’autore padroneggi le tecniche più diverse, di cui si serve per allestire tableau vivant colmi di simbolismi e allusioni, suscitando nel visitatore reazioni eterogenee, non di rado spiazzanti, in bilico tra curiosità e straniamento, che spingono a riflettere sui tanti (troppi?) stereotipi e incongruenze che affollano la nostra società. Il grottesco in salsa fashion – ugly but cool, per ricorrere nuovamente alle sue parole – di Franzetti diventa, dunque, una lente deformante attraverso cui provare ad analizzare la contemporaneità; uso della categoria che sorprende fino a un certo punto, se già Umberto Eco, nel saggio Storia della bellezza, ne aveva parlato come della «più ricca delle sorgenti che la natura possa aprire alla creazione artistica».

Palazzo Nicolaci Noto mostra


Nell’immagine in apertura, un arazzo dell’artista esposto a Palazzo Nicolaci

Models to follow: Sireno Zambon

I tratti efebici (grandi occhi cerulei, viso sottile, labbra carnose), unitamente ai capelli bleached (dovuti, specifica, all’hairstyling per uno specifico editoriale fotografico, tenuti perché «mi trovo decisamente a mio agio con questo colore») e all’innegabile je ne sais quoi, come lo definirebbero i francesi, rendono Sireno Zambon, 21enne, uno di quei modelli che restano impressi già al primo sguardo. Nella chiacchierata con Manintown confessa di essere debitore a Siermond (alter ego artistico del fotografo, videomaker e musicista Pasquale Autorino), che lo ha scoperto e immortalato in intensi ritratti dai toni seppiati, incoraggiandolo a proseguire.

model to follow Manintown
Denim shirt Polo Ralph Lauren, pants Dalmine, tank top OVS, sneakers Air Jordan, necklace Sting

I risultati cominciano a vedersi, con ingaggi che l’hanno portato di recente a salire in passerella per lo show di chiusura dell’edizione 2022 del concorso Who is on Next?, ad AltaRoma; appena una settimana fa, infine, la firma del contratto con la rinomata agenzia newyorchese Muse. Il suo sogno è poter affiancare, prima o poi, sfilate, shooting e affini ai set cinematografici o televisivi, nel frattempo tiene a sottolineare l’importanza del definire i propri limiti, concepiti come strumenti utili «a circoscrivere i traguardi da raggiungere».

Da quanto tempo fai il modello, e come hai iniziato?

Da circa un anno e mezzo, grazie a un fotografo, Siermond. Mi aveva chiesto di posare per lui, consigliandomi la mia agenzia madre attuale, cui si sono poi aggiunte la s2model, a Seoul, e dalla settimana scorsa la Muse per New York, adesso devo capire come muovermi sulla città di Milano.

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Denim shirt Polo Ralph Lauren, pants Dalmine, necklace Sting, bracelet Idontwannasell

Il traguardo più importante raggiunto finora?

Sono due in realtà, raggiunti entrambi recentemente. Innanzitutto sfilare al Campidoglio (il défilé di Who is on Next?, patrocinato da AltaRoma e Vogue Italia, quest’anno si è tenuto eccezionalmente ai piedi del Palazzo Senatorio, ndr), prestato per la seconda volta nella storia alla moda; un ottimo traguardo, emozionante, inoltre hanno assistito allo show designer come Alessandro Michele, Pierpaolo Piccioli e Silvia Venturini Fendi. Quindi, il contratto con l’agenzia Muse, di cui ho appena detto.

Il fashion system è parecchio affollato (eufemismo), quali sono a tuo parere le qualità che un modello deve possedere, oggi, per farsi notare e affermarsi nel settore?

In primis bisogna sapere ciò che si vuole, fin troppe persone affermano di volerlo fare per diventare famosi o ricchi. È fondamentale, invece, avere ben chiaro il tipo di percorso, i sacrifici connessi a questa professione, che come qualsiasi altra implica richieste, requisiti, anche qualità, certo, tra cui a mio giudizio intraprendenza, disponibilità, una mentalità aperta. Molti applicano al modeling gli stessi parametri che valgono per influencer o blogger, un mondo totalmente differente perché, se loro si autogestiscono in tutto e per tutto, noi siamo sì dei liberi professionisti, ma il tipo di lavoro che svolgiamo è caratterizzato da una serie di regole, non si può non adeguarvisi.

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Tank top OVS, pants Dalmine, necklace Sting, bracelet Idontwannasell

La prima cosa che salta all’occhio, guardando questi scatti, è l’hairstyle platinato, una scelta puramente estetica o c’è dietro qualcos’altro? In generale, ti piace variare look, sperimentando con tinte e acconciature?

Mi piace variare, sono sempre alla ricerca di novità, possono essere anche dettagli o piccole modifiche, che non comportino necessariamente stravolgimenti, vale per il modo di vestire (alterno streetwear ed elegante, casual e sartoriale) come per l’aspetto nel suo complesso.
Il biondo platino è dovuto a una richiesta di Siermond, aveva bisogno di un modello dai capelli ossigenati e gli ho dato subito la mia disponibilità. D’altra parte, non ho mai avuto grossi problemi rispetto ai cambiamenti di look, a meno che non fossero permanenti o invasivi, devo comunque rispondere a un’agenzia, ottenere il loro consenso. In linea di massima tendo a cambiare spesso, ammetto però che mi trovo decisamente a mio agio col colore di capelli di adesso.

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T-shirt Zara, pants Dalmine, necklace Sting, bracelet Idontwannasell

Hai già accennato all’argomento, ma come descriveresti il tuo stile?

Di base preferisco le tinte piatte ed evito loghi o scritte, le uniche t-shirt stampate che metto sono quelle delle band punk o rock che ascolto. Fondamentalmente, definirei il mio stile punk-rock, appunto, poco pulito perché ogni volta cerco di inserire nell’outfit qualcosa che stoni un po’, tranne nelle occasioni in cui è richiesto un determinato dress code, ovvio.

I tre brand più cool, secondo te?

Se parliamo di moda street mi piace parecchio Diesel, tra le griffe simbolo dell’eleganza cito Louis Vuitton. Aggiungo MCS Marlboro Classics, specialmente per alcuni pezzi vintage.

In ottica professionale, invece, per quali maison o designer sogni di sfilare/posare?

Louis Vuitton, di nuovo, Valentino (lo adoro) e Ralph Lauren, marchio che tende a essere sottovalutato ma propone a volte look estremamente interessanti. Poi i big, Gucci, Versace, ma più per un discorso di curriculum che per gusto personale.

Ci sono capi o accessori che reputi must di stile imprescindibili?

Uso regolarmente i pantaloni Diesel (hanno un’ottima vestibilità e si sposano alla perfezione col mio modo di vestire) e stivali in pelle alla cowboy. Ogni tanto opto per jeans over oppure a zampa, tra gli accessori sicuramente una bella cintura può fare la differenza.

Hai citato Siermond (alias Pasquale Autorino), cosa ti affascina della sua estetica?

Premetto che mi ha certamente influenzato, è stato lui a scoprirmi e, in parte, ha plasmato i miei giudizi sulla moda. Penso riesca a portare le sue idee su un piano superiore, fotografa un numero ristretto di soggetti, che considera muse da cui lasciarsi ispirare. Rimango tuttora legato al suo modo di concepire la fotografia, tengo sempre conto del giudizio di Siermond, per questo sul mio account Instagram ho taggato la sua pagina.

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Tank top OVS, pants Dalmine, sneakers Air Jordan, necklace Sting, bracelet Idontwannasell

Parlando di IG, sul tuo profilo la frase “define your limits” è in evidenza, cosa significa per te?

Tanti credono che definirli sia una cosa negativa, personalmente sono insofferente ad espressioni sul genere “non porti alcun limite”, è vero esattamente il contrario secondo me. Trovo sia importante fissarli, anche perché non ho una socialità particolarmente spiccata, sono spesso nel mio mondo, perciò individuandoli e comunicandoli posso aiutare gli altri a relazionarsi con me. Specifico, comunque, che per come la vedo io i limiti non vanno intesi come confini invalicabili, piuttosto circoscrivono i traguardi da raggiungere; quando si fissa l’asticella, viene stabilita una soglia da superare, e così ci si possono porre altri limiti, cioè obiettivi da centrare.

Dove ti vedi tra dieci anni?

Studio recitazione e, se devo esser sincero, mi piacerebbe combinare le due attività, lavorare come modello e attore. Mi è stato ripetuto più volte che sono due realtà incompatibili, vorrei smentire quest’affermazione. Aspiro a darmi un profilo nel modeling, possibilmente a livello internazionale e, in prospettiva, a recitare in inglese, continuando in definitiva a stabilire nuovi limiti.

Polo Ralph Lauren camicie 2022
Denim shirt Polo Ralph Lauren, pants Dalmine, tank top OVS, sneakers Air Jordan, necklace Sting

Credits

Talent Sireno Zambon

Photographer Xin Hu

Nell’immagine in apertura, Sireno indossa tank top OVS, pantaloni Dalmine, collana Sting, bracciale Idontwannasell

Ryan Cooper, entusiasmo e dedizione, sul lavoro e nella vita

Irradia energia Ryan Cooper, modello e attore con base a New York. Perennemente sorridente, barbetta incolta, muscoli guizzanti (esibiti anche nel servizio per Manintown che vedete qui, ad alto contenuto di carnalità) che indicano una scrupolosa devozione alla causa dell’allenamento (nel 2019 ha varato il programma wellness che porta il suo cognome), una parte nella dramedy di prossima produzione You Are Not Alone, che segue quelle in serie e film come Crazy Night – Festa col morto, Eye Candy e Confess, svariati lavori tra riviste maschili e marchi che contano, specie negli Stati Uniti (A|X Armani Exchange e Boss, per citarne un paio); eppure, fino a qualche anno fa, la sua vita era sideralmente distante dallo sfavillio delle mille luci newyorchesi.

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Nato 36 anni fa in Papua Nuova Guinea, da genitori missionari, svolgeva una professione del tutto canonica nell’edilizia; poi nel 2008, appena sbarcato nella metropoli della East Coast, la grande occasione, con la campagna DKNY Jeans Spring/Summer 2008, al fianco della supertop Behati Prinsloo. Da allora, Ryan passa senza batter ciglio dai set modaioli a quelli televisivi o cinematografici, sentendosi puntualmente gratificato in quanto «ogni ruolo mi lascia con nuove abilità o qualcosa in più che so di me, è tutto ciò che si possa desiderare», e apprezzando parimenti il lavoro nel modelling perché lo aiuta «a sentirmi a mio agio nel cinema».

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Come riportato dal sito Deadline, sarai nella pellicola You Are Not Alone, le cui riprese cominceranno a breve in Texas. Cosa puoi rivelarci del progetto?

È una bellissima storia vera, che racconta l’esperienza della sceneggiatrice Cindy McCreery col fratello, che ha assistito durante gli interventi di rimozione del cancro e della vescica. Il regista è Andrew Shea, lavorerò tra gli altri con l’attrice di The Surrogate Jasmine Batchelor.
Si tratta di uno dei ruoli più impegnativi tra quelli finora interpretati, perché dovrò onorare un’esperienza umana reale e, al tempo stesso, lasciarmi coinvolgere totalmente dalla storia.
C’è molto dolore fisico e imbarazzo nel film, ma alla base di tutto troviamo una famiglia che, in un periodo traumatico per il mio personaggio AJ, si riunisce per guarire aspetti del suo passato. Non vedo l’ora che esca.

Ryan Cooper attore
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Al cinema il battesimo del fuoco è arrivato nel 2017, nella commedia Crazy Night – Festa col morto , con un cast al femminile di prim’ordine (Scarlett Johansson, Zoë Kravitz, Demi Moore, Jillian Bell…), dove interpretavi uno spogliarellista. Che ricordo serbi di quel primo, importante set?

Lavorare con star del genere è stato incredibile. Ho potuto farne esperienza come esseri umani, prima che attrici, imparando molto da loro. Scarlett era davvero accogliente nelle scene, Jillian incoraggiante; quanto a Kate McKinnon, è stata una delle co-protagoniste più gentili in assoluto.

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Ci sono ruoli o generi che finora non ti hanno proposto e vorresti invece sperimentare?

Ho avuto la fortuna di impersonare villain ed eroi, cantare come una rockstar e torturare la gente. Trovo decisamente divertente poter spaziare tra vari personaggi.
Adoro i film cui ho preso parte, sinceri e sentiti, e altri ne verranno. Il mondo ha bisogno di pellicole che ci cambino, aiutandoci a riflettere dopo essere usciti dal cinema. Mi piacerebbe tanto, però, fare qualcosa con parecchie scene d’azione e, forse, ballare (al momento mi limito a farlo in salotto, quando sono solo). Ogni ruolo mi lascia con nuova abilità o qualcosa in più che so di me, è tutto ciò che si possa desiderare, sul serio.

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Da cultore del fitness, nel 2019 hai messo a frutto questa passione nel programma CooperFit, dedicato al wellness nel suo complesso, dall’allenamento alla meditazione. Un bilancio a riguardo?

CooperFit è stato lanciato dopo aver osservato i clienti, lavorando a stretto contatto con loro, e capendo così che le nostre barriere fisiche, o il mancato raggiungimento degli obiettivi, sono direttamente collegati al benessere mentale. Adoro aiutare le persone a perdere peso o metter su muscoli, ma a lungo termine il cliente viene gratificato maggiormente dall’essere favorito in relazioni più serene, oppure dal ricevere supporto nel raggiungimento di un obiettivo di vita. Le parole d’ordine, “cuore e salute”, indicano che le due dimensioni sono interconnesse, si influenzano reciprocamente.

Cooperfit
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Prima della recitazione, e poi in parallelo, hai lavorato ai massimi livelli come modello, esordendo in una campagna per DKNY Jeans nel 2008 e comparendo poi in editoriali e adv delle principali griffe e testate fashion (tra cui A|X Armani Exchange, Trussardi, Boss, Esquire, L’Officiel Hommes). C’è qualche esperienza, tra quelle citate e non, che ti abbia segnato, che ti capita di ricordare per un motivo preciso?

Il settore della moda mi era del tutto sconosciuto quando sono entrato a farne parte. Facevo il carpentiere, ero abituato al lavoro duro, perciò l’ambiente in questo mi è apparso estremamente agevole. Il lato più complicato del mestiere è invece quello relativo ai viaggi, al senso di solitudine che dà l’essere sempre in giro.
Mi sento privilegiato per aver avuto la possibilità di volare in mete incantevoli per gli shooting o incontrare persone artisticamente così dotate; nel complesso, però, tutto ciò ha solo rafforzato la comprensione del fatto che, in quanto esseri umani, lottiamo con situazioni che sono reali per noi, a prescindere dal contesto, e possiamo scegliere se impegnarci, crescendo, o eludere gli altri. C’è sempre un approccio diverso (gentile, egotico, collaborativo, battagliero…) per affrontare qualsiasi lavoro o persona, o il modo in cui ci vediamo.
Stare davanti all’obiettivo da modello mi ha aiutato a sentirmi a mio agio nel cinema. Allo stesso modo, lavorare sui set mi ha fatto apprezzare di più le occasioni in cui ho lavorato nella moda. Credo che nella vita sia tutta questione di apprendere qualcosa e alimentarla, in ogni ambito. Ricordo un’esperienza con Peter Lindbergh, che lavorava nella maniera più calma e gentile che si possa immaginare, senza farne mai un dramma, in pace; mi ha fatto venire voglia di trasmettere a mia volta questa sensazione.

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Attualmente a cosa stai lavorando? Cosa ti auguri per il futuro, in termini sia professionali che umani?

Girerò fino alla fine di luglio per You Are Not Alone, quindi spero di fare una piccola vacanza con mia figlia.
Inoltre sto producendo altri progetti in fase di sviluppo, e come sempre mi piace lavorare con i clienti di CooperFit, attività che posso svolgere a distanza.

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Ryan Cooper magazine
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Credits

Talent Ryan Cooper 

Photographer Dean Isidro

Art Director Paul Lamb

Stylist Gregory Wein

Stylist assistant Brianna Klouda

Grooming Michael Moreno

Photo retouch Jay Arora

Project coordinator Giorgio Ammirabile

Nell’immagine in apertura, Ryan indossa collana e bracciali Title of Work, camicia Musika

Carolina Sala e Gea Dall’Orto: poco social, molto impegnate

Carolina Sala Instagram
Gea e Carolina: total look Dior, earrings and bracelet Piaget

Quasi coetanee (22 anni una, 20 l’altra), una carriera in rapida ascesa con ruoli equamente distribuiti tra grande e piccolo schermo, Carolina Sala e Gea Dall’Orto denotano una maturità, una chiarezza d’idee, obiettivi e riferimenti artistici che stride un po’ con l’età anagrafica. La caratura delle produzioni cui hanno partecipato (nel caso di Carolina Fedeltà, Vetro, Pezzi unici, La guerra è finita, in quello di Gea Tre piani, Mio fratello rincorre i dinosauri, Gli orologi del diavolo, Rinascere) è del resto eloquente, e consente di annoverarle a pieno titolo in quella new generation attoriale, risoluta e dinamica, che sta contribuendo attivamente a rinnovare tv e cinema italiani.

Davanti all’obiettivo del fotografo di questo servizio pare si fosse creato un certo affiatamento, vi sareste subito trovate insomma, è così? Cosa apprezzate di più l’una dell’altra, lavorativamente e umanamente?

Carolina: Era il mio primo shooting doppio, non sapevo cosa aspettarmi, alla fine è stato un divertimento. C’è bisogno di un’alchimia diversa da quella dei set, con pose statiche, ed è stato piacevole condividerlo con Gea, di cui mi ha colpito l’immediatezza, nel senso migliore del termine, è una persona che ti arriva subito, ne percepisci distintamente la bellezza. Non ci conoscevamo prima, eppure non ci son state difficoltà di alcun tipo.

Gea: Nemmeno io conoscevo Carolina, il suo lavoro sì però, La guerra è finita ad esempio, che mi era piaciuto moltissimo. Quando ho saputo che ci avrebbero scattato delle foto insieme, non potevo che esserne contenta, nelle collaborazioni aspiro sempre a trovare persone della mia età, con cui scambiare opinioni, confrontarsi su un piano intellettuale, con lei è avvenuto all’istante.
Mi sono divertita con gli abiti, mi ha ricordato quando da piccola giocavo a travestirmi con le amiche, certi capi sono talmente belli e complessi che mi è venuto naturale inserirli in una dimensione ludica.

Forse mai prima d’ora il panorama recitativo italiano ha visto in prima fila tanti giovani di talento che, anche grazie alla diffusione di piattaforme alla Netflix o Amazon Prime Video, si fanno conoscere oltre i nostri confini. Sentite di appartenere a una nuova generazione di interpreti in rampa di lancio? Cosa pensate vi accomuni?

C: Non sentendomi tuttora propriamente arrivata, fatico a percepirmi come un’esponente di questa nuova generazione, provo a restare coi piedi per terra, senza focalizzarmi sulle “appartenenze”. Una cosa che mi fanno notare sui colleghi della mia età, un tratto distintivo, ecco, è la voglia di lavorare insieme, anche con le maestranze, un approccio assai poco divistico. In passato c’era forse l’idea dell’attore distaccato, individualista, ora si tende al pragmatismo e si fa gruppo, o almeno questa è la mia impressione.

G: Sono completamente d’accordo. Oggi, probabilmente grazie ai social, noi attori riusciamo a essere connessi e, volenti o nolenti, finiamo col conoscere le rispettive quotidianità, empatizzando gli uni con gli altri. Ho lavorato spesso con miei coetanei e non ho mai trovato primedonne, anzi, c’era la volontà di supportarsi a vicenda. A distinguerci, credo, è proprio questo spirito empatico, di condivisione.

Gea Dall'Orto Cannes
Gea: total look Alexander McQueen, boots Valentino, earrings Albert M.

A proposito di colossi dello streaming, persiste una divaricazione tra addetti ai lavori sui giudizi ad essi riservati, vengono accusati da alcuni di danneggiare il cinema, l’esperienza della visione in sala. Qual è la vostra opinione?

G: Penso che non si possano condannare certi meccanismi industriali, il cinema è anzitutto un’industria, in costante movimento, è normale sia così. Contrastando il cambiamento faremmo solo peggio, da addetti ai lavori dovremmo cercare piuttosto di integrare l’home cinema nella nostra vita quotidiana, come gli spettatori. Ad ogni modo, sebbene il grande schermo non sia più il core system, io invito sempre tutti a frequentare le sale; è bello poter guardare tutto dal divano, scegliendo in un catalogo sconfinato, ma il cinema è un’esperienza diversa, non deve sostituirsi alla tv.

C: Hai ragione, dovremmo abituarci a considerarle esperienze differenti, vedere un film sul piccolo schermo è un’altra cosa. Finora siamo stati travolti dalle innovazioni, penso che quando acquisiremo maggiore consapevolezza a riguardo, allora sarà possibile una riscoperta del cinema, o perlomeno una sua valorizzazione.
Per quanto tutti i titoli finiscano in streaming, sono pensati quasi sempre per formati diversi, è una questione tecnica. Inoltre le piccole produzioni provano magari a rischiare, sperimentano, un aspetto che nelle grandi piattaforme, dai numeri enormi, c’è solo in parte.

G: Un tentativo secondo me si potrebbe fare riproponendo in sala capolavori passati, succede già con i vari Netflix e Amazon, che sfruttano un vasto archivio. Può accadere per opere restaurate di recente, però non è la norma.

Carolina Sala intervista
Carolina: dress and shoes Versace, tights Emilio Cavallini, earrings Etrusca Gioielli, necklaces Radà; Gea: dress and shoes Versace, tights Emilio Cavallini, earrings Radà

In Vetro Carolina, ragazza hikikomori, riesce a interfacciarsi col mondo esterno solo tramite uno schermo. La vostra generazione, per ragioni anche solo meramente anagrafiche, è la più connessa e digitalizzata di sempre, che rapporto avete con i social?

C: Di amore e odio, a volte disinstallo tutto perché raggiungo il limite. Vado a periodi, da un lato li considero un buono strumento per creare connessioni, scoprire persone o realtà di cui altrimenti non si scoprirebbe mai l’esistenza, dall’altro alimentano un circuito negativo e rendono difficile rapportarsi con modelli che appaiono inarrivabili solo perché fasulli. In generale, li uso per lavoro, il mio privato cerco di tenerlo in disparte.
Provo sentimenti contrastanti verso i social, e un filo di disillusione, specie riguardo la loro reale utilità nel supporto a determinate cause o battaglie.

G: … Anche perché chi è attualmente al potere li conosce e usa poco, su questo concordo. A me poi è sempre piaciuta la concezione dell’attore come di una figura enigmatica, ambigua, considerato che parlando spiattello tutto in cinque minuti, almeno sui social non sarebbe male mantenere un po’ di mistero.

Carolina Sala Fedeltà
shirt and skirt Vivienne Westwood, tights Emilio Cavallini, shoes Giuseppe Zanotti

Il ricordo più significativo, ad oggi, del vostro lavoro? Uno specifico ruolo, titolo, momento…

C: Più che un singolo episodio un’esperienza, Vetro appunto, che ha rappresentato una svolta; passando dodici ore al giorno nella stanza dove si girava, fra trucco, prove e altro, ho avuto infatti la possibilità di entrare in contatto con set e troupe in un modo che, in seguito, ha cambiato il mio approccio al lavoro. È stato coinvolgente, intenso, in più lavorare insieme a Tommaso Ragno, sostanzialmente solo con la voce, ha completamente stravolto l’idea che avevo della recitazione.

G: Sarà scontato ma non ho dubbi, il provino per Tre piani di Nanni Moretti, ne sono uscita dicendomi che, a prescindere dall’esito, si trattava dell’audizione più bella che avessi mai sostenuto; mi sono sentita ascoltata e per la prima volta a mio agio, inserita in un ambiente che consentiva di concentrasi appieno. Si è creata una sorta di magia, con lui seduto alla scrivania, che mi guardava in una maniera così accurata…  Continuo a cercare quel tipo di sguardo in ogni persona con cui interagisco per motivi professionali, perché stimola a dare il meglio. Oltretutto ha rivoluzionato la mia vita sotto vari aspetti, tra Cannes, attori incredibili e nuove opportunità, in primis Gli orologi del diavolo di Alessandro Angelini, a lungo assistente alla regia di Moretti.

Ruolo o genere dei sogni?

C: Sono attratta da storie e personaggi più che dai generi, detto ciò adorerei un film in costume, ambientato nel ‘700 o ‘800, o all’opposto un action puro, con sparatorie e combattimenti, alla Kill Bill per capirci.

G: Opto anch’io per il period drama, sarà che mia nonna era costumista. Un film degli Avengers, tuttavia, sarebbe il massimo, appagherebbe il mio lato nerd.

Gea Dall'Orto Instagram
Vest Sara Wong, top and skirt Reamerei, tights Emilio Cavallini, earrings and rings Radà

Un regista – o più di uno – da dream list?

C: Ne ho due impossibili perché, banalmente, non ci sono più, Kubrick e Buñuel. Tra quelli di oggi – ce ne sarebbero milioni, in verità – dico Paul Thomas Anderson.

G: Restando sui miti, da amante della Nouvelle Vague cito Truffaut, Godard e Chabrol. Tornando alla realtà, mi sono piaciute le due pellicole di Valerio Mieli, sarebbe bello in futuro lavorare con lui; spostando lo sguardo all’estero, trovo estremamente affascinante Damien Chazelle.

Gea Dall'Orto Carolina Sala
Gea: total look Moschino, necklace Radà, shoes Giuseppe Zanotti; Carolina: total look Moschino, shoes Giuseppe Zanotti, earrings Radà


Se non foste diventate attrici, cos’avreste voluto fare nella vita?

C: Sinceramente in questo periodo me lo chiedo anch’io, d’altra parte la mia carriera è iniziata per una contingenza, col mio agente che mi ha notata sul palco.
Studio storia dell’arte all’università, la adoro, ma è una passione nata – e alimentata – in parallelo alla recitazione. Sarebbe bello mettere insieme le due dimensioni, in un modo che non saprei indicare neppure io. Diciamo comunque gallerista o curatrice, dai.

G: Da golosa quale sono, da bambina volevo fare la gelataia (ride, ndr).
Scherzi a parte, nel mio caso vita e carriera si sono mescolate subito, i miei hanno una compagnia teatrale, mia nonno è regista, di nonna ho già parlato, faticherei a vedermi altrove, anche perché sono perdutamente innamorata del mio settore. Immagino che un’ipotetica altra strada mi avrebbe condotto ugualmente al cinema, magari in veste di critica o regista.

Su cosa siete impegnate attualmente? Cosa vi augurate per il futuro?

C: Uscirà a breve, probabilmente in autunno, Di più non basta mai di Pappi Corsicato.
Ci sono dei progetti in vista e le riprese cominceranno verso la fine dell’estate, non posso dire altro. Vivo un po’ da funambola, sempre sul filo, non so mai bene cosa augurarmi, di sicuro che sia sorprendente, via.

G: Adesso sono impegnata con la seconda stagione di Luce dei tuoi occhi, per il futuro mi auguro di potermi imbattere in persone – e personaggi – interessanti.

Gea Dall'Orto film
Dress Vivienne Westwood, tights Emilio Cavallini, shoes Traffico, earrings and ring Piaget

Carolina Sala fashion
Dress Sara Wang, headpiece ILARIUSSS

Credits

Talents Carolina Sala, Gea Dall’Orto

Photographer Filippo Thiella

Stylist Simone Folli

Ph. assistant Davide Simonelli

Fashion assistant: Nadia Mistri, Francesco Paolucci

Hair Francesco Avolio @WM-Management

Make-up Anna Pellegrini using MAC Cosmetics

Nell’immagine in apertura, Carolina e Gea indossano total look Dior

Sara Ventura, fitness e arte al servizio del benessere individuale

Chi l’ha detto che le palestre debbano essere luoghi funzionali (all’allenamento) ma, tutto sommato, asettici, standardizzati, una successione di ambienti con macchinari, musica sparata e schermi perennemente accesi? Non la pensa così Sara Ventura: ex tennista con 15 titoli italiani nel proprio palmarès, fitness coach, autrice del libro A testa alta (dal sottotitolo wildiano, programmatico, Amare se stessi è l’inizio di una storia d’amore infinita), è una convinta sostenitrice dell’assioma secondo cui corpo e spirito formano una monade inscindibile, dunque non può esistere benessere fisico senza quello interiore, e viceversa.

Sara Ventura fitness
Sara Ventura nel suo spazio in Ripa di Porta Ticinese, a Milano (ph. Vincenzo Valente)

Sara Ventura Art and Body, tempio del benessere fisico e spirituale

Luogo deputato alla concretizzazione di tali principi è Sara Ventura Art and Body in Ripa di Porta Ticinese, a Milano, struttura di 500 metri quadri dall’aspetto post-industriale, pensata come un connettore tra universi diversi eppure affini, aperta a eventi fashion, mostre, shooting, produzioni video o musicali.

Un métissage, quello tra allenamento e arte, che può suonare insolito, per usare un eufemismo; lei però lo reputa del tutto naturale, se infatti le si chiede come e perché abbia pensato di combinare i due mondi, risponde di essersi «sempre interessata all’arte, alla pittura in particolare, fin da piccola mi divertivo con colori e pastelli, realizzavo murales… Una volta smesso con lo sport agonistico, ho ripreso questo lato artistico, frequentando un’accademia, quindi ho deciso di aprire una palestra che unisse le mie passioni».

Luce, silenzio e artwork in uno spazio polifunzionale

Ha le idee chiare, Sara, soprattutto sul corpo, visto come «un’opera d’arte, da cesellare – e celebrare – in un contesto scandito da silenzi, luci, installazioni artsy, ideale per le sessioni di training, certo, ma che può ospitare ogni tipo di evento. Ne ho sviluppato personalmente l’estetica, fin nei minimi dettagli, mantenendo l’anima industrial (era una fabbrica di bastoni, ndr) e facendone un ambiente multifunzionale, dove i clienti possano allenarsi circondati da artwork».
Il fitness, a suo parere, non è mai stato tanto in auge, tuttavia «è inflazionato, quasi ovunque si preferisce la quantità alla qualità, con posti pieni di gente su file infinite di macchine, io invece voglio concentrarmi sulla cura del movimento, anche visiva, sul training personalizzato che dia valore alla persona, rispettandone tempi e spazi, tirando fuori il meglio da ognuno».

Sara Ventura Milano
Sara Ventura (ph. Vincenzo Valente)

«Il benessere – prosegue – passa necessariamente dalla consapevolezza della propria corporeità, per acquisirla bisogna dedicarcisi a fondo». Lo sguardo si posa sulle tele appese alle pareti, «alcune sono mie», specifica, «le ho realizzate negli anni dell’accademia o in quelli seguenti, dipingere è una forma di meditazione. Qui generalmente organizzo delle mostre itineranti, adesso, dopo il Covid, stiamo ripartendo».

Allenamenti “tailored” che si avvalgono della collaborazione con Rossella Migliaccio

C’è tempo per introdurre la novità più recente di Sara Ventura Art and Body, un format innovativo che si avvale delle riflessioni di Rossella Migliaccio, consulente d’immagine che, dopo averci edotto sui poteri dell’armocromia, nel 2020 si è occupata di body shape col saggio Forme, classificandone sei – a triangolo, ovale,  a clessidra, a mela… – e inquadrandole in un sistema che aspira a valorizzare l’unicità di ciascuna. Partendo da qui, Sara «porta l’allenamento “su misura” nel lavoro di gruppo, con classi – per ora esclusivamente femminili – differenziate in base alle tipologie di fisico e percorsi che hanno l’obiettivo non di cambiare il corpo, ma di stabilire un’armonia con ogni sua forma».

«Si possono così mettere a punto soluzioni mirate anche nei corsi collettivi, mentre nelle palestre di solito si propone a tutti la stessa formula, uomini di cinquant’anni e ragazze 20enni, persone alte e basse si ritrovano ad allenarsi in modo identico. I miei programmi, al contrario, rispecchiano appieno la mia filosofia di non omologazione, centrata sulla singola personalità». Marina Abramović, Bruce Nauman, Urs Lüthi e altri insigni esponenti della body art, propugnatori dell’idea di corpo come veicolo artistico privilegiato, approverebbero senz’altro.

Sara Ventura art e body
Ph. Vincenzo Valente

Credits

Photographer Vincenzo Valente

Make-up Maddalena Brando @simonebelliagency

Il best of di Pitti Uomo 102

Abbandonato il low profile (obbligatorio, in verità, per cause che è ormai superfluo specificare) dell’ultimo biennio, Pitti Uomo torna al consueto format pre-pandemico, con un tourbillon di presentazioni, progetti speciali ed eventi collaterali, spalmati su quattro giornate, dal 14 al 17 giugno. Metabolizzata la massa di input stilistici concentrati nei padiglioni della Fortezza da Basso, abbiamo pensato di ricapitolare alcune novità primavera/estate 2023 viste durante la rassegna.
A seguire, il best of di Manintown della 102esima edizione del salone, categoria per categoria.

Pitti uomo 102

Capispalla

L'impermeabile brand
L’Impermeabile P/E 2023 (ph. courtesy L’Impermeabile)

Con le belle stagioni che, ahinoi, saranno caratterizzate sempre più da clima canicolare, umidità, rovesci forse sporadici ma violenti (sposare la sostenibilità, d’altra parte, è urgente proprio per mitigare le conseguenze del climate change), i produttori di outerwear non lesinano gli sforzi per adeguarsi alle – mutate – necessità e preferenze dei clienti.

Uno specialista della categoria come L’Impermeabile, sotto questo profilo, è avvantaggiato. Per la P/E 2023 la (rinnovata) collaborazione con lo stilista Romano Ridolfi, che firma i capi dell’etichetta blu, attinge alla rilassatezza dei volumi e alla praticità dello sportswear ‘60s, ibridando formale e informale in una serie di must che non dovrebbero mai mancare nell’armadio maschile; si dà risalto alla versione 2.0 della paramatta, tessuto impermeabilizzato australiano opportunamente alleggerito, reso più compatto e versatile; nella linea contrassegnata dall’etichetta grigia, invece, prevale l’utilizzo del cotone cerato e si arricchiscono i classici del marchio (spolverini, field jacket e soprabiti) con motivi principe di Galles o tartan.

Sartoria Latorre porta al padiglione centrale la capsule collection Vent De Sirocco, rilettura dello stile coloniale attraverso il savoir-faire artigiano e l’ossessione per la qualità che animano il brand; immancabili, dunque, sahariane color gesso o taupe, trench doppiopetto e parka, evocativi di un’eleganza souple d’altri tempi.

Non cessa di esercitare il suo fascino (vedi l’interesse per l’America’s Cup, nel 2021) l’abbigliamento nautico: Murphy & Nye e North Sails esaltano – giustamente – un heritage definito da regate, yacht e paesaggi marittimi, il primo rieditando i pezzi che, all’inizio del millennio, ne decretarono il successo – dal blouson con zip allo smanicato (attualizzati però all’oggi mediante innovazioni come termonastrature e tessuti performanti), il secondo associandosi a Maserati in una collab dove il lifestyle dell’azienda americana (centrato sull’oceano, suo vero propulsore estetico) incontra l’avanguardismo tech della casa del Tridente in giubbini imbottiti, gilet, giacche in due lunghezze ideali per viaggiare, sviluppati privilegiando filati eco, organici o riciclati.

Jeans

I mesi caldi richiedono grammature di un certo tipo e tonalità che si accordino alla palette stagionale, concedendosi – perché no? – cromie accese e lavaggi fantasiosi, per conferire un tocco extra di vivacità all’outfit. Lo sanno bene da Cycle (una garanzia in tema di luxury denim): la collezione P/E 2023 è la sintesi perfetta dell’inesauribile estrosità con cui la griffe manipola la tela blu, che a seconda dei casi viene sdrucita, decolorata (gli effetti tie-dye o bleached si sprecano), rammendata, mischiata a lyocell e modal per accentuarne la morbidezza, con la modellistica resa ora aderente (nei cinque tasche skinny), ora comfy.


Attenendosi alla filosofia per cui ogni indumento dovrebbe essere «ricco di storie, unico e prezioso», anche Reign diversifica notevolmente le opzioni tra cui scegliere, passando dai pants scorticati a quelli chiazzati di vernice, dal délavé a gradienti di rosso, arancio e verde scuro, alternativa colorful al sempiterno blue jeans.
Da HandPicked le salpe diventano la cartina al tornasole per orientarsi nei sei mood di stagione, che vanno dal Pop (identificato da un’etichetta in ecopelle, ispirata ai dipinti neoespressionisti di Julian Schnabel) all’Handmade; in quest’ultimo si concentra il virtuosismo creativo e manifatturiero della label, tra preziosismi, pinces e costruzioni che si aspetterebbe di trovare in un atelier.

Pantaloni

Due i modelli di punta targati Berwich per il prossimo anno: Negroni Lux, chino dai toni sablé in canapa (fibra green che regala al capo una patina vissuta, di autenticità), e 2P, bermuda oversize con doppia piega a stampa maculata.

Cruna (sinonimo di pantalone a regola d’arte fin dalla nascita del brand, nel 2013), da parte sua, triplica l’offerta, suddivisa in Main, Natural Wonders e Active, ma l’obiettivo è il medesimo, elevare cioè la nozione di casual, farne un genere trasversale valorizzando sia i materiali (lino, cotone, gabardine, blend di lana e seta…), sia le vestibilità, che aspirano alla perfezione, si tratti del taglio a carota del best-seller Mitte, delle linee asciugate del Brera o dello smooth fit (così viene definito) del Burano.

Maglie e camicie

Nonostante le temperature torride già dai primi accenni estivi, maglieria e camiceria continuano a farla da padrone nei guardaroba degli espositori di Pitti. Nel “salottino” KNT, ad esempio, ruba l’occhio la minicollezione Panda, con impresso l’animale preferito di Mariano De Matteis (designer della linea, assieme al gemello Walter), alternativamente spigoloso (perché composto da pannelli geometrici), stilizzato tipo manga oppure rimpicciolito in un pattern ipnotico che s’impossessa di overshirt e pantaloncini; dietro l’apparente facilità di t-shirt, felpe e simili si cela la maestria sartoriale dell’azienda di famiglia, Kiton, ché «la semplicità è la suprema sofisticazione», per dirla alla Leonardo da Vinci.

Dal maglificio genovese Avant Toi, invece, via libera alla rivisitazione dello stile Seventies a suon di motivi etno-chic, disegni optical, digradazioni di colore che trasferiscono su lino, seta, cachemire e altri filati nobili le sfumature del tramonto. Stilemi anni ‘70 sugli scudi anche nello spazio di Roberto Collina, dove ci si perde tra intarsi jacquard floreali, cromie acidate, petali multicolor ad illuminare le trame di cardigan sciallati, pull e magliette.

Per chi non rinuncia mai alla camicia, inverno o estate poco importa, ecco poi la tante novità svelate dai marchi specializzati, dall’elegia del lino – usato in tutte le salse, in tinta unita, madras, seersucker, color sorbetto… – di Alessandro Gherardi all’istituzionalità camiciaia di Borriello Napoli; dalla traduzione dei generi musicali – funky, soul, indie – in shirt di varia foggia operata da Brancaccio ai coloratissimi patchwork di Poggianti 1958.

Calzature e accessori


2star sneakers uomo
2Star P/E 2023 (ph. courtesy 2Star)

Per quel che concerne scarpe e accessori, negli stand della fiera ce n’è davvero per tutti i gusti. 2Star, ad esempio, seleziona tele irrinunciabili per il menswear – denim, canvas organico al 100%, felpa – e le trasferisce sulle tomaie delle nuove sneakers P/E, “sporcate” quel tanto che basta per accentuarne l’allure metropolitana. Vintage effect anche da Monoway, esplicitato in questo caso da piccole screpolature e ombreggiature su ginniche bianche dal carattere ‘80s.

Monoway sneakers
Monoway P/E 2023 (ph. courtesy Monoway)

Leggerezza, voglia di evasione, ritorno alla vita en plein air. Le parole d’ordine della bella stagione di Barrett si riflettono nelle soluzioni tecniche (forme destrutturate, suole in gomma ultra morbide, pellami intrecciati o sfoderati) e cromatiche (una scala di nuance lievi, celesti, beige, blu pastosi, marroni caramellati) adottate da monk strap, stringate, mocassini e slip-on.

Tra gli accessori, vanno menzionati perlomeno gli occhiali Jacques Marie Mage (adorati dal jet set californiano, leggasi – tra gli altri – Jude Law, Samuel L. Jackson, Kristen Stewart, LeBron James); i cappelli handcrafted Superduper; i bracciali edgy di Topologie (che incorporano ganci e chiusure delle corde da arrampicata); in quota green, infine, le borse Regenesi, ottenute da materiali rigenerati e scarti tessili.

Nell’immagine in apertura, uno scatto della campagna ufficiale dell’edizione numero 102 della fiera, ‘Pitti Island’ (ph. courtesy of Pitti Immagine)

Matthew Zorpas, il primo gentleman “digitale”

Se si parla di savoir-vivre, eleganza e stile maschile (concetti spesso abusati ma tuttora poco indagati nelle infinite sfumature di cui si fanno portatori), Matthew Zorpas è la persona giusta per sondare tutto ciò che attiene ad usi e costumi dei gentlemen moderni. Esattamente dieci anni fa, infatti, questo poliedrico creativo e imprenditore cipriota, londinese d’adozione, ha lanciato il sito The Gentleman Blogger, divenuto rapidamente un portale di riferimento per il menswear e il lifestyle più in generale tra outfit (spesso formali, sempre all’insegna della raffinatezza, che gli sono valsi riconoscimenti come quello di Esquire UK, che nel 2010 l’ha inserito nella classifica annuale dei Best Dressed Men), viaggi (altra passione e atout del fondatore), wellness, tips rivolti a una community di appassionati, esigenti e cosmopoliti.

the gentleman blogger influencer
Coat Paul Smith

Zorpas ha dimostrato insomma di essere un vero antesignano della materia, puntando sullo storytelling ben prima delle torme di influencer, o sedicenti tali, che affollano oggi i social media. A certificare il successo dell’operazione sono i numeri (oltre 52.000 utenti unici al mese per la piattaforma, più di 182.000 e 24.000 follower rispettivamente su Instagram e Facebook) e la caratura di griffe e aziende con cui The Gentleman Blogger ha collaborato nel tempo, da IWC a Tod’s passando per Fendi, Bentley, Nespresso e tanti altri. Abbiamo approfittato dello shooting cui si è prestato per l’issue Youth Babilonia di Manintown per parlare con lui di cosa distingua i veri gentlemen, dell’impatto del Covid sulle preferenze degli uomini in tema di abbigliamento, dei cambiamenti in atto nell’industria della moda maschile e la società nel suo complesso, del metaverso.

Matthew Zorpas influencer
Total look Pal Zileri, shoes Church’s, watch Cartier

Sei considerato una pietra di paragone dei gentlemen contemporanei – e aspiranti tali, lo si intuisce dal nome del tuo – seguitissimo – blog. Cosa contraddistingue, nel 2022, un gentleman, quali sono le qualità che deve assolutamente possedere, a livello stilistico e non?

Negli ultimi dieci anni ho visto cambiare sia la definizione del termine, sia l’atteggiamento, la forma in cui viene declinato. In fin dei conti il gentleman è un puro, è una questione di anima. È un modo di vivere vero e proprio, non una specifica azione né un lifestyle, e neppure un abito su misura ben studiato ma “imposto”, si tratta piuttosto della scelta di vestire con disinvoltura. Oggi vestirsi come un gentleman risulta semplice, decisamente più difficile è possederne le qualità.

The Gentleman Blogger taglia il traguardo del decennale. Grazie al sito godi di un osservatorio privilegiato sull’universo maschile, a tuo giudizio quali sono i cambiamenti principali avvenuti in quest’arco di tempo?

Ho fondato The Gentleman Blogger nel 2012, vivo questa splendida avventura da un decennio. Ho visto cambiare l’atteggiamento degli addetti ai lavori nei confronti degli influencer, dall’arroganza iniziale alla disponibilità odierna ad accoglierci, incoraggiarci e sceglierci. Per quanto riguarda il lifestyle maschile, si è passati da un modello formale, “standard” ad uno rilassato e variegato.

Matthew Zorpas Instagram
Jacket Gucci @Tiziana Fausti (www.tizianafausti.com), shirt and scarf vintage

Prediligi uno stile improntato alla ricercatezza, all’eleganza dal flair “vecchia scuola” di completi di fattura sartoriale, pattern della miglior tradizione britannica, tuxedo, abiti tagliati alla perfezione… Lockdown, lavoro a distanza e altre conseguenze della pandemia sembrano aver segnato in profondità, spesso penalizzandolo, il mondo dell’abbigliamento formale, già interessato da trasformazioni dettate dai cambiamenti di gusti e abitudini dei consumatori. Qual è il tuo parere in merito, come credi che cambierà il formalwear?

Il cambiamento è ben accetto. La fashion industry deve seguire i consumatori, che sono ormai diversi e consapevoli. Continuerà dunque a rispecchiare correnti, crisi politiche o ambientali; è nostro compito assicurarci che si aggiorni e modifichi, anticipando ed accompagnando tali cambiamenti. Purtroppo, chi resta indietro è destinato a fallire. Tutto ciò non si traduce in un incremento dell’offerta in termini di scelte e opzioni, bensì nel fare ciò che è in linea col Dna del marchio, e farlo bene.

The gentleman blogger
Total look Dolce&Gabbana, watch Cartier, burgundy ring Bulgari, shoes Christian Louboutin

Il Covid ha impattato anche sugli influencer tra restrizioni, chiusure e stravolgimenti più o meno sostanziali, forzandoli a rivedere tono e tipologia dei post. Senza contare, poi, che erano già alle prese con sfide inedite, dalla saturazione dello spazio alle insidie poste da “colleghi” virtuali, metaverso e novità che potrebbero cambiare i social per come li conosciamo. Cosa puoi dirci a riguardo, qual è lo stato dell’arte dell’influencing?

L’industria degli influencer continuerà a esistere a lungo; esattamente come quella editoriale, fa il suo percorso, dobbiamo lasciare che lo spazio digitale si espanda, cresca, si evolva e, quando sarà il momento, entri in una fase declinante. Non abbiamo ancora raggiunto il picco, stiamo vivendo solo ora la transizione dall’offline all’online. La Generazione Alpha (i nati dopo il 2010, ndr) è nata e cresciuta online, si concentra solo su di esso.

A proposito di metaverso, cosa te ne pare? I gentiluomini potrebbero – e dovrebbero – ritagliarsi un proprio spazio anche in una realtà virtuale fatta di pixel, avatar e affini?

Sono consapevole dell’esistenza del metaverso, non è però un mio spazio personale né un’opzione, idem TikTok. Va ricordato a tutti che possiamo scegliere di essere presenti ovunque vogliamo. Le nuove piattaforme o mondi non dovrebbero sostituire quelli vecchi, ma rispondere al consumatore, soddisfarlo.

Matthew Zorpas jewels
Total look Emporio Armani, ring Nikos Koulis

I viaggi sono una tua grande passione, hai sempre seguito con interesse il settore dell’ospitalità, collaborando anche col ministero del turismo di Cipro. Dopo il ciclone Coronavirus, ritieni ci saranno cambiamenti strutturali?

Dall’inizio della pandemia, ogni settore (dalle consegne al turismo, all’ospitalità) ha dovuto avviare trasformazioni strutturali, soprattutto in Occidente. Col mio team e il viceministro del turismo di Cipro, siamo riusciti a organizzare il primo evento “social distancing” RoundTable all’aperto nel 2020, seguito dalla campagna 7AM nel 2021 e da ImagineBeingHere nel 2022. Dovevamo ricostruire il sogno quando ancora non c’erano voli per il paese, quando sono stati consentiti di nuovo bisognava fare altrettanto, ricreare la necessità di visitarlo, e adesso, tornando alla normalità, ricordiamo entrambi gli aspetti ai visitatori.

Puoi dirci almeno tre capi/accessori che non dovrebbero mai mancare nel guardaroba, i mai più senza di ogni gentleman che si rispetti?

Non esiste un capo basilare che chiunque dovrebbe avere, assolutamente. Infrangiamo ogni regola, ciascuno dovrebbe possedere solo ciò di cui avverte il bisogno, che reputa necessario.
Una volta rispondevo sempre un doppiopetto e uno smoking, oggi possiamo essere dei gentlemen con una semplice t-shirt bianca e jeans Levi’s. I tempi sono cambiati.

Total look Zegna

Per quanto sia azzardato fare previsioni, come immagini The Gentleman Blogger di qui a dieci anni? Cosa potrebbe caratterizzare la community dei gentlemen del futuro?

The Gentleman Blogger è stato una meravigliosa impresa. Sono davvero soddisfatto del cambiamento, dell’innovazione, della creatività, della passione, in definitiva della comunità che, per un decennio, ha amato e si è stretta attorno a questa fantastica iniziativa. Non posso azzardare previsioni sul mio prossimo progetto, di sicuro non vedo l’ora di intraprenderlo con la forza, la sincerità e la determinazione necessarie affinché abbia successo.

Matthew Zorpas style
Total look Alexander McQueen

Credits

Talent Matthew Zorpas

Photographer Georgios Motitis

Styling Giorgia Cantarini

Stylist assistant Federica Mele, Emma Thompson, from MA Fashion Styling – Istituto Marangoni London

Location The Dorchester

Nell’immagine in apertura, Matthew Zorpas indossa total look Alexander McQueen

Alessandro Piavani, l’artigianalità della recitazione

Alessandro Piavani serie
Total look MSGM (ph. Gianmarco Chieregato)

Gli spettatori che, dal 20 maggio, seguono su Sky e Now Blocco 181, avranno imparato a riconoscere Ludo, biondino di ottima famiglia che, con i sodali (e amanti) Bea e Mahdi, tenta di scalare le gerarchie dello spaccio di Milano, muovendosi in un contesto dicotomico: di qua lo scintillio della metropoli lombarda, i grattacieli di Citylife, locali esclusivi, palazzi nobiliari, di là il degrado, la violenza delle gang, l’atmosfera livida che grava sul complesso edilizio (immaginario) cui si rifà il titolo. A dare corpo e voce al personaggio, che dietro la spavalderia, il vitalismo profuso in feste, eccessi e giri loschi cela la fragilità di un ragazzo profondamente solo, bisognoso di crearsi da sé i legami che la sua famiglia non ha mai saputo garantirgli, è Alessandro Piavani.

28 anni, bergamasco, è un interprete dal robusto curriculum attoriale: diplomato alla Royal Central School of Speech and Drama di Londra, dal 2015 ha accumulato ruoli in numerosi spettacoli, serie e film, italiani (Saremo giovani e bellissimi, La mafia uccide solo d’estate, La porta rossa, Blanca) e internazionali (I Medici, I due papi, The Little Drummer Girl). Ora ha l’opportunità, nei panni di uno dei protagonisti della prima produzione in-house Sky Studios Italia, di esplorare le tante sfaccettature di un personaggio che, a suo parere, è dotato di una «ricca, complessa interiorità», sviluppata ricorrendo alla «cassetta degli attrezzi» di cui ha imparato a servirsi nell’accademia londinese, fondamentali in quanto «la bellezza della recitazione risiede nel poter prendere ciò che serve dai vari metodi, aggiungendoci qualcosa di tuo».

Alessandro Piavani film
Total look MSGM (ph. Gianmarco Chieregato)

Partiamo da Ludo, al centro del triangolo amoroso (e criminale) di Blocco 181 insieme a Bea e Mahdi. Senza svelare troppo della trama, cos’altro vuoi condividere su di lui con chi ci legge?

A differenza degli altri personaggi di Blocco 181 (una costellazione di realtà agli antipodi), viene dall’alta borghesia milanese, ha un background del tutto diverso da quello degli amici. La sua vita agiata, tuttavia, non l’ha facilitato nella ricerca del proprio posto nel mondo, anzi, fondamentalmente è solo. Nell’incontro e relazione con Bea, che coinvolgerà anche il suo migliore amico Mahdi, riesce in qualche modo a trovare la famiglia che ha cercato a lungo, visto che la sua è assente, non compare mai.
Ludo appare vivace, allegro, molto fluido, sa muoversi in ogni ambiente della città, ma dietro la facciata di spensieratezza nasconde forti inquietudini, un senso di profonda solitudine; proverà a colmarlo insistendo sulla relazione complicata che è il cuore della serie.

Quali sono state le difficoltà maggiori nell’interpretarlo e quali, invece, gli aspetti che hai trovato più interessanti?

Penso che gli aspetti difficili e quelli piacevoli, in parte, si siano sovrapposti, nel senso che per me era importante non insistere eccessivamente sul lato “sgamato” di Ludo. Ho avuto spesso la tentazione di indugiare nella sua tendenza a gigioneggiare, col suo modo di fare da cazzone, se mi si passa il termine. Non volevo soffermarmici troppo, per non perdere di vista la sua ricca, complessa interiorità. La difficoltà maggiore è stata probabilmente questa, trovare – e bilanciare – i differenti livelli del personaggio, che pure in tante scene si diverte come un matto, e io con lui.

Blocco 181 protagonisti
Alessandro Piavani (a destra) con Laura Osma e Andrea Dodero sul set di Blocco 181 (ph. Gabriele Micalizzi)

È ormai consistente il numero dei titoli italiani che, negli anni, hanno mostrato “dall’interno” le dinamiche della criminalità, penso a Gomorra, Romanzo criminale, Suburra… Secondo te in cosa si differenzia la serie rispetto ad altre del filone?

In primis, banalmente, nel fatto che si concentra su un cosmo più ristretto, non segue la malavita organizzata che gestisce traffici da milioni di euro.
Ritengo inoltre che la cornice del crime sia, per l’appunto, una cornice, una parte del racconto, dominato dall’amore che unisce i protagonisti. È un po’ un Romeo e Giulietta con due Romei, in fondo anche la tragedia shakespeariana, con le sue lotte familiari, si può considerare crime. Il punto di forza di Blocco 181, forse, sta proprio nel rapporto tra Ludo, Mahdi e Bea, che credo sia una novità; una storia d’amore tra due uomini e una donna mostrata per come è, senza etichette, giudizi o riflessioni da costruirci su, accade e basta. Trovo significativo inserirla nel quadro del genere criminale, che finora ha dato poco spazio alle infinite sfumature dell’animo umano, privilegiandone gli elementi di violenza, machisti.

Ti sei diplomato alla Royal Central School of Speech and Drama, un’istituzione, basta vedere l’elenco di alcuni ex alunni, da Judi Dench ad Andrew Garfield. Cosa ti è rimasto di quell’esperienza?

Per frequentare la scuola mi sono trasferito a Londra, avvertivo la necessità di mettermi in discussione e approfondire la parte artigianale della recitazione. In questo, il master alla Royal Central School si è rivelato una ricchezza incredibile, mi sono potuto concentrare ogni giorno sulle tecniche, i trucchi, i giochi, in una parola sull’essenza del mestiere, cercando di farne tesoro e impiegarli nelle produzioni successive.
La scuola anglosassone, secondo me, ti spinge ad essere chiaro su quello che cerchi, sulle specificità del proprio modo di recitare su cui concentrarsi; avevo bisogno di crearmi una cassetta degli attrezzi con gli strumenti che mi sarebbero potuti tornare utili, la Central me li ha messi a disposizione.
La bellezza del nostro lavoro, in fondo, risiede nel poter prendere ciò che serve dai vari metodi, aggiungendoci qualcosa di tuo.

Blocco 181 serie Sky
Alessandro Piavani e Andrea Dodero (Mahdi) in una foto di scena della serie (ph. Gabriele Micalizzi)

Hai studiato e lavorato nel Regno Unito, avendo occasione di confrontarti con due scuole diverse, britannica e italiana, quali pensi siano i rispettivi tratti peculiari?

Budget a parte, non mi sembra ci siano grosse differenze di approccio. Sicuramente sui set inglesi, e internazionali in genere, mi son sentito da subito benvoluto. In The Little Drummer Girl, ad esempio, pur avendo un ruolo piccolo ed essendo uno sconosciuto appena sbarcato a Londra, circondato da attori incredibili, ho percepito nettamente questa predisposizione ad accogliere, mi ha colpito.

Non hai neppure trent’anni ma la tua filmografia è già nutrita. A quale ruolo, tra quelli interpretati finora, sei più legato, e perché?

A Bruno di Saremo giovani e bellissimi, arrivato tra l’altro nel momento in cui ero appena stato ammesso alla Royal Central School, ho dovuto rinunciare perché la storia mi piaceva da impazzire, e alla fine mi sono trovato benissimo sia con Barbara Bobulova (la protagonista) che con la regista, Letizia Lamartire. Poi si trattava del mio primo film, con un ruolo centrale che mi caricava di responsabilità, ho dovuto imparare a cantare, a suonare la chitarra; in breve, un’esperienza fantastica, non posso non ricordarla con enorme piacere. Inoltre la troupe era composta quasi esclusivamente da neodiplomati del Centro sperimentale, avevo la sensazione di girare con dei compagni di scuola, è stato entusiasmante.

Blocco 181 trama
Ludo e Bea (Laura Osma) nel primo episodio di Blocco 181 (ph. Gabriele Micalizzi)

In un’intervista del 2018 confessavi il sogno di lavorare, un giorno, con Xavier Dolan. Altri registi da inserire in un’ipotetica lista dei desideri?

Ero giovane, i miti cambiano spesso. Sono troppi i registi che ammiro per sceglierne solo due o tre. Penso che gli autori più bravi siano quelli che riescono a tirare fuori, dagli attori, elementi che loro stessi non sapevano di avere. Certamente mi piacerebbe lavorare con un regista che mi trasformi, facendomi ricredere su tutto ciò che so di me e della recitazione.

A cosa stai lavorando attualmente?

Ci sono un paio di progetti all’orizzonte dei quali sono molto soddisfatto, non posso anticipare altro. Poi cerco di tenermi impegnato in tutti i modi, cercando anche di scrivere e collaborare con alcuni amici.

Blocco 181 serie tv cast
Ludo, Bea, Mahdi di Blocco 181 (ph. Gabriele Micalizzi)

Talent Alessandro Piavani

Nell’immagine in apertura, Alessandro Piavani indossa total look MSGM (ph. Gianmarco Chieregato)

Da DJ a modello, l’altro mondo di Andrea Damante

Modello, influencer (il suo profilo Instagram conta 2,4 milioni di follower), volto televisivo noto al pubblico per la partecipazione a programmi dal largo seguito, Andrea Damante si concentra da tempo sulla carriera di deejay e producer musicale.

Nel 2017 il suo primo singolo, Follow my Pamp, scala rapidamente le classifiche del periodo, da allora ha sfornato una serie di hit da milioni di streaming (Forever, Think About, Understatement Pt. 1 e l’ultima All My Love, uscita lo scorso dicembre). Per lui la consolle è un habitat naturale, come dimostrano i tour che l’hanno portato a suonare in club di culto, nazionali e non (dal Fabrique milanese al Cavo Paradiso di Mykonos, al Pacha di Ibiza) e a curare per Radio 105 la trasmissione Swipe Up, selezione di tracce dance in onda ogni sabato notte.

Andrea Damante Instagram
Tapered cargo pants Dockers, necklace stylist’s archive
Andrea Damante dj set
Nail textile jacket Gaëlle Paris, necklace stylist’s archive

Credits

Talent Andrea Damante

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Davide Musto

Stylist Alfredo Fabrizio

Ph. assistants Riccardo Albanese

Stylist assistant Federica Mele

Hair & make-up Eleonora Bianucci

Location Sheraton Milan San Siro

Nell’immagine in apertura, Andrea Damante indossa T-shirt Gaëlle Paris

Aka 7even, l’astro emergente dell’urban-pop italiano

Sette è un numero dai molteplici significati, particolarmente importante per il 21enne Luca Marzano alias Aka 7even, tra gli astri nascenti della scena urban-pop nostrana. Rimanda, infatti, a un episodio doloroso del suo passato, la settimana trascorsa all’ospedale in coma per un’encefalite, quando aveva sette anni, tramutato però in un elemento di forza e speranza: non a caso la sua autobiografia, uscita l’anno scorso, si intitola 7 vite. Un artista poliedrico insomma, che ha saputo convogliare la voglia di riscatto nella musica: ammesso nel 2020 alla fase finale di Amici, durante il talent show firma la prima hit, Mi manchi. Uscito dal programma, pubblica l’album che porta il suo nome d’arte e contiene il brano Loca, tormentone certificato triplo disco platino (vanta anche una versione in spagnolo).
Il 2021, d’altra parte, è un annus mirabilis per il cantautore: vince il premio “Best Italian Act” agli MTV Ema e viene selezionato per il Festival di Sanremo 2022, cui partecipa con Perfetta così.

Aka7even Mi manchi
Tank and trousers Yezael by Angelo Cruciani, jacket Christopher Raxxy, shoes Acupuncture

Tra le influenze che hanno inciso maggiormente sulla propria cifra musicale, Luca cita Bruno Mars, Justin Bieber, The Weeknd, ma in realtà la sua è una sigla personalissima, che concretizza in una musica definita «versatile, con forti influenze di sound americano a livello di topline e produzioni»), risultato dello «spaziare tra generi e stili diversi».

Tra pochi giorni, Aka 7even inaugurerà il tour estivo che lo porterà in varie città d’Italia e, dopo le tappe iniziali di Roma (3 giugno) Napoli (5-6) e Milano (9), proseguirà con quelle – tra le altre – di Gallipoli, Civitanova Marche, Santa Marinella, per concludersi il 23 agosto in Costa Smeralda, a Porto Cervo. Con l’occasione, presenterà dal vivo la nuova canzone Come la prima volta.

Loca Aka 7even
Total look Ferrari, shoes Lanvin

Cos’è per te il talento, come lo definiresti?

Penso sia un dono, una benedizione da mettere a frutto.

Com’è nata la passione per la musica? Quali sono le tue principali influenze, in questo senso?

La mia passione per la musica è nata da piccolo, all’età di 5 anni, quando ho iniziato a suonare la batteria, per passare poi a pianoforte, clarinetto e altri strumenti.
Le mie principali influenze sono Bruno Mars, Justin Bieber e The Weeknd.

Aka 7even tour 2022
Tank and trousers Yezael by Angelo Cruciani, necklace Radà

Il brano cui, per un motivo o per l’altro, sei più legato.

La distanza di un amore e Cambiare di Alex Baroni, sono i due brani con cui ho iniziato a cantare.

Come descriveresti la tua musica a chi non l’ha mai ascoltata?

Versatile, con forti influenze di sound americano a livello di topline e produzioni. Amo spaziare tra generi e stili diversi, senza fossilizzarmi sulle categorie.

Dove ti vedi tra qualche anno?

Mi vedo o meglio, aspiro a vedermi in giro per il mondo, a portare ovunque la mia musica. Il sogno è riempire gli stadi, duettando con artisti internazionali.

Aka7even Amici 2022
Total look Versace Jeans Couture, necklace Radà

Credits

Talent Aka 7even

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Filippo Thiella

Stylist Simone Folli

Photographer assistant Andrea Lenzi

Stylist assistant Nadia Mistri

Grooming Cecilia Olmedi

Nell’immagine in apertura, Aka 7even indossa giacca Moschino

Chiamamifaro, il nuovo progetto musicale di Angelica Gori

Voce calda e avvolgente, sorriso dolce, un timbro unico: Angelica Gori, 21 anni ancora da compiere, figlia di Cristina Parodi e Giorgio Gori, ha ampiamente dimostrato di avere tutte le carte in regola per diventare un’artista, scrollandosi così di dosso la fastidiosa etichetta del “figlio di”. Studentessa al CPM Music Institute di Milano, sui social (dov’è seguitissima, in particolare su Instagram) è conosciuta anche come Gispia, nomignolo affibbiatole in famiglia, cui è rimasta molto legata. Proprio celandosi dietro questo nickname, nel 2018 Angelica incide le prime tracce in inglese, per dare poi vita al duo chiamamifaro, col chitarrista ed ex compagno di liceo Alessandro Belotti. Il debutto avviene nel luglio 2020 con Pasta Rossa, che supera rapidamente il mezzo milione di stream, seguito da brani quali Domenica, Bistrot, Limiti, Londra, riuniti l’anno seguente nell’EP Macchie. I suoi due ultimi singoli sono Addio sul serio e Pioggia di CBD, uscito alla fine di febbraio.

Nel 2021 la cantautrice bergamasca nell’orbita di Sony (il suo produttore è il frontman della band Pinguini Tattici Nucleari, Riccardo Zanotti) è stata una dei new talent italiani supportati da Spotify Radar, oltre a girare il Paese con un tour promozionale che l’ha portata a condividere il palco con artisti come Sangiovanni, Ariete e i rovere, con la sua musica «da post-nostalgia – come la descrive lei – che parla sostanzialmente di addii (a persone, situazioni, abitudini) e di un tentativo un po’ disilluso di accettazione».

Angelica Gori cantante
Dress Beatrice .B, earring and bracelet Barbara Biffoli, choker and rings Invaerso, necklace Ami Mops

Cos’è per te il talento? Come lo definiresti?

Ho paura a dare una definizione di talento, perché più passa il tempo e più imparo a riconoscerlo nelle cose minime, e ogni volta si presenta in modo diverso.
Scrivendo canzoni, comunque, mi rendo conto che ci sono sostanzialmente due step: il momento dell’intuizione, dell’idea, e quello del lavoro da metterle intorno per fornirle una base. Un tempo avrei detto che il talento andava ricollegato al momento dell’intuizione, ora invece lo individuo nel lavoro con cui, razionalmente, si plasma il contesto e il supporto più consono a quell’idea. Sembra strano a dirsi, ma si può costruire negli anni e con la fatica, oltre che con quel guizzo di genialità che, se anche esiste, va coltivato e incanalato ogni giorno.

Com’è nata la passione per la musica? Quali sono le tue principali influenze, in questo senso?

La musica per me è sempre stata legata alla sfera familiare. Ho tanti ricordi di mia madre che davanti al camino suonava canzoni di Bob Dylan, o di mio padre che – con la stessa chitarra che oggi è mia, dalla quale non mi separo mai – strimpellava le canzoni di Fabrizio De André. Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia in cui alla fine di ogni cena si cantava tutti insieme, innamorandomi della magia che si creava in quei momenti, dell’atmosfera quasi tangibile in cui sembra che anche il tempo si fermi. Così a quattordici anni ho cominciato a suonare la chitarra di papà, da lì è venuto tutto il resto.

Angelica Gori album
Jacket Nolita, dress Gianluca Capannolo, necklaces Ami Mops, sandals Kallisté

Il brano a cui, per un motivo o l’altro, sei più legata.

Questa è una domanda difficilissima. C’è una categoria di brani cui sono particolarmente affezionata perché, anche dopo anni, riescono sempre a emozionarmi; uno di questi è ad esempio Mama, You Been on My Mind nella versione di Jeff Buckley. Tuttavia, anche se come risposta è scontatissima, i pezzi cui sono più legata in assoluto sono alcuni di quelli che ho scritto; in un modo o nell’altro, rappresentano il mio cercare di aprirmi timidamente al mondo, un qualcosa di delicato, speciale e goffo allo stesso tempo.
Ora che ci penso molte delle mie canzoni del cuore non sono state ancora pubblicate, lo saranno presto, se tutto va secondo i piani.

Pasta rossa canzone
Choker Absidem, necklace Barbara Biffoli, top and pants Silvian Heach, shirt Martino Midali, sandals Bruno Bordese

Come descriveresti la tua musica a chi non l’ha mai ascoltata?

È musica da post-nostalgia, canzoni che parlano sostanzialmente di addii (a persone, situazioni, abitudini) e di un tentativo un po’ disilluso di accettazione

Dove ti vedi tra qualche anno?

Vorrei vedermi in un ideale Roxy Bar con tutte le persone che ho intorno e, ciascuna in maniera diversa, mi stanno accompagnando in questo percorso. Mi piacerebbe ripensare col sorriso a quanto fossi ingenua in ciò che facevo, ma sarebbe ugualmente bello realizzare che, tutto sommato, fosse quella la strada giusta. L’unica, forse.

Credits

Talent Chiamamifaro

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Marco D’Amico

Fashion editor Valentina Serra

Make-up Giorgia Palvarini @simonebelliagency

Hair stylist Giacomo Marazzi

Location Giuliano Cairoli Garden (Socco di Fino Mornasco, CO)

Nell’immagine in apertura, Angelica Gori indossa dress Oblique Creations, choker Absidem, earring Barbara Biffoli

Giuseppe Futia, nuovo volto (internazionale) del cinema italiano

Occhi verdissimi e il physique du rôle del modello, l’attore 25enne Giuseppe Futia, dopo essersi affermato nel fashion world (con campagne per nomi del peso di Pepe Jeans, Kappa e Zalando), si è dedicato anche alla recitazione, volando a Los Angeles per frequentare la prestigiosa Stella Adler Academy.

L’occasione giusta («per certi versi è stato un miracolo», ricorda), il ruolo di Tommaso in Ancora più bello (2021), è arrivata proprio mentre era negli Usa.
Lo vedremo presto in Backstage – Dietro le quinte, pellicola su nove (aspiranti) partecipanti a uno spettacolo teatrale che, per guadagnarsi l’ingaggio, dovranno dar prova di notevoli abilità; la descrive come «un’esperienza intensa», che ha richiesto «due mesi passati a provare, ballando e cantando; una sorta di accademia lampo».

Tommaso Ancora più bello
Total look Federico Cina, shoes Bally

In Backstage – Dietro le quinte sei uno dei nove ragazzi che aspirano a partecipare allo show del Sistina, e per dimostrare di meritarsi uno dei posti disponibili dovranno sfoderare le proprie capacità nella danza, nel canto e nella recitazione. Come ti sei trovato rispetto a tali “perfomance”?

Sotto il profilo attoriale è stato un sogno e ho fatto subito gruppo con gli altri, anche perché abbiamo passato oltre due mesi a provare tutti i giorni, ballando e cantando, insieme al team del Sistina; una sorta di accademia lampo per prepararci alla riprese. Pensavo di cavarmela meglio col ballo, invece… Di sicuro, ne ho ricavato molto sudore e dolore, ma penso e spero di esser riuscito a tirare fuori qualcosa di buono. Sono felice, come pure il resto del cast, eravamo in ottime mani. Siamo fiduciosi, ansiosi di vedere il risultato finale.

Eri anche nel cast di Ancora più bello (ora su Netflix), cosa ricordi del tuo esordio cinematografico?

Per certi versi è stato un miracolo, al momento del provino mi trovavo in America, ho lasciato tutto per sostenerlo. Non scorderò mai il momento in cui mi hanno comunicato che ero stato scelto, ho pianto per una ventina di minuti.
Ricordavo, del primo film (Sul più bello, ndr), che non sembrava neppure italiano, era una teen comedy ma nient’affatto scontata; era un bel progetto insomma, per questo ero così emozionato. Sul set, alla fine, c’era un’atmosfera più che positiva, il gruppo era già affiatato e ho avvertito la voglia di stare insieme, divertendosi. Girare a Torino è stato bellissimo e ho conosciuto Loredana Bertè, cosa volere di più?

Tommaso ancora più bello attore
Total look Dsquared2

Nel 2017 ti sei trasferito oltreoceano per frequentare la Stella Adler Academy of Acting, a Los Angeles. Qual è stato il primo impatto con la capitale mondiale del cinema?

Sembrerà scontato, ma a colpirmi è stato innanzitutto il caldo. Vengo dalla Calabria, perciò con quel clima, i parchi enormi, Venice Beach, mi sono sentito a casa. Uomini, donne, tutti sono bellissimi e sognano di sfondare nel cinema, c’è un fermento palpabile.
Mi è rimasta impressa, su tutto, la convinzione generale che si può – e si deve – sempre migliorare, lo pensano pure i grandi attori, i professionisti affermati che insegnano all’accademia. Ho toccato con mano un tipo di umiltà, di voglia di fare che è espressione di una cultura diversa.

Qualche aneddoto o episodio da ricordare del periodo a L.A.? Qual è per te l’aspetto migliore e quello, se non peggiore, più problematico della metropoli californiana?

Un aneddoto riguarda l’incontro con Jon Voight, non so per quale motivo, fermandolo per una foto, l’ho chiamato “Antoine”. Lui è rimasto interdetto, ma per pietà ha acconsentito. Un addetto alla sorveglianza, assistendo alla scena, mi ha squadrato per poi dirmi “bella figura di m…”.
La parte migliore si ricollega a quanto dicevo prima, ci sono infinite opportunità, i ritmi sono forsennati ma le possibilità non mancano. Il rovescio della medaglia sta nel fatto che a Los Angeles è davvero facile sentirsi soli, per non parlare della competizione, esasperante. Le folle di senzatetto ricordano costantemente quanto possa essere duro e spietato, come ambiente.

Sei cresciuto con la compagnia LocriTeatro, hai sostenuto il provino per la scuola Paolo Grassi, recitato in parecchi spettacoli… Il teatro è sempre stato nelle tue corde? Cosa lo differenzia maggiormente dal cinema, a tuo parere?

LocriTeatro è stata una salvezza, venendo da un paesino rappresentava l’unica realtà dove, se volevi recitare, potevi combinare qualcosa. All’inizio ero scettico, però mi sono completamente ricreduto. La vicinanza del pubblico, la necessità di andare avanti qualsiasi cosa accada fanno del teatro una scuola impareggiabile.
La differenza principale rispetto a cinema e tv penso sia l’esigenza di seguire un ritmo preciso, di proseguire a ogni costo; ti dà un’adrenalina che, davanti la macchina da presa, devi invece costruirti da solo, trovandoti magari a rigirare quaranta volte la scena. Sul set bisogna impostare i propri tempi, il teatro al contrario ti forza alla coralità, e l’esperienza umana risulta più coinvolgente.

Da modello, hai sicuramente dimestichezza con outfit, dress code, tips e simili, come descriveresti il tuo stile? Opti per una specie di uniforme o preferisci variare?

Minimal chic, trovo mi si addica; prediligo il total black, la mia uniforme è quella, non vado pazzo per le cose stravaganti, sebbene ultimamente stia provando a osare un filo di più con gli accessori. Resto fedele, comunque, al look pulito.

Progetti per il futuro? Cosa ti auguri, come attore e persona?

Per il momento nulla di definito, in futuro mi piacerebbe lavorare il più possibile come attore, e mettermi alla prova, costantemente. Questo lavoro del resto è così, ti costringe a cambiare, sfidandoti, è proprio questo il bello.

Giuseppe Futia film
Total look Dsquared2
Ancora più bello film cast
Total look Dsquared2

Credits

Talent Giuseppe Futia

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Davide Musto

Stylist Alfredo Fabrizio

Photographer assistants Valentina Ciampaglia, Riccardo Albanese

Stylist assistant Chiara Polci

Grooming Eleonora Mantovani @simonebelliagency

Location Hotel American Palace Eur

Nell’immagine in apertura, Giuseppe Futia indossa maglia Federico Cina, pantaloni stylist’s archive

Models to follow: Demba Mbaye

La vitalità di Demba, modello 23enne di origine senegalese, è prorompente. Non si può non restarne colpiti, sentendolo parlare, con un misto di stupore, entusiasmo e (legittimo) orgoglio, dei tanti brand per cui ha sfilato o posato (e che brand: Emporio Armani, Armani Exchange, Marni, Diesel), di quanto si goda la passerella («fosse per me – confessa – farei avanti e indietro cinquanta volte»), dell’emozione che lo pervade al pensiero del prossimo lavoro, in California.
Viso pulito, sguardo penetrante, treccine celate spesso dal cappellino, statura imponente (190 cm), fisico longilineo cesellato dallo sport, praticato a lungo prima di gettarsi a capofitto nel tourbillon frenetico di défilé, presentazioni, editoriali, fitting & Co., il ragazzo ambisce a farsi strada nella fashion industry, conscio delle proprie possibilità perché «detto con la massima umiltà, so quanto valgo».

Demba Mbaye model
Total look Antonio Marras (ph. Manuel Scrima)

Le agenzie di model management ingaggiano sempre più ragazzi di colore che, finalmente, ampliano un po’ lo spettro delle personalità associate alla nostra società. Cosa pensi al riguardo, trovi che le cose, nella moda italiana (e non solo), stiano effettivamente cambiando?

In effetti sì, da circa tre anni a questa parte veniamo presi molto in considerazione, come saprai non è stato sempre così, nell’ambiente italiano. È una rivoluzione, tra ragazzi di colore poi ci troviamo bene, facciamo squadra sostenendoci a vicenda. Speriamo si possa proseguire su questa strada.

Mi diceva il tuo agente che sei un po’ “pazzo”, cosa credi intendesse?

(Ride, ndr) Penso si riferisse al fatto che sono un po’ “complicato”, non in senso negativo, però ho quasi sempre la testa fra le nuvole e, a volte, ci si mette anche la sfortuna, che sul piano professionale non aiuta. Tuttavia non perdo mai la fiducia e, specie sul lavoro, sono concentrato, consapevole di ciò che faccio e di dove voglio arrivare.

Ti va di raccontarci la tua storia? Da dove arrivi, come e quando hai iniziato a fare il modello…?

Sono nato e cresciuto in Senegal, fino all’età di otto anni, per poi trasferirmi in Italia, a Cilavegna, in provincia di Pavia. Fin da piccolo ho giocato a calcio, smettendo nel 2019 quando mi sono capitati i primi lavori da modello. In verità, ho cominciato approfittando di una casualità, perché camminavo a Porta Genova, a Milano, e un modello mi ha chiesto se stessi andando al casting di Armani. Gli ho risposto di sì (non era vero, ovviamente) e l’ho seguito; terminate le prove, il casting director del brand mi ha chiesto i contatti, gli ho dato il biglietto da visita di una signora che, tempo prima, mi aveva fermato per strada, ma non avevo mai richiamato né ero andato alla sua agenzia. Alla fine, per fortuna, è andata bene, sono stato preso per la sfilata.

So che anche tuo fratello Imam è nel settore, vi confrontate e scambiate pareri sul modeling?

Certo, lui è più piccolo, l’anno scorso sono riuscito a introdurlo in questo mondo e adesso sta ottenendo ottimi risultati, ne sono contentissimo. Adoro mio fratello, parliamo sempre dei nostri lavori, mi chiede dei consigli che, avendo maggiore esperienza, sono lieti di dargli. È sveglio e intelligente, ci capiamo al volo.

Antonio Marras abiti uomo
Total look Antonio Marras (ph. Manuel Scrima)

Moda a parte, quali sono le tue passioni, di cosa ti interessi?

Sono pieno di idee, in generale mi piace giocare a calcio e praticare qualsiasi sport, lo styling, divertirmi, anche. Mi piace la vita, in ogni sua sfumatura.

Eri nella line-up di recenti show di marchi come Emporio Armani, Marni, Philipp Plein, Diesel. Qual è stata la sfilata più emozionante, che, per un motivo o per l’altro, ricordi con maggior piacere?

Sono due in realtà, ossia la prima, quella cioè di Emporio Armani di cui dicevamo (Autunno/Inverno 2019-20, ndr), in cui mi sono trovato di fronte al signor Giorgio, ti lascio immaginare l’emozione; e poi Philipp Plein, che si è tenuta il giorno precedente alla chiusura totale per la pandemia. Mi sono goduto tutto, la location, l’atmosfera, l’energia che si respirava.

Hai preso parte anche a degli shooting per testate importanti, Vanity Fair, Icon, Esquire, Nss Magazine… Secondo te, quali sono le differenze principali tra editoriali e catwalk?

Dello shooting apprezzo che sia “concentrato”, mi sono sempre trovato bene sui set, il numero di persone è ridotto e si viene a creare un bel legame, ti senti più a tuo agio, inoltre puoi scambiare quattro chiacchiere, confrontarti, imparare da chi ne sa più di te. Nel backstage degli show, invece, c’è un tale caos e frenesia che nessuno ha del tempo da dedicarti, risulta un po’ dispersivo come contesto, però lo amo ugualmente, fosse per me farei avanti e indietro cinquanta volte. Da Philipp Plein, infatti, mi sono gasato quando, prima di iniziare, ci hanno detto che la passerella era lunga 350 metri.

A giudicare dal profilo Instagram, il tuo è uno stile di marca street, che prevede sneakers Jordan o Yeezy, baseball cap, jeans a vita bassa, pantaloni cargo, bomber dalle tonalità piene.Tu come lo descriveresti?

Con un aggettivo, street futuristico.

Antonio Marras modello
Total look Antonio Marras (ph. Manuel Scrima)

Un capo/accessorio che compare sempre nei tuoi look?

Ho due must: l’underwear Armani e le calze colorate Missoni.

Designer o griffe con cui sarebbe un sogno lavorare?

Sono tante, ne cito tre: sarebbe bellissimo sfilare per Versace, Louis Vuitton Men e Burberry.

Sei piuttosto richiesto negli Stati Uniti, a breve ti recherai lì per lavoro, cosa ti aspetti da questo viaggio e, in generale, dal futuro?

Per il futuro mi auguro il meglio, tutto il bene possibile, perché mi amo e, detto con la massima umiltà, so quanto valgo. Le aspettative sono alte anche per il viaggio negli Usa, vedremo quel che succederà, non appena avrà sistemato tutto con i vari permessi partirò per Los Angeles, non sto nella pelle…

Antonio Marras look
Total look Antonio Marras (ph. Manuel Scrima)
Antonio Marras moda uomo
Total look Antonio Marras (ph. Manuel Scrima)
Antonio Marras moda
Total look Antonio Marras (ph. Manuel Scrima)

Credits

In tutto il servizio, Demba indossa abiti e accessori Antonio Marras

Talent Demba Mbaye @D’ManagementTwo Management

Photographer Manuel Scrima

Casting by Models Milano Scouting

Location Nonostante Marras Milano

Special thanks to Leonardo ed Efisio Marras

Motta, la disciplina del talento

La bravura di Motta, riflesso di un talento coltivato e perfezionato metodicamente fin dai tempi dei Criminal Jokers, è ormai conclamata. Numeri, riconoscimenti, i semplici dati della carriera da solista del cantautore pisano, avviata nel 2006, stanno lì a dimostrarlo: stabilmente ai vertici delle classifiche nazionali, due album – La fine dei vent’anni, del 2016, e Vivere o morire, del 2018 – premiati entrambi con la Targa Tenco (un unicum), rispettivamente nella categoria miglior opera prima e miglior disco in assoluto, un terzo (Semplice, uscito l’anno scorso) concepito come racconto del suo percorso di maturazione creativa e umana, che ne certifica la statura di chansonnier con pochi eguali nel panorama musicale italiano.

L’impressione che dà, parlandoci, è quella di un artista maturo, appunto, profondamente consapevole. Dosa con attenzione le parole, sempre puntuali, ponendo l’accento sulla positività che sembra permeare oggi il suo lavoro, sulla gioia («un’esperienza meravigliosa», dice) di ritrovarsi sul palco attorniato da una folla festante, sulla conquista della libertà, fondamentale (lui la mette in termini di «non sentirmi schiavo di me stesso, artisticamente parlando»), sulle parentesi – felici – che esulano dal suo ambito in senso stretto (la colonna sonora de La terra dei figli, il libro Vivere la musica), sul «godermi le cose semplici», sulla volontà, pensando soprattutto agli anni che verranno, di «essere in pace con me stesso», come rivela alla fine dell’intervista.

Motta cantautore talento
Shirt and pants Di Liborio, bracelets Nove25, rings and necklace stylist’s archive

L’intervista con Motta, tra i protagonisti dell’issue Hot child in the City di Manintown

Si è appena concluso un tour che ti ha portato in varie città italiane. Com’è stato l’impatto col palco, esibirsi nuovamente dal vivo dopo la pausa forzata del Covid?

Pazzesco, assolutamente. Il palco in realtà l’avevamo riguadagnato già la scorsa estate, si era trattato però di stringere i denti davanti alla stranezza del live col pubblico seduto. C’era nell’aria un senso come di solitudine, perché il fatto di non potersi abbracciare, ballare o semplicemente alzarsi toglieva all’evento l’idea di comunità, che ho invece ritrovato, fortissima, in questi ultimi concerti.
Condividere uno stanzone con tanta gente che la pensa come te ti fa sentire meno solo. Un’esperienza meravigliosa, per me come per i musicisti della band.

Hai detto che la semplicità cui rimanda il titolo dell’ultimo album è una conquista. Quali altri conquiste, artistiche e non, senti di aver raggiunto nel periodo che ha preceduto, accompagnato e seguito l’uscita del disco?

La più importante, forse, consiste nell’aver ottenuto, con grande fatica, una libertà che mi consente di fare ciò che voglio. Può suonare come una banalità, ma prendere scelte drastiche, rispetto ai lavori precedenti, mi ha permesso di aprire un sacco di porte; ora posso decidere se passare per quelle già spalancate o aprirne di nuove (a livello di costruzione della canzone, intendo). La conquista principale, quindi, sta nel non sentirmi schiavo di me stesso, artisticamente parlando, a costo di provare – per paradosso – quelle vertigini date dal poter immaginare un album in maniera totalmente libera, per quanto possa esserlo chiunque fa musica.

Motta Carolina Crescentini
Shirt Di Liborio

Ricorre, in Semplice, il concetto di normalità, cui si rifà esplicitamente il brano cantato con tua sorella, Alice. Cos’è la normalità per Motta?

Sembrerà assurdo ma quella canzone è stata composta prima della pandemia, durante un periodo in cui provavo felicità nel passare le giornate senza girare come un trottola per l’Italia; una situazione davvero piacevole, sebbene durata pure troppo, visto quanto è successo dopo! Comunque sia, ho capito che godermi le cose semplici, che in passato mi erano mancate, mi faceva stare bene.
Scrivere e poi cantare il brano con mia sorella è stato un po’ come passare l’evidenziatore su questo tipo di normalità, guadagnando dal processo nuovi spunti, un punto di vista differente.

A proposito del duetto, la scelta di coinvolgere Alice è stata influenzata da un big della musica italiana, vuoi raccontarcelo?

Ho sognato De Gregori, telefonava per avvertire mio padre che sarebbe venuto a casa nostra, effettivamente è arrivato e ha ascoltato Qualcosa di normale. Una volta sveglio, ho chiamato Caterina Caselli per raccontarglielo; mi ha spinto a scrivergli, per cercare di rendere un minimo concreta quella “visione”. Perciò ho inviato una mail a De Gregori, motivata anche dal debito nei suoi confronti che, nella canzone, si percepisce chiaramente. Mi ha risposto, dicendomi che il brano l’aveva colpito positivamente, e suggerendomi di cantarlo con una donna. Alla fine, ho pensato ad Alice.

Motta concerti
Shirt and pants Di Liborio, bracelets Nove25, rings and boots stylist’s archive

Hai firmato la soundtrack del film La terra dei figli. Un ritorno alle origini, per certi versi, al corso di composizione del Centro sperimentale di cinematografia, frequentato nel 2013. Come ti sei trovato? È un’esperienza che vorresti ripetere?

Lavorare nel cinema mi piace molto, da sempre, tra l’altro non la percepisco come un’attività secondaria rispetto alla mia, anzi, credo ci siano dei parallelismi tra le due. Si potrebbe paragonare la realizzazione di una colonna sonora all’arrangiamento di un testo già scritto, che dunque va rispettato.
Altro elemento che apprezzo, del settore, è l’idea di un gruppo di persone che operano come una comunità per lo stesso risultato, ciascuna curandone una parte. Inoltre mi sono trovato benissimo sia con il regista (Claudio Cupellini, ndr) sia col montatore, Giuseppe Trepiccione, mi ha fornito parecchi consigli perché aveva ben chiara, persino più di me, la musica che poteva corrispondere a una determinata scena.
Finora, insomma, mi è andata particolarmente bene con i film, conto di replicare.

Nel 2020 hai pubblicato per Il Saggiatore Vivere la musica, come valuti a posteriori il tuo debutto nella scrittura?

Innanzitutto devo ringraziare l’editor che mi ha seguito nella stesura del libro, Damiano Scaramella, senza contare che la serietà della casa editrice mi ha responsabilizzato, da subito. Tutto è partito dall’esigenza non di raccontare una storia, né tantomeno da quella di buttar giù un’autobiografia (avevo 32 anni, troppo presto, decisamente), piuttosto dalla voglia di condividere con i lettori i miei trascorsi musicali, le esperienze con gli insegnanti, spesso tragiche, qualche (rara) volta magnifiche. Era un modo per affrontare l’aspetto didattico di quest’arte, che può avere risvolti oserei dire drammatici.

Motta Semplice album
Turtleneck and trousers Angelos Frentzos

In un’intervista del 2017 sostenevi che a cambiarti la vita fossero stati i giganti del cantautorato, Dalla, lo stesso De Gregori. Tra i colleghi emergenti di oggi, ce n’è qualcuno che per te ha ottime potenzialità, cui guardi – e ascolti, magari – con piacere?

Negli ultimi mesi, da produttore, mi è capitato di lavorare con una cantautrice 21enne, Emma Nolde. Mi ha trasmesso un’energia strepitosa, è stato come se avessi visto un me non solo più giovane, ma anche assai più bravo, io a quell’età non avevo idee tanto chiare. Emma, a mio parere, riesce a tirare fuori un’energia bellissima.

Vesti frequentemente Gucci, hai anche assistito ad alcune sfilate del marchio, cosa ti lega al brand disegnato da Alessandro Michele? Quanto conta, secondo te, l’abito e più in generale il look, per chi fa il tuo mestiere?

Mi sono avvicinato a quel mondo con divertimento, finendo per conoscere Alessandro Michele, Lorenzo D’Elia e altre persone del team Gucci. Ogni tanto dico a Carolina (Crescentini, sua moglie, ndr) che si può considerare la moda come un gioco estremamente serio. Sono convinto, infatti, che alla base vi sia una componente ludica, e per quanto il mio lavoro sia “indossare” le canzoni che scrivo, non gli abiti, averci a che fare è stato senz’altro divertente. Non so, sinceramente, quanto il look sia importante, penso però che, nel momento in cui ci si sforza di trovare se stessi, di capire chi siamo, cosa – e come – vogliamo comunicare, certi aspetti ci aiutino a sottolineare tutto ciò, a volte persino a scoprirlo.

Prendo in prestito il titolo del tuo primo, grande successo: come ti vedi alla fine dei prossimi vent’anni?

Mi vedo – o almeno lo spero – in sintonia con l’età che avrò, preso a godermi quanto costruito nei vent’anni precedenti per essere in pace con me stesso e, seppure sia difficilissimo, felice. Sto lavorando per questo, mettiamola così.

Motta cantautore stile
Suit John Richmond, rings and necklace stylist’s archive

Credits

Talent Motta

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Davide Musto

Stylist Alfredo Fabrizio

Photographer assistant Valentina Ciampaglia

Stylist assistant Federica Mele

Hair & make-up Fulvia Tellone @simonebelliagency

Hair & make-up assistant Asia Brandi @simonebelliagency

Location Industrie Fluviali

Nell’immagine in apertura, Motta indossa total look Gucci

Carisma e talento: l’ascesa di Giacomo Ferrara

Classe 1990, origini abruzzesi, Giacomo Ferrara è tra gli attori più talentuosi e carismatici della sua generazione. Si è fatto conoscere – e amare – dal pubblico nei panni del malavitoso Alberto “Spadino” Anacleti, tra i protagonisti del film Suburra e, soprattutto, dell’omonimo serial; un personaggio che, afferma, «porterò sempre con me, è entrato nella cultura pop italiana, lo vedo da ciò che mi scrivono le persone, riversando su di me l’affetto provato per lui». Prima della popolarità con la serie Netflix («una parentesi bellissima del mio percorso, iniziata nel 2015 e terminata l’anno scorso»), aveva già avuto modo di mostrare le proprie capacità col ruolo di Angelo de Il permesso – 48 ore fuori, valsogli il premio Guglielmo Biraghi ai Nastri d’argento del 2017.

Giacomo Ferrara Instagram
Total look 424

Ha preso parte inoltre alla pellicola dal côté fiabesco Guarda in alto (dove il suo Teco vive avventure surreali sui tetti di Roma), al fantasy Non mi uccidere, alla miniserie Sky Alfredino – Una storia italiana e, da ultimo, a Ghiaccio, esordio cinematografico del cantautore Fabrizio Moro (in tandem con Alessio De Leonardis), in cui è un giovane che, nel pugilato, cerca il riscatto da una vita a dir poco travagliata; nelle sue parole, «una storia d’amore in cui interpreto Giorgio, un ragazzo estremamente introverso, che finisce per cacciarsi in situazioni difficili. Entra così in gioco l’allenatore Massimo (Vinicio Marchioni, straordinario compagno d’avventura), che prova a riportarlo, attraverso lo sport, su una strada migliore». Per prepararsi alla parte, ad ogni modo, ha dovuto affrontare un duro training in quanto «la sfida era far risultare credibili le scene di boxe, perciò ci siamo sottoposti a sessioni davvero impegnative; mi allenavo nove volte a settimana, ho dovuto mettere su massa muscolare, seguire una dieta ferrea»

Opere e generi diversi, nei quali spiccano le sue interpretazioni spesso “estreme”, viscerali, dal citato Spadino (criminale borderline, lacerato da sentimenti contrastanti, diviso tra una quotidianità di violenza e sopraffazione, una sessualità repressa e l’ossessione di rivalersi su una famiglia che lo considera una testa calda, da tenere ai margini) allo stravagante Ago, il tossicodipendente dalla chioma rosa amico del protagonista di Non mi uccidere.
A Giacomo, del resto, «piace lavorare in toto su un ruolo, immedesimarmici completamente», nonostante tenga a precisare che «a prescindere da quanto sia carismatico, appariscente o “strano” il personaggio, è fondamentale trovare storie che abbiano un motivo per essere raccontate, che arrivino dritte al cuore, proprio come Ghiaccio».

Giacomo Ferrara filmografia
Total look Dior

La nostra intervista con Giacomo Ferrara

Parlaci del tuo ultimo film, Ghiaccio.

Più che un film sul pugilato è una storia d’amore in cui interpreto Giorgio, un ragazzo estremamente introverso, che finisce per cacciarsi in situazioni difficili. Entra così in gioco l’allenatore Massimo (Vinicio Marchioni, uno straordinario compagno d’avventura), che prova a riportarlo, attraverso lo sport, su una strada migliore.
La parte più difficile è stata la preparazione fisica, la sfida era far risultare credibili le scene di boxe, perciò ci siamo sottoposti a sessioni davvero impegnative; con Giovanni De Carolis, ex campione del mondo, mi allenavo nove volte a settimana, ho dovuto mettere su massa muscolare, seguire una dieta ferrea. In tutto ciò, tra me e Vinicio si è creato un rapporto molto bello, lo stesso che c’è sullo schermo. Un lavoro intenso, complesso, duro, costellato di sfide, come quelli che piacciono a me insomma.

Giacomo Ferrara Ghiaccio
Shirt Gucci

Com’è stato impersonare un personaggio come Spadino, penetrato in profondità nell’immaginario del pubblico?

Suburra è stata una parentesi significativa del mio percorso, iniziata nel 2015 con il film di Stefano Sollima e terminata l’anno scorso. Porterò sempre nel cuore Spadino, è entrato nella cultura pop italiana, come la serie d’altra parte, lo vedo da ciò che mi scrivono le persone, da come riversano su di me l’affetto provato per lui. Doveva finire però, com’è naturale, subito dopo ho lavorato a un progetto dopo l’altro, sono felice della piega che sta prendendo la mia carriera.

Giacomo Ferrara film pugile
Suit Çanaku

Che rapporto si è creato col resto del cast di Suburra?

Spesso sui set si creano dinamiche destinate a finire una volta conclusa la produzione, ci sono invece dei casi, com’è stato per Ghiaccio o, appunto, con il cast di Suburra, nei quali si instaurano rapporti che vanno talmente oltre il lavoro in senso stretto, da restare poi per sempre. Con Alessandro (Borghi, ndr) Eduardo (Valdarnini), Filippo (Nigro) e gli altri, per quanto non ci si senta tutti i giorni, ogni volta che ci rivediamo è come se non ci fossimo mai persi di vista.

Giacomo Ferrara e Vinicio Marchioni
Total look Valentino

Hai interpretato spesso personaggi dall’aspetto e modi appariscenti (Spadino, appunto, Teco di Guarda in alto, Ago di Non mi uccidere…), preferisci i ruoli molto “fisici”, che richiedano (anche) trasformazioni radicali?

Mi piace lavorare in toto su un ruolo, immedesimarmici completamente; a prescindere da quanto sia carismatico, appariscente o “strano” il personaggio, comunque, è fondamentale trovare storie che abbiano un motivo per essere raccontate, proprio come quella di Ghiaccio. È un film semplice che però arriva dritto al cuore, perché si fa portatore di sentimenti e messaggi se vogliamo popolari, eppure importantissimi in quest’epoca post-pandemica, segnata da tecnologie che ci spingono ad alienarci sempre di più, mentre l’arte nasce con tutt’altri scopi, per ispirarci e farci sognare.

Immagina di doverti raccontare a qualcuno che non ti abbia mai sentito nominare: chi è Giacomo Ferrara, professionalmente e umanamente?

Sicuramente partirei dalle mie origini, dai valori che la mia famiglia ha cercato di trasmettermi (lavoro, sacrificio, sudarsi le conquiste), spingendomi a diventare cocciuto, determinato. Ci tengo a dare il meglio, provo costantemente a superare i miei limiti, nella vita come sul set.
In fondo, credo che Giacomo sia semplicemente un ragazzo che ha sempre sognato in grande e, pian piano, sta riuscendo a realizzare ciò che sognava.

Giacomo Ferrara Instagram
Total look Andrea Pompilio
Giacomo Ferrara intervista
Shirt Magliano, shoes Giuseppe Zanotti, pants stylist’s archive

Credits

Talent Giacomo Ferrara

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Davide Musto

Stylist Alfredo Fabrizio

Photographer assistant Valentina Ciampaglia

Stylist assistant Chiara Polci

Hair Alessandro Rocchi @simonebelliagency

Make-up Charlotte Hardy @simonebelliagency

Location Coho Loft Roma

Nell’immagine in apertura, Giacomo Ferrara indossa total look 424

Francesco di Raimondo, prendere la recitazione con filosofia

Il ruolo dell’artista estroverso che, nella seconda stagione di Volevo fare la rockstar, vive una liaison con l’Eros di Riccardo Maria Manera, ha permesso a Francesco di Raimondo di imporsi all’attenzione del grande pubblico. Nello specifico, quello televisivo di un serial riuscito nell’impresa di portare nel prime time italiano (certamente non uso a narrazioni amorose che si discostino da quelle “canoniche”, per così dire) una relazione omosessuale raccontata senza manierismi o infingimenti, anzi, col tono leggero, fresco che le appartiene.

Prima degli schermi Rai, l’attore romano (29 anni, parlantina sciolta, una laurea in filosofia utile, sostiene, anche sul set) si era fatto le ossa a teatro, partecipando poi a film (Belli di papà, Tutti i soldi del mondo) e serie come Romanzo famigliare, Provaci ancora Prof! 5, Made in Italy, oltre alla mega-produzione internazionale I Medici. Adesso, dopo gli ottimi riscontri ottenuti dal suo Fabio, arriveranno con ogni probabilità nuove parti, che lui spera siano di quelle che «si allontanano dalle mie corde, dal mio carattere. Pongono sfide interessanti».

Francesco Di Raimondo serie tv
Suit MSGM

Si è da poco conclusa Volevo fare la rockstar 2, dove il tuo personaggio intreccia una relazione col protagonista Eros. Le storie d’amore omosessuale, purtroppo, sono ancora una rarità nella tv italiana, qual è stata la sfida maggiore nell’impersonare Fabio?

Conferire credibilità alla storia, senz’altro. Mi è stato spiegato subito che, se nella prima stagione Eros aveva problemi nell’accettare la propria sessualità, con la seconda si voleva restituire la normalità, la verità di una storia tra due ragazzi, e la sfida stava appunto in questo.
Con Riccardo (Maria Manera, ndr) ora siamo ottimi amici, ma prima di girare non ci conoscevamo, perciò il difficile era far sì che risultassero credibili non tanto (o non solo) le scene d’amore tra loro, quanto il rapporto in generale. Per fortuna ha funzionato, in tanti si sono chiesti perfino se stessimo insieme anche nella vita reale, domanda che ci ha fatto capire di essere andati nella direzione giusta.

Sembra che gli spettatori siano rimasti favorevolmente colpiti dalla tua interpretazione, è così? E perché, secondo te?

È andata così in effetti, con mia grande sorpresa, perché ritrovarsi in un progetto avviato è complicato per definizione. Essere una new entry comporta sempre una responsabilità.
In questo caso, il riscontro è stato più che positivo e Fabio, lo noto – ripeto – con un certo stupore e felicità, è diventato uno dei personaggi più apprezzati. Il motivo credo sia il modo in cui si è scelto di raccontare il legame con Eros, riconducibile a un punto di forza di Volevo fare la rockstar nel suo complesso, al di là dell’omosessualità.
Concordo sul fatto che, come dicevi, in televisione sfortunatamente i temi Lgbtq+ faticano a emergere, sono spesso stereotipati, ridotti a macchiette, tutte cose che nella serie si è cercato di evitare, sia sul piano della scrittura che su quello dell’interpretazione. Volevamo fosse una storia d’amore, senza etichette o specificazioni, e penso che gli spettatori l’abbiano recepito, accogliendo positivamente la sincerità con cui vengono mostrati i personaggi, senza filtri, come persone che chiunque potrebbe incontrare nella quotidianità. Questo contribuisce a far appassionare chi guarda, l’ho constatato pure nei feedback ricevuti nei mesi scorsi; la spontaneità è tra gli elementi che più sono piaciuti, da parte mia sono contento di essere riuscito a farla arrivare.

Francesco di Raimondo Volevo fare la rockstar
Total look Sandro Paris
Francesco di Raimondo Fabio
Total look Salvatore Ferragamo

Hai rivisto gli episodi quando sono andati in onda? Tornando indietro, faresti qualcosa diversamente?

Li ho rivisti, mi piace vedere in compagnia film o serie fatte, quasi dimenticandomi dell’esperienza sul set, come fossi un semplice spettatore.
Non so se cambierei qualcosa, magari andando nel dettaglio delle scene qualche battuta o sguardo, nell’insieme, però, mi sembra che il ruolo abbia funzionato. Mi sono affidato a Matteo Oleotto, persona squisita oltre che ottimo regista; se è venuto fuori un buon lavoro è merito anche suo e del resto del team, il nostro è un lavoro di squadra.

Passando a un titolo completamente differente, eri il cardinale Riario ne I Medici, impressioni e ricordi di una serie kolossal come quella?

Ho dovuto dire una messa in latino, tra l’altro avendo studiato al classico e con una madre insegnante di greco e latino, la responsabilità era doppia! Ricordo che ripetevo di continuo le preghiere con un amico, è stata una prova infinita, sicuramente tra le più divertenti.
Ad impressionarmi, de I Medici, sono stati soprattutto gli abiti che ho avuto la fortuna di indossare; i costumisti hanno fatto un lavoro fantastico, giravo con indosso vesti magnifiche, pesanti e preziosissime.
Essere proiettati indietro di secoli, poi, è stato incredibile, film e spettacoli in costume hanno un fascino ineguagliabile, ti danno l’opportunità di vivere contesti che, per quanto di finzione, sono lontanissimi da ciò cui sei abituato.

Francesco di Raimondo film
Total look Dsquared2

Hai studiato teatro a Roma e Parigi, recitando in tante pièce, cosa ti porti dietro della tua formazione teatrale?

Ha rappresentato la miglior formazione possibile, a 360 gradi; la considero una palestra per la recitazione, fermo restando che ci sono differenze fra cinema e teatro, le emozioni vanno veicolate in maniera diversa. Di sicuro il palco ha una magia del tutto peculiare, non ne faccio una questione di migliore o peggiore, sono due mondi al tempo stesso simili (si tratta comunque di recitare) e distanti, l’ho esperito nettamente nelle prime esperienze sul set, ritrovandomi un po’ spaesato. Capire quale sia la chiave per gestire entrambi è essenziale.

Francesco di Raimondo Instagram
Total look Salvatore Ferragamo
Francesco di Raimondo filmografia
Suit MSGM

Sei laureato in filosofia, stai anche conseguendo un dottorato in materia, trovi sia utile nel tuo lavoro?

Direi di sì, per come l’ho vissuta io la filosofia consiste, tra le altre cose, nell’imparare a pensare come pensava qualcun altro prima di te, un’attitudine estremamente utile per chi, come me, ha una sua rigidità mentale. Può aiutare parecchio, quindi, nel capire come vive, cosa prova un’altra persona; forzando un po’ il meccanismo è lo stesso: nella filosofia lo si utilizza sotto il profilo intellettivo, nella recitazione coinvolgendo anche l’emotività.

Nella tua bio su Instagram compare la celebre “provocazione” di Magritte, Ceci n’est pas une pipe

Ne Il tradimento delle immagini lui, com’è noto, disegna una pipa, negandone contemporaneamente l’entità con la scritta riportata sotto, un’azione paradossale. Sul mio profilo ho voluto fare un’operazione simile, in modo un po’ “piacione”, lo ammetto, segnalando come le foto non rappresentino necessariamente Francesco, è una parte di me che non per forza mi corrisponde appieno.

Francesco di Raimondo serie
Pull Dsquared2

Ci sono ruoli o generi con cui sogni di cimentarti?

Forse un grande cattivo, i villain sono sempre divertenti, in linea di massima, però, i ruoli cui aspiro sono quelli che si allontanano dalle mie corde, dal mio carattere. Pongono sfide interessanti, alla fine con i personaggi simili al proprio io l’interpretazione può arrivare fino a un certo punto.

Su quali progetti stai lavorando al momento? Puoi anticiparci qualcosa di quelli futuri?

Sarò in scena da questa settimana con uno spettacolo cui tengo molto, Scomodi e sconvenienti, sulla storia dell’attore Ermanno Randi, vittima negli anni ‘50 di un tragico caso di cronaca, collegato alle difficoltà di vivere col suo compagno una relazione segreta, in un contesto che non permetteva agli omosessuali di vivere serenamente, alla luce del sole, le loro relazioni. Una vicenda che non conoscevo, il testo è inedito, scritto da Emiliano Metalli. Dei progetti futuri, invece, posso anticipare solo che si parla di film.

Francesco di Raimondo wikipedia
Total look Missoni
Francesco di Raimondo intervista
Jacket Valentino

Credits

Talent Francesco di Raimondo

Photographer Davide Musto

Ph. Assistant Valentina Ciampaglia

Stylist Andrea Mennella

Grooming Alessandro Joubert @simonebellimakeup

Location Villa Spalletti Trivelli

In apertura, Francesco indossa total look Valentino

Radiografia di un cult: la polo di Ralph Lauren

Polo e Ralph Lauren, due termini che si richiamano vicendevolmente in modo pressoché automatico e, unendosi, formano il nome della linea di prêt-à-porter più conosciuta del designer statunitense. A suggellare un legame inestricabile, appena giunto al venerando traguardo dei cinquant’anni tondi, arriva adesso il libro Ralph Lauren’s Polo Shirt (Rizzoli International), consacrato proprio al capo d’abbigliamento che, in quanto sintesi tra la formalità della camicia e la basilarità della maglietta, incarna l’essenza stessa del brand, l’ubi consistam dell’american style codificato da un signore che, a 82 anni, dirige con mano sicura una multinazionale da 4,4 miliardi di ricavi. Un impero il cui asse portante sta proprio nella maglia in oggetto, se è vero, come si legge nel primo capitolo del volume (un’antologia della stessa, celebrata attraverso fotografie, aneddoti, ricordi personali e altri contenuti esclusivi) che «rappresenta ciò che Mickey Mouse è per la Disney o l’Empire State Building per New York».

Polo Ralph Lauren advertising
La polo Ralph Lauren (foto dal sito ralphlauren.it)
Ralph Lauren polo book
La copertina di Ralph Lauren’s Polo Shirt

Le origini del capo, tra polo e tennis

Un’icona, per dirla in breve, che ha contribuito a scrivere pagine memorabili della storia della griffe, sebbene non sia una novità ascrivibile a Mr. Lauren. L’origine data effettivamente al XIX secolo, quando fu introdotta in Occidente dai soldati britannici di stanza in India, che l’avevano vista addosso ai giocatori locali di polo, e importarono nel Vecchio Continente sia l’indumento che lo sport omonimo. Il presidente della Brooks Brothers John E. Brooks, a sua volta, dopo averla notata in Inghilterra, la commercializzò oltreoceano, replicandone il colletto abbottonato anche sulle camicie button-down, appunto. Sulla sponda opposta dell’Atlantico, negli anni Venti, Jean René Lacoste ne faceva la divisa d’elezione dei tennisti, non prima di averne accorciato le maniche, cucendola inoltre con un cotone fresco e leggero, il piqué.
Pur non avendola inventata, lo stilista newyorchese intuisce che la maglia è la base perfetta per edificare quella sorta di via americana al ben vestire che ha in mente da quando, nel 1968, esordisce con una collezione maschile completa. Il suo è infatti un casualwear ammantato di sofisticatezza, nel quale usi e costumi dei wasp (white anglo-saxon protestant, sostanzialmente la buona borghesia, che studia negli atenei della Ivy League, pratica sport elitari, trascorre le vacanze nelle cittadine à la page sulle coste del New England) si saldano alla fascinazione del nostro per la classe inscalfibile dei divi della vecchia Hollywood (dal venerato Cary Grant, di cui impara a memoria ogni outfit, a Gary Cooper), per il mito della frontiera (idealizza, su tutti, i topoi estetici del cowboy), per gli oggetti dalla patina vissuta, che abbiano una storia da scoprire.

Ralph Lauren Bruce Weber
Uno shooting realizzato da Bruce Weber per GQ, negli anni ’80

La nascita della Polo Shirt di Ralph Lauren

La polo del 1972, insomma, è la logica conseguenza di un racconto stilistico preciso e dettagliato: sportiva ma con juicio, strutturata pur senza ingessature, adatta alle aule dei college come ai weekend fuori città, priva di orpelli ad eccezione del provvidenziale logo col giocatore a cavallo, piazzato sul lato sinistro del petto (introdotto giusto l’anno prima sui polsini della camiceria femminile, riscuoterà un successo straordinario, finendo con l’identificare il marchio tout court). Altre caratteristiche sono il tessuto, puro cotone interlock, la vestibilità regolare, sagomata quanto basta, le spalle leggermente scese, l’orlo posteriore allungato, il collo a costine, chiuso da due bottoni. Nelle parole di Lauren, «un indumento magnifico e ricco di colori» perché, oltre agli imprescindibili bianco, blu e azzurro, è declinata in giallo e rosa. Nel giro di qualche anno, poi, si passa alla modalità “tuttifrutti”: aumenta il numero di nuance disponibili, 17 e perlopiù pastellate; lo slogan che accompagna il lancio promette inoltre che il modello «migliora con l’età», connotandolo perciò subito come un capo timeless, avulso dal ciclo continuo delle mode.

polo Ralph Lauren logo
Polo Ralph Lauren modelli
Modelli con polo pastello di Ralph Lauren

L’impasto di semplicità e sprezzatura funziona eccome, se già negli anni Ottanta la Ralph Lauren Corporation dichiara di vendere circa 4 milioni l’anno di Polo Shirt.
Nello stesso periodo, a mitigare l’esclusività di cui era stata rivestita dalla clientela di riferimento (la suddetta upper class degli Stati Uniti), intervengono subculture urban come quella dei Lo-Life, ragazzi di Brooklyn ossessionati dalle magliette col pony (e da cappelli, pullover, giubbotti, calze, tutto ciò che è marchiato RL insomma); ne accumulano quantità industriali grazie a mezzi più o meno leciti, eleggendo il cavallino a effige da sfoggiare a piè sospinto, per rivendicare la dignità della propria cultura, la voglia di ribellarsi a uno status quo che riconosceva solo a determinati gruppi sociali un ruolo “aspirazionale”.

Il successo della maglia col cavallino, tra indossatori celebri e progetti ad hoc

In tutto ciò, la fortuna dell’articolo non fa che aumentare, trainando fatturati e prestigio dell’azienda che lo firma. La hall of fame dei suoi indossatori famosi, d’altronde, è oltremodo varia, annoverando lo yuppissimo finanziere Jordan Belfort (alias Leonardo DiCaprio) di The Wolf of Wall Street, ex ed attuali presidenti (Ronald Reagan, Bill ClintonJoe Biden), popstar (leggasi Pharrell Williams, Harry Styles, Justin Timberlake), attori (Hugh Grant, Russell Crowe, Kit Harington, Patrick Dempsey), un monumento vivente del calcio come Pelé, stelle passate e presenti, da Frank Sinatra a Kanye West.
Nel 2017, a coronamento dello status ormai acquisito nell’immaginario comune, l’inclusione della polo nella rosa di memorabilia esposti alla mostra Items: Is Fashion Modern? al MoMa, preludio all’ingresso nella collezione permanente del museo.

Trattandosi di una pietra miliare del lifestyle by Ralph Lauren, la maison dosa attentamente le modifiche. Se la varietà delle sfumature aumenta (oggi si rischia di perdere il conto di fronte alle decine di tonalità a disposizione, ripartite all’occasione in trame rigate, bande diagonali, blocchi di colore sgargianti), resta contenuto il numero di restyling apportati al logo, passato dall’altezza originaria, di poco oltre il centimetro, ad “estremi” superiori ai cinque. Sicuramente ci si adegua all’air du temps, abbracciando le parole d’ordine della sostenibilità con il modello Earth, in poliestere riciclato; vanno in questa direzione anche i progetti collaterali all’uscita del coffe table book di cui sopra, cioè Polo Upcycled, edizione limitata di pezzi lavorati manualmente dagli artigiani di Atelier & Repairs, e l’estensione del programma Create Your Own, per customizzarla attraverso iniziali, lettere ricamate o combinazioni cromatiche inedite.
Interventi mirati, come si conviene a una maglia che si dimostra indifferente allo scorrere del tempo, forte di una dualità, di un (dis)equilibrio «tra unicità e – poiché molti altri nel mondo la indossano – il sentirsi parte di una comunità» (così scrive Ken Burns nella prefazione del libro); Una contraddizione – felicemente – irrisolta da cinque decenni.

polo Ralph Lauren personalizzate
Esempi del servizio Create Your Own

Nell’immagine in apertura, Jordan Belfort/Leonardo DiCaprio in una scena di The Wolf of Wall Street

‘Nuovo Cinema Paradiso’, in mostra i new talent della scena italiana

Inaugura oggi, in contemporanea con MIA – Milan Image Art Fair (fiera internazionale dedicata alla fotografia d’arte), la mostra Nuovo Cinema Paradiso. Ospitata fino al 1° maggio negli spazi di Superstudio Maxi, in via Moncucco 35, l’esposizione intende valorizzare l’odierna scena attoriale italiana, ricca e vitale come mai prima d’ora, selezionando e organizzando in un percorso visivo curato da Federico Poletti, direttore di ManInTown, le immagini di alcuni dei suoi interpreti più conosciuti e apprezzati, scattate in tempi non sospetti da Davide Musto. Di origini palermitane ma ormai romano adottivo, il fotografo e talent scout ha seguito infatti da vicino, assiduamente, quel magma sempre in fieri che è, da un po’ di anni a questa parte, lo showbiz del Belpaese, affollato di talenti emergenti, giovani, spigliati, a proprio agio nelle pellicole d’autore come in film e serial distribuiti da Netflix, Amazon Prime Video et similia, che hanno assicurato loro un seguito estesosi ben oltre i confini nazionali.

Giancarlo Commare
Giancarlo Commare
Matilde Gioli film
Matilde Gioli
Giacomo Ferrara Suburra
Giacomo Ferrara

Gli astri nascenti del cinema italiano

Musto ha avuto l’opportunità di fotografare diversi new names prima che spiccassero definitivamente il volo, ritrovandosi ad essere corteggiati da produzioni internazionali, vecchie e nuove emittenti (dalla Rai ai citati giganti dello streaming), maison titolatissime: tra quelli presenti in mostra, si possono fare i nomi di Matilde Gioli (32enne dal curriculum invidiabile, colmo di riconoscimenti e collaborazioni con registi del calibro di Paolo Virzì, Alessandro D’Alatri, Giovanni Veronesi), Giacomo Ferrara (assurto al rango di icona pop grazie al suo alter ego Spadino in Suburra), Lorenzo Zurzolo (il bel tenebroso liceale di Baby, habitué di Gucci e Valentino), Francesco Gheghi (attore rivelazione de Il filo invisibile), Ema Stokholma (figura poliedrica, passa senza un plissé dalla conduzione alle consolle dei club più famosi, all’autobiografia Per il mio bene che, nel 2021, le è valsa il Premio Bancarella), Rocco Fasano e Giancarlo Commare, già idoli dei teenager per aver recitato nella serie fenomeno Skam Italia.

Lorenzo Zurzolo Baby Netflix
Lorenzo Zurzolo
Ema Stokholma
Ema Stokholma
Rocco Fasano Skam
Rocco Fasano

Da sempre appassionato di recitazione, l’autore ha colto, in questi e altri astri nascenti dello spettacolo (non solo) italiano, una combinazione «di sguardo cinematografico e appeal internazionale che riconosco per istinto»; qualità che hanno permesso loro di «segnare una svolta epocale nel panorama recitativo del paese, favorendo un cambiamento che non può che giovare all’intero sistema», e traspaiono chiaramente anche dalle foto in bianco e nero raccolte per l’exhibition, in cui la sensualità dei soggetti ritratti, mai sfacciata eppure tangibile, sposa un’impostazione estetica riconducibile agli svariati editoriali di moda da lui realizzati per magazine come L’Officiel, Style, Sportweek, Fucking Young!, oltre che per ManInTown (di cui è brand & content director).

Una nuova generazione per nuovi media

mostra fotografica milano
L’allestimento della mostra a Superstudio Maxi
mostra fotografica cinema
L’allestimento della mostra

Dal canto suo, il curatore Federico Poletti è sicuro che «il cinema italiano viva un fermento inedito grazie a una new generation di attori versatili, molto preparati. Con questa mostra itinerante vogliamo darle spazio, promuoverla, così da farla conoscere a un pubblico attento alla fotografia e alla moda».
Dopo la tappa milanese, Nuovo Cinema Paradiso proseguirà per Roma, Noto (durante i mesi estivi) e infine, in occasione della 79esima Mostra di Venezia, approderà in Laguna, arricchendosi di volta in volta di contenuti fotografici e video, dando ulteriore visibilità ad artisti lanciatissimi, abituati a variare, a muoversi liberamente all’interno di un contesto che d’altronde hanno contribuito a modificare, rendendo sempre più labili i confini e svuotando di senso categorie ormai stantie; perché se, come scriveva il critico e giornalista Antonio Mancinelli su ManInTown qualche tempo fa, «una volta c’erano il grande e il piccolo schermo, le cui dimensioni distinguevano due media differenti», adesso al contrario «tutto è intrecciato con tutto, con raffinatezze progettuali e ideative straordinarie, e ogni piattaforma che si presta a veicolare immagini in movimento deve reinventarsi quasi da zero». La nuova generazione di attori e attrici italiani sembra averlo capito meglio di chiunque altro.

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L’allestimento della mostra
ema stokholma foto
L’allestimento della mostra

Per tutte le immagini, credits: Davide Musto

Nell’immagine in apertura, Giancarlo Commare fotografato da Davide Musto per la cover di ManInTown The Next Generation Issue

Omaggio a Giusi Ferré, la vipera gentile della moda

L’editoria fashion (in realtà non solo quella, lo si vedrà) perde una delle voci più brillanti, autorevoli e trasversalmente apprezzate, dagli insider come dai lettori: è morta a 75 anni, nella notte tra il 14 e il 15 aprile, Giusi Ferré, notista di moda e costume, critica, autrice di svariate pubblicazioni, tra i massimi interpreti di un’epoca irripetibile del giornalismo specializzato italiano, che seppe accompagnare, documentandola in presa diretta, l’ascesa del made in Italy nell’empireo del glamour internazionale.

Fu anche merito suo, infatti, se la stampa di settore riuscì a riscattarsi dalla posizione marginale occupata, per decenni, nel sistema mediatico, non limitandosi alle cronaca un po’ leziosa di tendenze, consigli per gli acquisti e novità di stagione, ma agendo alla stregua di un sismografo della società, in grado di captare le “scosse” che attraversavano ogni ambito della vita pubblica e privata, dal protagonismo dei giovani all’emancipazione femminile, dai prodromi della globalizzazione ai (drastici) cambiamenti nelle abitudini e preferenze dei consumatori.
Ferré comprese subito, in sostanza, come la moda fosse lo specchio dei tempi e, in quanto tale, doveva essere indagata, raccontata con sagacia, competenza, senso critico. Qualità che contrassegnano da subito il percorso di quest’intraprendente signora milanese dalla r blesa, colta, acuta, decisa ad affermarsi in un mondo, quello dei media di allora, dove la presenza delle donne era sporadica, per usare un eufemismo: si iscrive all’Ordine dei giornalisti nel 1975, quindi entra nella redazione di Epoca, cui seguirà, dopo un periodo da Linea Italiana e Linea Sport, l’approdo all’altro settimanale di prestigio del dopoguerra, L’Europeo.

Giusi Ferré in un ritratto di Alfa Castaldi

La sua carriera prende rapidamente il volo, la notorietà definitiva gliela regala la collaborazione con i periodici del Corriere della Sera, Amica (co-diretto dal 1998 al 2000) e Io Donna, per cui conia la rubrica di culto ‘Buccia di banana’, in cui esamina, con piglio analitico e insieme sarcastico, sempre estremamente scrupoloso, i faux pas delle celebrity in materia di abbigliamento, alla quale si contrapporrà poi l’altrettanto fortunata ‘Tocco di classe’ che, in maniera uguale e contraria, tesse le lodi degli outfit più azzeccati delle star.
La popolarità della column sugli errori/orrori di stile dei vip è tale da generare, negli anni, una propaggine televisiva, trasmessa da Lei Tv, e un manuale dal medesimo titolo, pubblicato da Rizzoli nel 2012; la descrizione sintetizza al meglio lo spirito del format, ossia «racconta[re] la moda […] mescolando i generi – cinema, gossip, letteratura, storia del costume – bocciando o promuovendo un gusto, un abito, un modo d’essere». Il volume rientra nella prolifica produzione saggistica della Ferré, che vede accanto a un volume come Timberlandia (1987), sul fenomeno giovanilistico degli scarponcini gialli, libri sugli alfieri del prêt-à-porter tricolore, dall’amato Gianfranco Ferré («non siamo parenti», puntualizzava, tuttavia «trovandolo un genio, l’ho stimato moltissimo») a Giorgio Armani (suo il trattato, fondamentale per comprendere l’Armani-pensiero, Il sesso radicale, edito da Marsilio nel 2015), ad Alberta Ferretti.

Giusi Ferré con Franca Sozzani
La Ferré con Mario Boselli, presidente onorario della Camera Nazionale della Moda Italiana

Altra specialità dell’autrice erano i profili con i quali, ricorrendo ad aneddoti e sapidi particolari, sapeva fornire un ritratto unico del designer di turno, che poteva essere Miuccia Prada (che concesse proprio a lei la prima intervista in assoluto), Valentino Garavani, Gianni Versace, Romeo Gigli, Antonio Marras, Ermanno Scervino (degli ultimi due apprezzava la coerenza del messaggio estetico, impermeabile alle smanie du moment).
Alla fama di Ferré contribuì probabilmente anche il look, inconfondibile, con ciocche fiammeggianti tirate all’insù, occhiali da sole XXL e total black d’ordinanza (uniche eccezioni ammesse: i gioielli vintage, dalle dimensioni importanti), sfoggiato tanto nei front row delle sfilate quanto nelle apparizioni sul piccolo schermo, nel già citato programma Buccia di banana o nella giuria di Italia’s Next Top Model.

I messaggi che hanno salutato la sua scomparsa, in questi giorni, dimostrano l’affetto e la stima che provavano per lei colleghi e nomi di spicco del fashion system; una nota, diffusa dalla maison lo scorso venerdì, la definiva «un’amica, discreta e leale», di cui mancherà «la profonda sensibilità con cui sapevi raccontare il mio pensiero e il mio lavoro»: così parlo Re Giorgio (Armani).

Anna Ferzetti, «recitare è un po’ come andare in analisi»

Il suo cognome richiama un pezzo di storia cinematografica e teatrale italiana, idem quello del compagno: Anna Ferzetti, attrice romana, figlia di Gabriele (scomparso nel 2015, un interprete di razza della stagione migliore dello spettacolo nostrano, al servizio di autori con la A maiuscola quali Antonioni, Visconti, Leone, Petri…), legata sentimentalmente a Pierfrancesco Favino, a 39 anni (di cui una ventina trascorsi su set e palcoscenici di rilievo), fa parlare di sé, ben più che per le (illustri) parentele, per i ruoli cui ha dato vita tra grande – e piccolo – schermo e teatro. La notorietà gliel’ha regalata Una mamma imperfetta, ma l’elenco è corposo, comprende fra i tanti Terapia di coppia per amanti, Il colore nascosto delle cose, Rocco Schiavone, fino alla doppia candidatura (David di Donatello e Nastro d’argento) come miglior attrice non protagonista per Domani è un altro giorno.
Dal 13 aprile la vedremo ne Le fate ignoranti, trasposizione seriale del capolavoro di Ferzan Özpetek, e a maggio su Sky in (Im)perfetti criminali; la nostra conversazione parte da qui.

Dress stylist’s archive, shoes Roger Vivier

Arriva su Disney+ Le fate ignoranti, cosa possiamo aspettarci dall’adattamento televisivo della pellicola che consacrò Özpetek tra i massimi autori del nostro cinema?

Secondo me bisognerebbe slegarsi un po’ dal film, la storia rimane la stessa ma ci sono sviluppi inediti, affidati ad altri interpreti, altre facce, altre umanità insomma, e il valore aggiunto consiste proprio in questo.
A causa dei parallelismi è spesso difficile lavorare ai remake, invece ci si dovrebbe concedere la libertà di avvicinarsi a una cosa diversa e, anche nel caso dei personaggi già esistenti, vederli con altri occhi.

Quali pensi siano le differenze principali tra l’originale e la serie?

Nei rifacimenti, come detto, ognuno porta con sé determinate caratteristiche, il suo personale modo di vedere il personaggio. Io sono stata fortunata perché, non avendo termini di paragone per Roberta, una new entry, mi sono potuta sbizzarrire, seppur nel contesto della “casa” di Le fate ignoranti.
Per quanto riguarda i protagonisti “originali”, essendoci un solo Stefano e una sola Margherita (Accorsi e Buy, rispettivamente Michele e Antonia nel film, nda), esattamente come un solo Eduardo (Scarpetta, nda) e una sola Cristiana (Capotondi, nda), è normale che ciascuno ne dia la propria lettura.

Shirt and rings Valentino

Sei nel cast di (Im)perfetti criminali, commedia su quattro guardie giurate che si improvvisano rapinatori. Cosa puoi anticiparci del film e della tua parte?

Sono un’insegnante alla costante ricerca di supplenze, con Filippo Scicchitano formiamo una coppia di sposi che fatica ad arrivare a fine mese.
La trovo una storia deliziosa, capace di far riflettere pur essendo sostanzialmente una commedia su quattro persone semplici, metronotte che sbarcano il lunario e si troveranno ad aiutare un collega in difficoltà. Si sorride e allo stesso tempo ci si interroga, pensando a questioni complesse, concrete, alle difficoltà della vita quotidiana, tipo affitto e bollette.

È in onda su Rai2 la seconda stagione di Volevo fare la rockstar, tu però non sei nuova al mondo della tv: eri tra le protagoniste di Una mamma imperfetta, poi sono venuti Skam Italia, Rocco Schiavone, Il tredicesimo apostolo… Cosa ti stimola di più delle serie?

Non c’è un elemento specifico, ad attirarmi sono senz’altro ruolo e storia, di Volevo fare la rockstar, per dire, mi affascinavano gli argomenti trattati, l’amore, la famiglia, i tradimenti, la provincia anche, protagonista al pari del cast, perché la cittadina immaginaria di Caselonghe rappresenta uno spaccato del Friuli; come atmosfera è agli antipodi rispetto, ad esempio, a Le fate ignoranti, dove Roma viene restituita in modo pazzesco, con luci bellissime.
Finora sono stata fortunata, mi sono capitati ruoli diversissimi l’uno dall’altro.

Jacket dress Valentino, boots Giuseppe Zanotti, rings Chiara BCN
Jacket dress Valentino, boots Giuseppe Zanotti, rings Chiara BCN

Nel 2020 hai preso parte a Curon, che sviluppava in chiave mystery il tema del doppio, come immagini un ipotetico alter ego di Anna Ferzetti?

Come un mio opposto, ognuno ha i suoi punti deboli e credo gli toglierei quelli, le paranoie varie che mi porto dietro.
Si tende a raffigurare il doppio come la parte oscura dell’io, mi piacerebbe al contrario trasmettergli quei lati caratteriali che non mi appartengono, anche in Curon ho provato a individuare le sfaccettature positive del personaggio, quelle non pienamente sviluppate.

Qualche serial che apprezzi – o hai apprezzato – particolarmente? In fondo hai dichiarato di guardare sempre Netflix con le tue figlie…

Ce ne sono davvero tanti, mi viene in mente Fleabag, per citarne solo uno; amo andare al cinema, comunque, quindi cerco di tenere insieme le due dimensioni, ritagliandomi il tempo necessario a godersi un film in sala.

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Confidavi nel 2021 al Corriere della Sera di fare come tuo padre che «amava trasformarsi, imbruttirsi», cioè?

Gli attori hanno l’immensa fortuna di vivere le vite degli altri, allontanarmi da me stessa anche fisicamente, oltre a divertirmi, in questo senso mi aiuta. Se il copione prevede una determinata postura o “difetti” fisici, perché non accentuarli?
L’attenzione ad aspetti simili, probabilmente, dipende dall’essere cresciuta a teatro, che concede maggiore libertà artistica rispetto al cinema, dove il discorso è diverso, più complesso a livello tecnico; di contro, è ancora più stimolante provare a trasformarsi per un film o la tv, risultando altrettanto credibile sullo schermo.

Due anni fa eri al fianco di Pierfrancesco Favino in Tutti per 1 – 1 per tutti, come ti sei trovata a condividere il set con lui?

Non era una novità assoluta, abbiamo fatto spettacoli insieme per anni, era però la prima volta sul set e, trattandosi di una commedia, la difficoltà principale era non ridere, una vera sfida date le situazioni esilaranti che si venivano a creare, non di rado improvvisate, per giunta.
Io e Pierfrancesco ci divertiamo molto a lavorare insieme, sicuramente l’alchimia che c’è tra noi aiuta, per quanto non manchino scontri e dubbi.

Dress Alessandro Vigilante
Dress Alessandro Vigilante

Hai vissuto il teatro fin da piccola, lavorando anche dietro le quinte, e recentemente l’hai definito una comfort zone. Cosa rappresenta per te il palco?

È come una seconda casa, quando si accendono le luci e il sipario si alza, scatta qualcosa che le parole non possono spiegare appieno, a partire dal rapporto col pubblico, lo percepisci distintamente, avverti che è lì, vive nella storia con te.
Ora con Vanessa Scalera, Daniela Marra e Pier Giorgio Bellocchio riprenderemo Ovvi destini alla Sala Umberto, tornare in scena dopo un periodo del genere e sentire le persone in platea partecipi, che commentano, ridono o si commuovono, è davvero emozionante, riempie di gioia vederle felici alla fine dello spettacolo.
Il teatro ha l’enorme privilegio della simbiosi con il pubblico, per questo ci torno appena posso e, ogni volta, la sensazione è di essere a casa. I ritmi cinematografici e televisivi sono diversi, semplicemente, sto ancora prendendoci le misure; il nostro è un mestiere in cui, per fortuna, la ricerca per tenere vivo quel fuoco che ne la base è continua, non si smette mai di imparare, anche solamente osservando i colleghi che, magari, a sessanta o settant’anni si spingono ancora oltre, senza dare nulla per scontato.

Un ruolo o genere con cui finora non hai avuto la possibilità di confrontarti e che, invece, ti piacerebbe sperimentare?

Fondamentalmente ho sempre lasciato che fosse il personaggio di turno a “travolgermi” e vorrei proseguire su questa linea, sorprendendo gli altri – e me stessa – con parti che mi diano stimoli inediti. Insistendo sulle stesse cose, d’altronde, si finisce per annoiarsi e annoiare gli spettatori, i primi con cui bisogna entrare in sintonia, spingendoli a immedesimarsi con ciò che vedono.
Mi chiedo spesso come sia possibile non avere ruoli che mi piacerebbe da matti interpretare, e non so rispondere, del resto ci sono così talmente tanti lati della personalità da esplorare e raccontare, senza parlare dei temi da affrontare… Recitare è un po’ come andare in analisi, ti fai molte domande e arrivi a sfidarti, a metterti in discussione, come attore e persona in generale.

Dress stylist’s archive, shoes Roger Vivier
Dress stylist’s archive, shoes Roger Vivier

Credits

Talent Anna Ferzetti

Photographer Davide Musto

Ph. assistant Valentina Ciampaglia

Stylist Nick Cerioni

Fashion assistants Michele Potenza, Salvatore Pezzella, Noemi Managò

Make-up Michele Mancaniello for #SimoneBelliAgency

Hair Simona Imperioli

Thomás de Lucca by Anthony Pomes – Editorial

Anthony Pomes, fotografo francese che abbiamo intervistato di recente, ha immortalato in esclusiva per Manintown Thomás de Lucca, in déshabillé su una terrazza assolata di Milano, dove si è trasferito da non molto il modello brasiliano. Foto d’impatto, potenti e delicate al tempo stesso, che mettono in chiaro il modus operandi di un autore che, come ci aveva confidato, ricerca in ogni ritratto la sensibilità e unicità del soggetto.
Abbiamo approfittato dell’occasione per rivolgere qualche domanda a Thomás.

Thomas de Lucca model
Trousers Zara

Parto dalle fotografie di Anthony Pomes, da cui traspare un’atmosfera piuttosto rilassata e spontanea, è così? Come ti sei trovato a lavorare con lui?

Mi sono sentito davvero a mio agio con Anthony, ha talento e sa come guidare un modello durante lo shooting.
Onestamente, pensavo sarei stato un po’ arrugginito perché al momento mi sto concentrando su altre cose al di fuori del modeling, invece è andato tutto bene.

Raccontaci qualcosa di te, da dove vieni, da quanto fai il modello, quali sono i tuoi interessi

Vengo dal sud del Brasile, faccio il modello da quasi 9 anni, da quando sono andato in Cina per lavoro, esperienza che mi ha aiutato a crescere ed essere qui oggi, rappresentato da una delle migliori agenzie milanesi. In parallelo, dall’anno scorso, mi occupo di marketing, ultimamente ci sto investendo molto tempo ed energie, anche se la mia passione è sempre stata, e resterà, la moda.
Nel tempo libero mi piace andare in palestra, fare yoga e meditazione, anche tutti i giorni, se possibile. Amo stare col mio ragazzo e gli amici, e guardare film horror o sci-fi.

Sei brasiliano ma vivi per lavoro a Milano, com’è stato il primo impatto, cosa ti piace di più (ed, eventualmente, meno) della città?

Milano è fantastica, internazionale e facile da girare, devo però confessare che ho ancora dei problemi con la lingua perché “il mio italiano non è molto buono” (letteralmente l’unica frase che so dire senza ricorrere a Google Translator).
Le cose che mi piacciono di più sono la pizza e il cappuccino, mi piace meno il costo parecchio elevato della vita.

Se ti parlo di stile, a cosa pensi?

A David Gandy, un riferimento assoluto per ogni modello, mi colpisce il suo stile che, adeguandosi all’età, risulta affascinante e up to date.

Griffe o designer per cui aspiri a lavorare? 

Mi piacerebbe sfilare per Dolce&Gabbana e Giorgio Armani, sono la mia aspirazione professionale da quando faccio questo mestiere.

Dove ti vedi da qui a dieci anni?

Tra dieci anni vorrei essere un affermato coach di modelli, di quelli che viaggiano ovunque e tengono lezioni sul modo di pensare, al di là del lavoro dei sogni, sull’usare la passione a proprio favore.
Vorrei incoraggiare tutti i miei colleghi a non rinunciare con troppo facilità alla carriera (so quanto possa essere difficile ricevere una marea di “no”). Si può sfruttare in tanti modi ciò che si impara o sperimenta in quest’ambiente, magari come aiuto per iniziare qualche nuova attività con cui siamo realmente in sintonia. Là fuori ci sono più opportunità di quanto si pensi.

Top Bershka

Credits

Model Thomás de Lucca @D’Management

Photographer Anthony Pomes

La S/S 2022 di People of Shibuya tra versatilità, performance e spirito tech

Mai come in questi anni di generale entusiasmo per ibridazioni, collab, capsule collection, annessi e connessi, la versatilità è stata così gettonata nel mondo fashion. Una propensione verso soluzioni che sappiano prestarsi al maggior numero possibile di occasioni, quasi ecumeniche, se così si può dire, che avvantaggia chi, come People of Shibuya, punta da tempi non sospetti su determinate caratteristiche.
Il marchio nato nel 2014, infatti, ha trovato nella funzionalità la propria ragion d’essere, sublimandola in capispalla di matrice tecnica ma dall’anima sartoriale, sintesi ideale tra qualità prettamente italiana e purismo nipponico, innovazione e classicità, pulizia delle linee e modularità, per giacconi, impermeabili, blouson & Co. adatti a qualunque contesto, outdoor o cittadino che sia, e rispondendo così alle esigenze di una clientela metropolitana sempre in movimento, tra impegni lavorativi e weekend fuori porta.

Due modelli della collezione S/S 2022 di People of Shibuya

Il blend di pragmatismo ed eleganza urban è al cuore anche della collezione Spring/Summer 2022 del brand, che ruota intorno a due poli, tech sportswear e performance style. Nel primo caso, la proposta si articola sulle felpe: si può scegliere tra i modelli Ukimi (in light fleece, provvisto di mantella in tessuto tecnico a contrasto, connubio perfetto di stile e comfort), Ginza (capo high quality con cappuccio e maniche raglan, contraddistinto da passamanerie sui bordi, tasche zippate pressoché invisibili e orlo posteriore stondato), Uzuma (dal taglio affusolato, con collo alla coreana e profilature ad effetto riflettente, che si distingue grazie alla coulisse in vita e alla chiusura a clip) e Kintai, inconfondibile nel suo punto di rosa particolarmente acceso.

Nel secondo, le giacche performance, enfatizzando la ricerca su forme, materiali e impatto cromatico (con l’introduzione di tonalità vibranti di giallo e arancione, accanto agli inossidabili bianco e nero), danno un’accezione inedita al concetto di tecnicismo urbano.
Due le novità: il giubbino Konami, realizzato in uno speciale filato giapponese, bi-stretch e antipiega, dalla mano eccezionalmente morbida, e rifinito da tasche applicate chiuse da bottoni ton sur ton; e la jacket multiuso Nikka in microfibra sintetica Primaloft, fornita di cappuccio staccabile, un passe-partout per la stagione primaverile, tanto comfy e pratico quanto stiloso.

Tutte le immagini courtesy of People of Shibuya

Oscar 2022: vincitori, vinti e look degli Academy Awards

Quella andata in scena stanotte a Los Angeles, la 94esima, è stata un’edizione degli Oscar in sordina, che rischia di essere ricordata soprattutto per un paio di episodi incresciosi. Clamoroso, senz’altro, il ceffone rifilato da Will Smith (per giunta uno dei trionfatori in quanto miglior attore protagonista, grazie all’interpretazione del padre/allenatore delle tenniste Serena e Venus Williams in Una famiglia vincente – King Richard) a Chris Rock, dopo la battuta (infelice) del comico sulla calvizie della moglie di Smith, Jada, che soffre di alopecia. L’ex principe di Bel-Air in seguito si è scusato, ma certo un gesto simile, davanti alla platea di star allibite, rimarrà negli annali dello show.
Smentendo le voci circolate nei giorni scorsi, inoltre, il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky non è intervenuto alla cerimonia, e nel complesso la guerra scatenata dalla Russia è rimasta sostanzialmente ai margini, eccezion fatta per un minuto di silenzio, il discorso (piuttosto generico, in verità) di Mila Kunis (che ha origini ucraine) e il florilegio di coccarde, nastri e fazzoletti gialloblu, dentro e fuori dal Dolby Theatre. La timidezza, diciamo così, dimostrata dall’Academy nel trattare l’argomento ha peraltro già scatenato polemiche e critiche.

Jessica Chastain (ph. by Robyn Beck/AFP via Getty Images)
Will Smith e Jada Pinkett Smith (ph. WireImage)

L’Italia esce a mani vuote dalla serata hollywoodiana: ad aggiudicarsi il premio come miglior pellicola straniera è infatti Drive My Car, a scapito degli altri quattro contendenti tra cui il sorrentiniano È stata la mano di Dio; Jenny Beavan di Cruella soffia la statuetta per i costumi a Massimo Cantini Parrini (candidato per Cyrano); il film d’animazione Disney Encanto, strafavorito, conferma le previsioni della vigilia sbaragliando gli avversari, compreso Luca del nostro Enrico Casarosa.
Significativa l’affermazione di I segni del cuore – Coda, storia dell’unica persona udente in una famiglia di sordi che, partita da outsider, porta a casa tre degli Oscar di maggiore peso, cioè miglior film, sceneggiatura non originale e attore non protagonista (Troy Kotsur, primo interprete sordomuto a vincere il premio).

Luisa Ranieri, Paolo Sorrentino con la moglie Daniela, Filippo Scotti (ph. by Angela Weiss/Getty Images)

Bissa il successo dei recenti Critics Choice Award Jane Campion, miglior regista con Il potere del cane, mentre la radicale trasformazione cui si è sottoposta Jessica Chastain, per il ruolo dell’omonima telepredicatrice in Gli occhi di Tammy Faye, le vale il titolo di best actress, centrato alla terza nomination.
Fa incetta di riconoscimenti, seppur tecnici, il kolossal sci-fi Dune (premiato per montaggio, fotografia, colonna sonora, effetti speciali, scenografia e sonoro); altre statuette sono andate poi a Billie Eilish (insieme al fratello Finneas) per la miglior canzone originale (No Time to Die, brano dell’ultimo film di 007), ad Ariana DeBose (miglior attrice non protagonista), a Belfast (migliore sceneggiatura originale) e, nella categoria documentario, a Summer of Soul (…Or, When the Revolution Could Not Be Televised).

Ariana DeBose (ph. by Jeff Kravitz/Getty Images)

Note positive arrivano invece dai look della kermesse, che stavolta riserva parecchie, gradevoli sorprese negli outfit maschili apparsi sul red carpet più atteso e scrutato del globo. Non poche tra le celebrità giunte all’epico teatro di Hollywood Boulevard, infatti, pur senza sottrarsi ai precetti formali richiesti dall’occasione, mostrano come sia possibile coniugare originalità ed eleganza aurea, distinguendosi ciascuno a modo proprio. Lo fa innanzitutto Timothée Chalamet, novello wonderboy del cinema che, in fatto di uscite di gala, non sbaglia un colpo: si presenta con uno spencer glitterato che è tutto uno sfolgorio, portato a pelle, su pantaloni a sigaretta scuri, boots lucidati a specchio (di Louis Vuitton, come il suit) e collana con pendente ferino di Cartier; l’azzardo è notevole, ma il buon “Timmy” va inserito di diritto nei best dressed men degli Oscar.

Sulla stessa scia Andrew Garfield in modalità dandy, regale nel suo ensemble Saint Laurent, ossia blazer di velluto purpureo sopra pants affusolati, con tanto di fiocco anni ‘70 al posto del tradizionale papillon.
Non passa certamente inosservato nemmeno Kodi Smit-McPhee: l’attore rivelazione de Il potere del cane osa la sfumatura dell’azzurro pallido, insolita per una grande soirée, distribuendola sull’intera mise Bottega Veneta, composta da giacca double-breasted, calzoni pennellati, stivaletti, un prezioso girocollo in luogo della cravatta.

La keyword per decifrare l’outfit (Valentino) di Jamie Dornan è rilassatezza, condita con un pizzico di eccentricità: lo smoking, sfoderato, è un filo più lungo del dovuto, e sulla suola delle scarpe derby sono incastonate minuscole borchie. Trasuda souplesse anche l’abito di Jake Gyllenhaal (senza bow-tie, a conferma del mood disinvolto), per non parlare di quello firmato Maison Margiela di Travis Barker, accessoriato da sunglasses (una rockstar non si smentisce mai, no?) e broche a goccia di diamanti sul risvolto. Proprio le spille si rivelano un plus gettonatissimo tra gli uomini: brillano infatti sui revers dei blazer di Wilmer Valderrama (un bel doppiopetto velvet color verde pino), Jay Ellis, Karamo Brown e Rami Malek. Quest’ultimo, tra l’altro, affronta i flash dei fotografi con occhiali da sole aviator, chioma leggermente spettinata, mano sinistra nella tasca e, in generale, l’atteggiamento un po’ sornione di chi non indossa, come fa lui, un tuxedo su misura Prada.

In quota bling bling troviamo il completo del dj D-Nice, tempestato di cristalli, all’estremità opposta dello spettro fashion il sobrio look Zegna di Javier Bardem, tramato di disegnature paisley, ton sur ton col blu profondo della giacca.
Ligi all’etichetta, e per questo impeccabili, sono infine Shawn Mendes e Nikolaj Coster-Waldau, entrambi in smoking (nero Dolce&Gabbana per il cantante, bianco per l’ex Jamie Lannister di Games of Thrones) dal fit perfetto.

In apertura, il cast di I segni del cuore – Coda

Models to follow: Chiara Veronese

22 anni ancora da compiere, sarda (con i primi ingaggi, ancora adolescente, si è però trasferita a Londra, quindi a Milano), piglio sbarazzino, un sense of humour evidente dando anche solo una scorsa al suo Instagram, Chiara Veronese trasmette un’energia palpabile, che le deriva dal forte bisogno, un’urgenza quasi, di esprimersi creativamente; nulla di cui sorprendersi, poiché ama «essere creativa, sapere che a volte le idee non sono infattibili, che c’è sempre una soluzione».
Appassionata di musica, ha collaborato con il rapper Sgribaz al brano Dovrei, uscito nel 2021, fa parte del collettivo PECORANERA e, sul modeling, ha le idee chiare: «Non è questione di essere la migliore, piuttosto di tirar fuori il proprio carattere e le proprie idee, dimostrando di non essere solo un’indossatrice».

Jacket Red September

Campagne per varie griffe (Golden Goose, Superga, Pull&Bear…) ed e-tailer come Yoox, la passerella Fall/Winter 2021 di Dolce&Gabbana: tra questi e altri lavori che non ho citato, a quale sei maggiormente legata e ritieni sia stato più importante per la tua carriera?

Sono lavori completamente differenti, in ognuno ho imparato qualcosa, ad esempio dalla campagna Golden Goose a ballare e coordinarmi con persone più grandi, andando oltre moda e abiti in senso stretto. Mi ha insegnato molto anche lo show Dolce&Gabbana, in termini di autocontrollo, per un debutto in sfilata devi avere nervi tesi ma allo stesso tempo gestibili, se così si può dire.
Alla fine di ogni esperienza ciò che apprendi lo applichi ad altre sfere, considero questo mestiere un primo step per dedicarsi ad attività più “complesse”.

Sul tuo profilo Instagram campeggia una frase della rapper Dej Loaf, se dovessi presentarti brevemente a chi non ti conosce cosa diresti, “ciao sono Chiara e…”?

E la mia specialità è essere multitasking, per istinto proprio. È come quando da piccoli si dice che bisogna prendere i treni che ci passano davanti, secondo me bisogna prenderli tutti, il bello sta nel buttarsi in qualsiasi cosa, provare le esperienze più diverse.
Quella frase («Come from skatin’ now we skatin’ escalates», ndr) è una metafora, arrivo da un paesino della Sardegna e resto sempre fedele alla mia semplicità, uno strumento chiave per scalare le montagne che inevitabilmente ci si parano di fronte.
Tutto ciò mi ha dato, come dicevo, un’attitudine multitasking, la voglia di sperimentare qualunque situazione; non dico di farlo bene, anzi, ho solo 21 anni, sto ancora cercando di capire. Sicuramente l’obiettivo è quello di diventare, prima o poi, una talent creator.

Top and skirt Red September
Dress Judy Zhang, earrings Gala Rotelli, socks Wolford, Mary-Janes Jeffrey Campbell

In alcuni scatti social sei sulla tavola o calzi Vans customizzate, sei un’appassionata di skate e lo stile legato a quel mondo (sneakers basse, pantaloni baggy, stampe…) è parte integrante del tuo modo di vestire?

Assolutamente sì, adoro la cultura urban. Ho avuto la fortuna di iniziare a lavorare come modella a 15 anni nel Regno Unito, facendo avanti e indietro tra Cagliari e Londra, dove ho conosciuto una realtà totalmente diversa, metropolitana, indie e un po’ gipsy, che mi ha conquistata. Forse è stata quell’atmosfera a darmi una certa visione, non devo neanche sforzarmi, è qualcosa che sento mio.
Vale lo stesso per lo skate, una sorta di cultura a sé, a Londra si muovono tutti così e dietro c’è un modo di comportarsi e relazionarsi agli altri, per cui si va in giro e si stringono amicizie con persone mai viste.

Altra tua passione è la musica, sempre su IG scrivi: «In completa connessione con lei, trascorro il tempo ad avvolgerla, capirla e raccontarle chi sono», inoltre hai collaborato al brano Dovrei di Sgribaz; parlaci del tuo rapporto con la musica, a 360 gradi.

Ho iniziato a suonare il pianoforte alle medie, poi non potevo pagarmi lezioni private e perciò ho portato avanti altri studi, integrando però sempre una parte canora, in modo del tutto naturale, finché una volta arrivata a Milano, nel 2018, mi sono ritrovata in studio a registrare delle tracce.
Stimo immensamente chi riesce a buttarsi con la propria musica, io la sento troppo dentro, tirarla fuori mi causa delle difficoltà, vivo una fase in cui devo ancora assimilare certi passaggi. Se non fosse stato per il mio amico Sgribaz e altri che mi coinvolgono in progetti musicali, con ogni probabilità non avrei neppure cominciato né sarei riuscita a lasciarmi andare, almeno un po’.
Sento una connessione continua con la musica , ora ad esempio frequento l’università e studio ore tutti i giorni, ma la bellezza di tornare a casa e mettersi al pianoforte… Non ha eguali, è la mia terapia, meglio di uno psicologo perché, suonando, mi sembra di risolvere tutti i problemi.

Jacket Red September, culotte Pomandère, socks Wolford

Tre parole che definiscono il tuo stile?

Tre aggettivi, comfy, colorful (amo i colori, non mi presentare nulla di nero!) e versatile, cambia di continuo, un giorno vesto elegante, quello dopo street.

Hai un account su Depop dove vendi collanine, bracciali & Co., deduco tu abbia un penchant per bijoux e vintage in generale, è cosi?

In Sardegna abbiamo una cultura specifica in materia, tutta una serie di tradizioni e tecniche di realizzazione; sotto questo aspetto devo tutto a mia nonna, è stato anche un modo per distrarmi nel periodo della quarantena.
In realtà non sono un’amante del vintage, ho usato Depop perché non avevo la possibilità di fare un mio sito, per fortuna grazie a quell’account sono riuscita a entrare in contatto con dei carissimi amici; insieme abbiamo creato un collettivo, PECORANERA, con cui a breve rilasceremo un sacco di novità, concentrandoci per metà sulla maglieria, per l’altra sui gioielli.

Jumpsuit Weili Zheng, top Judy Zhang, earrings Gala Rotelli

Quali designer/brand ti piacciono di più, da “consumatrice”?

Sono molto legata all’immaginario di Gucci, sebbene non c’entri niente col mio modo di vestire mi piace da morire, penso racchiuda l’essenza stessa della moda, che si declina in svariati ambiti, dalla comunicazione ai messaggi in sé.
Un altro brand che apprezzo davvero tanto è Ryder Studios, non troppo conosciuto ma fighissimo, uno stile tra rap e trap, “coatto” quanto basta.

In ottica professionale, invece, con quale marchio sarebbe un sogno poter collaborare?

Gucci, sarebbe il massimo.

Top Giuseppe Buccinnà, trousers Valentino vintage, earrings Gala Rotelli, loafers Vic Matiè

Cosa speri ti riservi il futuro, a livello personale e lavorativo?

Umanamente parlando, spero di avere l’opportunità di affacciarmi a nuove realtà e modi di vivere, spostandomi all’estero, non perché non mi piaccia stare a Milano, ma sento che c’è così tanto da sapere, avverto il bisogno di cercare l’essenza ultima delle cose altrove.
A livello professionale non so, dovrei innanzitutto capire di quale professione si parla, il modeling è ormai un mercato così saturo che non è più questione di essere la migliore, piuttosto di tirar fuori il proprio carattere e le proprie idee, dimostrando di non essere solo un’indossatrice.
Nel lavoro, in generale, mi auguro di crescere, poi il settore in cui potrà concretizzarsi questa crescita lo scoprirò solo in futuro, magari sarà la musica o la politica, chissà.

Credits

Model Chiara @WW MGMT

Photographer Riccardo Albanese 

Stylist Adele Baracco  

Stylist assistant Amelia Mihalca

Make-up artist and hair stylist Marco Roscino

Nell’immagine in apertura, Chiara indossa Top Giuseppe Buccinnà, pantaloni Valentino vintage, orecchini Gala Rotelli, mocassini Vic Matiè

Davide Calgaro, l’arte dell’ironia per spaziare tra stand up comedy e recitazione

Monologhista con all’attivo partecipazioni a baluardi della comicità catodica (vedi alle voci Zelig o Colorado), attore duttile che, alle parti in commedie quali Odio l’estate e Sotto il sole di Riccione, ha affiancato interpretazioni di diverso tenore in Doc – Nelle tue mani e Blanca, nonché – eccezionalmente per Manintown – modello per il collega e amico Matteo Oscar Giuggioli. Davide Calgaro è un talento istrionico, ancora in cerca della propria dimensione “definitiva” che però, considerata la capacità di coltivare precocemente un’innata vena ironica (i 22 anni da compiere ne fanno lo stand up comedian italiano più giovane) per metterla a frutto sul palco come sui set, passerà con ogni probabilità da quella simbiosi tra humour e recitazione perfezionata dai suoi autori di riferimento, da Louis C.K. all’indimenticato Robin Williams.

Matteo Oscar Giuggioli ti ha scattato le foto che vediamo qui, com’è stato collaborare con lui in veste di fotografo?

È stata una bella esperienza, tra l’altro siamo amici, essere fotografato da una persona con cui sei in confidenza e puoi permetterti di fare il cretino è diverso dal lavorare con un professionista. Matteo secondo me è molto bravo, pur essendo alle prime armi, lo sono anch’io come “modello”, direi che è stato figo.

Ph. by Matteo Oscar Giuggioli

In quanto stand up comedian poco più che ventenne, hai bruciato le tappe: a 15 anni scrivevi e provavi i tuoi testi nei laboratori di Zelig, nel 2017 l’esordio televisivo su Comedy Central, due anni dopo Colorado… Vuoi ricapitolare il tuo percorso professionale, spiegandoci come, dove, quando e perché ti sei avvicinato al mondo della comicità?

Ho iniziato 13enne studiando recitazione alla scuola milanese Quelli di Grock, circa due anni dopo ho scritto i primi monologhi e pezzi comici su vari aspetti della mia quotidianità, provandoli tra laboratori e serate; nel 2017 ho avuto la possibilità di esibirmi nella trasmissione Stand Up Comedy, da lì sono arrivati Colorado e da ultimo Zelig, a un certo punto, poi, si è “infilato” il cinema.

Il teatro sembra sia un tuo pallino fin da adolescente, cosa rappresenta per te?

Ha rappresentato la prima spinta verso questo settore, è una grandissima passione che mi ha aiutato tanto nella stand up in termini di padronanza del palco e serenità nello stare in scena. Mi ci dedico tuttora, a febbraio ho fatto il mio primo spettacolo vero e proprio, non strettamente comico dunque.

Ph. by Matteo Oscar Giuggioli

Chi sono i tuoi modelli di riferimento?

Ne ho diversi, in Italia – essendo cresciuto con Zelig – i miei modelli di riferimento erano i monologhisti alla Paolo Migone o Giuseppe Giacobazzi, tra quelli della vecchia scuola Claudio Bisio e Antonio Albanese sono stati tra i più influenti. Guardando oltreoceano, invece, il mio preferito è al momento Louis C.K. ma devo citare per forza Robin Williams, in generale mi hanno sempre affascinato gli autori che spaziavano tra comicità e recitazione.

L’anno scorso eri nella line-up di Zelig, com’è stato essere coinvolto nel rilancio di un’istituzione della comicità televisiva, al fianco di Bisio, Vanessa Incontrada e altri colleghi illustri? Qualche episodio o ricordo che vuoi condividere con i lettori?

È stato incredibile, per certi versi surreale, prendere parte a uno show che guardavo ammirato fin da piccolo, non avrei mai immaginato di centrare un obiettivo del genere così presto.
Una cosa che si è notata anche in tv è il mio stato al termine del pezzo, sono scoppiato in lacrime, non si è visto completamente perché ho cercato di mettere la testa vicino alla spalla di Bisio, coprendomi, poi mi son ripreso. Il momento più bello è stato quello in cui sono sceso dal palco, tra baci e abbracci con gli autori e le persone con cui ho condiviso quest’esperienza.

Ph. by Matteo Oscar Giuggioli

L’hai detto anche tu, a un certo punto sono arrivati cinema e serial, nello specifico un ruolo in Odio l’estate di Aldo, Giovanni e Giacomo, quindi la grande ribalta di Sotto il sole di Riccione, commedia Netflix tra le più viste un paio d’anni fa; belle soddisfazioni immagino, tu inizialmente volevi fare l’attore, appunto…

In effetti volevo il cinema da parecchio tempo, sono ancora giovane e ho il desiderio di capire in quali ambiti posso lavorare. Blanca e Doc – Nelle tue mani, per esempio, mi hanno dato la possibilità di misurarmi con ruoli non prettamente comici, come quelli di Odio l’estate o Sotto il sole di Riccione. Considero film e serie un’opportunità per sperimentare e mettermi alla prova, a posteriori sono contento del risultato ed è un’altra strada su cui vorrei proseguire.

Alcuni sostengono che, data la sempre maggiore sensibilità e consapevolezza del pubblico, e con i social perennemente in agguato, chi fa il tuo mestiere corra il rischio di doversi frenare per non urtare la suscettibilità altrui, evitando il polverone di casi tipo The Closer di Dave Chappelle o, rimanendo in Italia, il famigerato predicozzo di Pio e Amedeo, oppure l’ironia di Zalone sui transessuali a Sanremo, qual è la tua opinione in merito?

Parto dall’assunto che, se si considera la comicità una forma di espressione artistica, allora debba vigere una libertà totale; i limiti variano da comico a comico, ciascuno ha la propria sensibilità e, assumendosene piena responsabilità, può scherzare su ciò che vuole.
Adesso si tende a sentirsi offesi ed è come se non potessimo – o volessimo – più sentirci così, si crea un cortocircuito perché la comicità, per definizione, a qualcuno deve dare un “dispiacere”, che siano i carabinieri o il tizio che scivola sulla buccia di banana, dev’esserci per forza chi ci resta male. Noto a volte un po’ di ipocrisia, ci si scandalizza quando ad essere toccato è il nostro orticello, lasciandosi scivolare addosso l’ironia su argomenti che non ci interessano.
Comunque sia, se un comico prestasse troppa attenzione alle rimostranze e fastidi delle persone, non riuscirebbe a scherzare più su nulla, poi certo è giusto confrontarsi ed essere aperti alle critiche, lo scopo finale però, bisogna ricordarlo, è far ridere; se lo trovi divertente allora fallo, io la vedo così.

Ph. by Matteo Oscar Giuggioli

Social e comicità, pro e contro.

Il pro penso sia la possibilità di farsi notare, offrono a chiunque un terreno neutrale in cui esprimersi. Il contro è lo stesso, nel senso che quanto appena detto può risultare problematico nel momento in cui i social diventano l’unico spazio a disposizione, col rischio che se non sei forte lì, è complicato portare le persone a uno spettacolo.
I social sono utilissimi ma non possono essere l’unico mezzo per scoprire nuovi talenti, il palco deve conservare la propria centralità.

Restando su YouTube, Instagram e simili, c’è qualche comico o canale digitale che apprezzi particolarmente?

Credo non facciano più video, ma per un periodo guardavo spessissimo quelli dei The Pills.

In un’intervista del 2020 sostenevi che la tristezza è di maggior ispirazione rispetto alla felicità, puoi spiegarcelo?

Intendevo che quando scrivo cerco di partire da elementi che mi infastidiscano o risultino problematici, così da superarli facendoci su dell’ironia. Precisando ulteriormente il concetto, non penso che in generale si possa trarre maggiore ispirazione dalla tristezza, ma personalmente trovo più stimolante lavorare su spunti che di per sé non suscitano ilarità, anzi; apprezzo quei comici che riescono a farmi ridere di cose su cui faticherei a scherzare, portandomi oltre il “limite” di cui parlavo prima.

Ph. by Matteo Oscar Giuggioli

In quali progetti sei impegnato attualmente? Cosa ti auguri per il futuro a livello professionale?

Sto portando in giro per l’Italia Venti freschi, monologo di stand-up comedy, inoltre usciranno a breve su Netflix due film girati nei mesi scorsi, per il resto scrivo e faccio provini, è una fase di passaggio, di attesa diciamo.
Per il futuro auspico di portare avanti in parallelo più attività possibili, esplorando settori diversi per capire quali siano le mie potenzialità e i miei limiti, ho l’età credo giusta per farlo.

Credits

Talent Davide Calgaro

Photographer Matteo Oscar Giuggioli

Aurora Ruffino, sognando Raffaella (Carrà)

In Noi, versione italiana del pluripremiato dramma americano This Is Us (in onda dal 6 marzo su Rai1) è Rebecca Peirò, ma quello dell’attrice Aurora Ruffino è un volto familiare: il pubblico ha avuto modo di conoscerla – e apprezzarne le interpretazioni, puntuali e intense – in serie di largo seguito quali Braccialetti rossi, Questo nostro amore, I Medici, Un passo dal cielo, senza contare l’esordio ne La solitudine dei numeri primi, trasposizione cinematografica del romanzo eponimo, vincitore del premio Strega, il triangolo amoroso al centro di Bianca come il latte, rossa come il sangue, le conseguenze e i pericoli del consumo di droga che scandiscono la storia (vera) di La mia seconda volta.
Ai ruoli appena menzionati vanno aggiunte varie altre apparizioni fra cinema, tv, videoclip e progetti restii alle classificazioni come Ningyo, corto di Gabriele Mainetti presentato alla 73esima edizione della Mostra di Venezia, che consentiva allo spettatore di interagire, cambiando l’ordine dei “moduli” narrativi.
In attesa di un fantasy – genere per cui ha da sempre un pallino – o un biopic su una delle (tante) donne che hanno contribuito a scrivere pagine fondamentali della nostra storia, ci ha raccontato dei momenti più coinvolgenti vissuti sul set di Noi, dell’orgoglio di aver preso parte a Braccialetti rossi, serial dall’impatto enorme, delle serate al karaoke dopo I Medici, per finire col rapporto non proprio felice con abiti, shopping, outfit e simili.

A proposito di Rebecca Peirò hai dichiarato, in conferenza stampa, che impersonarla significava realizzare un sogno, perché guardavi la serie ancora prima di sostenere il provino, ma di aver avvertito anche una sensazione di panico all’idea di confrontarti con un personaggio così conosciuto e amato. Ora, passati mesi dalle riprese e con i primi episodi trasmessi da Rai1, come pensi di essertela cavata?
Sono molto soddisfatta del risultato finale, credo che abbiamo raggiunto l’obiettivo di italianizzare la storia di una famiglia amata da tutti nell’originale. Per quanto mi riguarda, nonostante avessi già visto This Is Us, sono riuscita a farmi coinvolgere da ogni passaggio della trama, mi sento davvero fiera e orgogliosa del lavoro svolto da cast, troupe, regia, tutti insomma.

Noi è un’epopea famigliare, il racconto a tutto tondo di una famiglia che passa attraverso argomenti piuttosto delicati (la perdita di un figlio, l’adozione, l’integrazione razziale…), ribadendo però l’importanza dei legami tra consanguinei, e il cui filo conduttore, stando al regista Luca Ribuoli, è l’amore. Quali sono stati i momenti emotivamente più complessi da girare e, al contrario, i più gradevoli, felici – se vogliamo metterla in questi termini?

Di passaggi emotivamente forti ce ne sono stati a iosa, tra i più complessi ricordo senz’altro quello in cui Pietro dice a Rebecca che uno dei loro figli non ce l’ha fatta, una situazione decisamente forte da vivere. Tra i più belli, invece, il momento in cui Daniele si attacca per la prima volta al suo seno, dopo che lei per settimane non è riuscita a instaurare un legame col bambino; quell’istante lì, con Napule è di Pino Daniele in sottofondo, è stato stupendo.

Hai rivelato recentemente di esser riuscita a interpretare Rebecca quarantenne «soprattutto grazie al look», pensi che trucco e parrucco possano rappresentare la chiave di volta nell’approccio al ruolo?

Ti aiutano a trovare l’approccio fisico, quella postura che può darti solo il costume ed è estremamente importante, adesso per esempio sto girando un film in cui sarò un carabiniere, già indossare la divisa ti trasmette il “tono” del personaggio.
Quando in Noi impersonavo Rebecca a sessant’anni, make-up e acconciatura mi aiutavano a individuare la giusta dimensione fisica; sono fondamentali, infatti è nelle prove costume che riesco a capire come mi sento con determinate cose addosso, in che modo posso cambiare fisicamente ricorrendo anche solo a un trucco, una parrucca, un piercing, elementi che mi danno subito l’idea di chi interpreterò, permettendomi di trasformarmi.

La serie si dipana su piani temporali differenti, il tuo personaggio invecchia e, di conseguenza, ti sei dovuta sottoporre ad apposite sessioni di make-up, ricorrendo anche alla prostetica. Da attrice, che rapporto hai con lo scorrere del tempo, col modo in cui incide sull’aspetto fisico?

Sono tranquilla, anzi, soffro piuttosto il fatto di sembrare ancora parecchio giovane, una ragazzina quasi, nonostante abbia 32 anni; non dimostrare la mia età si è rivelato un’arma a doppio taglio perché per come appaio, magari, non vengo presa in considerazione per determinati ruoli.
Avverto il desiderio non di invecchiare, piuttosto di assumere la fisicità di una donna, sono contenta anche delle piccole rughe che comincio a notare nelle foto, fanno parte di me, raccontano la mia storia, il mio vissuto, non ho problemi sotto questo punto di vista, mi aiutano ad accettare e accogliere gli anni che passano.

Noi si svolge parzialmente nell’Italia di circa quaranta anni fa, eri già tornata all’atmosfera dei decenni passati in Questo nostro amore, le cui stagioni erano ambientate negli anni ‘60, ‘70 e ‘80. Cosa ruberesti, potendo, a ciascuna delle tre decadi? E, limitandoti alla moda, cosa apprezzi maggiormente dello stile Sixties, Seventies ed Eighties?

Credo che ad accomunare quei decenni fosse l’energia generale, il senso di far parte di una società determinata a costruire un futuro migliore, con la ripresa economica del dopoguerra, l’idea diffusa di uno stato ricco, pieno di sogni e opportunità; ricordo mio nonno parlarne come di un periodo in cui era possibile fare qualunque cosa, a patto di avere la voglia e determinazione necessarie, e poi i colori, l’arte, la musica, tutto concorreva a un fermento, una spinta al progresso che ha attraversato quell’arco temporale.
Riguardo lo stile specifico delle decadi, apprezzo la caratterizzazione estetica di allora, dalle minigonne ed eyeliner definiti dei ‘60s ai pantaloni a zampa dei ‘70s, al boom del jeans negli ‘80s.

Tre anni fa, intervistata da Vanity Fair, confessavi di vivere lo shopping come una tortura, di avere l’orticaria – testuale – a stare nei negozi. Negli ultimi tempi il tuo rapporto con la moda, considerati anche i red carpet richiesti dalla professione, è cambiato?

Purtroppo no, è ancora una tortura! Adesso ho una stylist bravissima, Marvi De Angelis, che insieme al mio ufficio stampa mi aiuta a curare l’immagine. Di mio sono però decisamente semplice, per come la vedo io i vestiti, finché non si rovinano, vanno bene, idem scarpe o accessori.
Non ho l’ossessione del vestiario, dell’apparire in un certo modo, a dire la verità non l’ho mai avuta, sarà che sono cresciuta in una famiglia umile, dove ci si vestiva con ciò che c’era, certamente non si andava a fare shopping ogni settimana, un atteggiamento che mi è rimasto, non avverto mai l’urgenza della novità; compro abiti per necessità, ecco.

Hai raggiunto la notorietà grazie a Cris di Braccialetti rossi, una ragazza in lotta con l’anoressia, per interpretarla tra l’altro hai dovuto perdere peso, incontrare persone che soffrivano di disturbi alimentari… Una parte sicuramente impegnativa all’interno di un autentico fenomeno mediatico. Cosa ti è rimasto più impresso di quell’esperienza?

L’impatto che ha avuto sulle persone, a distanza di anni ancora mi fermano per parlare di Braccialetti rossi, di cosa quella fiction abbia rappresentato e portato nelle case italiane, era diventata un evento che metteva davanti al televisore tutti, i figli come i genitori o i nonni. Ha unito il pubblico e fatto un gran bene, ho incontrato moltissimi ragazzi, bambini anche, che in quegli episodi hanno trovato un motivo in più per lottare e farsi forza.

Hai vestito i panni di Bianca de’ Medici nel period drama sull’omonima famiglia toscana, venduto in oltre cento nazioni, incoronato nel 2019 serial italiano più popolare all’estero, forte del resto di un cast stellare, da Dustin Hoffman a Richard Madden. Com’è stato lavorare in una produzione del genere?

L’ho vissuta come un sogno, all’inizio mi sembrava impossibile persino recitare in inglese, visto che prima di trasferirmi a Londra e studiarlo per bene, non parlavo una parola. Soprattutto è stato divertente, ci ritrovavamo ogni settimana al karaoke, un gruppo di giovani attori di nazionalità diverse che, di giorno, mettevano in scene le vicende di una famiglia conosciuta ovunque nel mondo, e di sera uscivano insieme, divertendosi come pazzi.

Un genere o ruolo per te inedito con cui ti piacerebbe metterti alla prova?

Amo i fantasy, sogno fin da bambina di fare un’eroina alla Marvel, una Black Widow per intenderci. Mi piace, da spettatrice innanzitutto, l’intrattenimento nel senso più ampio e nobile del termine, devo dire che finalmente anche da noi, grazie al fantastico Gabriele Mainetti, si stanno aprendo nuove opportunità.

Cosa ci sarà dopo Noi? Hai sogni nel cassetto da condividere con i lettori o preferisci tenerli per te?

Attualmente sto girando Black Out, mistery con protagonista Alessandro Preziosi.
Un sogno che ho già rivelato, da amante delle pellicole Rai in cui venivano raccontate le grandi donne d’Italia, figure eccezionali, iconiche (penso al biopic su Carla Fracci o a quello su Rita Levi-Montalcini), sarebbe quello di portare sullo schermo, omaggiandola in qualche modo, la storia di Raffaella Carrà; sono cresciuta con quest’artista immensa, per me è sempre stata un punto di riferimento assoluto.

In tutto il servizio, Aurora Ruffini indossa total look Philosophy di Lorenzo Serafini e gioielli Crivelli

Credits

Fotografo Maddalena Petrosino

Coordinamento styling Marver

Assistant Giacomo Gianfelici 

Make-up Charlotte Hardy

Hair Alessandro Rocchi @Simone Belli Agency

Press office Lorella Di Carlo

Location Hotel Valadier Roma

Dalle passerelle alle donazioni, la moda si mobilita per l’Ucraina

Il primo, nel pomeriggio di domenica 27 febbraio, era stato Armani: a tre giorni dall’invasione dell’esercito russo in Ucraina, aveva privato la sfilata Fall/Winter 2022-23 della main line del canonico accompagnamento musicale. Prima del défilé, una voce ha avvertito che lo show si sarebbe svolto senza colonna sonora, «in segno di rispetto per le persone coinvolte nella tragedia in corso», perciò outfit – uomo e donna – dalle proporzioni esatte, velluti notturni, completi dalle disegnature geometriche e brillii déco incedevano silenziosamente nella sala.
L’effetto, a detta dei presenti, è stato potente, il messaggio forte. Del resto, in conferenza stampa, Re Giorgio era andato dritto al punto: «Volevo dare il segnale che non desideriamo festeggiare perché qualcosa attorno a noi ci disturba molto. Ho scelto il silenzio, questa non musica che si sentiva ovunque».

Il messaggio postato sui social da Armani per spiegare l’assenza di musica alla sfilata

Da quel momento in tanti, a Milano e soprattutto Parigi, hanno deciso di mobilitarsi.
Nel capoluogo lombardo, con la fashion week ancora in pieno svolgimento, il gruppo OTB (proprietario di griffe come Diesel, Margiela, Marni, Jil Sander), rispondendo all’appello dell’UNHCR per aiutare i civili costretti alla fuga, annuncia il proprio supporto economico all’organizzazione; la Camera Nazionale della Moda Italiana si unisce all’iniziativa, il presidente Carlo Capasa invita gli associati a partecipare alla raccolta fondi dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, trovando prontamente la disponibilità di numerosi big, da Prada allo stesso Armani e Valentino (entrambi devolvono all’Agenzia ONU 500mila euro) passando per Etro, Missoni, Max Mara, Furla.
Fondi per l’UNHCR vengono stanziati, a seguire, da Chanel, Isabel Marant, Acne Studios, Pronovias e Kering (holding francese che controlla Gucci, Saint Laurent, Bottega Veneta e Alexander McQueen), la principale concorrente di quest’ultima, LVMH – cioè i maggiori brand del lusso, compresi Louis Vuitton, Dior, Bulgari, Fendi, Givenchy – versa da parte sua un milione di euro a Unicef e cinque alla Croce Rossa, Versace e Balenciaga (anch’essa proprietà di Kering) decidono di supportare il World Food Programme.

Manifestanti fuori dagli show di MMD (ph. by Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)

Chiusa la settimana della moda milanese, quella transalpina si apre con l’auspicio, espresso dalla Fédération de la Haute Couture et de la Mode, di «vivere le sfilate con sobrietà e riflettere sull’oscurità del momento»; i marchi partecipanti mantengono di fatto un low profile, ma alcuni si distinguono per la nitidezza della loro posizione.
Olivier Rousteing di Balmain, ad esempio, fa avere agli ospiti del catwalk una nota nella quale si mostra quasi rammaricato per il fatto di non poter modificare una collezione sviluppata, naturalmente, mesi prima dell’attacco russo, postando inoltre un sentito messaggio («siamo consapevoli che ci sono cose più importanti che accadono oggi. I nostri pensieri e le nostre preghiere sono per gli ucraini. Siamo ispirati dalla loro dignità, resilienza e attaccamento alla libertà») sul suo profilo Instagram, sotto l’immagine di una duna sabbiosa gialla sormontata dal cielo, limpidissimo, ad eccezione della nuvola a foggia di cuore.
Altre maison, oltre a Balmain, si servono del binomio cromatico della bandiera nazionale per testimoniare la propria vicinanza al paese: da Loewe, sulle giacche dello staff, vengono appuntate coccarde gialloblu, Isabel Marant fa proiettare i colori sulle colonne del Palais Royal, sede dello show, uscendo per il saluto finale con un maglione nelle medesime tonalità.

L’immagine postata dal direttore creativo di Balmain sul suo profilo IG @olivier_rousteing
Jonathan Anderson di Loewe con la coccarda con i colori ucraini (ph. Imaxtree)

Rick Owens, prodigo di riflessioni affatto banali sull’assurdità della guerra scatenata dal Cremlino, dichiara di aver desiderato che il womenswear della prossima stagione fosse «pretty», adeguato al generalizzato risveglio post pandemico, un afflato speranzoso valido ancor oggi, nonostante i tragici eventi nell’Est del continente, perché durante i mala tempora «la bellezza può essere uno dei modi per mantenere la fede»; si parla di una graziosità alla Owens, certamente, pur sempre il profeta di uno stile aspro, oscuro, alle volte apocalittico, però fa specie vedere le mise statuarie della griffe, definite da code, stratificazioni tessili come grumi che ingabbiano la figura, puntute spalle insellate, gambali poggianti su trampoli enormi, illuminarsi grazie alle distese di lustrini sulle texture e lampi di giallo, rosa, arancione e verde menta aprirsi un varco nel consueto dispiegamento di neri e grigi. Lo stilista californiano confida, inoltre, che il soundtrack è stato cambiato all’ultimo minuto, optando per la Quinta sinfonia di Mahler, da lui giudicata «sdolcinata, melensa, kitsch, manipolatoria ed emotiva» ma «adatta al momento», in quanto portatrice di un «desiderio di speranza». Cambiamento musicale last minute anche da Stella McCartney, dove la scelta ricade su Give Peace a Chance, immortale inno pacifista di John Lennon.

Isabel Marant con il maglione gialloblu in passerella (ph. Stephane de Sakutin – AFP)
Il finale dello show F/W 2022 di Rick Owens (ph. Imaxtree)

L’operazione più significativa e coinvolgente, però, si registra senza dubbio da Balenciaga, il cui direttore artistico Demna Gvasalia, ex profugo (è originario infatti dell’Abcasia, regione separatasi militarmente dalla Georgia negli anni Novanta, perciò quando sono iniziati gli scontri ha dovuto riparare con la famiglia a Tblisi, poi in Germania), sa cosa voglia dire affrontare simili, drammatiche situazioni.
Lascia quindi sulle sedie della platea t-shirt bicolor (le sfumature del vessillo ucraino, ancora) e una lettera, in cui racconta che le notizie provenienti dall’Europa orientale hanno «innescato il dolore di un trauma che mi portavo dentro dal 1993, quando accadde la stessa cosa nel mio paese e divenni un rifugiato, per sempre […] è qualcosa che resta […] La paura, la disperazione, realizzare che nessuno ti vuole»; e prosegue: «In un periodo come questo la moda perde la sua rilevanza, il suo stesso diritto di esistere. Ho pensato per un attimo di cancellare la sfilata […] Ma poi ho compreso che avrebbe significato darla vinta, arrendersi al male che mi ha ferito così tanto per quasi 30 anni. Ho deciso che non posso più sacrificare parti di me a questa guerra egoistica, insensata e senza cuore. Questo show non ha bisogno di spiegazioni. È dedicato al coraggio, alla resistenza, alla vittoria dell’amore e della pace».

Le t-shirt per l’Ucraina sulle sedie della sfilata Balenciaga

Ciascun outfit, effettivamente, parla da sé, addosso a modelle/i che avanzano a fatica in una bufera di neve ricreata nella sala circolare vetrata, adibita a setting, componendo una ricapitolazione della traiettoria ascendente di uno sconosciuto designer georgiano diventato sommo sacerdote del verbo fashionista, tra sartoria fuori scala, volumi anabolizzati (tautologiche, in tal senso, le scritte XXXL riportate su un paio di hoodie), pantacollant con scarpa incorporata, maxi stivali a imbuto e, in chiusura, un total look giallo e uno blu, ultima, inequivocabile dimostrazione di vicinanza alla popolazione ucraina.

Il setting della collezione Balenciaga F/W 2022 (ph. Imran Amed)
Gli ultimi due look dello show Balenciaga


Infine, lo stop alle attività commerciali. Il numero di brand che hanno chiuso i rispettivi store russi si allunga di giorno in giorno, formando un bollettino di guerra – logicamente commerciale e incruenta – parallelo a quello (tragico) del conflitto, ma a differenza di esso virtuoso poiché rimarca la distanza abissale tra il sistema valoriale sotteso alla moda, nel suo complesso, e il brutale neoimperialismo di Putin e compari: i già citati LVHM (124 boutique nella Federazione), Kering, Prada, Chanel, e poi Hermès, Richemont, Nike, Asos, i colossi del fast fashion, Inditex, H&M e Mango in testa. Una mobilitazione senza precedenti che, si spera, porterà qualche risultato concreto, andando oltre le – pur lodevoli – condanne di rito a mezzo social.

La boutique (chiusa) di Gucci nel centro di Mosca

Le collezioni co-ed della Milano Fashion Week FW 2022 (ri)scoprono l’edonismo

Doveva essere la fashion week dell’anelatissimo restart e così è stato, al netto delle notizie funeste che purtroppo arrivavano – e continuano ad arrivare – dall’Est. La seconda industria del Belpaese (sempre bene ricordarlo, specie a chi la tacciava di insensibilità per la concomitanza delle sfilate con la guerra ucraina) era impaziente di ritornare al fermento degli eventi dal vivo, davanti a un parterre di giornalisti, buyer e volti noti; anche quest’obiettivo, stando alle megastar nelle prime file (la golden couple Rihanna-A$ap Rocky, Sharon Stone, Julianne Moore, Kim Kardashian…), risulta centrato, col presidente di CNMI Carlo Capasa soddisfatto di «una normalità vicina ai livelli pre pandemia».

Com’era prevedibile (e legittimo), il progressivo superamento dell’emergenza covidica porta con sé un desiderio irrefrenabile di scatenarsi, in tutti i luoghi e tutti i laghi, presentandosi habillé, inappuntabilmente vestiti insomma, all’appuntamento con la ritrovata socialità; o almeno, è quanto comunicato da parecchie delle collezioni co-ed di Milano Moda Donna Autunno/Inverno 2022, incluse le cinque qui sotto.

Diesel

L’eccitazione è palpabile nel défilé Diesel, dove si fa riferimento alla sfacciataggine, ad alto gradiente erotico, delle campagne dei bei tempi andati, restituita plasticamente dai pupazzoni stesi in pose languide che troneggiano nella sala.
In quello che è il vero debutto del direttore creativo – dal 2020 – Glenn Martens, tutto sembra evocare lo spirito epicureo, chiassoso, vicino al kitsch del fashion world a cavallo del millennio: i marsupi a tracolla, l’ovale d’archivio con la D curvata e il motto For Successful Living schiaffati ovunque, la pelle abbondantemente scoperta da spacchi da capogiro, crop top, fasce di jeans trasformate in minigonne inguinali…
Poiché il marchio è un’autorità indiscussa del denim, il focus non poteva non essere sulla tela di Genova, manipolata in tutti i modi possibili e immaginabili: opacizzata, abrasa fino a rivelarne gli strati sottostanti, dilavata, tinta in nuance sabbiate o pop, accumulata per ricavarne capispalla titanici o ensemble sconquassati, con lacerti penzolanti di stoffa e screpolature a mo’ di manifesto divelto.
Martens non si risparmia alcune delle (ponderatissime) “stranezze” che da Y/Project gli sono valse la fama di sperimentatore ineffabile, centellinando asimmetrie, incastri di forme e dettagli trompe-l’oeil, miscelando con fare da alchimista ingredienti a dir poco eterogenei.  


Ph. courtesy Diesel, ph. 5 by Nicky Zeng


MM6 Maison Margiela

Sfila in un capannone industriale, tra scaffali stipati di merce, la linea contemporary di Maison Margiela, che ritrova il piacere dell‘abbigliarsi come si conviene, prediligendo capi ben fatti, rispettosi dei formalismi sartoriali, senza rinunciare però a un quid ironico, ubi consistam della griffe.
Le mise strutturate, con cappottoni doppiopetto rigorosi, giacche in cuoio dal flavour vissuto e completi dalle spalle segnate, che si restringono sul punto vita e prevedono l’abbinamento con pantaloni cascanti o, viceversa, a sigaretta, trovano infatti un contraltare nelle minuscole borchie e pietruzze sparse sulle texture, nei cinque tasche squamati, nei foulard animalier sbucanti dai colli delle camicie, nelle braccia strizzate in guanti da opera, anch’essi pitonati, nella lucentezza di pellami spazzolati e pants che paiono avvolti nello scotch; a mitigare una certa severità di fondo è la tavolozza cromatica, la leziosità dei rosa cipriati e pesca che interrompe una sinfonia di nero, marrone, panna e verde bottiglia, contribuendo ad equilibrare il lato tailoring e quello più edgy della collezione


Ph. by Filippo Fior


ATXV

È l’erotismo, suadente, mai sfrontato, l’asse portante di un guardaroba nel quale i confini tra maschile e femminile sono assai labili, cosicché uomini e donne possano scambiarsene i componenti in totale libertà. Con la prova A/I 2022 Antonio Tarantini di ATXV seguita a cesellare il suo linguaggio estetico genderless, seducente ma senza eccessi, che l’anno scorso gli è valso la vittoria di Who is on Netx?.
Stavolta conduce gli invitati nella stazione della metro Repubblica, dove le pareti color gesso danno ulteriore risalto ad outfit lascivi e insieme fragili. Il lavoro sulla figura è scrupoloso, tra drappeggi, tagli sbiecati, contorsioni della materia, sovrapposizioni, lunghezze differenti in dialogo tra esse; i tessuti (aerei, come duchesse e jersey ultralight) si inerpicano sul corpo, incrociati su collo o spalle, pieghettati sulle braccia, avviluppati al torace, rimboccati sopra l’addome, nudo oppure cinto da boxer che sporgono dai pantaloni a vita bassa, dalla vestibilità decontratta.
I dress svelti contrastano le tuniche oblunghe, i cut-out le superfici compatte, i tocchi di rosa, azzurro e rosso i bianchi e neri prevalenti, le bluse drapée i top fluidi. A sottolineare la naturale connessione tra gli esseri viventi sono poi i gioielli, attraverso pietre evocative delle energie primordiali, sigillo finale su capi che incoraggiano chiunque a sentirsi meravigliosamente libero.


Ph. courtesy ATXV


Palm Angels

Nelle note della collezione Palm Angels, Francesco Ragazzi afferma di voler promuovere «l’unità nella frammentazione, l’identità nella molteplicità», coerentemente alla sua concezione della label come «un punto di vista, una prospettiva sull’atto del vestirsi»; parole che aiutano a inquadrare la caterva di mise grafiche, esagerate, discordanti spedite in pedana.
L’input glielo fornisce Los Angeles, precisamente la cool attitude dei giovani della City of Angels, impegnati magari in acrobazie sullo skate, a oziare sulla spiaggia di Venice Beach, ad assistere a un concerto indie o chissà cos’altro; vaste programme, verrebbe da commentare, pensando alle innumerevoli sfaccettature della contea americana più popolosa, e infatti nelle 55 uscite dello show troviamo tutto e il suo contrario.
Ci sono gli archetipi del grunge (maculato, pullover malmessi, beanie in lana, occhiali dalla grossa montatura bianca, status symbol eternato da Kurt Cobain) e i lucori di strass, paillettes e lamé, gli accostamenti sperticati (il montone sui bermuda, il peacoat a quadri sulla tuta viola) e stemmi e iniziali prese in prestito dal preppy, il tweed e le scritte aerografate, con i registri stilistici che si fondono – e confondono.
Al netto dello styling (fin troppo) audace, chi apprezzi lo stile urban può scovare facilmente articoli di proprio gradimento, comprese le calzature co-firmate da Vans e Moon Boot.



Bottega Veneta

Per la maison vicentina edonismo significa lusso duro e puro, correlato alla magnificenza dei pellami “coccolati” nei propri laboratori. Un lusso, quindi, da toccare e sentire prima ancora che vedere nel mare magnum dei social o addosso alla celebrità X, esperendolo in maniera intima e, proprio per questo, autentica.
Ad avvalorare quanto detto è la prima collezione di Matthieu Blazy, chiamato a raccogliere il testimone di Daniel Lee, fautore della portentosa rinascita di Bottega Veneta, da gigante dormiente del luxury ad aspirazione suprema di ogni fashion victim che si rispetti in appena un triennio.
Compito niente affatto facile, dunque, che lo stilista comincia ad assolvere equilibrando il passato col presente, un retaggio sublimemente artigianale con i graffi del predecessore, «lo stile sulla moda, nella sua atemporalità» (sono parole sue) con l’estrosità. L’operazione riesce, il virtuosismo della manifattura, tale da “illudere” lo spettatore circa la natura dei materiali (come le tele della consistenza del cotone che, in realtà, sono in nappa o suède), nobilita la semplicità solo apparente delle costruzioni, le linee sono qua secche e nervose, là carezzevoli, lusinghiere per la silhouette, le arcuature sul retro di alcuni abiti (omaggio ai profili aerodinamici della scultura Forme uniche della continuità nello spazio, di Boccioni) non escludono la sveltezza di indispensabili del menswear (e womenswear) quali t-shirt, camicie, maglioni, paletot.
A fronte di cotanto lavorio sul prêt-à-porter, bisogna concedere qualcosa ai cacciatori del Santo Graal modaiolo, sempre all’opera e disposti, nel caso, ad estenuanti liste d’attesa pur di assicurarselo; li accontenterà la valanga di nuove, accattivanti interpretazioni dell’intrecciato BV, dai secchielli ai cuissardes (unisex), dalle shopper alle borse a mano in fettucce quadrate, che compongono trame di pieni e vuoti. I fan degli accessori catchy di Lee possono dormire sonni tranquilli.


Ph. Imaxtree


In apertura, ph. courtesy Palm Angels

Radiografia di un cult: il Bedale di Barbour

Si scrive Bedale, si legge emblema dell’outerwear di stampo britannico. Il termine identifica, per essere più precisi, il capospalla esemplificativo di un’azienda, Barbour, a sua volta considerata, nel Regno Unito, alla stregua di un patrimonio nazionale, che non molto tempo fa (era il 2019) ha tagliato l’invidiabile traguardo dei 125 anni di storia.
Al di là dei singoli modelli, comunque, è sufficiente pronunciare il nome del marchio, radicato nel nord-est dell’Inghilterra, poco distante da Newcastle, perché in chiunque abbia un minimo di familiarità con lo stile british, solido nella propria classicità e sostanzialmente indifferente alle fregole fashioniste, scatti un’associazione olfattiva degna delle celebre madeleine di Proust, richiamando l’odore pungente della stoffa impregnata di cera.




Il trattamento wax, come lo chiamano in terra d’Albione, è la specialità della casa, fin da quando, nel 1894, il capostipite dell’omonima dinastia apre a South Shields, centro portuale affacciato sulle acque del Mare del Nord, la John Barbour & Co. Tailors and Drapers, con cui vende a marinai e pescatori capi consoni all’inclemente clima locale, in cotone egiziano adeguatamente oleato, per conferirgli maggiore resistenza a pioggia, vento e altri inconvenienti abituali a certe latitudini.



Dai primi del ‘900 la promozione dei prodotti passa da un battage pubblicitario insolito per l’epoca: si largheggia in spiegazioni che ne illustrano la superiorità, dal punto di vista dell’impermeabilità e della robustezza, rispetto a quelli dei concorrenti, sintetizzando icasticamente il tutto in uno slogan che, in italiano, suona pressapoco «l’abbigliamento migliore per il tempo peggiore»; ad inverare la formula provvede, negli anni ‘30, l’introduzione del tessuto thornproof, più compatto e agevole da indossare dei predecessori. Contemporaneamente, ci si rivolge ai motociclisti con una linea di riding jacket che, qualche decennio dopo, arruolerà tra i suoi fan anche il centauro più ammirato di allora, e forse di sempre, Steve McQueen (uno scatto del 1964 lo ritrae in sella alla sua Triumph con una giacca Barbour).


Campagna per il 125esimo anniversario del marchio


I giubbotti cerati del brand, soprattutto, con il loro aspetto understated, i colori da sottobosco e l’ormai conclamata adattabilità alle condizioni meteorologiche avverse, incontrano il favore dei cultori di quelle attività all’aria aperta, caccia e pesca in primis, assai identitarie per la buona società inglese, fino a intercettare il favore della royal family al completo, dalla regina in giù.
Barbour, negli anni, legherà a tal punto la propria immagine ai Windsor da divenire fornitore ufficiale della casa regnante, cumulando tre Royal Warrant, i sigilli con cui si riconoscono i servizi commerciali resi alla Corona: a conferire il primo, nel 1974, è il Duca di Edimburgo, seguono quelli di Elisabetta II nel 1982 e del principe Carlo nel 1987.


Il Bedale, in tutto ciò, viene introdotto nel 1980 da Margaret Barbour (la presidente, quarta generazione della famiglia tuttora alla redini); tenendo a mente le esigenze pratiche di chi si dedica all’equitazione, disegna un giaccone dalla vestibilità dégagé di taglio classico, né troppo lungo né troppo corto, in cotone waxed di peso medio, fornito di prese d’aria posteriori, tasche laterali più due, grandi, a soffietto. I dettagli (vincenti, con tutta evidenza)? Collo a camicia in velluto millerighe, fodera tartan, chiusura tramite zip con doppio cursore ad anello e bottoni a pressione. Britishness in purezza, dunque, e accento sulla versatilità dell’indumento, da sfruttare in ogni stagione grazie alla possibilità di aggiungere il cappuccio, da fissare all’apposita clip, e inserire un’imbottitura interna per i mesi freddi.
Il modello trova subito una testimonial d’eccezione in Diana Spencer, che lo indossa durante le scampagnate nelle residenze di campagna della Royal House, o in occasione delle visite ufficiali nelle località più remote della Gran Bretagna.
L’enorme popolarità della principessa del Galles dà il suggello definitivo alla giacca, allora uno status symbol irrinunciabile per la jeunesse dorée degli Sloane Ranger, giovani, affluenti londinesi che bazzicano i locali in della capitale, tra Chelsea e Kensington.


Lady Diana in uno scatto degli anni ’80 con la giacca Bedale

Una scena di The Crown

Il lungo percorso del marchio, ciò nonostante, incontra delle battute d’arresto, che guarda caso coincidono con la crisi della monarchia successiva alla morte di Lady D, a cavallo del millennio.
La proprietà si apre perciò a iniziative che rinvigoriscono l’appeal della giubbotteria Barbour, collaborando ad esempio con un paladino della moda brit qual è Paul Smith e, più in là, con la conduttrice e It girl Alexa Chung, affezionatissima cliente, rafforzando così un’affinità elettiva con lo show-business che, a dire la verità, non è mai venuta meno. Non si contano, infatti, le celebrità avvistate negli anni con le inconfondibili waxed jacket, da Benedict Cumberbatch a Daniel Day-Lewis, passando per Robert Redford, David Beckham, Alex Turner, Kate Moss, Daniel Craig nei panni o meglio, nel giaccone – parte della limited edition firmata dal designer Tokihito Yoshida – di 007 in Skyfall. All’inventario bisognerebbe poi aggiungere le teste coronate, reali (ivi comprese le ultime arrivate, Kate Middleton e Meghan Markle) o fittizie ma più vere del vero, quelle cioè impersonate da Emma Corrin, Josh O’Connor e colleghi nella quarta stagione dell’acclamata serie tv The Crown, dove vengono ricostruiti, con scrupolo filologico, i weekend trascorsi al castello di Balmoral dai Royals (vestiti Barbour, si capisce).


Photo © 2017 Fame Flynet UK/The Grosby Group EXCLUSIVE London, February 23, 2017. Football Icon David Beckham pictured getting back to work after an email scandal threatened to break brand Beckham. David was seen surrounded by onlookers that were amazed to see the former England international back at work in the public eye after his recent scandal. He was seen surrounded by a film crew while he filmed an advert in the park in London, England. The England ace had time to to show his softer side as he played with his dog Olive, rode a bike and looked the perfect gent in hunting gear. At one point, David seemed to levitate off the ground! But he was clearly not feeling his best as he poked and blew his nose throughout the day.

David Beckham, Alexa Chung, Alex Turner, il principe Carlo


Lo sfoggio dovizioso di cerate della griffe, negli episodi trasmessi due anni fa, ha solleticato gli spettatori, facendo registrare un netto aumento degli articoli di seconda mano o vintage, in vendita su piattaforme di reselling, come Vestiaire Collective, e siti generalisti alla subito.it o eBay; un interesse cui ha sicuramente contribuito, nel medesimo periodo, uno degli ormai incalcolabili trend divampati su TikTok e compagnia, il cottagecore, ovvero l’idealizzazione dello stile di vita bucolico, col relativo portato di accessori da picnic, motivi naturalistici, plaid, tweed…


Supreme x Barbour

Barbour x Noah

A chiudere il cerchio, in questa ritrovata vitalità del marchio in generale e del Bedale in particolare, le co-lab con la crème dello streetwear odierno, nell’ordine Supreme, Noah e Bape, intervenuti perlopiù sulla superficie del giubbino, tra zebrature, pattern etnici, inserti camouflage e cromie forti, dalle tonalità fluo alle gradazioni intense di giallo, fucsia e blu.
D’altronde meglio non stravolgere uno staple dell’abbigliamento outdoor che, stando a Helen Barbour (figlia della già citata Margaret), è tale perché in linea con «ciò che abbiamo sempre fatto e continueremo a fare: capi che soddisfino le mutevoli esigenze e aspettative dei clienti, senza compromettere i valori fondanti». Come darle torto?


Barbour x Noah

Barbour x Bape

Nell’immagine in apertura, foto dal sito di WP Lavori in Corso

Giulio Greco, tra editoria e recitazione nel segno della curiosità

Multitasking è uno di quegli inglesismi (ab)usati fino a suonare come formule prive di reale significato, eppure davanti alla biografia di Giulio Greco, trentenne dai molti talenti, aria radiosa e piglio energico, è difficile trovare un termine più calzante. Non si limita, infatti, alla recitazione, muovendosi tra set e palcoscenici, film quali On Air – Storia di un successo, Hard Night Falling o Tafanos e pièces, ma ha cofondato la Giuliano Ladolfi Editore (con cui ha pubblicato il romanzo In concerto), si è laureato in scienze politiche e, una volta deciso di concentrarsi sulla carriera attoriale, ha perfezionato gli studi presso accademie, masterclass e soggiorni negli States, spinto sempre dalla curiosità, un motore inesauribile che, insieme alla grinta, permette di «capire un pezzetto alla volta chi siamo, entrando in contatto con persone che la pensano nei modi più diversi»; che, a ben guardare, è una descrizione efficace del lavoro dell’attore.



Hai titoli in uscita o sei impegnato in progetti di cui vuoi parlarci?

Quest’anno escono due film cui ho preso parte, uno è Rosaline, sorta di reboot di Romeo e Giulietta (Rosaline è infatti la cugina di quest’ultima, al centro di un intrigo amoroso).
L’altro è Francesco stories, particolarissimo perché pensato specificamente per Instagram. Il protagonista racconta momenti della sua vita attraverso il telefono, con l’obiettivo di coinvolgere appieno gli spettatori, facendogli vivere la storia in contemporanea ai personaggi, tra cui il musicista da me interpretato; tra l’altro amo cantare, quindi è stato bellissimo avere l’opportunità di farlo in scena.
Si è trattato di una sfida appassionante ma difficile sotto il profilo tecnico, abbiamo girato per buona parte in piano sequenza e bisognava lavorare nel formato 9:16.
Al momento sto preparando una pièce in Belgio, Le lacrime di Nietzsche (Les larmes de Nietzsche nell’originale), capitatami in modo un po’ “rocambolesco”, chiacchierando col regista dopo essere andato a vedere un’altra sua opera a teatro; mi ha proposto il provino per il ruolo di Freud da giovane, nel giro di tre giorni è partito tutto.
È uno spettacolo complesso, tratto dal romanzo eponimo di Yalom: parla della psicanalisi inscenando delle sedute cui Freud e il suo maestro Breuer sottopongono il grande pensatore tedesco, finendo con una specie di rovesciamento ad essere analizzati dal paziente, per cui il filosofo influenza i due psichiatri. Alla fine ne escono, umanamente, tutti “migliori”, il pregio principale dell’opera credo risieda nella capacità di far ridere e piangere con uguale intensità, affrontando le domande esistenziali che tutti si pongono, scavando nella sfera intima.


Biker jacket Raf Simons from stylist’s archive, trousers Carlo Pignatelli, t-shirt, boots and jewels from stylist’s archive

Scorrendo la bio si nota come il tuo percorso si discosti parecchio da quello lineare dell’attore: hai cofondato una casa editrice, ti sei laureato in scienze politiche, hai viaggiato all’estero per formarti nella recitazione… C’è un minimo comun denominatore tra tutte queste attività e interessi?

La curiosità, sono convinto che porti a sperimentare, ad avere feedback che, a loro volta, ci permettono di migliorare, nel senso di capire un pezzetto alla volta chi siamo, entrando in contatto con persone magari lontane da noi, che la pensano nei modi più diversi.
Un’altra parola chiave è grinta, da piccolo provavo una forte irrequietezza, che poteva magari sfociare in comportamenti aggressivi; ne soffrivo, ma col tempo ho capito che, per dirla con Eraclito, tutto scorre, e attraverso un lungo lavoro sono riuscito a canalizzare quest’energia in maniera costruttiva.
Con pazienza, curiosità e grinta, appunto, ogni cosa, compresa la sofferenza, può essere  declinata in positivo. Amo la vita, però mi suscita curiosità l’altro lato, la parte oscura dell’essere umano, in senso artistico ovvio.



Nel tuo curriculum c’è molto teatro, hai studiato alla scuola Quelli di Grock, recitato in numerosi spettacoli e diretto lo show Raffaello 2020; nello specifico, cosa apprezzi del genere, e quali esperienze ti hanno segnato maggiormente?

Alla prima domanda potrei rispondere semplicemente Le lacrime di Nietzsche, racchiude tutte le emozioni e sfaccettature di cui parlavo prima. Poi è chiaro che le esperienze dell’inizio, legate a Quelli di Grock, siano state fondamentali, estremamente formative.
Il teatro è meraviglioso, nonostante si basi sulla ripetizione permette sempre di trovare, all’interno di questa, delle novità, è un’arte viva in cui tutto ruota intorno alle persone, quando sono sul palco riesco a sentire distintamente la presenza del pubblico.
Raffaello 2020 era uno spettacolo olografico, una cosa particolare perché interpretavo l’artista in occasione del 500esimo anniversario della sua nascita, in una mostra immersiva alla Permanente di Milano, gestendo anche la parte di regia.

Restando sull’argomento, ci sono spettacoli che ti hanno lasciato un ricordo indelebile?

Un dramma visto a Parigi sull’autore del Cyrano Edmond Rostand, dalla qualità ed energia incredibili.
Cito anche Fuori Misura – Il Leopardi come non ve l’ha mai raccontato nessuno, mi ha impressionato constatare come un solo attore, Andrea Robbiano, potesse reggere tutto su di sé, dall’inizio alla fine.


T-shirt Gabriele Pasini, trousers Altea, bracelets from stylist’s archive

Parlando invece di set cinematografici, a quali sei più legato?

Sicuramente a On Air – Storia di un successo, ha rappresentato uno snodo fondamentale, sebbene a distanza di tempo penso che da un lato sia stato un gran bene, dall’altro mi abbia fatto male, nel senso che partendo in quarta ci si aspetta di andare sempre a mille, invece in questo mestiere non funziona così, ci sono continui alti e bassi.
Ora, con una consapevolezza diversa, avverto il desiderio di un nuovo film da protagonista, non per la fama, i soldi e il “contorno”, ma per il lavoro in sé, sento la necessità di tirar fuori tutto ciò che ho accumulato interiormente, quasi un’urgenza emotiva.
Reputo significativi anche i corti realizzati con gli studenti, ti danno la libertà di creare cose diverse, stabilendo un rapporto di parità.

Biondo, occhi azzurri, il physique du rôle del modello… Pensi che la bellezza possa aver contribuito a incasellarti in determinati personaggi, precludendotene altri?

Sì e mi chiedo come sia possibile che l’aspetto, ossia un dato di fatto (sono così, biondo, occhi chiari, sbarbato…), debba costringermi a sudare il doppio per convincere chi deve giudicarmi sul lavoro. Sono voluto andare in America per questo, lì a nessuno importa che tu sia alto, basso, magro, muscoloso ecc., prescindono dall’aspetto, oppure lo stravolgono rasandoti a zero, mettendoti lenti a contatto, facendoti ingrassare o dimagrire, il lavoro del resto consiste in questo!
Non capisco neppure perché l’attore italiano “medio” debba avere certe caratteristiche, come se esistesse un archetipo della categoria, senza contare che viviamo in un mondo globalizzato, eppure l’esteriorità rappresenta ancora un limite.
Ho avuto spesso a che fare con pregiudizi simili, come la convinzione secondo cui l’attore non dovrebbe fare il modello, quando persino Brad Pitt non disdegna le pubblicità ed è testimonial di Brioni.



Trovi che il cinema italiano stia effettivamente iniziando a rinnovarsi, a imboccare strade che fino a non molto tempo fa sarebbero risultate impraticabili?

Credo di sì, bisogna solo dare chance e supporto economico agli autori che si muovono in questa direzione, basta guardare Freaks Out, l’ultimo, fantastico film di Mainetti, uno che dal casting alla storia fa tutto a modo proprio.
Mi piacerebbe, poi, che si interrompesse il filone della criminalità organizzata, non ho nulla contro anzi, sono innamorato di Suburra, penso tuttavia che da una mole di soggetti sullo stesso argomento escano prodotti molto connotati a livello regionale, dunque napoletani, romani… Amo le città e culture menzionate, però più lavoriamo sulla dimensione micro, meno avremo una visione artistica di respiro internazionale, ancorandoci a un tipo di cinema che parla solo del (e al) posto in cui è ambientato.


Jacket and trousers Carlo Pignatelli, t-shirt and jewels from stylist’s archive

Pensi che per gli attori l’abito faccia il monaco, oppure è, al pari di altri, uno strumento al suo servizio? Tuo padre lavorava nella fashion industry, sei stato testimonial di diversi marchi, che rapporto hai con la moda?

Non penso che l’abito faccia il monaco, sebbene in quest’ambito un errore che spesso si compie sta nel giocarsi il costume, puntarci troppo insomma.
I costumi aiutano, indubbiamente, se per recitare devi indossare una giacca stretta avrai una fisicità del tutto diversa che se fossi in tuta, però sta a te, puoi magari apparire sciolto nella giacca stretta e rigido nella tuta.
Gli abiti sono al servizio dell’attore, personalmente mi sono trovato a indossare collane o anelli che non sarebbero apparsi sullo schermo, solo perché sentivo che potevano spingermi a calarmi meglio nella parte.
Il mondo della moda mi affascina, apprezzo gli shooting, sono una figata perché posso viverli da attore, ma nonostante mi sia stato proposto migliaia di volte, non sono mai stato un modello di professione, che va ai casting col book; è un settore complicato, dove si viene costantemente giudicati, in una società che già ci spinge a dare di continuo valutazioni, dai piatti del ristorante alle mail.



Cosa ti auguri per il futuro?

Vorrei fare del bene agli altri, mi hanno chiamato da poco per delle conferenze nelle scuole superiori, un’iniziativa davvero coinvolgente.
Mi piacerebbe prima o poi passare dietro la cinepresa, inoltre ho scritto un progetto e, fondi permettendo, spero di realizzarlo a breve.
Un altro possibile obiettivo è la conduzione, e poi continuare con la casa editrice, è stata – e rimane – un pilastro fondamentale, una palestra grandiosa tra lavori editoriali, incontri con gli autori e Giuliano, un secondo padre per me.
L’augurio è che ci siano sempre più persone intenzionate a fare da mentori ai giovani e questi, dal canto loro, prendano ad esempio uomini e donne così, non il tizio con milioni di follower che vende la felpa sui social.




Credits

Photographer & art director Davide Musto

Photographer assistants Valentina Ciampaglia, Dario Tucci

Stylist Alfredo Fabrizio

Stylist assistant Federica Mele

Nell’immagine in apertura, Giulio indossa t-shirt Gabriele Pasini

Models to follow: Angelica Maino

21enne, originaria della provincia di Vicenza, Angelica Maino si è trasferita a Milano per frequentare l’università, muovendo i primi passi da mannequin dopo una mail inviata all’agenzia The Fabbrica, che le ha aperto le porte del settore. Merito di una bellezza in un certo senso antica, diafana e sottilmente melanconica, con occhi di un blu penetrante, lunghi capelli ondulati e un fisico flessuoso e affusolato; tutte qualità che risaltano in maniera evidente nell’editoriale scattato, per Manintown, dal fotografo Riccardo Albanese con lo styling di Adele Baracco, dove la vediamo passare da maglioni cozy, soffici solo a guardarli, a spacchi e micro top bandeau da femme fatale provetta, mantenendo un innegabile magnetismo.


Jumper Pomandère, culottes Romeo Gigli, bag A.Cloud, earrings Gala Rotelli
Scarf worn as a dress Sara Wong, earrings Gala Rotelli

Come e quando hai iniziato a fare la modella?

Mi sono trasferita a Milano l’anno scorso per studiare all’università, ho pensato di tentare questa strada scrivendo a The Fabbrica, gli sono piaciuta subito e così, intorno a febbraio o marzo, ho cominciato.

I traguardi professionali che reputi più importanti e quelli che speri di raggiungere.

Tra i lavori fatti finora la campagna pubblicitaria di Chitè Milano (marchio di lingerie sostenibile italiano, ndr) e gli scatti per gli e-commerce di Furla, Malloni e Rinascente, da circa tre mesi sto lavorando principalmente come indossatrice per Alexander McQueen.
Un sogno è quello di sfilare in passerella, magari proprio per McQueen.




Ci sono griffe o designer che ammiri con cui vorresti collaborare?

Prada, Miu Miu e Marni, so che sono nomi difficili da raggiungere, ma ci spero.

E come “consumatrice”, invece, quali brand di abbigliamento e beauty prediligi?

Su tutti Prada e Miu Miu, ricorro però quasi sempre al vintage, frugo negli armadi dei miei genitori alla ricerca di abiti che mi piacciano, uso molto i pezzi vintage di mamma e anche qualcosa di papà. Per quanto riguarda il beauty, apprezzo il make-up Dior e le fragranze Parfums de Marly.


Cardigan Juicy Couture, culottes Battista, earrings Gala Rotelli, rings Voodoo Jewels and Elena Donati

Dress Uniqlo, earrings Gala Rotelli, belt and shoes @PWC Milano

Ci sono capi, accessori, gioielli che consideri dei personali “mai più senza”?

Non esco mai senza anelli, collane o orecchini, utilizzo spesso dei cerchietti d’oro che appartenevano a mia madre e una collana di Vivienne Westwood, la metto però in occasioni particolari, non è un gioiello da indossare tutti i giorni.

Come descriveresti il tuo stile?

Vado a momenti, d’inverno solitamente vesto tutta di nero, quindi pantaloni larghi, maglione e cappotto total black, in estate vado su jeans magari over, a vita bassa, con sopra camicie o t-shirt e sotto le sneakers, quando c’è l’occasione, considerato il mio debole per le scarpe, non mi dispiace portare modelli con il tacco.




Nell’editoriale per Manintown di cui sei protagonista indossi parecchi pullover, ampi e avvolgenti, è uno styling che ti si addice oppure è lontano dalle tue corde?

I capi erano quasi tutti vintage, ho adorato le décolletés, stupende, in generale era tutto abbastanza in linea col mio modo abituale di vestire, mi è venuto naturale indossare gli outfit proposti.

C’è qualche modella che apprezzi particolarmente, a cui ispirarsi?

Vittoria Ceretti e, sebbene non sia una mia collega, Benedetta Porcaroli, comunque ne seguo diverse sui social, specialmente quelle più semplici e spontanee, anche nel modo di porsi.


Scarf worn as a dress Sara Wong, earrings Gala Rotelli

Cardigan Juicy Couture, culottes Battista, earrings Gala Rotelli, rings Voodoo Jewels and Elena Donati, shoes vintage Dolce&Gabbana @PWC Milano

I lati migliori e quelli che invece ti suscitano maggiori perplessità del mestiere?

In realtà mi piace molto, lo trovo anche divertente, soprattutto alla mia età, certo i casting sono numerosi e bisogna sempre farsi trovare pronte, prestando attenzione alla linea, sotto questo punto di vista è un po’ pressante, ma viene tutto ripagato.

Cosa speri per il futuro, professionalmente e umanamente?

Umanamente spero di diventare il più possibile sicura di me ed essere soddisfatta della persona che sarò, professionalmente parlando vorrei crescere e cercare di realizzare gli obiettivi cui accennavo prima, in primis quello della sfilata, che sia a Milano, Parigi, Londra o in altre città.


Top Reamerei, jeans 501 Levi’s Red Tab, earrings Gala Rotelli

Credits:

Model Angelica @Fabbrica Milano

Photographer Riccardo Albanese

Stylist Adele Baracco

Make-up artist and hair stylist Annamaria Fanigliulo

Nell’immagine di apertura, cardigan Juicy Couture, rings Voodoo Jewels, Elena Donati

Sanremo, la “sfilata” del green carpet dà il via alla 72esima edizione

Per il proverbiale marziano appena sbarcato in terra italica: questa è la settimana di Sanremo. Il 72esimo festival della canzone italiana prende il via stasera, al teatro Ariston (e dove sennò?), pronto ad accogliere i 25 artisti in gara, sotto l’egida, per la terza volta, di Amadeus, affiancato sul palco da cinque co-conduttrici (una per ogni serata), Checco Zalone e il “solito” Fiorello.

Nazionalpopolare per definizione, ospitato fin dal 1951 dalla cittadina ligure, tiene puntualmente incollati allo schermo milioni di telespettatori (grandi e piccini, come si suol dire), compresi i fashionisti più insospettabili. Da concorso un po’ stantio e ingessato qual era, tendenzialmente snobbato da maison e designer che, tutt’al più, vestivano alcuni big senza dare troppo risalto alla cosa, il Festival da qualche anno è riuscito infatti ad aumentare in modo consistente il proprio appeal sulle alte sfere della moda, ben felici, adesso, di contendersi gli abiti dei cantanti e blandirli con modelli custom made, magari portando sotto i riflettori gli ensemble più audaci delle passerelle.

Il merito di questa “svolta” glam è soprattutto degli stylist che curano fin nei minimi dettagli le mise di concorrenti e ospiti della manifestazione canora, vati dei look da palcoscenico ritenuti, a ragione, ingredienti essenziali per la riuscita di un’esibizione.
Nomi come Ramona Tabita, ideatrice nell’edizione precedente degli outfit mozzafiato di Elodie e Gaia; Nick Cerioni, artefice nel 2021 delle tenute da rocker provetti dei Måneskin e dei “quadri” di Achille Lauro, che torna nella Riviera dei Fiori per supervisionare (ancora) le scelte vestimentarie di Lauro De Marinis, Donatella Rettore, Rkomi, Tananai e Gianni Morandi; Simone Rutigliano, che seguirà Irama; Susanna Ausoni, tra le figure di riferimento del settore (autrice, insieme ad Antonio Mancinelli, del saggio L’arte dello styling), pronta a vestire Margherita Carducci alias Ditonellapiaga, Mahmood, Noemi, Elisa, Francesca Michielin, Giusy Ferreri e Matteo Romano.


Achille Lauro

Mahmood e Blanco

Insomma, da bastione della tradizione musicale nostrana, impolverato e alquanto démodé, a show ad alto tasso fashion, il passo per Sanremo è stato sorprendentemente breve. Se ne è avuta prova ieri, col green carpet inaugurale, solcato dai 25 concorrenti al gran completo. Se il bagno di folla precedente la kermesse non è di per sé una novità, di certo l’espressione sembra ammiccare al “tappeto verde” che, dal 2017, fa da contorno all’assegnazione dei premi per la moda sostenibile.
Scelte nominali a parte, gli outfit visti sono degni di nota: Mahmood e Blanco, coppia d’assi in gara con Brividi, sfoderano abbinamenti griffatissimi, spericolati, il primo (beniamino degli stilisti e, occasionalmente, modello per Burberry) opta per felpa “simpsonizzata”, giacca over e gonnellone borchiato, tutto Balenciaga, il secondo è in total look The Attico, una novità assoluta per il brand di Giorgia Tordini e Gilda Ambrosio.


Sangiovanni

Sangiovanni, abituato a osare con soluzioni genderfluid, brilla – letteralmente – grazie a giaccone e pantaloni dall’aspetto patinato Diesel. Achille Lauro è in versione damerino anni ‘70: aria tra l’indifferente e il sornione, foularino al collo, il suo tuxedo di velluto Gucci blu notte ha scampanature colossali; allure Seventies anche per Noemi, in pantaloni a zampa firmati Alberta Ferretti, come pure top scuro, cintura e blazer color miele.


Noemi

Frange, bolo tie, pelle e altri tocchi da cowboy posh per Rkomi, in Etro, Irama opta per il total black by Givenchy, variando però la grana dei tessuti, opachi e lucidi (come lo smanicato utility e le stringate), Emma Marrone va sul sicuro con lungo cappotto dalla tonalità cipriata, coordinato ai pants.
Almeno a giudicare da questa prima carrellata, il – non più – insolito connubio tra moda e Sanremo è destinato a rafforzarsi.


Rkomi

Irama

Emma Marrone

In apertura e in tutto l’articolo, ph. by Daniele Venturelli/Getty Images

Models to follow: Mike Cugnata

Nonostante debba ancora compiere 21 anni, Mike Cugnata è dotato di un “cool factor” da modello navigato che, unitamente al portamento e a un aspetto di quelli difficili da dimenticare (occhi verdi, fluenti capelli scuri, zigomi alti), possono fare la differenza nella carriera di qualsiasi indossatore. La sua, peraltro, è partita col piede giusto, arricchendosi da subito di esperienze presso nomi “pesanti” quali Etro (era nel video pubblicitario Caravan of Love, dello scorso anno) Philipp Plein e Palm Angels, brand, quest’ultimo, che sembra affine allo stile personale di un ragazzo italoamericano che ha trascorso l’adolescenza a Los Angeles, un incrocio tra rilassatezza nel vestire tipica della californian way of life e reminiscenze di una tra le decadi più caratterizzanti per la moda maschile, i ‘70s, senza disdegnare un pizzico di streetwear, come si può notare scrollando il suo profilo Instagram.


Gilet and belt worn as a necklace @PWC Milano, pants Dockers, foulard E.Marinella

Da quanto fai il modello, come hai iniziato? Gli elementi che ti piacciono di più e quelli che ritieni meno positivi, i “difetti”, se così possiamo chiamarli.

Ho iniziato circa un anno fa, dopo il mio rientro da Los Angeles. Sin da bambino sono sempre stato a contatto con questo mondo: mia madre, americana, è stata una modella internazionale e mio padre è un agente, mi ha lanciato in questo settore con l’agenzia Fabbrica Milano, tra le più importanti per lo scouting di talenti italiani.

A giudicare dal tuo account IG, il filo conduttore dei tuoi look sembra sia la variatio, passi da capi street con loghi in evidenza a outfit di gusto dandy con foulard, stampe paisley e pantaloni chiari…

Devo riconoscere che, avendo trascorso buona parte della mia adolescenza in California, subisco in modo particolare le influenze di quell’area del pianeta. Non dimentico però le mie origini italiane: ho un cognome di origine siciliana e tutto un bagaglio di stile ed eleganza, quindi modulo il mio stile a seconda delle occasioni.



Tra i lavori fatti finora (tra gli altri il lookbook della collezione Umit Benan Fall/Winter 2021, campagne adv per Etro, Philipp Plein e District People, foto per e-store come LuisaViaRoma) quali ti sono rimasti più impressi, per un motivo o per l’altro?

Si dice che la prima volta non si scordi mai, anche per me è stato così. Il primo lavoro ha portato con sé quella carica emozionale che rimane impressa per sempre.
Nella campagna di Etro, invece, interpretavamo coppie di fidanzati che andavano in gita in un van e, in quella occasione, ho conosciuto Adele Aldighieri, ragazza che ha iniziato la sua carriera con me, proprio nella mia stessa agenzia.


Salopette Levi’s Red Tab, boxer BATTISTA

Che cos’è secondo te lo stile? E, nello specifico, come descriveresti il tuo?

Secondo me lo stile è semplicemente la modalità attraverso cui viene esternata la personalità di ciascuno; il mio, quindi, riflette banalmente la mia, poi ognuno ha i suoi alti e bassi…


Blazer Uniqlo, jumper MTL STUDIO, jeans Dockers, shoes Levi’s Footwear

Il capo/accessorio (o anche più di uno) che non può mancare nelle tue mise e, al contrario, quello (o quelli) che non indossi mai, con cui non sapresti proprio vederti.

Alcuni mi dicono che la collana d’oro da “O.G.” (“Original Gangster”, ndr) sia un po’ eccessiva, soprattutto per i gusti italiani, ma la indosso molto spesso. Nel tempo libero mi piace indossare capi confortevoli, perciò raramente mi vedrete in abiti formali.

Pensando a due occasioni diverse, ad esempio un’uscita easy e un evento formale, come sarebbe il tuo look?

Per l’uscita easy: sneakers ricercate, black jeans, felpa nera e probabilmente anche un berretto oversize.
Per gli eventi formali non si transige: l’eleganza formale è quella di un abito sartoriale italiano, magari con vestibilità asciutta, camicia e scarpa classica stringata.



Brand con cui sarebbe un sogno poter lavorare?

Sono appena all’inizio della mia carriera, per me è ancora un sogno lavorare con tutti i brand!

A proposito di marchi, quali preferisci a livello personale e perché?

Non ho un marchio preferito, mi piace guardare in giro e prendere ispirazione. Poi metto insieme i vari capi al meglio e faccio un po’ lo stylist di me stesso.


Denim jacket heart of zeus, jumper LABO.ART, pants Dockers, beanie Levi’s Accessories

Tra i tuoi colleghi in attività, chi sono secondo te i più interessanti, diciamo pure ispiranti?

Sono cresciuto quando modelli come David Gandy, Noah Mills e Jon Kortajarena erano delle vere e proprie icone, i miei riferimenti sono tuttora quelli.



Per il futuro sei concentrato, al momento, solo sulla professione di modello oppure ti vedi altrove?

Al momento sono super concentrato sul provare fino in fondo a diventare un modello professionista. La pandemia, sfortunatamente, ha reso più complicato viaggiare e spostarsi in altre capitali della moda importanti per lo sviluppo della carriera, a breve però riuscirò a spostarmi a Londra e in Germania, per acquisire esperienza anche in quei “mercati”.


Polo shirt and necklace @PWC Milano, salopette Levi’s Red Tab, boots Dr. Martens




Credits:

Photographer Riccardo Albanese
Stylist Adele Baracco
Make-up artist e hair stylist Annamaria Fanigliulo
Model Mike @Fabbrica Milano

In apertura, blazer Uniqlo, jumper MTL STUDIO

Accuratezza e portabilità, le parole d’ordine alle sfilate della PFW Men’s F/W 2022

La quarta – quinta? – ondata di Sars-CoV-2 imperversa, ma all’ombra della Tour Eiffel si è reagito stoicamente alle insidie continue del virus, con l’appuntamento della fashion week maschile rivelatosi abbastanza partecipato; dei 76 brand totali, 46 hanno mostrato le collezioni Fall/Winter 2022-23 in presenza, come ci si è ormai abituati a specificare, i restanti 30 sono ricorsi nuovamente al digitale, tra corti e catwalk in streaming.

In linea di massima, l’enfasi è sulla desiderabilità di capi dall’esecuzione – ovviamente -ineccepibile e portabili, lontani da lambiccamenti e cerebralismi che, in tempi tribolati come questi, rischierebbero di essere fuori sincrono. Il che non significa sfornare (ancora) felpe in cachemire, simil-ciabatte, abiti bozzolo e derivati, piuttosto stimolare la curiosità di chi osserva con pezzi piacevoli da guardare, toccare e, soprattutto, indossare, come quelli dei cinque marchi dell’elenco seguente, tra conferme puntali, inizi ad alto contenuto di hype e toccanti addii.

Bianca Saunders

Vincitrice dell’ultimo Andam Fashion Award, l’anglogiamaicana Bianca Saunders conferma, con la sua entrée alla settimana della moda parigina, di essere tra i designer più dotati della new generation.
Per la F/W 2022-23, A Stretch, spedisce in passerella outfit a tutta prima basici, composti da tee a maniche lunghe, cappotti, duvet, blouson, coordinati in denim indaco, spesso monocratici; basta però un’occhiata ravvicinata e ci si accorge di come i capi diano l’illusione di avvitarsi su se stessi, tra impunture asimmetriche, chiusure oblique, tasche disallineate quel tanto che basta per trasmettere un’impressione di leggera disarmonia.
Il lavoro ingegnoso su volumi e tagli, quasi ipnotici nella loro irregolarità, mira in realtà a lusingare la silhouette maschile: i pattern spiraleggianti, dall’andamento contorto, assottigliano il busto e ingrossano le braccia, le camicie sono riprese sui lati per accentuare la naturale linea a V del torso, i pantaloni si attorcigliano sulla vita (alta) grazie alle pinces, per poi cadere dritti o flessuosi sulla gamba, snellendo comunque la figura.
A margine dello show, Saunders confida a GQ di volere «far sapere agli uomini che possono avventurarsi in aree sconosciute, indossare qualcosa un po’ fuori dal comune», di sicuro i suoi modelli risultano palpitanti, come attraversati da un gradevole frisson, l’ennesima riprova del fatto che, nelle mani giuste, siano ben più di meri indumenti per coprirsi.


Photo IMAXtree


Lemaire

Con la griffe omonima, gestita insieme alla compagna Sarah-Linh Tran, Christophe Lemaire prova ogni volta che minimalismo non è per forza sinonimo di canoni immutabili e look privi del “wow effect”, semmai di piccoli ma decisivi aggiustamenti degli intramontabili del guardaroba, con cui distillare armonia e sofisticatezza in abiti dal fascino effortless, proprio come le movenze dei protagonisti del défilé. Uomini e donne del brand passeggiano infatti nelle stanze degli Ateliers Berthier, davanti a un fondale dipinto che simula l’alba nel deserto.
L’outerwear (parka, caban, spolverini, overshirt, giubbetti con collo a imbuto) si stratifica, per proteggersi dalle escursioni termiche dei luoghi ricreati dalla scenografia, borse capienti e custodie per borracce vengono assicurate alla cintura o portate a spalla, con le tracolle incrociate sul corpo, i pants, decontratti, sono trattenuti sul fondo da cinturini oppure arrotolati alla caviglia, ai piedi stivaletti Chelsea o slip-on in pelle aperte sulle tomaia.
I colori, conseguenti all’ambientazione evocata, passano in rassegna tutte le sfumature neutre e terrose che si incontrerebbero in un paesaggio desertico, dai marroni e arancio bruciati al verde oliva, dal cachi all’écru, dall’antracite al rosso granata, adottate da «un’orda urbana di moderni cacciatori-raccoglitori» (così viene descritta nelle note della sfilata) che, definizioni a parte, è indubbiamente stilosa.


Ph. Courtesy of Lemaire


Louis Vuitton

Si è parlato in abbondanza della morte di Virgil Abloh, di una parabola dirompente per fatturati e rilevanza culturale, eppure è impressionante vedere, ancora una volta, i frutti del suo operato col menswear di Louis Vuitton dispiegati negli enormi spazi del Carreau du Temple, che ospitano la casa dei sogni, anzi, la Louis Dreamhouse (questo il titolo della collezione) in cui per l’ultimo, sentito tributo si riunisce il pubblico delle grandi occasioni. Amici, collaboratori fidati, semplici fan, star come Tyler, The Creator, J Balvin, Dave Chappelle, Tahar Rahim e Venus Williams assistono allo show concepito, in buona parte, dal designer e portato a termine dal suo team, un sunto, in 68 uscite, del triennio dell’outsider di Chicago alla testa della corazzata luxury transalpina, che ha sancito la compenetrazione di strada e atelier, istanze nate dal basso e dettami stilistici calati dall’alto.
Un concentrato di naïveté (la purezza, l’immaginazione fanciullesca avevano un’importanza capitale nel design del creativo scomparso a novembre) bilanciato però dal pragmatismo di chi, col proprio lavoro, voleva arrivare a quante più persone possibili: perciò valigeria d’impronta artistica (dal profilo distorto come in quadro surrealista, a tasselli semitrasparenti, con monogram effetto sfocato…), baseball cap messi di traverso, cappellini fumettistici accessoriano coat rigidi, pantaloni a sigaretta e completi velvet, le ampiezze da breakdancer si contrappongono ai tagli sharp dei capispalla, il bling bling di fermagli e paillettes ai viola e verdi profondi. Nel finale, a resettare la suddetta sequenza “contrastata”, il candore assoluto del bianco su cumuli di veli, strascichi e ali in pizzo; il simbolismo è evidente, la grandezza di Abloh pure. 


Ph. Courtesy of Louis Vuitton, ph. n. 5 Matthieu Dortomb for Vanity Teen


Paul Smith

Dopo una serie di presentazioni digital only, Sir Paul Smith torna fisicamente nella capitale francese con una sfilata – sebbene a porte chiuse – in cui, tra mise gagliarde e una tavolozza estremamente variegata, ricapitola l’evoluzione del cinema, sfruttando il potenziale evocativo del medium che ha plasmato l’immaginario collettivo del XX secolo.
Lo fa mediante il colore, anzitutto, sparso a pieni mani (vale per blu notturni, grigi e cromie glacé quanto per le energiche tonalità di rosso e verde), incanalato in stampe di tutti i tipi – trademark dello stilista – dalla qualità fotografica, tanto vivide da evocare le locandine delle sale cinematografiche di una volta, oppure psichedeliche e zigzaganti, a omaggiare David Lynch e Wong Kar-Way, guru della settima arte conosciuti (anche) per gli intensi cromatismi delle loro pellicole, disturbanti o poetici.
Lo styling, spigliato, si lascia suggestionare dai costumi del David Bowie de L’uomo che cadde sulla Terra e di Harry Dean Stanton in Paris, Texas. Persino le musiche in sottofondo, opera del compositore Richard Hartley, rimandano alle cupe sonorità delle soundtrack di Twin Peaks, Vizio di forma e You were never really here.
La ritrovata voglia di dress up, di vestirsi a modo è percepibile nella sontuosità dei materiali (shearling, mohair, raso opaco, in contrasto con velluto a coste, pelle e nylon dalle nuance smaglianti), nel mix di quadrettature spalmato su tweed, lane e drill, nell’equilibrio tra fit over e slim, evidente nel tailoring, asciugato ad eccezione che nei pantaloni, lievemente scampanati, per consentire l’abbinamento con maglie spesse, nonché nella cospicua offerta dell’outerwear (tra gli altri montgomery, piumini, impermeabili alla Mackintosh, giubbotti cropped, loden imbottiti); proposte polivalenti e adatte a un pubblico trasversale, come un buon film. 


Foto n. 5 dal sito web di Paul Smith


Kenzo

Era la passerella più attesa della stagione e, di certo, non ha deluso le aspettative, anche grazie a un parterre d’eccezione, capitanato da Ye alias Kanye West, mano nella mano con la neofidanzata Julia Fox, e Pharrell Wiliams: il nuovo corso by Nigo (figura seminale della street culture nipponica e non, artefice del successo stellare di etichette quali A Bathing Ape, Human Made e Billionaire Boys Club) di Kenzo (ri)parte dalla Galerie Vivienne, dove tutto è cominciato 52 anni fa, quando Kenzo Takada irruppe nella compassata scena francese scombussolandola con stampe e rêverie indossabili.
Il restart del marchio, preceduto dalle parole inequivocabili dell’esordiente creative director – «voglio mettere l’accento sui vestiti», prende la forma di un real-to-wear (sempre Nigo) che onora l’eredità del predecessore e trasporta i capisaldi del suo stile spumeggiante nell’hic et nunc, congiungendo Usa e Sol Levante, archetipi dell’abbigliamento americano (workwear, casual, look collegiali) con cui i giapponesi hanno familiarità fin dall’occupazione postbellica ed esplosioni cromatiche, decorazioni florealeggianti e jeanseria vecchio stampo. I petali di papaveri, rose e affini invadono ogni superficie disponibile, bomber, varsity jacket, salopette, giacche da aviatore e suit sagomati si danno il cambio, accompagnandosi a borsette printed, baschi à la française, cappelli furry e altri briosi accessori, la tigre simbolo della maison si confonde tra greche, bande contrastanti e figurini ripescati dagli archivi, in una mescolanza festosa e accattivante che, attraverso il vestiario, getta un ponte tra Oriente e Occidente.


Photo Filippo Fior/Gorunway.com


In apertura, photo by Victor Boyko/Getty Images

‘Creative by Nature’, il binomio moda e natura a Pitti Uomo 101 nella mostra targata Manintown

Di Pitti Immagine Uomo numero 101, indicata quasi unanimemente, prima e dopo lo svolgimento, come l’edizione del ritorno alla sospirata normalità (beh, quasi), va sottolineata soprattutto la tenacia con cui gli espositori, unendo le forze in un momento tutt’altro che favorevole, segnato dagli scombussolamenti epocali degli ultimi due anni, sono tornati a presentare le novità stagionali nell’ambito del salone, impareggiabile quanto a reputazione e appeal su stampa e compratori del menswear.
Un segnale di speranza, si era detto giustamente alla vigilia, e in effetti i numeri finali sono confortanti, con 540 brand, quasi 5.000 buyer, 1.085 operatori dei media registrati, 8.000 presenze complessive. Certificano la vitalità del sistema moda italiano, centinaia di aziende di abbigliamento che costituiscono la spina dorsale del made in Italy.



Undici di esse hanno potuto beneficiare, nei giorni della fiera, di una cornice d’eccezione, la serra fredda del Giardino dei Semplici, un orto botanico modello, tra i più antichi del mondo, la cui storia data al XVI secolo, quando i Medici vollero instaurare nel centro di Firenze (non distante dalla sede principale di Pitti, la Fortezza da Basso) un vivaio di piante medicinali (i semplici, per l’appunto), teatro dal 10 al 12 gennaio della mostra Creative by Nature; abiti e accessori di griffe affermate ed etichette indipendenti, per le quali fatto a mano e identità creativa orgogliosamente italiana sono la propria ragion d’essere, sono stati calati in un’atmosfera a dir poco suggestiva, da giardino incantato, che ha amplificato il messaggio eco-conscious di produttori intenzionati ad unire la tradizione manifatturiera del Paese alle nuove tecnologie, sommandovi un quid fashion.


borsa De Marquet

Nelle parole di Federico Poletti, direttore di Manintown e curatore dell’exhibition, si è voluta «dare visibilità sia ad aziende più strutturate, sia a marchi di ricerca, tutti accomunati da un Dna artigianale in cui la tradizione è rivisitata in chiave contemporanea, con un occhio attento alla sostenibilità».



On show la camiceria d’auteur di Xacus, sintesi di expertise sartoriale e design caratterizzante, che ha varcato da tempo i confini nazionali, approdando nei mercati di riferimento, dagli Stati Uniti all’Europa del Nord; le rielaborazioni di capi vintage, stravolti nelle forme e nei fit, della designer di origini kazake Yekaterina Ivankova; il casualwear di Je Suis Vintage (risultato, come da nome, del riutilizzo estroso di indumenti dismessi e scampoli tessili), la pellicceria 2.0 di Sabelle Atelier, che dà nuova vita a vetusti fur coat, anche seguendo indicazioni e richieste dei singoli clienti.



Sul fronte accessori, gli zaini da viaggio Artichoke, tarati sulle necessità degli odierni globetrotter (il fondatore Lorenzo Scotto, golfista, ha viaggiato ovunque), nati dal reimpiego di vele dismesse, perfette quanto a resistenza e leggerezza del filato, l’upcycling in salsa sporty di BGBL Bouncing Bags, che recupera divise e attrezzature delle società sportive per farne tracolle, zainetti e secchielli dal design distinto, di produzione tassativamente artigianale, le borse dalle cover intercambiabili De Marquet, il cui elevato livello di personalizzazione non prescinde dall’irreprensibilità della pelletteria toscana. Ancora, le furlane The Scius Concept, che rendono le babbucce di velluto dalla calzata easy-on una scarpa di lusso made in Tuscany, prestando attenzione alla sostenibilità dei materiali, la capsule collection Fuori Contesto di Mani del Sud, in cui cappelli e foulard diventano, insieme ai papillon gioiello (capisaldi della label), i complementi ideali per rifinire l’outfit.




Presenti inoltre Rodo, maison fiorentina famosa per le borse intrecciate in paglia e midollino, con una capsule collection genderless, e l’haute joaillerie di Filippo Fürst, sublimazione dell’arte orafa attraverso creazioni dal valore inestimabile.



Collezioni dalla marcata sensibilità green, che i visitatori hanno potuto scoprire muovendosi tra palme, agrumi, succulente e cicadee, un’oasi rigogliosa per suggellare la correlazione tra moda e tutela del Pianeta, perché la tanto auspicata ripartenza, al Pitti come altrove, passerà inevitabilmente dalla consapevolezza ambientale. 


Camicia e papillon Mani del Sud

Credits:
Photographer & Creative Director Davide Musto
Stylist Alfredo Fabrizio
Make-up artist Romina Pashollari
Talent Riccardo Albanese

Nell’immagine in apertura, borsa De Marquet

Tre designer da seguire tra i new talent visti a MMU F/W 2022

Uno delle (pochissime) note positive dello scompiglio generato dal Covid nell’organizzazione di saloni, fiere e fashion week, è l’aver concesso una visibilità insperata, se si pensa a un paio d’anni fa, ai volti nuovi della scena italica, che hanno beneficiato dell’assenza di un numero non trascurabile di griffe consolidate (tra defezioni, rinvii, passerelle virtuali, spostamenti da una all’altra delle quattro “Big Four” per ovviare a problemi logistici) per ritagliarsi uno spazio nel calendario ufficiale della Camera Nazionale della Moda Italiana, presentando il proprio lavoro a giornalisti e insider che, in tempi normali, avrebbero dovuto seguire brand più titolati.
Tra le sfilate di Milano Moda Uomo dei giorni scorsi, tre designer in particolare, non degli esordienti assoluti che però, per età anagrafica e dei rispettivi marchi, rientrano pienamente nella categoria new talent, si sono distinti per freschezza ed efficacia delle collezioni Fall/Winter 2022-23, confermando di avere tutte le carte in regola per affermarsi come the next big thing dell’industria.

Federico Cina

Inserito per la prima volta nello schedule stilato da CNMI, Lo stilista sarsinate prende nuovamente ispirazione da un nome eccellente della fotografia, Gabriele Basilico, che nel corso della carriera, al pari di Guidi o Tazzari, ha puntato l’obiettivo su persone e volti della Romagna (ubi consistam della visione creativa di Cina), nello specifico da Dancing in Emilia, fotoreportage sul fenomeno della discoteca come concentrato di nuove abitudini, comportamenti e costumi affioranti nel Paese, commissionatogli dalla rivista Modo nel 1978 ed eseguito dall’autore milanese con piglio quasi antropologico, che rimane una fedele rappresentazione di quel frangente storico.
Il titolo del défilé, Ball’Era 77, è un gioco di parole: si riferisce all’inaugurazione, 45 anni fa, della Ca’ del Liscio di Ravenna, colossale balera dalla capienza paragonabile a quella di uno stadio, una rivoluzione per il nascente settore del divertimento di massa che, come testimonia la macchina fotografica di Basilico, radunava torme di persone in dancing e locali sparpagliati nella Pianura Padana, che affollavano anche gare di ballo, concorsi di bellezza e altri eventi più o meno kitsch, un pot-pourri godereccio, colorato, folcloristico se si vuole, restituito con una virata pop, spensierata rispetto ai canoni della label.
La palette cromatica accoglie dunque nuance squillanti come viola, petrolio, verde carico e punte acidule di giallo; overshirt, felpe, giubbini e gilet, tutti ampi e abbelliti, all’occorrenza, da pattern botanici o grafiche ricalcate su uno scatto di Dancing in Emilia, stilizzato a mo’ di flyer delle serate discotecare che furono, sormontano pantaloni molli q. b. e scarpe voluminose.
Al collo di modelli e modelle foulard svolazzanti oppure sciarponi, stampati, a righe multicolor o monocromi, a riaffermare il penchant del designer per i capi dal sapore handmade, sfaccettati e compositi, esattamente come il soggetto della collezione.



JordanLuca

In trasferta da Londra (città che è stata – e resta – l’humus ideale per la miscela di bellicosità controculturale, da teenager cresciuti nella culla del punk, e sensibilità per il ben fatto di ascendenza sartoriale che alimenta, dal 2018, la creatività del brand) Jordan Bowen e Luca Marchetto reagiscono a modo loro all’instabilità, allo scoramento generale che opprimono il nostro presente.
Il duo stilistico italo-inglese parla esplicitamente di rabbia e fragilità, il tentativo di bilanciare ribellismo metropolitano e spleen adolescenziale innerva effettivamente la collezione F/W 2022-23, risolvendosi in una stratificazione di codici e rimandi che incanala la voglia di superare, una volta per tutte, la stasi estenuante della pandemia, tornando a scatenarsi nei club o a frequentare i circoli underground della capitale britannica, opportunamente agghindati.
Le silhouette sono tese, innaturalmente dilungate, con i polsini che sporgono penzoloni dalle maniche dei capispalla e gli orli dei pantaloni (jeans laceri, leather pants multizip, modelli dai riflessi vinilici) che si trascinano sul pavimento; chiodi di pelle, camicie quadrettate, pull sbrindellati dal mood grunge convivono con blazer costruiti, soprabiti austeri e doppiopetto che sarebbero piaciuti a Duran Duran, Spandau Ballet, Ultravox e altre band new romantic degli anni ‘80, gli spolverini quilted con fur coat, giubbotti, top istoriati di foto che zoomano sui dettagli di splendenti monili, dai colli montanti, i vezzi decadentisti (le rose sono un leitmotiv, intarsiate sul maglione o riprodotte nelle collane, in cui le spine del gambo vengono sostituite da borchie aguzze) con cromie flou come glicine e giallo pallido, in un crossover conforme alla visione frammentaria, ma non per questo priva di suggestività, di JordanLuca.


HyperFocal: 0

Per la foto di backstage, credits Antonello Trio


Magliano

Assistere a una sfilata di Luchino Magliano (autodefinitosi una sorta di dottor Frankenstein che, attraverso un processo di taglia e cuci degli item basilari del guardaroba, stravolge le nozioni comunemente associate al buon gusto) comporta sempre un certo grado di straniamento, dato dalla proliferazione di elementi oggettivamente sbagliati o presunti tali, almeno nella teoria (misure troppo generose o striminzite, linee sgraziate, cuciture irregolari…), e tuttavia funzionali alla ridefinizione, in chiave irriverente e smitizzante, dei parametri del menswear operata dal marchio eponimo.
Non fa eccezione la F/W 2022-23, messa in scena – è il caso di dirlo, il designer bolognese è solito assegnare ruoli precisi agli indossatori, coreografandone pose e movimenti – all’Arci Bellezza di Milano, lì dove Visconti girò i match di pugilato del capolavoro neorealista Rocco e i suoi fratelli; sceneggiato da Michele Rizzo, lo show accantona però il sostrato cupo e brutale che, nel film, è alla base della boxe cui si dedica uno dei fratelli, e il ring diviene così la metafora dell’incontro tra uomini disposti a sfidare le regole auree del vestire e, anche, i preconcetti che gravano tuttora sulla mascolinità.
Un incontro probabilmente amoroso (nella sala troneggia un letto matrimoniale), di sicuro notturno perché i protagonisti sono flâneur abituati a vagabondare by night, meditabondi, malinconici, che si beffano delle prescrizioni da manuale dello stile: portano il cardigan extra size sul suit, giacche tagliate a scatola su t-shirt cortissime, arricciate sulla vita, gli scarponi da trekking sotto gilet con i personaggi dei Looney Tunes, eccedono col layering fino a sovrapporre tre golf, passano dalla grisaglia al completo total pink, dallo smanicato tecnico pieno di tasche alla giacca sfilacciata che fa il verso ai tailleur perfettini di Chanel. Eppure tout se tient, trasmettendo un senso di libertà, di gioiosa anarchia assai ritemprante, considerata la temperie pandemica.



In apertura, backstage della sfilata Magliano F/W 2022-23, ph. © Pavel Golik

Talentuosi e inclusivi, i 4 designer italiani emergenti da conoscere

Sostenere che il futuro della moda italiana sia nelle mani di giovani di talento, alla guida di marchi dalle riconosciute potenzialità con cui, magari, hanno collezionato premi, articoli e apprezzamenti dei buyer, è persino banale. Ciononostante, le nuove leve del fashion system nostrano non hanno esattamente la strada spianata, stretti come sono tra i venerati maestri, per dirla con Arbasino, del made in Italy e la concorrenza agguerritissima della new wave francese, britannica e americana (si pensi a créateur quali Simon Porte Jacquemus, Marine Serre, Grace Wales Bonner, LaQuan Smith).
Da qualche tempo a questa parte, per fortuna, le cose stanno cambiando, istituzioni e griffe d’alto lignaggio supportano fattivamente la meglio gioventù fashionista: in tal senso, oltre all’azione della Camera Nazionale della Moda, è lodevole l’iniziativa di Valentino che, a partire dalle sfilate donna di febbraio, metterà a disposizione di uno stilista emergente l’account Instagram della maison, così da far arrivare la collezione a un’audience di milioni di utenti.

Abbiamo selezionato quattro designer di cui, con ogni probabilità, sentiremo parlare nei mesi e anni a venire; li accomuna un fattore oggi sempre più importante, il rifiuto di categorizzazioni e distinzioni di genere, lo spirito inclusivo, vicino all’etimologia della parola abito che, ricorda la Treccani, «deriva dal latino habĭtus […] un ‘modo (di essere) che si ha’, una ‘disposizione’ ad agire, a comportarsi in un determinato modo», libero da dogmi e convenzioni retrive, aggiungiamo noi.

Alessandro Vigilante



Per Alessandro Vigilante moda e danza sono un binomio inscindibile, la cornice entro cui ricondurre la tensione tra opposti (stasi vs. movimento, tailoring dalla precisione millimetrica vs. fluidità, vestibilità second skin vs. volumi scostati) che è al cuore della sua idea di prêt-à-porter.
Classe 1982, pugliese, cresciuto col mito di Pina Bausch, vestale del Tanztheater, e delle rivoluzionarie coreografie di Merce Cunningham, dopo l’interruzione della carriera da ballerino professionista e il diploma allo Ied, accumula esperienze presso griffe di assoluto prestigio come Dolce&Gabbana, Gucci, Philosophy di Lorenzo Serafini, finché due anni fa capisce di essere pronto per unire i due poli che, da sempre, orientano la sua creatività in un proprio brand.
Già nella prima collezione, Atto I, le dicotomie di cui sopra si trasferiscono in outfit risoluti, grintosi, giustapponendo abiti scultorei che inguainano il fisico («altamente espressivo ed erotico», secondo lo stilista) e overcoat o blazer rubati al guardaroba di lui, spacchi e fessure per mettere in risalto punti nevralgici (soprattutto schiena e décolleté) e pants con la riga, tessuti “convenzionali” (lana, seta, viscosa…) e lattice vegano.
Sono all’insegna dei contrasti anche la riflessione sul “corpo parlante” di Atto I – Talking Body e i look di Atto II – Body Rebirth, presentati nell’ambito della fashion week meneghina dello scorso settembre con una performance ad hoc, ritmata da movimenti sincopati e luci intermittenti, nei quali i codici dello stile maschile e femminile si incontrano, tra intagli maliziosi, silhouette affilate, audaci scollature e giacche relaxed aperte sul retro; modelli rivolti, dichiara Vigilante, intervistato da Tgcom24, «a persone coraggiose, con un punto di vista preciso, indipendentemente dal sesso», visti infatti su personalità ben consapevoli della propria fisicità come Dua Lipa, Bianca Balti, Damiano David.



Andreādamo



Crotonese, 38enne, dopo la trafila negli uffici stile di varie griffe (Elisabetta Franchi, Roberto Cavalli, Zuhair Murad, Dolce&Gabbana) Andrea Adamo decide di debuttare con la sua linea nel luglio 2020, glorificando una sensualità orgogliosa e assertiva, che elegge a materiale principe la maglia a costine, impiegata in bralette, tank top così sparuti da cingere a malapena il torace, gonne a matita, knit dress e altri pezzi bodycon, che scoprono artatamente l’epidermide mediante fenditure, oblò e cut-out, e paiono incastrarsi gli uni negli altri.
L’obiettivo è chiaro fin dalla collezione d’esordio Spring/Summer 2021, dal titolo programmatico Nudo, a rimarcare il carattere intrinsecamente sensuale di capi che mirano – parola del designer – a una «fusione tra pelle e abito», aderendo sinuosamente al corpo, seguendone le curve, modellandosi su di esse grazie alla confezione seamless, priva cioè di cuciture.
Il termine non deve far pensare a una specifica nuance chiara, perché l’abbigliamento Andreādamo, pensato per combinarsi con incarnati di ogni colore, prevede diverse varianti cromatiche del cosiddetto nude (indicate, a scanso di bias, da semplici cifre, ad esempio 01, 02, 03…), semmai alla «nudità intesa come verità, in un’esaltazione delle forme che supera gli stereotipi», come dichiarato recentemente a MFFashion.
Vale anche per la S/S 2022, che guarda al mito di Andromeda raccontato nelle Metamorfosi di Ovidio, incatenata a uno scoglio e salvata da Perseo, come sintesi ideale di femminilità e fragilità, da rendere attraverso superfici a rete, trasparenze e aperture su body, tute, shorts e abitini, rifiniti con pannelli asimmetrici e lacci attorcigliati su busto e fianchi.
Le celebrities (come Kylie Jenner, Vanessa Kirby, Elodie, Vittoria Ceretti) gradiscono, idem retailer di peso a livello internazionale, per alcuni dei quali (Selfridges, Net-a-Porter, Antonia, LuisaViaRoma) sono state concepite speciali capsule collection, cariche di sex appeal, bien sur.



CHB



Nel marchio CHB, lanciato sul finire del 2020, il direttore artistico Christian Boaro condensa elementi teoricamente inconciliabili, vale a dire la meticolosità di lavorazioni prossime alla couture (retaggio degli anni trascorsi al fianco di mostri sacri del fashion come Donatella Versace, Gianfranco Ferré, Domenico Dolce e Stefano Gabbana) e un’energia di chiara matrice street, la squisitezza di duchesse, satin di seta, merletti, trine e altri filati che potrebbero affollare i tavoli di un atelier e l’immediatezza di felpe logate, cappelli da baseball et similia, la severità del nero e la purezza del bianco, la concisione delle forme, asciutte e lineari, e il preziosismo dei dettagli gioiello. Un equilibrio volutamente labile, considerato da Boaro l’unica via per abbracciare l’unicità e individualità di ciascuno, fine ultimo di un creativo del resto sensibile a determinati temi, affrontati indirettamente già nella mostra The Naked Truth, allestita tre anni fa al PlasMA, centinaia di polaroid per «indagare la persona da un altro punto di vista», raccontava allora ad Artribune, ché «tutte le mie ossessioni sono identificabili con la bellezza, in ogni sua forma».

Una bellezza evidentemente senza pretese universalistiche, opinabile, imperfetta, sfumature che si ritrovano nelle mise della S/S 2022, scattate in riva al mare, al tramonto: colpiscono le maglie sezionate da bande verticali in materiali differenti, i fiori rossi che sbocciano su shirt, canotte e tubini dalla mano serica, la sfilza di camicette, maglie smanicate, slip dress e top XXS di pizzo operato, i capispalla extra long, i lampi acidi che intervallano la bicromia black&white; quasi tutti i modelli sono indossabili dalle donne come dagli uomini, senza distinzioni perché, chiariva lui a i-D Italy qualche mese fa, «il messaggio è, semplicemente, di totale libertà».
Non è un caso che pezzi griffati CHB siano stati indossati, tra gli altri, dai Måneskin, fautori di un approccio libertario al dress code, che abbatte tabù e cliché a colpi di look ultraglam.


Ph. by Raffaele Cerulo


Federico Cina



Un ready-to-wear che ripensi gli archetipi della sartoria maschile (completi, camicie, pullover…) tramato di accenti sognanti e sentimentali, ancorato – non solo metaforicamente – alla Romagna: è questa l’essenza della moda di Federico Cina.
27enne, il percorso accademico lo porta al Polimoda, poi in Giappone, quindi una parentesi milanese e la decisione di tornare alla base, nel Cesenate. Nel 2019 l’etichetta eponima approda ad AltaRoma, vincendo il concorso Who is on Next?; da quel momento è un crescendo, l’anno seguente presenta la proposta S/S alla Digital Fashion Week di Milano (in questi giorni debutterà nel calendario ufficiale) ed è tra i semifinalisti del LVMH Prize 2021. A guidarlo, nella realizzazione di collezioni pervase da delicatezza, intimità e dolce malinconia, le memorie d’infanzia di pranzi domenicali imbanditi su tovaglie ricamate, tralci di vite nelle campagne, giornate sul litorale, e il lirismo visivo dei fotografi che hanno saputo ritrarre in maniera inedita la regione, su tutti Luigi Ghirri e Guido Guidi.

Il legame col territorio si traduce inoltre, concretamente, nella scelta di appoggiarsi a produttori e maestranze locali, recuperandone – per valorizzarle – tecniche artigianali come la stampa a ruggine, con cui matrici in legno intagliato imprimono sui tessuti motivi agresti della tradizione romagnola (grappoli d’uva, animali, anfore…).
Nell’ultima stagione S/S 2022, Infanzia A-mare, i ricordi delle estati nelle colonie della Riviera si confondono con le impressioni suscitate dal libro fotografico Addio colonia, di Luigi Tazzari, prendendo la forma di outfit che profumano di salsedine, ampi e dalle texture materiche, tra capi tricottati, bluse ariose, rigature marinare, comodi pantaloni scivolati, addosso a ragazzi e ragazze, indistintamente, com’è normale che sia per un designer che ha rivelato a MFFashion di aver «sempre disegnato in un’ottica genderless».



Per l’immagine in apertura, credits: Federico Cina F/W 2021, ph. by Gabriele Rosati

Pitti Uomo 101: dall’11 al 13 gennaio il menswear torna protagonista a Firenze

Alla luce del rivolgimento che attraversa – non da oggi – il mondo del fashion per lui, in cui i mutamenti già in atto (l’avanzata inarrestabile del leisurewear, la possibile, complicata convivenza tra formale e abbigliamento disimpegnato da casa, i confini via via più porosi tra i generi…) sono stati bruscamente accelerati dal Covid, l’appuntamento con Pitti Uomo, da sempre punto di osservazione privilegiato sul vestire maschile, giunge quest’anno più che mai opportuno.



Pur in un contesto meno agevole di quanto ci si aspettasse a causa del dilagare della variante Omicron, il salone torna ad occupare gli spazi della Fortezza da Basso, a Firenze, dall’11 al 13 gennaio, «in completa sicurezza», come tiene a specificare Raffaello Napoleone, amministratore delegato di Pitti Immagine, e con un formato espositivo sì rinnovato, ma incardinato al solito su quelle caratteristiche di selezione, curatela e comunicazione d’impatto che, insieme al ricco programma di eventi speciali collegati, hanno reso la fiera del capoluogo toscano il punto di riferimento mondiale della moda e lifestyle pour homme.

Reflections è il filo rosso della kermesse, che si dipanerà negli allestimenti distribuiti tra sede principale e Leopolda, informando anche la campagna pubblicitaria ad opera del duo di fotografi Narènte, una scelta che gioca con la polisemia della parola: come precisa il direttore generale Agostino Poletto, infatti, il termine inglese significa «riflessioni, ma anche riflessi, interiori ed esteriori, finestre che si aprono, squarci che portano dentro e fanno guardare lontano, rimandi che vanno oltre quello che ci si aspetta».


Pitti Reflections, ph. dall’account Instagram Pitti

All’interno della Fortezza, il percorso espositivo si snoda lungo tre macro aree, pensate per raccontare le diverse anime del menswear odierno: Fantastic Classic, Dynamic Attitude, Superstyling.
Nella prima il leitmotiv è l’evoluzione del classico, che gli autorevoli marchi presenti (fra i tanti Pal Zileri, Herno, Orciani, Stefano Ricci, Xacus, Tombolini, Paul & Shark) mirano a rendere innovativo e al passo coi tempi, ricercando dettagli e accostamenti inediti, fornendo un upgrade ai must senza tempo del guardaroba, dai pantaloni tailored all’outerwear, dagli accessori distintivi alla maglieria, così da guardare oltre la tradizione, avendo cura, ovviamente, di valorizzare la preziosità di capi e accessori dalla fattura perfetta.



Nell’ambito di Fantastic Classic, la novità è rappresentata dall’ampliamento e rinnovamento della sezione Futuro Maschile, tra le più seguite di Pitti, una finestra sul contemporary menswear che fa della scioltezza, del mix & match tra pezzi classici e abbigliamento sportivo il suo punto di forza, proponendosi come progetto di punta di questa 101esima edizione.
Il Piano Attico dell’edificio è pronto ad accogliere una community di circa 90 etichette: i nomi si sprecano, dai masterpiece in forma di calzatura di Alden, Barrett, Green George e Paraboot ai capispalla d’autore di Sealup, Ruffo e Lodenfrey, al knitwear di pregio griffato Roberto Collina, Avant Toi e Scaglione.  


Avant Toi

Dynamic Attitude identifica nell’outdoor il terreno comune tra sport e streetwear, dove si muovono aziende per le quali comfort e libertà sono atout imprescindibili, da declinarsi però in design innovativi, ricercati, commisti a influenze vintage o dall’anima tech. Qualche esempio? Blauer USA, Lotto, 24 Bottles, Voile Blanche e Filson; quest’ultimo, distribuito dal gruppo italiano WP Lavori in Corso che se ne è appena aggiudicato la licenza per l’Europa e una quota del 10%, festeggia i suoi 125 anni con un evento che mixerà musica, divertimento, cibo e pezzi unici, in linea con lo stile quintessenzialmente americano del brand.


Filson

Il fulcro di Superstyling è invece l’anticipazione dei trend, l’individuazione di nuovi canoni stilistici che passa necessariamente attraverso sperimentazione e scelte estetiche fuori dagli schemi, supportate da sapienza sartoriale e una visione in continuo divenire; qualità che accomunano le griffe internazionali on stage, come Zespà, Olow, Superduper, Armor Lux e Rolf Ekroth, nelle cui collezioni si moltiplicano tagli agender e modelli pensati per superare il concetto di stagionalità.


Rolf Ekroth

Non può mancare, poi, una riflessione sulla sostenibilità, vexata quaestio del nostro tempo, tema ineludibile per chiunque operi nel settore dell’abbigliamento che, bisogna ricordarlo, è tra i più inquinanti in assoluto: a Pitti Uomo torna, per la quarta volta, il progetto espositivo S|Style sustainable style, a cura della fashion editor Giorgia Cantarini, con una nuova infornata di giovani label e stilisti che fanno dell’eco-responsabilità un mantra assoluto.
Il processo di scouting, improntato a internazionalità e inclusione, ha tenuto conto – come spiegato dalla curatrice – del «processo creativo che guida i designer nell’approccio responsabile, riassumibile in 3 R: riciclare, riutilizzare, reinventare», consentendo di selezionare dieci marchi ben assortiti.


Ksenia Schnaider

Buyer e giornalisti avranno la possibilità di visionare i capi “reworked” dell’etichetta ucraina Ksenia Schnaider (che ha già irretito le sorelle Bella e Gigi Hadid e Iris Law), pregni di riferimenti alla cultura est-europea e sottili critiche sociali, i briosi pullover Waste Yarn Project, intessuti con filati e maglie di recupero, il blend di formale e workwear dei completi no gender di Provincia, gli occhiali di Junk in Econyl®, nylon riciclabile all’infinito ottenuto da plastiche raccolte dagli oceani o dalle discariche; e, ancora, le proposte di Figure Decorative, Curious Grid, N Palmer, Maxime, Umòja e Philip Huang.


Waste Yarn Project

La collaborazione tra Pitti Immagine e Rinascente, inoltre, garantirà ulteriore visibilità ai creativi di S|Style sustainable style, con vetrine dedicate per tutta la settimana della fiera, un’area pop up e una mostra con le foto di Mattia Guolo, che ritraggono i look chiave delle rispettive collezioni, al secondo piano del department store di Piazza della Repubblica.

Tra gli highlight annunciati del salone fiorentino, vanno segnalati almeno il debutto, in Fortezza da Basso, di KTN – acronimo di Kiton New Textures, linea dallo spirito urban dei fratelli Mariano e Walter De Matteis, terza generazione della famiglia alla guida del brand, un vanto della scuola sartoriale napoletana conosciuto in tutto il mondo, che svela in anteprima i modelli della Fall/Winter 2022-23, Metamorphosis; la presentazione, al Giardino del Glicine, della capsule collection F/W 2022 di Lardini, in cui lo slancio cromatico delle proposte simboleggia un ritrovato entusiasmo; l’esperienza immersiva phygital predisposta nella Sala della Volta da Ten C, che ruota attorno alla nozione di “ibrido”, inteso come tutto ciò che non è articolato, complesso e strutturato. Questi e altri eventi, lanci e iniziative che scandiranno la tre giorni della rassegna saranno accessibili anche online, tramite la piattaforma digitale Pitti Connect, permettendo a chi non potrà essere fisicamente a Firenze di scoprire le novità dell’edizione numero 101.

Le mostre di moda da vedere nel 2022

Suggerire un legame tra moda e arte è ormai pleonastico, perché le due sfere creative guardano con interesse l’una all’altra da sempre (già un certo Yves Saint Laurent, tra i primi stilisti a guadagnarsi una retrospettiva del proprio operato, inquadrò come meglio non si poteva la questione, sentenziando: «La moda forse non è arte, ma sicuramente ha bisogno di un artista per esistere») e la couture ha varcato da tempo le soglie delle più riverite istituzioni museali del pianeta, vedendosi riconoscere la dignità culturale che le spetta in quanto forma di creatività che, oltre ad assolvere al compito basilare di vestire le persone, si fa portatrice di innumerevoli altri significati, configurandosi come un mezzo espressivo, sic et simpliciter.

Nonostante limitazioni, contingentamenti e incertezze causate dal perdurare della pandemia, anche nell’anno appena cominciato non mancheranno esposizioni di livello, tra antologiche dei giganti del fashion world, compendi di storia del costume e rassegne che si propongono di sistematizzare argomenti meno scontati di quanto sembri, come la dinamicità del menswear.

Settecento!


Ph. Andrea Butti

Il ritrovamento – con successiva donazione dell’associazione Amichae al museo – di tre indumenti del ‘700 (una robe à la française, un completo formato da gonna e corpetto di taffetà, un bustier in seta operata), sontuosamente decorati e conservatisi alla perfezione, diventa l’occasione per tracciare dei parallelismi tra l’abbigliamento dell’età dei Lumi e l’estro dei brand moderni.
A Palazzo Morando, nel Quadrilatero meneghino, i pezzi succitati vengono presentati al pubblico per la prima volta, affiancati da vesti, tessuti e accessori già parte della collezione permanente, e rappresentano il fulcro su cui le curatrici, Enrica Morini e Margherita Rosina, orchestrano il percorso espositivo, facendo dialogare abiti del XVIII secolo ed ensemble firmati tra gli altri Dolce&Gabbana, Max Mara, Gianfranco Ferré e Vivienne Westwood, individuando rispondenze sorprendenti tra i corsetti delle nobildonne di secoli addietro fa e i bustier Versace o D&G, ad alto tasso di sensualità, oppure tra l’ornamentalismo settecentesco e l’abbondanza, nei repertori delle maison selezionate, di intrecci floreali, embroderies, scenette campestri, stampe caleidoscopiche e altre leziosità.
Settecento! è visitabile fino al 29 maggio.


Le vie della piccola frazione di Torriggia

Un abito del ‘700, Gianni Versace S/S 1992 (ph. Andrea Butti), l’allestimento, Dolce&Gabbana F/W 2012 (ph. Giulia Bellezza)


Thierry Mugler, Couturissime


Ph. Christophe Dellière/MAD, Paris

Al Musée des Arts Décoratifs parigino, fino al 24 aprile, è in corso la mostra dedicata a un designer larger than life, come direbbero gli americani. Thierry Mugler, a partire dal 1973 e per i successivi due decenni, ha epitomizzato lo sfavillio, l’esorbitanza insuperata delle sfilate di quel periodo, orchestrando show faraonici (che sarebbe arrivato ad allestire in uno stadio, con tanto di spettatori paganti) in cui irrompevano creature impossibili, vestite di pneumatici, armature metalliche che le rendevano simili ad androidi supersexy, scaglie e piume dalle sfumature iridate.
Decine di look delle collezioni di alta moda e ready-to-wear, immagini delle campagne pubblicitarie del marchio (ambientate in scenari mozzafiato come il deserto del Sahara, i doccioni del grattacielo Chrysler Building o le distese ghiacciate della Groenlandia), materiali che documentano le collaborazioni con artisti del calibro di Madonna, Lady Gaga e George Michael, i costumi realizzati per la messinscena del Macbeth alla Comédie Française, nel 1985, e un focus sulla rivoluzionaria fragranza Angel (ancor oggi vendutissima) compongono la summa dell’opera portentosa di un visionario che, dichiarandosi «affascinato dall’animale più bello della terra: l’essere umano», sostiene di aver «usato tutti gli strumenti a mia disposizione per sublimarlo».


Haute Couture F/W 1997-98 (Ph. © Alan Strutt), una adv (ph. Manfred Thierry Mugler), la mostra (ph. Christophe Dellière/MAD, Paris), uno scatto per Angel (ph. Manfred Thierry Mugler)


In America: A Lexicon of Fashion


© The Metropolitan Museum of Art

Preceduta dalla consueta parata di vip dagli outfit mirabolanti, radunatisi sul red carpet par excellence, In America: A Lexicon of Fashion ha segnato il ritorno in pompa magna delle abituali rassegne a tema del Costume Institute del Met di New York, dopo lo stop per l’emergenza pandemica nel 2020, e resterà aperta fino al 5 settembre. Si tratta, in realtà, della prima parte (la seconda, An Anthology of Fashion, prenderà il via a maggio) di un’indagine ampia e articolata sulla moda a stelle e strisce, di cui si cerca innanzitutto di istituire un vocabolario che tenga conto delle molteplici sfaccettature, dell’identità poliforme della nazione.
Nell’ideazione dell’exhibition, il primum movens è una trapunta patchwork dell’Ottocento che reca su di sé centinaia di firme, metafora dell’eterogeneità degli Stati Uniti, intorno alla quale si articola la narrazione visiva, con circa cento mise, maschili e femminili, raccolte in dodici sezioni corrispondenti ad altrettante parole chiave – o “qualità emotive”, come le definisce il curatore Andrew Bolton, ad esempio “nostalgia”, “fiducia” o “forza”: si va dal casual in purezza di Ralph Lauren e Tommy Hilfiger ai gown di Oscar de la Renta, dall’easywear solitamente associato allo stile made in Usa (dunque chemisier scamosciati Halston, abitini a portafoglio Diane von Furstenberg, tailleur Donna Karan…) alle elucubrazioni goticheggianti di Rodarte, fino alle proposte da passerella delle rising star Telfar, Christopher John Rogers e Collina Strada.


Tutte le foto, © The Metropolitan Museum of Art


Christian Dior: Designer of Dreams


Ph. Paul Vu

L’inventore del New Look (copyright di Carmel Snow, storica direttrice di Harper’s Bazaar), vale a dire la silhouette che, nel secondo dopoguerra, fissò il canone dello chic parisienne, con spalle arrotondate, vita stretta e massive gonne a campana, è oggetto attualmente di due mostre dal medesimo titolo, a NYC (visitabile fino al 20 febbraio) e Doha (31 marzo).
L’allestimento del Brooklyn Museum prova a rileggere attraverso un filtro americano l’epos di Christian Dior, che nel 1948 aprì una filiale proprio nella metropoli sulla East Coast, riservando un’intera sala agli scatti dei fotografi statunitensi – come Richard Avedon, Irving Penn, Herb Ritts, David LaChapelle – che hanno contributo a far conoscere le opulente creazioni della griffe a una platea internazionale, e individuando dei punti di contatto tra il lavoro dei successori di Monsieur e autori o correnti dell’arte nazionale (vedi l’influenza di Jackson Pollock su Marc Bohan, o i modelli di Ferré che sembrano ammiccare all’architettura dell’edificio); l’esposizione consta, inoltre, di oltre 200 abiti couture, filmati, sketch e altre chicche d’archivio.
All’M7, nella capitale emiratina, lo spartito non si discosta molto da quello della Grande Mela, con capi di sfilata, schizzi e memorabilia a bizzeffe.


Richard Avedon, Dovima with Elephants, Evening Dress by Dior, Cirque d’Hiver, Paris, 1955, Ph. Here and Now Agency, ph. Daniel Sims, ph. Nelson Garrido


Reinvention and Restleness: Fashion in the Nineties



Dal 19 gennaio al 17 aprile, il Fashion Institute of Technology newyorchese metterà sotto la lente una delle decadi più dibattute, irrequiete e – in termini stilistici – prolifiche in assoluto, in cui i timori per l’avvento del nuovo millennio andavano di pari passi con un’eccitazione e una voglia di cambiamento generalizzate; un coacervo che si rispecchia nella polifonia di visioni, tendenze e spinte (anche) contrapposte delle collezioni di allora, delle quali gli oltre 85 tra look e accessori disposti negli spazi del FIT offrono un sunto vestimentario.
Dopo il passaggio introduttivo nella galleria multimediale, che mixa riprese video, défilé con LE top model (Naomi, Claudia & Co.), spezzoni di titoli simbolo degli anni ‘90 come Ragazze a Beverly Hills e Sex and the city, il visitatore può così soffermarsi sul grunge di Marc Jacobs e Anna Sui, sull’eveningwear sfacciatamente glam di Tom Ford per Gucci, sulla sublimazione del minimal operata da Jil Sander e Calvin Klein, sull’avanguardismo duro e puro di Comme des Garçons, Yohji Yamamoto e Martin Margiela.
A completare il tutto, un catalogo da collezione edito da Rizzoli Electa, con foto di fuoriclasse dell’obiettivo quali Steven Meisel, Nick Knight, Ellen von Unwerth e Rankin.


Three piece green python snakeskin ensemble consisting of cropped double breasted jacket with wide notched lapels, and round plastic silver and green buttons with red star at center, matching python bra top and miniskirt.

Yves Saint Laurent aux musées



Esattamente sessant’anni fa, a Parigi, quello che viene spesso considerato il più grande couturier di tutti i tempi fondava la maison che porta il suo nome. Per onorare l’anniversario, la Fondation Pierre Bergé – Yves Saint Laurent ha coinvolto sei musei della Ville Lumière – Centre Pompidou, Musée d’Orsay, Musée d’Art Moderne, Louvre, Musée Picasso, Musée Yves Saint Laurent – in una exhibition diffusa che, proprio come il geniale stilista franco-algerino, si propone di «guardare la moda da prospettive e modalità differenti, andando a ritroso nel tempo».
Dal 29 gennaio – lo stesso giorno in cui, nel 1962, andò in scena la prima sfilata del brand – al 18 settembre, ognuna delle sedi si concentrerà su un aspetto specifico del corposo, ineguagliabile heritage del marchio: al Pompidou l’iconico – termine quanto mai appropriato – tubino Mondrian del ‘65, che trasferiva su tessuto le partiture cromatiche dell’astrattista olandese, è esposto di fianco al dipinto originale, mentre al Museo d’Orsay si sottolineano le affinità tra l’attenzione alla luce di un outfit YSL datato 1986 e Le déjeuner sur l’herbe di Monet, e si mette in luce la sensibilità letteraria di Saint Laurent, debitrice soprattutto a Proust; al Louvre, invece, viene evidenziata la sua fascinazione per gli ornamenti dorati e le decorazioni preziose in generale, che emerge dal confronto tra modelli delle collezioni passate e abiti e gioielli della corona francese.


Mondrian dress, ritratto dello stilista (ph. Jean-Loup Sieff), abito HC S/S 1988 ispirato a Braque, Saint Laurent (ph. Getty Images)


Fashioning Masculinities: The Art of Menswear


Harry Styles nella campagna Gucci Pre-Fall 2019, ph. Harmony Korine

Al Victoria & Albert Museum di Londra si terrà, dal 19 marzo al 6 novembre, una mostra volta a indagare la moda uomo di oggi attraverso un excursus tra epoche, trasformazioni e prospettive future; il momento è propizio, con la concezione della mascolinità messa in discussione tra fluidità, gender bender e un generale rimescolamento di nozioni e dinamiche.
L’intento è «celebrare il potere, l’artisticità e la diversità del vestire e apparire maschili» dal Rinascimento ai giorni nostri, gli organizzatori evidenziano pertanto quanto siano cambiati, nei secoli, i concetti nodali di “Undressed”, “Overdressed” e “Redressed”, che danno il titolo alle tre sezioni; così le mise funamboliche delle label che stanno ridefinendo l’orizzonte del menswear (ad esempio Gucci, Raf Simons, Wales Bonner o Harris Reed) trovano posto accanto a sculture e opere d’arte, e si analizzano le scelte di stile delle celebs passate e presenti (da David Bowie a Billy Porter e Harry Styles) riuscite, negli anni, a sfidare la percezione comune di ciò che gli uomini potrebbero (o dovrebbero) indossare.


Wales Bonner S/S 2015 (ph. Dexter Lander), Gucci F/W 2015, Harris Reed – Fluid Romanticism 001 (ph. Giovanni Corabi), Market Tavern, Bradford, England, 1976, ph. by Chris Steele-Perkins


Per l’immagine in apertura, credits: ph. Paul Vu

Radiografia di un cult: i mocassini con morsetto Gucci

Senza entrare nel merito dei giudizi sul chiacchieratissimo House of Gucci, drama uscito nelle sale italiane lo scorso 16 dicembre, è innegabile lo slancio dato dal film ai prodotti più esemplari del brand fiorentino; non che ne avessero bisogno, considerata la potenza di una griffe radicata come poche altre nell’immaginario comune, però fa sempre il suo effetto vederli indosso a Lady Gaga, Adam Driver, Al Pacino e al resto del cast stellare reclutato da Ridley Scott. Di uno, segnatamente, vengono tessute le lodi, raccontandone con dovizia di particolari genesi, pedigree acquisito grazie all’attrattiva esercitata sul jet set degli anni 70/80, preziosismi della lavorazione, assegnandogli perfino il compito di favorire, sotto forma di munifico cadeau, uno snodo decisivo della trama: parliamo del mocassino con il morsetto, articolo massimamente emblematico di una maison che, pure, vanta nel proprio catalogo diverse creazioni entrate di diritto nella storia della moda con la M maiuscola.
Una scarpa dal design lineare, quasi elementare nella semplicità di costruzione e forme, nobilitato dall’apposizione, sulla mascherina, della staffa metallica con doppio anello, estrapolata dal mondo della selleria e delle finiture per l’equitazione (consustanziale al marchio sin dalla nascita, nel 1921) e divenuta ormai sinonimo di Gucci tout court.



Dotati di tacco dall’altezza contenuta (meno di due centimetri), flessibili e leggeri grazie alla qualità del pellame, maneggiato ad arte dagli esperti artigiani della casa, e all’assenza della soletta, i loafer col dettaglio equestre fanno la loro comparsa nel 1953: è Aldo Gucci, negli Stati Uniti per avviare il ramo statunitense dell’impresa fondata dal padre Guccio, ad avere l’idea di stuzzicare la clientela locale, già entusiasta per l’apertura della megaboutique del brand sulla Fifth Avenue newyorchese, con una proposta a un tempo chic ed easy, che coniughi mirabilmente la comodità della tomaia senza lacci al garbo dei modelli formali, ideali per completare i suit da ufficio come gli ensemble da serata mondana.
Gli Usa, d’altronde, sono la patria del casualwear, e i rampolli della buona borghesia americana, nello stesso periodo, si prodigano per rendere aspirazionali le tenute preppy che ruotano su cardigan, pantaloni con le pinces e penny loafer, giustappunto.
La popolarità delle calzature con dettaglio horsebitcosì lo chiamano oltreoceano – cresce rapidamente oltre le più rosee aspettative, ad invaghirsene è soprattutto lo stardom internazionale: la lista di celebrità e personalità assurte al pantheon del ben vestire che le calzavano, indifferentemente, nel tempo libero o nelle occasioni ufficiali, rischia di essere chilometrica, tra attori (Clark Gable, Yul Brynner, Alain Delon, Peter Sellers, John Wayne…), registi (Francis Ford Coppola), politici (John F. Kennedy, l’allora capo della Cia George Bush senior), persino bellezze leggendarie come Sophia Loren o Jane Birkin, a riprova della natura intrinsecamente genderless dell’accessorio.



Adam Driver sul set di House of Gucci, Alain Delon, Jane Birkin, Leonardo DiCaprio in The Wolf of Wall Street


Dove non arrivano le foto paparazzate dei divi o il potere ammaliatore delle uscite sul tappeto rosso, ci pensano poi le inquadrature di film di enorme fama: i mocassini in questione, infatti, accompagnano Dustin Hoffman sul set di Kramer contro Kramer, Matt Dillon in quello di Drugstore Cowboy, Matt Damon ne Il talento di Mr. Ripley, il Brad Pitt di Fight Club, in tempi più vicini a noi i protagonisti di The Wolf of Wall Street (il “lupo” del titolo Leonardo DiCaprio li piazza sotto gessati da yuppie rampante, mentre il suo braccio destro, Jonah Hill, durante uno degli innumerevoli, orgiastici party della pellicola  li sbatte sul tavolo per richiamare l’attenzione). Non sorprende affatto, perciò, che il Met di New York, riconoscendone l’iconicità, decida nel 1985 di includerle nella collezione permanente del museo.


Il talento di Mr. Ripley

A raccogliere il testimone degli estimatori eccellenti del passato sono adesso i nuovi astri dello show business: in prima fila, i testimonial/aficionados della label, Harry Styles, Jared Leto e Dakota Johnson, quindi titani del rap (che, quanto a influenza sul pubblico, rivaleggiano ormai con le popstar) alla Asap Rocky o Childish Gambino, assi dello sport come LeBron James, gli “immancabili” attori (altro elenco potenzialmente sterminato, ci si limita a citare Jamie Foxx, Idris Elba, Shia LaBeouf e il nostro Alessandro Borghi).


Harry Styles, Jared Leto, Alessandro Borghi


Il fatto che i loafer con morsetto siano oggetto di una tale riverenza non significa, però, che il loro aspetto sia rimasto immutato, anzi: negli anni sono stati forgiati in una moltitudine di materiali, dal suède al coccodrillo, dalla tela alla vernice.
Dalla metà dei Nineties, la glamourizzazione tutta edonismo e voluttuosità intrapresa dal designer Tom Ford investe anche gli accessori, i tacchi guadagnano centimetri e le superfici lucentezza. Nemmeno i successori dello stilista texano, che lascia Gucci nel 2004 dopo averlo tramutato nel pinnacolo della coolness di fine millennio, si esimono dall’adeguare le scarpe di punta della griffe alla propria cifra creativa: Frida Giannini si dimostra rispettosa della tradizione, pur aggiungendo talvolta un frisson, coprendole di borchie, tappezzandole degli intrichi fiorati del pattern Flora o, come nella collezione celebrativa del sessantesimo anniversario, nel 2013, colorandole di tonalità glossy.


Gucci F/W 1995 (credits Condé Nast Archive), Backstage della sfilata S/S 2013


Alessandro Michele, da ultimo, le rielabora già alla prima uscita da direttore artistico del brand, lo show Fall/Winter 2015, in cui inserisce le Princetown, mules foderate di pelliccia, un feticcio delle fashion victim che ben sintetizza la sfolgorante  fase iniziale dello sua tenure. Da lì in avanti, la ridondanza di decori sarà il minimo comun denominatore della visione stratificata, proteiforme di Michele: popola dunque i mocassini di api, serpenti, tigri e altre creature di un bestiario fantasmagorico, o ancora di personaggi Disney, geometrismi, applicazioni da giardino delle  meraviglie, senza mai rinnegare l’heritage, poiché altre versioni esaltano quei lemmi che, da decenni, compongono l’alfabeto Gucci (doppie G, nastro Web, tessuto monogrammato…); è ancora disponibile, per dire, il modello sempreverde da cui tutto è partito, (ri)nominato 1953, senza fronzoli, ad eccezione – ovvio- della placchetta in metallo dorato.




Il battage mediatico che ha preceduto l’uscita del succitato biopic sulla famiglia Gucci, in ogni caso, ha lasciato il segno, specialmente nel settore dell’e-commerce: stando ai numeri diffusi dalla piattaforma di abbigliamento pre-owned Vestiaire Collective, le ricerche del marchio sono aumentate, su base annua, del +25%, il numero di pezzi in vendita sul sito addirittura del +80%. Vintage o freschi di sfilata, i loafer della maison rappresentano un bene rifugio che, a differenza dei racconti a tinte noir sulle dinastie della moda, mette d’accordo tutti da quasi settant’anni.

Models to follow: Yuna Heo

Lunghi capelli corvini, lineamenti delicati, viso clean, la presenza magnetica di Yuna Heo si imprime nello sguardo, poco importa che, come nelle fotografie pubblicate qui, sia abbigliata con pizzi e merletti o mise da tomboy, tra camicioni immacolati e vistosi pendenti a croce.
22 anni, modi spigliati, basta una scorsa al profilo Instagram per capire che l’intrigante bellezza di questa ragazza sudcoreana si presta tanto ai lookbook quanto ai ritratti au naturel, agli editoriali dal tocco surreale come alle passerelle di griffe quali Gucci o Bottega Veneta, ricalcando così una naturale predisposizione al cambiamento che interessa anche il suo stile, perennemente mutevole (o meglio, «complesso, in alcuni momenti sono femminile, in altri decisamente mascolina») e considerato «un mezzo per esprimere un altro lato della mia personalità», quasi «un alter ego».



Da quanto tempo fai la modella?

Da cinque anni, ad essere precisi ne sono passati tre da quando ho cominciato a lavorare ufficialmente, da un anno a questa parte soprattutto in Europa.
Fin da adolescente mi veniva suggerito di intraprendere questa strada, perché sono alta e ho braccia e gambe lunghe; perciò ho iniziato, prendendola come un’opportunità per incontrare persone stimolanti, e spinta dalla curiosità, mi sono iscritta a un’accademia per modelle (in Corea del Sud, in genere, bisogna frequentarne una per fare questo mestiere), dove ho potuto dare forma al mio sogno, le sono davvero grata.

Il tuo paese, la Corea, è piuttosto attento alle collezioni di maison e designer europei; quali pensi siano le principali differenze tra il modo di intendere, di vivere la moda dei coreani e quello degli italiani, ad esempio di Milano, città che frequenti spesso per lavoro?

Da noi ogni fashion week estera viene analizzata e solitamente ben accolta, rendendo possibile conoscere nuovi stili o tendenze stagionali per declinarle, poi, nel proprio modo di vestire. È un discorso limitato però ad addetti ai lavori e appassionati, mi sembra che gli italiani siano più interessati alla moda rispetto ai coreani, hanno molte opportunità di entrare in contatto con gli eventi del settore e i media per informarsi sono vicini.



Colpisce, nelle immagini dell’editoriale di cui sei protagonista, il contrasto tra look mannish (camicie ampie, collane con grosse croci) e la sensualità sofisticata di body trasparenti, slip dress e calze velate, questa dicotomia maschile/femminile appartiene anche al tuo stile personale?

Il mio stile è complesso, in alcuni momenti sono femminile, in altri decisamente mascolina.

Cosa rappresenta per te lo stile, come lo definiresti a parole tue?

Come un mezzo per esprimere un altro lato della mia personalità, potrei definirlo un alter ego.



Come descriveresti i tuoi outfit più ricorrenti usando solo tre aggettivi?

Basic, neutri, colorati.

Tutti gli abiti dello shooting sono vintage, ti piace indossare pezzi cosiddetti pre-loved?

Trovo il vintage bellissimo, estremamente cool. Di solito non compro capi vintage per usarli nella vita quotidiana, mi piace indossarli sul lavoro, per un video o durante i fitting; quando guardo abiti second hand, posso percepire la vita di qualcun altro.

Un capo o accessorio che consideri un vero e proprio must-have?

I jeans, i miei essentials di stile: nel mio guardaroba i pantaloni sono per l’80% in denim, ne ho modelli di diverse forme, lunghezze e vestibilità. Sono tra le cose che amo di più.



Come vesti solitamente nei momenti off, di quotidianità? E come, invece, nelle occasioni più formali, ad esempio una serata importante o un party?

Opto per abiti basici, penso che un look, grazie all’altezza e a un fisico armonico, possa dirsi riuscito anche se indossato “normalmente”, trasmettendo così l’amore per il proprio corpo. Per gli eventi formali preferisco il total black: i vestiti neri possono sembrare noiosi, ma basta scegliere un buon design per esprimere un’attitudine habillé e un po’ sexy.

Di recente hai sfilato per brand di assoluto prestigio come Gucci (per la collezione Aria Fall/Winter 2021-22) e Bottega Veneta, prendendo parte al défilé Salon 02, cosa ricordi e puoi dirci dei due show?

Sono state due passerelle davvero fantastiche, esattamente quelle che sognavo, tanto che, a dire la verità, non sapevo se sarei stata in grado di calcarle.
Da Bottega Veneta le prove sono andate avanti fino all’una di notte del giorno stesso, ho avvertito l’immenso amore di Daniel Lee per le sfilate; il team del marchio, impegnato fino all’ultimo a modificare e sistemare al meglio i capi, è stato fantastico, alla fine ho potuto indossare outfit che mi vestivano alla perfezione, ad ora i miei migliori sul lavoro.
Il set di Gucci era fenomenale e bellissimo, senza dubbio. Gli innumerevoli flash sulla pedana, poi, hanno aumentato la mia autostima. Ha significato molto, per me, che tutte le modelle siano state insieme in hotel per due settimane, dal primo casting ai fitting, allo show finale. Ora ho dei nuovi amici e un sacco di bei ricordi, non solo del défilé.



Passerelle e campagne pubblicitarie registrano una presenza via via maggiore di modelle dalle etnie, corpi e background eterogenei, ritieni che la fashion industry stia diventando realmente più inclusiva, oppure pensi si debbano compiere ulteriori passi in questa direzione?

Credo sia già sufficientemente variegata, con i casting che spaziano sempre di più a livello di etnie, età e fisicità.

Ci sono tue colleghe, del passato oppure in attività, che consideri dei modelli cui ispirarsi? Cosa speri possa riservarti questo mestiere per il futuro?

Non vengo ispirata dalle persone, ma dai paesaggi e dalle cose belle con cui entro in contatto. Per il futuro, vorrei che questo lavoro mi lasciasse, in primis, dei soldi (ride, ndr), in secondo luogo un buon ricordo nelle persone che hanno lavorato con me, come modella vorrei essere apprezzata da tutti, in ogni senso.



In tutto il servizio, abiti vintage da PWC Milano

Credits:

Model Yuna Heo

Photographer Riccardo Albanese

Stylist Adele Baracco

Makeup artist Marco Roscino

Immanuel Casto, artista dalle mille sfumature tra “porn groove”, concerti e giochi dissacranti

Parlando di attori, musicisti e altri personaggi dello spettacolo si tende ad abusare di concetti quali versatilità o eclettismo; nel caso di Immanuel Casto, però, espressioni simili sono una soluzione praticamente obbligata per provare a sintetizzare l’operato di un artista dalle mille sfumature. Manuel Cuni, questo il suo vero nome, è innanzitutto un cantautore “porn groove” – termine da lui coniato per indicare una miscela di elettropop, sonorità ’80s e testi outré anticipati da titoli come Escort 25, Tropicanal o i recenti D!CK PIC e Piena – che, muovendosi sul crinale tra camp e arguta disamina sociale, non manca di sbeffeggiare ipocrisie e storture del Belpaese, dalla mercificazione del sesso alla spettacolarizzazione della violenza. In parallelo, realizza giochi da tavolo dai nomi inequivocabili (Squillo, Witch & Bitch, Red Light – A Star is Porn), è presidente del Mensa, associazione che riunisce le persone che raggiungono o superano il 98° percentile del Q.I., è “postacuorista” (come si autodefinisce) di Gay.it.
L’abbiamo raggiunto al telefono per una chiacchierata che ha toccato diversi argomenti, dal ddl Zan alla predilezione per l’inglese “to play”, verbo polivalente che lui considera il fil rouge di una vis espressiva rara a trovarsi.



Il 6 gennaio sarai in concerto all’Alcatraz, «un ritorno ai club dove tutto è cominciato», come ti senti a riguardo, che sensazioni dà il comeback dal vivo?

La prima sensazione è di terrore, non del palco bensì dei problemi che potrebbero sorgere da qui ad allora. Come lavoratori dello spettacolo siamo stati tra i più colpiti dalla pandemia, si è parlato a lungo – giustamente – di tutte le categorie in difficoltà, di noi invece sembra non importi granché.
In uno slancio di ottimismo, abbiamo comunque messo su un grande spettacolo (mi piace definirlo tale), provo un’immensa felicità al pensiero di tornare su un palco così bello e rincontrare il pubblico, del resto è quello il vero punto di inizio.
Non so se ogni artista lo senta, ma durante gli show avverto un senso di celebrazione di valori condivisi, è davvero un momento di comunione con i fan, non vedo l’ora di viverlo.

Puoi parlarci dei tuoi ultimi singoli? Come li descriveresti a chi dovesse leggerne per la prima volta?

Stratificati, mi sembra un termine calzante. Mi piace mescolare elementi diversi, unendo un linguaggio o immagini ridanciane, ironiche, provocatorie a riflessioni più profonde; nonostante sia veramente difficile padroneggiare i due registri, mescolare tragedia e commedia è una sfida che mi ha sempre attratto; credo sia, peraltro, una delle caratteristiche più distintive del mio lavoro.
Adoro generare un po’ di straniamento, mettendomi nei panni di chi vede un mio video vorrei sentisse una sorta di shock, poi il divertimento, quindi la comprensione degli spunti che cerco di inserire, una stratificazione, appunto.



Ti sei fatto conoscere nel 2011 con Adult Music: come hai dichiarato recentemente, «un disco che resta moderno, non sento che sono passati dieci anni», cosa lo rende ancora così attuale?

Lo sforzo artistico alla base, c’è un principio junghiano per cui, quando si scava veramente a fondo, la verità che si trova è quella di tutti. Un errore in cui incappano tanti artisti emergenti (lo capisco, ci sono passato anch’io) è realizzare prodotti eccessivamente autobiografici, operazione legittima e interessante, sia chiaro, però alla lunga non risulta universale.
Da parte mia, cerco di concentrami sulla società, resistendo alla tentazione, per quanto ghiotta, dei riferimenti nominali all’attualità, nonostante li comprendano tutti anzi, probabilmente prendendo il tema in trend o il personaggio del momento puoi godere di immediata visibilità; hip hop, rap e trap agiscono così, è del tutto plausibile ma trovo che abbia il problema di invecchiare rapidamente.
Raccontare un’epoca anziché un mese è difficilissimo, poi però riascolti i brani e senti di aver realizzato una foto dell’epoca.

Sei dell’idea che l’arte non debba avere nobili fini, parafrasando Wilde affermi «nasce inutile e questa inutilità va preservata»; anche in Italia si comincia a parlare di cancel culture e politicamente corretto, credi che un eccesso di controllo, seppur animato dalle migliori intenzioni, possa finire per limitare la creatività artistica?

Ne sono convinto, pur premettendo che ritengo spropositata l’attenzione riservata a un fenomeno che da noi non è ancora arrivato.
Mi piacerebbe ci fosse, in merito, un dibattito fondato sui dati, invece ognuno si concentra sui contenuti che non gli aggradano, anche per il meccanismo dei social.
Al netto dell’isteria sul politicamente corretto, le implicazioni che a me spaventano di più hanno a che vedere con il desiderio di moralizzare l’arte; si cerca da sempre di farlo, forse perché cambiare la realtà è quasi impossibile, al contrario per modificare la finzione artistica basta stabilire ciò che si può dire, quali concetti rappresentare. Per decenni lo abbiamo visto nei conservatori, ora sono soprattutto i progressisti a chiedere un controllo maggiore, con ragioni solide peraltro! È questo che rende complicata la faccenda, alla base ci sono motivazioni etiche che personalmente comprendo, in alcuni casi condivido.
Per quanto non ritenga si stia andando in quella direzione, comunque, avrei orrore di vivere in un mondo dove l’arte debba essere necessariamente morale.



Sei presidente del Mensa, com’è andata finora e quali altri obiettivi ti poni?

È stata un’esperienza davvero intensa, un’occasione di crescita personale all’interno di un contesto di circa 2000 soci.
Come associazione senza fini di lucro che raccoglie e mette in contatto persone con un elevato Q.I., gli obiettivi restano gli stessi, cioè far crescere la nostra realtà, rendendola un luogo più stimolante e fornendo così contributi interessanti al pubblico, a cambiare sono semmai gli strumenti.

Tieni la rubrica “C’è posta per Casto” su Gay.it, che quadro ne emerge, come sono messi, sentimentalmente parlando, gli utenti del sito?

Una situazione generalizzata che percepisco, specie nei più giovani, è la fame di educazione affettiva, il bisogno di parlare di questioni affettive come di quelle sessuali, una gran voglia di conoscere, confrontarsi, capire di non essere i soli a dover affrontare certi problemi, di normalizzarli.



I tuoi giochi da tavolo trattano con originalità e piglio dissacrante temi scabrosi, come è nata e si è sviluppata questa passione?

L’ho sempre avuta, il gioco per me è una palestra, anche per le emozioni “negative” quali rabbia o tensione che, nel contesto ludico, diventano sane, entusiasmanti. Se dovessi rispondere, in inglese, a una domanda su ciò che più mi piace utilizzerei il verbo “to play”, riferibile a svariati ambiti (“to play games, a song, a character…”), è un po’ il filo conduttore di tutto ciò che faccio a livello artistico.
A un certo punto, semplicemente, sono entrato a gamba tesa nel settore, privo di qualsiasi preparazione tecnica, in fondo credo che quando si ignorano totalmente le convenzioni diventi più facile romperle, almeno in linea teorica.

Ti eri esposto pubblicamente in favore del ddl Zan, impallinato dal voto del Senato a ottobre. Perché, a tuo parere, un disegno di legge che si proponeva semplicemente di contrastare la discriminazione basata (anche ma non solo) su orientamento sessuale o genere ha scatenato una tale cacofonia di polemiche, accuse, appelli e controappelli? Credi che riusciremo, prima o poi, a compiere passi significativi in questa direzione?

Penso di sì, per natura sono ottimista, credo si tenda naturalmente al progresso, purtroppo non è mai una linea retta.
Nel caso specifico, è stato orribile il livello di inquinamento del dibattito, a cominciare dai detrattori che hanno portato avanti un processo di disinformazione, mentendo letteralmente sui contenuti del testo, lasciando intendere che fosse a beneficio esclusivo di specifiche categorie, quando si trattava dell’estensione di una legge già in vigore per cui stabiliva delle aggravanti, certamente non che la discriminazione degli omosessuali fosse più “grave” di altre. L’obiezione del reato d’opinione, invece, si infrange sul fatto che la Reale-Mancino non è mai stata utilizzata per perseguire espressioni poco lusinghiere, diciamo così, nei confronti di persone di altre etnie o religiose.
C’è bisogno tuttavia anche di un po’ di autocritica, dal nostro lato ho sentito spesso affrontare l’argomento in maniera semplicistica e populista, in termini di diritti da aggiungere, cosa tecnicamente inesatta.



Due recenti singoli, il live di gennaio, e poi? Cos’hai in serbo, stai lavorando a qualche progetto di cui puoi/vuoi anticiparci qualcosa?

Ho molto materiale inedito, confido di rilasciarlo gradualmente nel 2022, per come si è strutturato il mercato discografico ha sempre meno senso pubblicare subito l’intero album, meglio piuttosto che arrivi a conclusione di un ciclo.
Per quanto riguarda la parte ludica, annuncerò presto un nuovo progetto, da lanciare tramite crowdfunding.



In apertura e nella prima foto, occhiali da sole Lanvin, camicia e pantaloni Red September, anfibi Cult, Credits:
Photographer Ilario Botti
Stylist Antonio Votta
Make-up Artist Bruno Agostino Scantamburo
Label Freak&Chic
Press Office Astarte Agency

Asvoff13, il Fashion Film Festival di Diane Pernet alla Casa del Cinema di Roma

Con lo stop agli eventi dal vivo dettato dall’emergenza pandemica del 2020, i fashion film hanno permesso ai marchi di mostrare le collezioni pur nell’impossibilità di organizzare i consueti défilé: da meri sostituti degli show, tuttavia, i cortometraggi (specie nelle mani di professionisti del settore e sperimentatori di rango) si sono rivelati una modalità altra, ugualmente – se non addirittura più – efficace della passerella per comunicare a 360 gradi la visione di un brand. Gli esempi sono molteplici, basti pensare all’immaginoso Le Mythe Dior di Matteo Garrone per la griffe francese, alla miniserie Ouverture Of Something That Never Ended di Gucci, alla monumentale performance Of Grace and Light di Valentino, al teatro delle marionette di Moschino per la Spring/Summer 2021… Decine di video capaci di tenere gli spettatori con gli occhi incollati allo schermo, commissionati da auguste maison come da designer indipendenti, dai potentati del lusso alla Lvmh come da label emergenti armate perlopiù di inventiva.


Diane Pernet, ph. by Ruven Afanador

A credere nelle potenzialità di un medium ora lodato in maniera pressoché unanime era stata, in tempi non sospetti, la fondatrice del festival Asvoff – A Shaded View On Fashion Film Diane Pernet, figura a dir poco poliedrica: immancabilmente vestita di nero dalla testa ai piedi, labbra infuocate, sguardo schermato h24 dagli occhiali da sole Alain Mikli, nata a Washington ma parigina d’adozione, stilista, editor, critica, fotografa, talent scout dal fiuto portentoso, soprattutto pioniera digitale (come la incoronò il Met di New York, nientedimeno) grazie al blog Asvof, aperto nel 2005, agli albori della rivoluzione che, tra social e web 2.0, di lì a breve avrebbe travolto la società, e “sdoppiatosi” tre anni dopo nella rassegna di cui sopra, un métissage unico di moda, stile e bellezza esplorate attraverso il linguaggio cinematografico che, di fatto, ha codificato i tratti fondamentali del genere.



Giunta alla tredicesima edizione, svoltasi all’inizio del mese a Parigi, la kermesse, nomade e cangiante per natura, è approdata nel weekend dal 10 al 12 dicembre alla Casa del Cinema di Roma grazie alla collaborazione con Romaison, progetto che si propone di valorizzare le eccellenze costumistiche delle tante, spesso misconosciute sartorie della città eterna che pure hanno contribuito alla riuscita di capolavori rimasti negli annali. Le sale dell’edificio ottocentesco, immerso nel parco di Villa Borghese, hanno ospitato così un fitto programma di anteprime, talk, incontri di approfondimento e la proiezione degli oltre ottanta short movie in concorso, ça va sans dire.



Ad aprire le danze, nella serata di venerdì, la presentazione del festival cui partecipano Pernet, la curatrice di Romaison Clara Tosi Pamphili e il costumista Carlo Poggioli, presidente dell’Asc (Associazione Scenografi, Costumisti e Arredatori), seguita dall’intervento di Amber Jae Slooten, co-founder e direttrice artistica di The Fabricant, marchio digital only che, nel 2019, fece scalpore (come ricorda, abbastanza divertita, la diretta interessata) per l’outfit iridescente, dalla connotazione couture epperò composto esclusivamente da byte, venduto all’asta per 9.500 dollari; una visionaria insomma, sicuramente tra le persone più adatte per confrontarsi, con Tosi Pamphili e il pubblico presente, sui punti salienti e le probabili evoluzioni di questa dimensione parallela alla moda propriamente intesa, dai contorni ancora piuttosto aleatori ma che, come certificato dall’interesse crescente di brand che creano dipartimenti dedicati al virtuale (ultimo, in ordine di tempo, Balenciaga), potrebbe conoscere prima di quanto non si creda uno sviluppo impetuoso, con abiti indossabili esclusivamente nel metaverso e avatar dal guardaroba griffatissimo seppur intangibile.

Viene quindi proiettato Saint Narcisse di Bruce LaBruce, regista habitué della provocazione col suo cinema liminare, tra indie e pornografia (nonché presidente della giuria di Asvoff 13): già incluso nella selezione delle Giornate degli Autori alla 77esima Mostra di Venezia, il film rilegge il mito di Narciso in chiave queer e compiaciutamente erotica, in un pastiche di tragedia greca, iconografia religiosa, ossessioni contemporanee, sesso spinto, illuminazione e fotografia da b-movie ‘70s.


Saint Narcisse

Sabato è il giornalista e scrittore Carlo Antonelli ad introdurre un’altra pellicola di notevole caratura, Steven Arnold: Heavenly Bodies, documentario diretto da Vishnu Dass in cui la voce d’eccezione di Anjelica Huston racconta, attraverso testimonianze e footage inediti, la fulminante parabola dell’artista californiano, stroncata a soli 51 anni dall’Aids; talento multidisciplinare, animatore della scena off losangelina negli anni ‘70 e ‘80, pupillo di Salvador Dalí che lo elesse “principe” della sua leggendaria cerchia di accoliti e muse ispiratrici, ha saputo cogliere con straordinaria incisività, e decisamente in anticipo sui tempi, il tema della fluidità di genere, componendo articolati tableau vivant i cui protagonisti erano, a seconda dei casi, adoni dalla fisicità prorompente, figure mistiche contornate da nugoli di simboli, esseri androgini sospesi in paesaggi a metà tra il surreale e l’onirico.


Steven Arnold: Heavenly Bodies

Nella giornata conclusiva, invece, si lascia spazio alla moda in senso stretto, che d’altronde è l’asse portante del festival: vengono trasmessi Cotton For My Shroud, opera di denuncia delle pratiche di sfruttamento purtroppo ancora presenti nell’industria cotoniera; Valentino Des Ateliers: Vita di Sarti e di Pittori (vincitore nella sezione Documentaries), raccolta di storie e impressioni emerse nel dialogo tra l’autore del corto Maurizio Cilli e Gianluigi Ricuperati, saggista chiamato a selezionare 17 artisti per l’iniziativa che ha unito l’opus magistrale dell’atelier, massima espressione della sartorialità intrinseca alla griffe romana, alla loro pittura, sfociata a luglio nella magnifica sfilata Valentino Haute Couture F/W 2021/22 alle Gaggiandre dell’Arsenale di Venezia, con i dipinti commissionati dal brand resi parte integrante delle mise drammatiche, da mille e una notte firmate da Pierpaolo Piccioli; A Folk Horror Tale, film di presentazione dell’ultima collezione Artisanal di Maison Margiela, in cui il making of dei capi si intreccia a una mise en scène fiabesca dai colori “impossibili”.



I cortometraggi sono, ovviamente, il cuore pulsante degli appuntamenti tenutisi nelle sale Deluxe e Volonté della Casa del Cinema; organizzati in gruppi tematici, tracciano un panorama variegato di narrazioni visive nel quale la coreografia danzata di Dance Party (che ottiene l’award per la categoria Fashion Moves, curata da Alex Murray-Leslie) cede il passo alle silhouette fluttuanti digitalizzate di Komantha, premiato nella rassegna Digital Fashion: The Fabricant, oppure alle rappresentazioni delle idee di autenticità, quotidianità e altri concetti basilari ad opera dei creativi di colore di Black Spectrum, a cura di Melissa Alibo. Una mole consistente di progetti, che lascia intuire come la moda potrà anche riprendere il solito bailamme di lanci, happening e show faraonici, ma i fashion film sono qui per restare.


Dimension by Ebeneza Blanche

Immagine in apertura: Transmotion by Ryan McDaniels

I gioielli che piacciono (anche) alla Gen Z da scoprire ora

Quello secondo cui l’orologio è l’unico gioiello da uomo è stato a lungo un assioma incontrovertibile o quasi, cui derogavano solo personalità del mondo dello spettacolo, rapper ed eccentrici di professione; erano ammesse eccezioni per gemelli e fermacravatta, accessori però più funzionali che decorativi. Dogmatismi simili erano destinati inevitabilmente ad incrinarsi, e adesso la Generazione Z (termine che, come precisa la Treccani, indica i «nativi digitali nati tra il 1997 e il 2012»), stando alle ricerche la più inclusiva e libera da preconcetti di sempre, appare determinata a frantumare convenzioni percepite come insensati anacronismi da boomer, giustappunto.


Harry Styles, Timothée Chalamet, Damiano David


Da esibire “IRL” o negli spazi ormai onnicomprensivi del web, tra dirette streaming davanti al pc, selfie e video su TikTok, con bracciali, catenine, necklace, bijoux vari ed eventuali i Gen Zers procedono anzi per accumulo, perché rappresentano uno strumento per raccontare qualcosa di sé, definire il proprio personaggio (reale o virtuale, poco conta), lanciare messaggi attraverso scritte oppure, in maniera più soft, scegliendo pietre, forme o tipologie di monili considerati per molto (troppo?) tempo appannaggio esclusivo delle donne.

Basta volgere lo sguardo alle star elette dai giovanissimi a role model, del resto, per rendersi conto di come impilare orecchini, braccialetti & Co., meglio ancora se mutuati dalla gioielleria pour femme o genderless, sia diventata la norma: Harry Styles innanzitutto, che fa suoi con assoluta noncuranza ornamenti reputati femminili (di nuovo, etichette di dubbia sensatezza), infilando abitualmente grappoli di anelli sulle dita e fili di perle al collo, mentre Timothée Chalamet, arbiter elegantiae contemporaneo di cui appositi account Instagram provvedono a passare ai raggi X ogni outfit, ha un penchant per collane (compatte oppure a maglie sottili), spille (spesso vintage) e rings in metalli preziosi. Damiano David dei Måneskin, invece, da buon epigono del glam rock qual è, ricorre volentieri a pendenti elaborati, da portare su entrambi i lobi, choker e altri fronzoli ora a modino, ora dal retrogusto fetish. L’importante, alla fin fine, è mettere da parte inibizioni e (presunte) regole effettivamente stantie in nome di un solo, sacrosanto principio, ovvero il proprio gusto.


Gucci Link to Love


I brand, da parte loro, fiutando lo Zeitgeist vengono incontro alle mutate esigenze dei clienti, giovani o meno, con linee di gioielli prive di connotazioni di genere o, nel caso queste vengano nominalmente mantenute, ampliano il range di taglie, così da renderli adatti a uomini e donne. In vista delle festività imminenti, si possono perciò vagliare le collezioni di numerose griffe, per regalare – o regalarsi – un prezioso up-to-date.
I suddetti Styles e David, ad esempio, sono fan devoti degli accessori di Gucci, e osservando la gioielleria del marchio fiorentino è facile capire il motivo: la collezione Link to Love, in particolare, rispolvera geometrie Eighties in purezza, sulle quali interviene però montandovi gemme preziose o semipreziose, dai diamanti alle tormaline; soprattutto, si invita la clientela a creare i propri set, sbizzarrendosi con finiture, nuance e combinazioni, affiancando magari volumi netti e spigolosi ad altri più delicati.


Swarovski Collection II, ph. by Mikael Jansson


Anche la storica maison di cristalleria Swarovski, su spinta della Global Creative Director Giovanna Engelbert, adotta un approccio il più inclusivo possibile, evidenziando le potenzialità del cristallo «come strumento di espressione della propria individualità»: così la fashion icon a proposito della Collection II disegnata per la griffe austriaca, un caleidoscopio di luccichii all’insegna del more is more, tra brillanti “tuttifrutti” tagliati in un’infinità di modi (dai classici cushion e pear a quelli che ne aguzzano la silhouette) e linee accentuate, qua aspre, là sinuose.


Tom Wood


Da Tom Wood rigore e minimalismo, connaturati a una label scandinava (nata a Oslo, nel 2013, da una manciata di anelli con sigillo realizzati dalla fondatrice Mona Jensen), vengono sfumati dall’incontro con pietre quali onici, granati, opali e ametiste, oppure da levigature e cesellature che ingentiliscono il risultato finale, nella gran parte dei casi unisex.


Jiwinaia


Apprezzatissimi da nativi digitali e millennial sono poi gli accessori ludici e irriverenti firmati Jiwinaia, marchio con base a Milano della creativa coreana Marisa Jiwi Seok (indicata, poche settimane fa, dal Financial Times tra i giovani capifila del «fashion renaissance» italiano), un calderone in cui si mescolano senza soluzione di continuità attitudine playful, kitsch, nostalgia per i ninnoli dell’infanzia e divertissement che fanno il verso al surrealismo; ne escono, tra gli altri, orecchini-emoticon, faccine o frasi ironiche riprodotte su massicce perle (finte), cerchi tempestati di zirconi, clip a forma di ragnatela.


Timothée Chalamet con una collana Vita Fede; alcuni gioielli del brand; Kendall Jenner con gli orecchini Milos


Ambisce a delineare, coi suoi gioielli fatti a mano in Italia, un’estetica globale e però unica nel suo genere la founder di Vita Fede Cynthia Kozue Sakai, che infonde un mix di ispirazioni asiatiche, americane ed europee in oggetti dalle proporzioni fluide, armoniose, che si sono guadagnati il favore di idoli della Gen Z come il citato Chalamet e Kendall Jenner. Di tutt’altro segno le creazioni outré di Alan Crocetti, designer brasiliano con studi alla Central Saint Martins (fucina dei migliori talenti della moda made in Uk), intenzionato col suo brand a stravolgere la nozione stessa di gioielleria, sfocando i confini tra maschile e femminile attraverso anelli, ear cuff, collane e face jewels che lui considera estensioni del corpo, e sviluppa ibridando forme anatomiche e influenze artistiche in arditi ornamenti, come il “cerotto” per il naso d’oro o argento 925 (indossato anche dall’attore Omar Ayuso nel video di Juro Que, singolo di Rosalía), che hanno subito trovato ammiratori d’eccezione, da Lady Gaga a Mahmood, da Miley Cyrus a Luke Evans.


Alan Crocetti, ph. n 1 by Gorka Postigo, nell’ultima foto Mahmood con una creazione del designer


Inequivocabile, infine, il claim della collezione XX/XY di Eva Fehren («Per lui. Per lei. Per loro. Per noi»), dai tratti slanciati come quelli dei grattacieli di New York, dove vive e lavora la direttrice artistica Eva Zuckerman, che trasla i profili tesi e scattanti dell’architettura della metropoli su gemelli, broche, rings e monili in oro 18k, talvolta incastonati con diamanti dal taglio angolare.


Eva Fehren collezione XX/XY, ph. by Herring & Herring


A prescindere dai singoli nomi, è bene comunque ricordare che, come riassunto da Jensen al Guardian l’anno scorso, «poiché le idee tradizionali su ciò che è femminile e maschile vanno sfumandosi […] uomini e donne vestono allo stesso modo, e i gioielli in quanto accessorio chiave seguono naturalmente questa tendenza». Difficile, se non impossibile, darle torto.

‘On the Road’, l’epopea dei tour musicali nel Calendario Pirelli 2022

Dopo lo stop per la pandemia del 2020 (evento piuttosto raro nella storia della pubblicazione, interrotta, ad eccezione della sospensione nel periodo tra il 1975 e il 1983, solamente nel ‘67), il Calendario Pirelli torna in forma smagliante e rilancia, potremmo dire, con packaging e un brano concepiti appositamente, entrambi a firma di Bryan Adams, cantautore dal fulgido cursus honorum musicale – oltre 100 milioni di dischi venduti, tre nomination agli Oscar, cinque ai Golden Globes, 15 (con una vittoria) ai Grammy – che, dagli anni Novanta, ha abbracciato una carriera fotografica altrettanto fruttuosa, scattando cover ed editoriali per magazine quali Harper’s Bazaar, Vogue, Vanity Fair, L’Officiel e Zoo.



On the Road, questo il titolo di The Cal 2022, dà il nome perciò anche alla canzone dell’artista canadese, un’anticipazione del suo nuovo album So Happy It Hurts, in uscita il prossimo marzo. Sul calendario poi, custodito in una confezione quadrata tipo LP in vinile, accanto alla scritta con la caratteristica iniziale allungata della multinazionale dei pneumatici, campeggia un logo ad hoc, celebrativo del 150esimo anniversario dell’azienda.



Il filo conduttore dell’edizione di quest’anno è, dunque, il viaggio, declinato in un omaggio per immagini all’epoca, per molti versi lontana e irripetibile, dei grandi tour musicali, microcosmi a sé stanti con i propri riti, luoghi e tempistiche, nei quali la celebrity di turno si rifugiava al di fuori del concerto, tra pause relax in suite maestose (come quelle dello Chateau Marmont, buen retiro dei ricchi e famosi di Hollywood, location degli scatti patinati insieme al Palace Theatre, sempre a Los Angeles, e all’hotel Scalinatella di Capri), sessioni di trucco e parrucco, momenti di concentrazione nel backstage, enormi set di bagagli, spostamenti in limousine, studi di registrazione avveniristici.



Per interpretare un tema così composito, sospeso tra solitudine e vitalismo, atmosfere intimiste e cenni all’iconografia della rockstar, l’autore ha riunito dieci nomi di prima grandezza, tra i più rappresentativi della musica internazionale dai Sixties in avanti: in copertina (oltre che nella foto di febbraio, dove posa in déshabillé, illuminata debolmente dai raggi filtrati dalle veneziane) St. Vincent, performer camaleontica e restia alle classificazioni, qui con bob platinato, che nel fare la linguaccia all’osservatore mostra un plettro marcato Pirelli. A seguire Kali Uchis, fasciata in un abito (quasi) adamitico, con calze a rete e lingerie da femme fatale in vista; Cher, assorta in chissà quali pensieri davanti agli specchi a tutta parete del camerino; Iggy Pop, a torso nudo (e come, sennò?) e ricoperto di polvere argentata, pronto per una delle sue leggendarie esibizioni da istrione del punk; Rita Ora, che posa languida nella vasca da bagno con un dress in maglia metallica; la teatralità del rapper Bohan Phoenix, in piedi sul pianoforte vestito di pantaloni cargo, anfibi e guanti da opera silver. Il cast all star si completa con Grimes, Jennifer Hudson, Normani e Saweetie.



Chiude la carrellata, idealmente e non, lo stesso Adams, fotografato nelle pagine di dicembre a bordo di una classica auto americana, mettendo la parola fine all’itinerario on the road fra topoi musicali e divismo old school. Un tour visivo che merita di essere approfondito visitando il sito www.pirellicalendar.com, dove scoprire retroscena, filmati, testi inediti e interviste ai protagonisti del 48esimo The Cal.




Radiografia di un cult: la sciarpa check di Burberry

I best seller di un marchio che affonda le sue radici e resta legato a doppio filo con uno stato, il Regno Unito, dal clima notoriamente freddo e bizzoso, non possono che essere proposte adatte alle rigide temperature d’oltremanica: se infatti si pensa a Burberry, griffe britannica fino al midollo, subito dopo il trench in gabardine affiora, quasi certamente, l’immagine di una stola tramata di quadri multicolor.
Nonostante la storia più che cinquantennale alle spalle, la sciarpa di cachemire col peculiare motivo check occupa tuttora un posto d’onore nel catalogo degli accessori invernali dell’azienda, che nel frattempo si è trasformata da produttore di outerwear dalla sobria compostezza borghese a brand globale di prêt-à-porter, tenuto dal creative director Riccardo Tisci in sottile equilibrio tra aplomb da gentiluomo londinese e pulsioni underground.



Gli ingredienti, al netto di piccoli aggiustamenti, restano più o meno gli stessi: le misure (168 centimetri di lunghezza per 30 di larghezza) sono abbastanza contenute, lontane sia dagli eccessi dei modelli voluminosi in cui imbacuccarsi tipo bozzolo, sia dalla funzione meramente scenica delle sciarpine da annodare alla bell’e meglio; i bordi sono sfrangiati; il filato è quello caldo e nobile per eccellenza, affidato alle cure premurose di due mill a Elgin e Ayr, cittadine della Scozia dall’impareggiabile expertise laniera (entrambi in attività da oltre 150 anni), dove viene sottoposto a lunghi procedimenti articolati in decine di step, tra cui tintura di sei ore, che garantisce la vividezza del colore, cardatura per separare i fili, spazzolatura, intessitura su telai tradizionali, lavaggio nelle acque sorgive del luogo, rifiniture finali a mano (Burberry, inoltre, ha avviato partnership con ong e associazioni come la Sustainable Fibre Alliance, per assicurarsi che il cachemire utilizzato sia sostenibile da ogni punto di vista, produttivo ed etico); infine il check, firma grafica del marchio, una fantasia che, a differenza dei loghi “urlati” con iniziali a caratteri cubitali o nomi delle label ribaditi qua e là sui prodotti, basa la propria unicità sulle tonalità del tartan (il classico finestrato a quadri e linee incrociate, usato originariamente dai clan in cui erano suddivise le principali famiglie scozzesi che, per distinguersi gli uni dagli altri, ricorrevano a precisi accostamenti di colori) adottato, cioè rigature bianche, nere e rosse su fondo beige. Un motivo discreto insomma, tanto più che, alla sua comparsa negli anni ‘20 e per le successive quattro decadi, viene impiegato esclusivamente nelle fodere dei capispalla, configurandosi dunque come un piccolo piacere privato, che gratifichi solo chi effettivamente li indossa.



Le cose cambiano nel 1967: l’aneddotica vuole che il direttore del negozio di Parigi, volendo dare un twist inaspettato ai trench esposti, ne risvolti l’orlo, mettendo in bella vista l’house check, come viene chiamato internamente all’azienda; una trovata assai apprezzata dai clienti, che iniziano a chiedere articoli arricchiti dal pattern in questione, venendo accontentati con ombrelli e sciarpe, simili in tutto e per tutto a quelle in vendita oggi nelle boutique e sull’e-shop ufficiale. Oltre ad averne notevolmente ampliato la gamma cromatica (pur non discostandosi troppo, in linea di massima, dalle nuance misurate storicamente associate alla griffe, nei toni del marrone, blu, grigio, bianco e borgogna), Burberry offre adesso la possibilità di personalizzarle, ricamandole con un massimo di tre lettere.



L’unico, vero momento di crisi della stampa a quadri risale al periodo tra gli anni ‘90 e i primi ‘00, quando la sua popolarità cresce in misura inversamente proporzionale al crollo del prestigio di cui godeva presso gli happy few, venerato com’era da chavs (termine equivalente grossomodo a buzzurro, che secondo il dizionario Collins denota «i giovani della working class i cui gusti, sebbene a volte costosi, sono considerati volgari») e casuals, gli hooligan che, per passare inosservati dentro e fuori gli stadi di calcio, tenevano un basso profilo, vestendo brand ricercati alla Burberry, appunto; gruppi sociali bersagliati in modo feroce, nel primo caso apertamente classista, dall’opinione pubblica inglese.
Il marchio deve correre ai ripari: nel 2001 il neodirettore artistico Christopher Bailey (rimasto in carica fino al 2017) riduce al minimo sindacale la presenza della fantasia incriminata (alcuni pezzi, come il cappellino logato all-over, vengono addirittura cassati). Già nel decennio seguente, tuttavia, nelle campagne natalizie riprendono a fioccare scarf finestrate, preferibilmente al collo di star nazionali di primaria grandezza, tra cantanti, top model e attori/attrici (Sir Elton John, James Corden, Sienna Miller, Cara Delevingne, Naomi Campbell, Rosie Huntington-Whiteley, Romeo Beckham adolescente che sfoggia un modello en pendant col trench khaki). D’altra parte si rischia di perdere il conto delle celebrità, di ieri e oggi, fotografate con addosso la sciarpa a scacchi della maison, dai “precursori” David Niven e Michael Jackson alla papessa dell’editoria modaiola Anna Wintour, e poi Jared Leto, Susan Sarandon, Andy Garcia, Robbie Williams, Liam Payne, Matt Smith, Blake Lively, Rita Ora


London Fashion Week Autumn/Winter 2018 – J.W Anderson – Outside Arrivals Featuring: Anna Wintour Where: London, United Kingdom When: 17 Feb 2018 Credit: Lia Toby/WENN.com

Qualche concessione al pubblico più sensibile alle sirene dei trend, a dire la verità, c’è stata: Bailey, con la linea Prorsum, ha variato anche di parecchio le dimensioni dell’accessorio, pompate per farne un poncho da drappeggiare sulle spalle (collezione Fall/Winter 2014) o viceversa rimpicciolite a mo’ di cache-col, lasciato distrattamente slacciato (F/W 2013), e ancora ha moltiplicato le frange, dandogli le sembianze di uno scialle (F/W 2015), oppure lo ha cosparso di cuoricini o pois, mixati al check in un pot-pourri di fregi e sfumature.
Nella capsule per la stagione F/W 2018, invece, Gosha Rubchinskiy (aedo di quel “post soviet style”, alquanto rude e spiccio, che impazzava fino a non molto tempo fa) ha congiunto nello stesso filato la quadrettatura canonica e il Nova Check, leggermente più grande e chiaro rispetto all’originale, strizzando così l’occhio alla fregola cumulativa dei citati chavs, che spargevano ovunque potessero il pattern di Burberry.
Tisci, da ultimo, ha pensato a modelli reversibili, limitando a un solo lato (dove concentra il monogramma con le T e B intrecciate del fondatore Thomas Burberry, introdotto al suo arrivo nel 2018, oppure inserti recanti le coordinate geografiche della sede principale del brand, a Westminster) la verve esornativa.
L’opzione privilegiata, va da sé, rimane la sciarpa a scacchi tradizionale: a dispetto degli anni che passano, non ha perso un grammo dell’appeal very british degli inizi, il che, nonostante la Brexit, non guasta mai.



Teodoro Giambanco, la poliedricità come cifra attoriale (e artistica)

Da ex bambino fissato con l’osservazione degli altri, per Teodoro Giambanco quello per la recitazione è stato «un amore a prima vista», sbocco naturale della precoce inclinazione ad assimilare gesti, comportamenti e storie altrui, facendone la base su cui costruire interpretazioni fuori dagli schemi (vedi quelle di Riccardo va all’inferno o Cobra non è) sviluppate meticolosamente, curando ogni aspetto.
Impegnato attualmente sul set di Màkari, il 30enne attore romano metterà presto alla prova il suo talento multiforme col canto (tra i suoi progetti una serie di live con la band Superfluuuo), sogna – non a caso – un musical e si dichiara pronto ad accogliere tutto ciò che questo mondo, lavorativamente parlando, potrà offrirgli, segni del tempo inclusi, perché rappresentano «un’opportunità per sperimentare con personaggi inediti».



Hai girato da poco una serie, in uscita il prossimo anno, cosa puoi anticiparci?

Si intitola Più forti del destino, uscirà su Canale 5 nei primi mesi del 2022; è un adattamento della miniserie francese Le Bazar de la Charité, ambientata anziché a Parigi a Palermo, nel 1886, dove un incendio scoppiato durante l’Esposizione Nazionale provoca decine di vittime, in gran parte donne. La trama si concentra proprio sulle figure femminili, affrontando anche il tema delle difficoltà sociali con cui devono fare i conti le protagoniste, un argomento purtroppo ancora drammaticamente attuale.
Il mio personaggio sarà presente in tutte le puntate, è stato stimolante poter lavorare su un ruolo inquadrato in un arco narrativo lungo e ben definito.

Hai esordito in SMS – Sotto mentite spoglie 14 anni fa, a seguire numerosi altri ruoli tra cinema, tv, teatro, videoclip. Come riassumeresti il percorso compiuto finora, sotto il profilo sia professionale che umano?

Come un continuo arricchimento, in entrambi i sensi. Ogni esperienza, positiva o negativa, ha rappresentato un’occasione di crescita, è come nella vita, si impara di più dai momenti difficili. Questo percorso è stato una grande scuola, credo che l’esperienza sul campo sia la più efficace, senza nulla togliere alla costante ricerca e all’approfondimento, cruciali nel nostro mestiere, né alla cura del corpo, lo strumento principale per un attore, da allenare continuamente, anche e soprattutto a livello mentale ed emotivo.

Hai trascorso un periodo a Los Angeles per studiare recitazione, quali sono secondo te le principali differenze tra la scena attoriale americana e quella italiana? Pensi ci siano elementi che il mondo dello spettacolo nostrano dovrebbe “rubare” alla controparte Usa?

Frequentando vari corsi e laboratori a Los Angeles ho avuto modo di lavorare perlopiù con giovani attori, una cosa che ho notato è il livello di preparazione, mediamente davvero alto, probabilmente perché negli Stati Uniti produzioni e investimenti sono ingenti, la visibilità è maggiore e così le possibilità.
L’invito che mi sento di fare al nostro settore è rivolgersi a un pubblico più ampio, allargare i confini attraverso storie nuove, personaggi eterogenei e inclusivi; sono dinamiche a dire il vero già in atto, diversi film o serie italiane stanno avendo un ottimo riscontro all’estero.


Total look: Alexander McQueen

Denoti una certa attitudine al trasformismo, alcuni personaggi da te interpretati risultavano d’impatto anche sul piano visivo, con chiome ossigenate e costumi a dir poco elaborati (penso a Riccardo va all’inferno, Alice e il Paese che si meraviglia, Cobra non è), prediligi le parti che richiedono cambiamenti radicali?

Più che prediligerle penso di attrarle, alla fine non è questione di scegliere quanto di esser scelti, sicuramente sono nelle mie corde. La trasformazione, radicale o meno, è in fondo l’essenza della recitazione, i personaggi da interpretare sono in genere lontani dalla propria personalità. Adoro il trasformismo “estremo” perché trovo mi dia grande libertà di espressione, così facendo riesco cioè a muovermi in uno schema ampio, giocando e variando di più.

Quali sono i ruoli che ti hanno segnato, che ti porti dentro?

Sono particolarmente legato a quelli di Riccardo va all’inferno, Alice e il Paese che si meraviglia e Cobra non è, perché mi hanno permesso di esprimermi a 360 gradi.

Hai dichiarato che per te è fondamentale l’osservazione degli altri, cerchi di coglierne determinati dettagli per utilizzarli poi in scena. Come ti approcci in genere al tuo alter ego sul set?

L’approccio parte sempre da un’analisi iniziale dei vari elementi, comincio così a formarmi delle idee, delle intuizioni sul personaggio, da sviluppare in seguito attraverso una ricerca sia emotiva che espressiva, che mi porti a elaborare tutta una serie di emozioni, stati d’animo, relazioni che potrebbero instaurarsi.
Sono piuttosto preciso, penso che la metodicità, lo studio approfondito su più livelli mi consentano di esprimermi al meglio, paradossalmente persino di improvvisare.

Avendo interpretato ruoli esteticamente impattanti, appunto, penso tu abbia dimestichezza con make-up e outfit, quanto conta secondo te il look del personaggio?

È fondamentale, è proprio durante le prove con trucco, parrucco e costumi che lo vedi prendere vita per la prima volta. Tengo molto al look del personaggio, mi rasserena che abbia un’esteriorità che mi piace e sia in linea con quanto immaginavo.



A livello personale, che rapporto hai con la moda, ti incuriosiscono o piacciono dei brand in particolare?

Sono attratto dalle mode di ogni epoca, le ritengo una forma di espressione personale, un mezzo di comunicazione a misura del singolo individuo. Non saprei indicare marchi specifici, non riuscirei nemmeno a categorizzare il mio stile, riflette il mio essere poliedrico, costantemente mutevole.
Inoltre avendo avuto a che fare da subito con costumerie e sartorie, per via del lavoro di mio padre, apprezzo particolarmente questo lato se vogliamo artigianale, di pura creazione del cinema che, in quanto settima arte, le comprende tutte.

C’è un ruolo o genere con cui vorresti metterti alla prova?

Direi un personaggio realmente esistito, così da avere riscontri tangibili, immediati. Per ciò che riguarda il genere, invece, un musical, lo adoro in quanto unione di tre discipline (recitazione, canto e danza) che mi affascinano enormemente.

Scorrendo il tuo profilo Instagram, mi ha colpito la ricercatezza delle immagini, sei un appassionato di fotografia?

Con un papà scenografo e una mamma libraia, sono cresciuto tra centinaia di libri fotografici e mi è rimasto un senso della forma, della composizione, in generale estetico molto forte, quasi una “condanna”, nel senso che ogni volta studio con estrema attenzione ogni scatto o immagine da pubblicare.



Hai progetti work in progress di cui puoi svelarci qualcosa? Come ti immagini tra dieci anni?

Sono sul set della seconda stagione della serie Màkari, in questo momento mi trovo in Sicilia, nella Valle dei Templi, posto meraviglioso.
Un progetto musicale cui tengo molto, che dovrebbe partire a breve, è Superfluuuo: mi ha coinvolto un mio caro amico, Edoardo Castroni, e stiamo organizzando dei live per i prossimi mesi. Sarà una prima volta, più che cantare interpreterò dei brani, vivendo insomma un nuovo ruolo; credo che il canto sia affine alla recitazione, ti viene fornito l’equivalente di un copione e sta a te farlo vivere.
Tra dieci anni mi vedo, per l’appunto, con dieci anni in più sulla spalle, il mestiere dell’attore cresce con te e sono curioso di vedere cosa accadrà. Non temo di invecchiare, anzi, lo considero un’occasione, le rughe rappresentano un’opportunità per sperimentare con personaggi inediti, a cui prestare un bagaglio di esperienza più ricco e sfaccettato; tanti attori, con l’età, hanno raggiunto un successo ancora maggiore, spero di fare altrettanto.

In apertura, total look: Alexander McQueen

Photographer: Maddalena Petrosino

Art Director: Davide Musto

Ph. Assistant: Valentina Ciampaglia

Grooming: Marta Ricci x @simonebellimakeup 

Location: Teatro Brancaccio

Perché Virgil Abloh è stato una figura fondamentale della moda

Con la scomparsa, a soli 41 anni, di Virgil Abloh, fondatore di Off-White nonché direttore artistico del menswear di Louis Vuitton, il fashion system perde una figura assolutamente centrale, di cui è impossibile sopravvalutare l’operato.
In nemmeno un decennio di carriera, infatti, questo creativo di origini ghanesi nato a Rockford, nel Midwest americano, ha innescato – quando non plasmato – dinamiche diventate una consuetudine per la moda tutta, dall’attesa smodata dell’ennesima capsule collection in edizione – ovviamente – limitatissima al culto per prodotti (sneakers in primis, ma anche felpe, t-shirt, cappelli e altri capi/accessori mutuati dallo sportswear) un tempo marginali e innalzati, ora, allo status di sacro graal dei fashionisti 2.0, dal fenomeno del resell (per cui gli oggetti del desiderio di cui sopra vengono rivenduti sulle piattaforme dedicate) alla contaminazione tra forme di creatività e input provenienti da ambiti quali musica, entertainment, arredamento, showbiz… Soprattutto, è stato il demiurgo dell’ibridazione, ormai pienamente compiuta, dell’abbigliamento urban con la moda racé, spinta ad un livello tale per cui è spesso difficile capire dove cominci l’uno e finisca l’altra; se, insomma, l’espressione luxury streetwear oggi risulta persino banale, e certo non suona più come un ossimoro spericolato, il merito va attribuito in gran parte proprio ad Abloh.



Architetto di formazione, con tanto di master conseguito all’Illinois Institute of Technology, e outsider per vocazione, come ribadirà lui stesso più volte, per la sua carriera è determinante l’incontro con Kanye West nel 2003: per il rapper (e produttore, imprenditore, ex marito di Kim Kardashian e, come dimostra il caso in questione, formidabile talent scout) sarà una sorta di factotum, occupandosi di art direction degli album (cura ad esempio la cover di Graduation, insieme alla superstar dell’arte pop Takashi Murakami, mentre Watch the Throne gli vale una nomination ai Grammy del 2011, nella categoria “Best Recording Package”) come pure del merchandising e dell’immagine dei tour di Ye, fino ad essere nominato alla guida di Donda, l’agenzia creativa di West.
Dopo la parentesi di Pyrex Vision, nel 2012, il salto di qualità avviene l’anno successivo con Off-White, label che lo proietterà nell’olimpo dell’industria fashion, dove si premura di abbattere steccati e distinzioni effettivamente fruste a colpi di pezzi easy e appariscenti, marchiati con segni grafici trasformatisi, in men che non si dica, in sinonimi della visione esuberante, costantemente mutevole di Abloh: virgolette tautologiche, che esplicitano natura o funzione d’uso del capo, frecce divergenti, strisce diagonali (attinte dalla segnaletica stradale), tag dai colori sparati a mo’ di cartellino antitaccheggio.


Backstage at Off-White Men’s Fall 2019

Ridurre a pochi, precisi tratti l’estetica di Abloh è però alquanto complicato, considerato che, da buon dj (altra attività cui presta occasionalmente il suo talento multitasking), campiona di continuo spunti disparati, passando dal rileggere da par suo dieci scarpe paradigmatiche di Nike (nella limited edition The Ten, nel 2017) ai capolavori di Leonardo o Caravaggio replicati sulle magliette, dai cut-out di fontaniana memoria alle linee sempre un po’ sbilenche degli abiti. Per descrivere il suo modus operandi, un iperattivismo che va ben oltre la moda in senso stretto, si potrebbe forse scomodare la Gesamtkunstwerk, il concetto di opera d’arte totale teorizzato da Richard Wagner, sostituendolo con quello di un design totale e totalizzante, da mettere al servizio del ready-to-wear come dei complementi d’arredo in tandem con Ikea, al solito in bilico tra boutade e pura funzionalità, delle automobili (ossia la versione “scarnificata”, di un bianco abbacinante, della Mercedes-Benz classe G, la «scultura di una macchina da corsa» nelle parole dell’autore), delle sveglie Braun ideate dal guru della progettazione industriale Dieter Rams (tinte di arancione o in una pallida tonalità di azzurro), del packaging delle bottigliette d’acqua Evian, e via così.
Il numero di collaborazioni accumulatesi negli anni è sterminato: nell’elenco, per forza di cose parziale, figurano marchi quali Moncler, Rimowa, Jimmy Choo, Chrome Hearts, Timberland, Vitra, Gore-Tex, Moët & Chandon, McDonald’s, e si potrebbe andare avanti.



I riscontri fenomenali delle collezioni di Off-White, idolatrate specialmente da Millennials e giovanissimi della Gen Z, preludono alla definitiva consacrazione di Abloh tra i big del fashion, che arriva nel 2018, annus mirabilis in cui finisce nella classifica delle 100 persone più influenti al mondo del Time e approda alla direzione della divisione maschile di Vuitton, primo afroamericano a capo dell’ufficio stile di una storica maison di lusso. Per l’uomo della griffe sforna a raffica tormentoni dal côté immaginifico, spargendo a piene mani, su pelletteria e abbigliamento, il celebre monogramma, piegato ai suoi capricci e umori del momento, reso ora olografico ora fluo, smaterializzato in nuvolette à la Magritte oppure inserito in “colature” di canvas nelle borse Louis Vuitton X NIGO
Piaccia o meno, la frammentarietà della moda odierna, un magma dai mille rivoli che si riversano anche (e soprattutto) nella dimensione digitale prediletta dalle nuove generazioni, negli ultimi anni ha trovato il suo massimo interprete in uno stilista “per caso”, la cui storia è destinata – a ragione – ad essere raccontata nei libri del settore.



Per l’immagine in apertura, credits: ph. by Peter White/Getty Images

Occhiali da sole, le novità dalle collezioni di griffe e produttori specializzati

Da inforcare «per avere più carisma e sintomatico mistero», come cantava Battiato in Bandiera bianca, o più prosaicamente schermare gli occhi da raggi UV, polvere e impurità, gli occhiali da sole sono tra i pochi accessori che è appropriato definire indispensabili; considerata l’ovvia importanza di proteggere la vista dalle suddette radiazioni solari, è fondamentale non lesinare sulla qualità delle lenti, e scegliendo i modelli siglati da fashion house o produttori specializzati si può unire l’utile al dilettevole, divertendosi – perché no? – a variare i sunglasses come si fa con altri capi basilari del vestiario.

Per una panoramica delle ultime novità in materia, così da adocchiare i modelli già disponibili o in arrivo negli store a breve, basta sbirciare le collezioni Spring/Summer 2022 delle principali griffe, un nutrito assortimento di stili e combinazioni cromatiche che riuscirà a soddisfare i gusti più diversi. Raggrupparli per macrocategorie aiuta ad avere un quadro d’insieme: la prima è individuabile nel filone battuto, in tempi recenti, da un numero crescente di marchi che, preso atto dell’entusiasmo per i trend “di ritorno” da un passato variamente lontano (dagli anni Settanta a quelli Zero o “Y2K”, come da gergo tiktokiano), riesumano le parole d’ordine dell’occhialeria che fu, ovvero dimensioni abbondanti se non esagerate, linee marcate, una boldness generale perfetta per chi non abbia alcuna voglia di passare inosservato: ecco dunque, chez Balenciaga, i dettagli vistosi degli occhiali Xpander in bioplastica iniettata, con lenti attaccate sulla montatura e logo stampigliato, in rilievo, sull’asta sinistra, oppure la silhouette spropositata dei Mask, una lente ricurva che fascia occhi e sopracciglia, celandoli completamente; il carattere strong dei sunglasses Alexander McQueen, sintesi della dicotomia tra romanticismo e spirito punk radicata nel Dna della maison, tra mascherine puntinate di borchie (che svelano nella sottostruttura un teschio 3D), scritte tipo graffiti, lettering o colorazioni contrastanti a rifinire ampi modelli squadrati, dai profili netti; l’occhiale Cassio di Tom Ford Eyewear, una mascherina unisex dal flair anni Settanta, che gioca con curve e spessori; le reminiscenze dei rave party dei Nineties da Dunhill, con lenti gialle inserite in frames rettangolari dai bordi smussati, le cui finiture riprendono la zigrinatura degli accendini del marchio.


Da sinistra: Balenciaga, Alexander McQueen, Tom Ford Eyewear, Dunhill


Ritroviamo forme decise e appeal vintage, con il plus non indifferente della sostenibilità, in numerose montature firmate Police X Lewis Hamilton, frutto della partnership tra il brand del gruppo De Rigo Vision e il sette volte campione del mondo di F1, come i Lewis 31 dai volumi “importanti” in bioacetato effetto marmorizzato, arricchiti da decorazioni premium, oppure i Lewis 44, realizzati con materiali riciclati o di origine naturale (fibre d’erba, riso, grano).


Police X Lewis Hamilton: Lewis 31, Lewis 44


Le silhouette avvolgenti, dalle proporzioni tendenzialmente generose, sono una costante anche negli occhiali sportivi, ormai ampiamente adoperati nei contesti più disparati, compresi quelli à la page: in prima fila i nomi di punta dello sportswear, da Adidas Originals (per la S/S 2022 il colosso tedesco presenta il modello più sostenibile della gamma, in poliammide iniettato di plastica quasi interamente riciclata, con lenti in policarbonato composto da materiale di scarto e aste dal rivestimento granuloso) a Puma, che propone modelli quali gli Evostripe, dalle linee scattanti, esaltate da clash di texture e note di colore acceso, oppure mascherine monolente, in cui trattamenti e tonalità sgargianti evocano il dinamismo cromatico dei capi della label.
Da Prada Linea Rossa Eyewear, al solito, il lato fashion e quello sporty si bilanciano, per cui montatura in fibra di nylon, lenti idrofobiche e gommature fanno il paio con forme pulite e misurate, in maniera simile Moncler Lunettes armonizza la tecnicità di un accessorio pensato per gli alpinisti, ergo munito di spoiler in pelle rimovibili, con un je ne sais quoi che piacerà agli amanti degli occhialoni vintage.


Da sinistra: Adidas Originals, Puma, Prada Linea Rossa, Moncler Lunettes


L’intramontabile forma pilot, poi, si conferma tra le più gettonate nell’occhialeria maschile: Barton Perreira, Lozza, Cartier e Bottega Veneta si attengono alla tradizione, cioè lenti arrotondate, ponte in metallo e stanghette sottili, il twist lo danno i particolari, rispettivamente i contorni tartarugati, la costruzione ultra leggera che sfina ulteriormente i profili dello Zilo (modello signature del più antico marchio di eyewear italiano), le minuterie ispirate alle viti fissate alla lunetta dell’orologio Santos, le lineette grintose sulle aste dell’aviator total gold.


Da sinistra: Barton Perreira, Lozza, Cartier, Bottega Veneta



Sempre in tema di revivalismo, va segnalata infine la ritrovata fortuna delle montature a cerchio – o comunque tonde – dalle misure contenute, che d’altra parte contano una schiera di ammiratori illustri (qualche nome? John Lennon ovviamente, ma pure, per restare all’oggi, Robert Downey Jr., Kit Harington, Pharrell Williams, Bradley Cooper, Mahershala Ali…), come testimoniano gli occhiali senza fronzoli di Saint Laurent (la versione in acetato giallo fluo, però, si concede una punta di leziosità), la classica struttura pantos degli Zilo Bold 3 di Lozza, la proposta lineare di Polo Ralph Lauren, disponibile in nuance quali blu navy o rosso, per un tocco brioso di colore.


Da sinistra: Saint Laurent, Lozza, Polo Ralph Lauren


Per l’immagine in apertura, credits: ph. by Gareth Cattermole/Getty Images

Models to follow: Aurelio Baiocco

22 anni, romano, occhi bruni, lineamenti taglienti, capello fluente che ricorda un po’ i beauty look di star del passato come Robert Redford o Alain Delon, entrate di diritto nell’empireo della mascolinità più charmant e carismatica, Aurelio Baiocco fa il modello da circa tre anni.
In un lasso di tempo relativamente breve, considerato anche lo stop della pandemia, ha dato prova di un certo camaleontismo, risultando convincente nei panni (attillati) del freak edonista tutto make-up, pelle e ammiccamenti al bdsm (in un editoriale pubblicato su GQ Brazil nel dicembre 2020) come nei capi tailored di Tod’s, indossati nella presentazione della collezione Fall/Winter 2020 del brand, imbevuta di rimandi al dress code dei Seventies; mood che gli calzava a pennello, poiché i suoi outfit hanno un debito evidente nei confronti dei codici del decennio: lo si evince dalle foto a firma di Riccardo Albanese che corredano l’articolo, dove sfoggia soprabito in nappa, vecchi Levi’s scovati in un marché aux puces, stivaletti, polo a manica lunga, cintura adorna di occhielli e applicazioni, a puntellare mise dall’aria vissuta, segnatamente retrò.
L’intervista che segue è utile per capire come un insider abituato a fitting, prove in showroom & Co. intenda – e declini a modo suo – concetti quali fashion o stile, mai così diffusi e però sovente abusati, ridotti a poco più che etichette da utilizzare ad libitum. Lui, tra l’altro, predilige capi vintage o second hand, ne fa una questione di sicurezza, di sentirsi a proprio agio, perché «la moda non riguarda esclusivamente l’estetica, ha a che vedere piuttosto con consapevolezza e comodità».

In tutto il servizio, abiti e accessori model’s own



Come ti sei approcciato a questo lavoro, e da quanto tempo lo fai?

Faccio il modello da tre anni, nel 2020 però sono stato fermo per mesi a causa del Covid, non abitandoci era praticamente impossibile raggiungere Milano, perciò considero quello in corso il mio secondo anno nel settore.
L’inizio in realtà è stato casuale, una ragazza di Roma con cui mi frequentavo lavorava come modella e mi ha spinto a provare, così ho fatto dei casting per delle agenzie romane per poi passare a quelle milanesi, trasferirmi in città e cominciare a tutti gli effetti.

Modeling a parte, cosa ti appassiona, quali sono i tuoi interessi?

Adoro il cinema, la mia passione più grande, spero davvero di potermi prima o poi inserire in quel mondo; le altre sono legate allo sport, che ho praticato per anni, seguo il calcio (o meglio, la Roma) e la Formula 1. Inoltre studio storia dell’arte all’università.

Qual è stata, finora, l’esperienza lavorativa che reputi più importante?

La presentazione, nel gennaio 2020, della collezione Tod’s T Club, sia per l’evento in sé, sia per la rilevanza del marchio; senza contare che era la mia prima partecipazione a una fashion week e da novellino, diciamo, mi sono trovato a fianco di colleghi ben più conosciuti ed esperti.

Sogni di collaborare con qualche brand o stilista in particolare?

Tom Ford, Prada e Bottega Veneta, a livello di moda maschile sono quelli che mi attraggono maggiormente, per quanto difficili da raggiungere. È anche una questione di gusti e inclinazioni personali, trovo ad esempio che il menswear di Ford sia iconico e al tempo stesso contemporaneo.



Moda e stile: cosa ti fanno venire in mente queste espressioni che, nonostante il loro (ab)uso, sono assai meno scontate di quanto non appaiano?

Penso vadano di pari passo, la moda secondo me è un mezzo con cui una persona, attraverso ciò che indossa, può sentirsi a suo agio; non credo che seguire alla lettera le tendenze equivalga ad avere stile, si tratta più che altro di riuscire – o provare a – essere sicuri di sé e dell’outfit, senza ostentarlo.
Ricorro spesso al vintage o all’usato, non sempre i capi più nuovi sono quelli che ti fanno apparire al meglio, la moda non riguarda esclusivamente l’estetica, ha a che vedere piuttosto con consapevolezza e comodità.

A giudicare dallo shooting, sembri attingere a piene mani dagli anni ‘70, preferisci i look retrò? Ci sono capi o accessori che credi esprimano appieno il tuo stile e altri, al contrario, che non indosseresti mai?

Gli abiti dello shooting, guarda caso, erano tutti vintage o second hand, a partire dal cappotto, trovato in casa, che apparteneva a mio padre, i Levi’s li ho presi invece in un mercatino di Roma; sono pezzi cui sono legato, non in senso materiale ma emotivo se vuoi.
Per quanto riguarda il capo specifico sceglierei i Levi’s 504 delle foto, a vita leggermente bassa e svasati al punto giusto, comodissimi, del resto se c’è una cosa che proprio non riesco a vedermi addosso sono i jeans stretti e in generale gli skinny pants.

Per quale look opteresti in tre contesti diversi come, per esempio, un evento formale, un’uscita pomeridiana, una serata di relax con gli amici?

Se parliamo della stagione attuale, solitamente vesto con pantaloni ampi, boots o mocassini, un giubbotto da aviatore sul dolcevita.
Per un’ipotetica serata di gala credo non ci sia nulla di meglio di un completo Tom Ford nero, pensando a un’uscita rilassata, invece, direi sneakers (ultimamente uso spesso un paio di classiche Nike, con swoosh bianco su base nera), pants comodi e un pullover girocollo in tonalità scure o neutre.


Tra i tuoi colleghi ce n’è qualcuno che può in qualche modo ispirarti?

Siamo ovviamente tutti diversi, i parallelismi si possono fare ma fino a un certo punto, detto ciò mi piace Parker van Noord, sta portando avanti un tipo di percorso cui ambisco anch’io.
Parlando di modelli di riferimento, allargherei poi lo sguardo agli attori, citando innanzitutto Marcello Mastroianni (attore immenso e icona di stile insuperata) e Brad Pitt, lo ammiro, oltre che sul piano attoriale, per i modi e l’eleganza che trasmette; mi colpì soprattutto nella cover story di GQ Italia di qualche tempo fa, tra l’altro ero presente in un servizio interno di quel numero.

Ci sono progetti in arrivo che vuoi anticiparci? Dal punto di vista lavorativo, cosa speri ti riservi il futuro?

Ho capito che in questa professione non c’è mai nulla di certo, magari puoi ottenere un lavoro e poi perderlo perché l’outfit non ti sta bene.
Il mio obiettivo principale, come modello, è viaggiare, visitare posti nuovi, incontrare persone, fare più esperienze possibili. Il sogno, invece, resta quello di lavorare nel cinema, non so nemmeno come, ci penserò nel caso a tempo debito.

Photographer: Riccardo Albanese

Model: Aurelio Baiocco @URBN Models

5 storici brand di maglieria da (ri)scoprire

Si scrive autunno, si legge maglieria: con le temperature che si abbassano sempre di più, bisogna attrezzarsi con i pullover, da preferire in filati caldi e cozy, lana über alles. Le opzioni sono praticamente infinite, tra nuance evergreen quali blu navy, nero e grigio oppure eye-catching, texture a prova di gelo o finissime, quasi impalpabili. È bene ad ogni modo andare sul sicuro, rivolgendosi a quei marchi dall’heritage pluridecennale che è garanzia di qualità e un certo blasone, come i cinque a seguire.

Missoni

Dici knitwear e subito il pensiero corre a una delle dinastie più rappresentative della moda italica, i Missoni: per la maison fondata quasi settant’anni or sono da Ottavio e Rosita, partner sul lavoro e nella vita, è sempre stata il cuore di un’impresa dalla forte connotazione familiare, il viatico per un successo capace di attraversare i decenni e relativi cambiamenti di usi e consuetudini vestimentarie. Grazie ai maglioni straripanti di cromatismo ed estrosità, infatti, negli anni ‘70 esplode la Missoni-mania, al di qua e al di là dell’oceano: impossibile ignorare i pattern fiammati, variopinti, ipnotici che zigzagano sui capi usciti dal laboratorio di Sumirago della coppia di stilisti-imprenditori, un sincretismo gioioso di sfumature, punti e motivi battezzato dagli americani “put-together”.
Incoronata nel 1971 «migliore al mondo» nientemeno che dal New York Times, la maglieria vale al brand il Neiman Marcus Award del ‘73, per avere «osato nuove dimensioni e rapporti di colore». Peculiarità che contraddistinguono tutt’oggi le collezioni della griffe; non fa eccezione quella per l’Autunno/Inverno 2021, in cui il fervore espressivo missoniano irrompe su golf, pull a collo alto e cardigan dai revers sciallati attraverso la consueta ridda di linee, arzigogoli e trame grafiche, tra screziature, chevron ingigantiti, righe dall’effetto optical e cromie digradanti dallo scuro al chiaro, o viceversa.


Credits foto 1: ph. by Oliviero Toscani


Ballantyne

Assurto a grande notorietà negli anni ‘50 grazie al “Diamond Intarsia”, tecnica che permetteva di tracciare sulle maglie i tipici rombi allungati che hanno fatto la fortuna del marchio scozzese, Ballantyne celebra quest’anno il traguardo dei cento anni.
Tra gli ammiratori della trama a diamante dei suoi pullover si contano teste coronate, star di Hollywood e jet-setter di fama mondiale (da Alain Delon a Jacqueline Kennedy, passando per James Dean e Steve McQueen), perfino Hermès e Chanel, colpite dalla capacità della label di trattare a regola d’arte le fibre più nobili, le affidano la propria maglieria; nel 1967 è invece Her Majesty ad onorare il knitwear d’autore di Ballantyne col Queen Award.
Al timone dell’azienda vi è ora l’ex direttore artistico Fabio Gatto, che per riportarla agli antichi splendori affianca ai maglioni intarsiati con l’inconfondibile argyle proposte in pesi e finezze assortite, in grado di accontentare gli amanti dei sottogiacca dalle consistenze ultralight come i patiti dei pullover avvolgenti, oltre alle capsule collection della linea Lab, nelle quali il virtuosismo produttivo della casa incontra la visione fresca dei giovani designer selezionati volta per volta.



Drumohr

Con le radici ben salde in Scozia, terra d’origine di questa griffe centenaria (in attività dal 1770), Drumohr parla italiano dal 2006, da quando cioè è stata acquisita dal gruppo Ciocca.
L’azienda del Bresciano ha trasferito la produzione dal Regno Unito all’Italia, prestando però la massima attenzione a mantenere intattto quel saper fare artigiano che, per tutto il Novecento, aveva conquistato attori, aristocratici e modelli assoluti di chicness, dal Re di Norvegia al principe Carlo, da James Stewart a Gianni Agnelli; è quest’ultimo, nume tutelare dell’eleganza maschile eternamente imitato (con scarsi risultati, va da sé), a rendere un must il “razor blade” Drumohr rinominato “biscottino”, motivo che consiste di piccoli rettangoli profusi ritmicamente su lana o cashmere.
Conciliando know-how artigianale e ricerca continua, le collezioni includono oggi giochi di color block, intarsi micro o macro, lavorazioni in rilievo e puntuali rielaborazioni del pattern caro all’Avvocato, che non disdegnano scelte cromatiche piuttosto audaci, accostando per esempio il blu al pistacchio, l’arancione al bordeaux, il turchese al vinaccia.



Malo

Una storia prossima al traguardo del mezzo secolo; una manifattura interamente italiana, concentrata negli stabilimenti di Campi Bisenzio e Borgonovo Val Tidone; un’idea di lusso understated, che lasci parlare la qualità di capi dai filati pregevoli, di squisita fattura. Sono questi gli assi portanti di Malo, brand nato come produttore di maglieria in cashmere nel 1972, quando il dominio scozzese sul settore sembrava inscalfibile, eppure riuscito ad affermarsi grazie alla ricca, vibrante palette dei pull, costruiti alla perfezione, bien sûr.
La parabola dell’azienda raggiunge l’acme a cavallo degli anni ‘90 e 2000, poi il declino interrotto, nel 2018, dal terzetto di imprenditori (Walter Maiocchi, Luigino Belloni, Bastian Mario Stangoni) che ne rileva la proprietà, restituendo una centralità assoluta all’artigianalità dell’offerta, imperniata sul cashmere proveniente dalla Mongolia, mescolato alle volte con materiali altrettanto preziosi, dall’alpaca alla seta, alla vicuña, soprannominata “vello degli dei”.
Le fibre deluxe sono, ovviamente, il fulcro della collezione A/I 2021 Boulevard, in cui nuance, architetture e suggestioni dei grandi boulevard metropolitani – appunto – vengono traslate su lane dalla morbidezza extra, in colori freddi (su tutti i diversi punti di grigio, vero passe-partout della proposta) oppure vivaci, intarsiate di minuti rilievi geometrici o a trecce leggermente distorte, a coste o compatte, per capi dai volumi misurati e clean, che la griffe definisce «timeless e urban-chic».



Pringle of Scotland

In tema di maglieria di alto profilo, grazie a tradizioni secolari ed eccelse varietà di lana, la Scozia non teme confronti, e questo vale a maggior ragione per un marchio che fa riferimento al genius loci del Paese fin dal nome, Pringle of Scotland.
Fondato nel 1815 da Robert Pringle negli Scottish Borders, gli vanno riconosciuti almeno due “brevetti” destinati a incidere in profondità sulle sorti dell’industria laniera: negli anni ‘20 del secolo scorso, idea infatti il pattern argyle, l’iconica – possiamo dirlo – fantasia a losanghe prontamente adottata da Edoardo VIII, il duca di Windsor, elegantone impenitente e sommo arbitro del buon gusto maschile del tempo, subito imitato dagli aspiranti epigoni dell’high society internazionale. Altro fiore all’occhiello dell’etichetta è il twin-set, la combo di maglioncino girocollo e cardigan ton sur ton divenuta un cardine dello stile bon chic bon genre. Un autentico orgoglio nazionale insomma, e non stupisce che la regina Elisabetta, insigne cliente del maglificio, lo abbia premiato nel 1956 col Royal Warrant, onorificenza che certifica lo status di fornitore ufficiale di casa Windsor.
Realizzati tuttora nella fabbrica di Hawick, i capi Pringle of Scotland si possono acquistare comodamente da casa sull’e-shop ufficiale, scegliendo tra una discreta gamma di modelli dal fit rilassato, dai sempiterni maglioni a rombi ai golf dall’appeal vintage, con il leone (simbolo ripescato dagli archivi) intessuto sul petto.



Per l’immagine in apertura, credits: Tassili Calatroni for Crash

Guida al peacoat, il capospalla dal fascino navy perfetto per l’inverno

Inglesi e americani lo chiamano peacoat (o pea coat), i francesi caban, la sostanza non cambia: a distanza di secoli dalla sua comparsa, il giaccone doppiopetto corto in vita mantiene intatta la propria compostezza e il flair marinaresco che nella moda, specialmente maschile, non guasta mai.
Come altri capi outerwear codificati da tempo nei canoni dello stile pour homme, infatti, il capospalla in questione deriva dal mondo militare, nello specifico da quello della marina di parecchi decenni or sono, sebbene le ipotesi sulle origini siano discordanti: la più accreditata vuole che a utilizzarlo per primi siano stati i marinai olandesi che, intorno alla fine del ‘700, indossavano pesanti paletot denominati pijjakker (crasi tra pij, ossia il ruvido tessuto di cui era composto, e jakker, “giacca”), altre ne attribuiscono l’introduzione alla Royal Navy britannica del XIX secolo, seguita presto dall’omologo corpo statunitense, mentre l’azienda di abbigliamento Camplin (fornitrice, dal 1857, proprio della marina di Sua Maestà) ne rivendica con orgoglio l’invenzione come parte delle uniformi dei sottufficiali, il cosiddetto petty coat, abbreviato in p coat (da cui il nome attuale). Di sicuro, nel 1869 Tailor & Cutter, giornale di sartoria diffuso tra i gentleman dell’epoca, pubblica il figurino di una giacca assimilabile al caban odierno, indicata come “pea-jacket”.



Ad ogni modo, la storia dell’indumento afferisce a una tradizione evocativa di atmosfere d’antan, viaggi in mare aperto e un confronto costante con la potenza degli elementi primordiali, cui si devono le sue peculiarità, concepite per agevolare in tutto e per tutto la vita di bordo. La forma, svelta e dritta, sfinata ma senza eccessi, con lunghezza a metà coscia, ampi revers (che, nel caso, si possono serrare fissandoli al sottogola) e chiusura incrociata a sei bottoni, distribuiti su due file parallele (in ottone dorato o corno, solitamente incisi con il simbolo marittimo per definizione, l’ancora, e piuttosto grossi, così da maneggiarli senza difficoltà anche con le dita bagnate o intirizzite) facilita i movimenti; la corposità della stoffa, i baveri e le tasche a filetto verticali, in cui affondare le mani, proteggono invece da schizzi d’acqua, vento e clima rigido.
Tutti attributi che, mutatis mutandis, possono far presa anche sui civili e su chi, pur non avendo mai messo piede sul ponte di una nave, cerca semplicemente un giubbotto essenziale, caldo e robusto. Non sorprende affatto, perciò, che alla fine del secondo conflitto mondiale, con le società subissate dalle eccedenze di abbigliamento militare e i soldati che fanno ritorno nei rispettivi paesi, il peacoat finisca per attrarre cittadini di ogni sorta, dai beat – e aspiranti tali – agli animatori dell’ondata hippie e pacifista degli anni ‘60, dalle rockstar ai membri più in vista dell’intellighenzia europea (di nomi se ne potrebbero fare a bizzeffe: Albert Camus, Jean Cocteau, Alberto Moravia, Lou Reed, Bob Dylan, Serge Gainsbourg, i Rolling Stones…).



Svuotato di qualsiasi connotazione militaresca (d’altronde meno evidente rispetto a capi quali trench o bomber), ad imprimere al caban il suggello della coolness arriva poi il cinema, con alcuni personaggi indimenticabili: come non citare Joseph Turner/Robert Redford ne I tre giorni del Condor, Henry Adams/Gregory Peck de Il forestiero o, per restare a pellicole più recenti, il trafficante interpretato da Johnny Depp in Blow, oppure Daniel Craig – alias James Bond – in Skyfall?


Prada, Neil Barrett, Stefan Cooke


Stilisti e maison non impiegano molto ad appropriarsi del capo, per riproporlo in fogge più o meno aderenti all’originale, sfruttandone l’indubbia versatilità; in effetti si sposa alla perfezione con look casual a base di dolcevita, pullover e jeans, ma non stona neppure se abbinato a camicie o pantaloni dal piglio formale, oppure sovrapposto a giubbini di minor spessore, come quello denim.
Le sfilate Fall/Winter 2021 ci consegnano uno stuolo di nuovi varianti del peacoat: in casa Saint Laurent, tanto per cominciare, c’è l’imbarazzo della scelta, tra modelli rigorosi nel total black di prammatica per la griffe, in tessuto irsuto effetto orsetto, ossequiosi del passato marinaro o profilati da passamanerie in corda bianca.
Dirompente la rielaborazione di Prada, un paletot paffuto dal taglio squadrato, che perde i revers a favore del colletto a camicia, lavorato in jacquard, e si dota di bottoni sovradimensionati con impresso il caratteristico triangolo del marchio.


Missoni, Dolce&Gabbana, Dior Men, Giorgio Armani


Neil Barrett, dal canto suo, scompagina la precisione sartoriale del doppiopetto cammello con un’ondulatura scura che sembra incorniciarne la sagoma, suggerendo uno stacco cromatico che trova conferma sulla schiena, mentre Stefan Cooke, wunderkind della moda d’oltremanica, prova a ingentilire l’aria marziale del capospalla attraverso piccole sfere di tessuto ton sur ton, impilate su spalle e collo.
Da Missoni l’audacia della fantasia animalier viene smorzata, in parte, dall’accostamento tra il nero delle strisce e il fondo blu, Dolce&Gabbana dà sfogo alla vis decorativa tipica del brand con patchwork di stoffe dai pattern più vari (tra cui spigati e pied-de-poule) e profili segnati da catene di perle.
I giacconi compìti, nei toni del borgogna o taupe, in passerella da Dior Men sono la logica conseguenza del mood alla ufficiale gentiluomo scelto per la collezione, stesso aplomb nello show di Giorgio Armani, che opta per modelli a motivi chevron o in panno color navy screziato di grigio.


Saint Laurent, Giorgio Armani, Sealup


Perfetto per affrontare il freddo senza ingolfarsi in stratificazioni disperate o piumini ipertrofici, il peacoat è un alleato di stile ideale, da acquistare ora per indossarlo nei mesi – e anni – a venire; un’eventuale rosa di dieci “candidati” potrebbe includere cinque nomi citati in precedenza (nello specifico Saint Laurent, Prada, Neil Barrett, Missoni, Giorgio Armani), a cui sommare proposte come quella di Sealup, vagamente dandy grazie alla luminosità del velluto a coste blu notte (acuita dai bottoni color oro), oppure il caban in lana di Hevò dal fit asciutto, in una calda nuance caramellata; da valutare anche il fascino un po’ ruvido, da gentiluomo di campagna, del cappotto mélange MP Massimo Piombo, quello revivalistico di Sandro (che recupera il tocco squisitamente Seventies del montone sul collo) e la versione filologica di Polo Ralph Lauren, in lana mista a nylon, dalla vestibilità comoda. Una buona varietà di modelli, tra cui scegliere quello che più risponde al proprio gusto, certi di puntare su un capo che, al netto di inclinazioni personali e vague passeggere, consente di navigare sicuri nei mari perigliosi della moda.


Hevò, MP Massimo Piombo, Sandro, Polo Ralph Lauren


Immagine d’apertura: ph. by Matthias Vriens

‘No diving’, sensualità ed eleganza sul rooftop dell’Aleph Rome Hotel

La piscina e il rooftop panoramico dell’Aleph Rome Hotel, che grazie alla posizione privilegiata nel cuore della città gode di una vista mozzafiato sull’urbs aeterna, fanno da cornice allo shooting realizzato per Manintown dalla fotografa Erica Fava, con lo styling di Sara Paolucci.
Prendendo spunto dall’opera di Helmut Newton, dalla sofisticatezza artefatta eppure dirompente dei suoi scatti in bianco e nero, intrisi di glamour e sex appeal, le immagini che vedete in questa pagina provano a rileggere in chiave moderna e minimalista l’estetica del leggendario autore tedesco, patinata e voluttuosa in egual misura.
Che indossi impeccabili tuxedo da grand soirée (portati però a pelle), maglie dal finish luminoso o un semplice accappatoio in spugna, il giovane protagonista delle foto trasuda uno charme magnetico, ed è attorniato da figure discinte, stese in costume sui lettini, immortalate in pose statuarie ai bordi della piscina o ritte di fronte a lui, issate su sandali con cinturino alla caviglia dal tacco imponente, le gambe fasciate in collant velati trattenuti dalle giarrettiere. Viene suggerita così un’atmosfera di sospensione, sottilmente sensuale, tanto languida quanto elegante, cui fanno da contraltare i tetti di Roma e la solennità di uno scenario monumentale che, a distanza di millenni, non smette di incantare lo spettatore.








Cover: LORENZO hat BORSALINO – Look ROI DU LAC

Photography: Erica Fava

Styling: Sara Paolucci @makingbeauty.management

Make-up: @samiamohsein @makingbeauty.management

Hair: @flavio.santillo @makingbeauty.management

Postproduction: Lisa Pepe

Models

Lorenzo: @redbrickhead @imgmodels

Roberta: @miss.rori @euphoriafashionagency

Artiom: @artiomceaglei_ @fashionartwise

Location: @alephrome

Photo assistants: @chiaradaphne_ / @laura_aurizzi 

Styling assistant: @eledamico

Lazzarelle, il progetto di Silvian Heach a sostegno delle detenute del carcere di Pozzuoli

Sulle persone detenute pesa uno stigma assai difficile da scalfire, che porta a diffidarne apertamente se non a isolarle anche quando intraprendano, o abbiano già compiuto, un percorso riabilitativo, perpetuando così un circolo vizioso che le mantiene ai margini della società; vale a maggior ragione per le donne, vittime di pregiudizi che, nel caso in cui scontino una pena in carcere, aumentano a dismisura, nonostante i dati sulla situazione del lavoro italiana mostrino come, dopo l’emergenza della pandemia, siano proprio loro le più sfavorite.



Bisogna perciò sottolineare l’impegno di quelle aziende che provano a contrastare l’inclinazione generalizzata a emarginare chiunque abbia commesso reati o errori, evidenziando l’importanza di concedergli una seconda possibilità. L’ultima iniziativa del marchio di ready-to-wear femminile Silvian Heach, da sempre attivo nella promozione di campagne per il sostegno e la difesa delle donne, va esattamente in questa direzione, siglando un progetto chiamato Lazzarelle non si nasce, si diventa, che coinvolge la fondatrice e Ceo del brand Mena Marano, la founder della Cooperativa Lazzarelle Imma Carpiniello e Maria Luisa Palma, direttore della casa circondariale femminile di Pozzuoli, accomunate dall’obiettivo di modificare la forma mentis dell’opinione pubblica nei confronti delle carcerate.



Marano ha scelto di unire le forze con la Cooperativa Lazzarelle, torrefazione di caffè attiva dal 2010 nel penitenziario, che impiega appunto le detenute, ciascuna con una propria storia fatta di contesti sociali difficili, che chiedono ora un’opportunità per potersi inserire appieno nel mondo del lavoro.
Per supportarle in questo percorso di reinserimento verrà messa in vendita, sull’e-shop silvianheach.com, una special box contenente sia i prodotti Lazzarelle (nello specifico due miscele di caffè, una tisana e una crema spalmabile), sia quelli firmati dalla griffe, ovvero una T-shirt, arricchita dal logo creato ad hoc del cuore stilizzato stretto in un abbraccio, e una borsa in tessuto sostenibile, decorata dalla stessa grafica. L’incontro di presentazione di questo progetto tutto al femminile, lanciato ufficialmente il 9 novembre, ha avuto come testimonial Sabrina Scampini, giornalista e volto noto della tv. Ad accompagnare il tutto, un reportage fotografico e un documentario che vedono protagoniste le donne recluse nella casa circondariale di Pozzuoli, consentendo loro di raccontarsi in prima persona e spiegare i valori alla base della partnership tra Lazzarelle e Silvian Heach.



Commentando l’iniziativa, Mena Marano si dice entusiasta di “sostenere queste donne che meritano di rinascere e avere una seconda possibilità. Con il duro lavoro alla torrefazione e al bistrot possono auspicare al cambiamento e ad un futuro migliore, rimettersi in gioco e non tornare nelle stesse situazioni che le hanno portate a delinquere. Da parte sua Imma Carpiniello, responsabile dell’impresa all’interno delle mura del carcere che, proprio quest’anno, celebra il traguardo del decennale, precisa: Le donne detenute sono doppiamente svantaggiate, e per questo abbiamo pensato di provare a rispondere a questo bisogno attraverso una torrefazione che produce caffè artigianale. L’incontro con Silvian Heach e Mena Marano, un’imprenditrice che condivide la nostra mission, per noi è una bellissima opportunità.


Lazzarelle non si nasce, si diventa

Il direttore dell’istituto Maria Luisa Palma, che ha subito sposato l’idea della collaborazione, ringraziando la manager del marchio chiosa infine: La persona in carcere ha quasi sicuramente commesso un reato, ma non si identifica con il reato; resta una persona che ama, che soffre, che ha capacità lavorative. Una donna, anche se in carcere, resta il centro di una rete di relazioni, resta il sostegno (spesso l’unico) della sua famiglia, dei suoi figli. E la società fa un torto a sé stessa se si priva di queste persone, delle loro capacità e delle loro potenzialità.

Ludovica Nasti, l’ex amica geniale ora si divide tra film d’autore e serie

Nonostante abbia compiuto da poco 15 anni, la filmografia di Ludovica Nasti è densa di produzioni di notevole spessore, a cominciare naturalmente da quella che nel 2018 l’ha lanciata, appena undicenne, nel firmamento delle nuove stelle della recitazione italiana, L’amica geniale. Sono poi venute altre serie e pellicole, dalla storica soap Rai Un posto al sole al dramma Rosa pietra stella, per continuare con Mondocane, cupo sci-fi dal sottotesto ambientalista, e la seconda stagione di Romulus. Proprio dagli ultimi due titoli è partita la nostra chiacchierata con Ludovica, che ha toccato temi diversi, dai ruoli che le hanno dato di più alla voglia di «mettersi in gioco, di sperimentare», all’auspicio di lavorare con giovani autori talentuosi della sua generazione, che lei crede saprà «dimostrare di sapersi impegnare per il suo futuro, anche nel cinema».



Puoi parlarci di Mondocane Romulus 2, i tuoi lavori più recenti?

Per quanto riguarda Mondocane, presentato in concorso alla Settimana della Critica durante la Mostra del Cinema di Venezia, sono una dei protagonisti insieme ad Alessandro Borghi, Barbara Ronchi e altri giovani attori, è uscito nelle sale e presto – speriamo – su una piattaforma streaming; un bellissimo progetto, con una sceneggiatura di livello.
Sul set di Romulus ho affiancato invece Andrea Arcangeli, Valentina Bellè, Francesco Di Napoli e Marianna Fontana, è ambientato prima della nascita di Roma e si parlava perciò una lingua arcaica, il protolatino. Mi sono ritrovata catapultata in un’altra epoca, con costumi ad hoc e tutto il resto; una nuova sfida, ho cercato di affrontarla al meglio, mi piace mettermi in gioco nei vari contesti, in questo caso c’erano numerose scene d’azione, duelli, momenti emotivi intensi, un’esperienza senz’altro impegnativa ma assolutamente positiva.

A proposito di Mondocane, com’è stato recitare con Alessandro Borghi? Ci sono attori, tra quelli che hai trovato finora sul set, che ti abbiano particolarmente impressionato?

Condividere la scena con Borghi è stato un piacere e un onore, Alessandro prima ancora di essere un attore fenomenale è una bella persona, genuina, simpatica, con me è stato molto carino e si è subito instaurato un rapporto di amicizia, non lo ringrazierò mai abbastanza, mi ha trasmesso davvero tanto, anche a livello umano.
In generale sono del parere che tutti gli attori con cui si lavora ci lascino un’emozione, un qualcosa che ci si porterà dietro come un bagaglio, vale per ogni persona incontrata sul set.

Hai iniziato a recitare quasi per caso, superando un provino per Lila de L’amica geniale tra migliaia di coetanee, ora però hai una certa dimestichezza con il settore, quali pensi siano i lati migliori e quali, invece, i meno positivi di questa professione?

Al momento trovo ci siano quasi esclusivamente elementi positivi, uno svantaggio potrebbe essere rappresentato, forse, dalla quantità e dal tipo di impegno richiesti, sono necessarie dedizione, pazienza e testa, soprattutto alla mia età, in cui bisogna conciliare la recitazione con la scuola; per qualcuno magari può rappresentare un peso, nel mio caso non lo è anzi, mi diverto moltissimo e lo vivo con passione, energia ed entusiasmo.
Un altro difetto, se così possiamo chiamarlo, è la possibilità che una carriera del genere possa rendere una persona troppo sicura di sé, spero di non dover mai fare i conti con questa eventualità, penso sia fondamentale rimanere umili, con la testa sulla spalle.


Embroidered dress | Antonio Marras

Laminated sandals | Salvatore Ferragamo, Mirrored dress | Antonio Riva 


Il tuo idolo e massima ispirazione è Sophia Loren, una leggenda vivente del cinema tricolore, hai altre figure di riferimento oltre a lei?

Adoro Sophia Loren perché credo incarni il grande cinema italiano (e non solo), tra gli altri modelli cito Millie Bobby Brown, Jennifer Aniston, Serena Rossi, ce ne sono tanti comunque, anche perché vedo un sacco di serie e film.

Hai esordito giovanissima ne L’amica geniale, serie evento coprodotta da Hbo e Rai, basata sulla tetralogia letteraria di Elena Ferrante e che, grazie alla fama dei romanzi, ha avuto una risonanza globale. Sono passati tre anni, come valuti a posteriori quest’esperienza?

L’amica geniale mi ha fatto scoprire questo mondo, dandomi l’opportunità di entrare a farne parte e poi di appassionarmene, fino ad amarlo. Sono felice per tutti i bei momenti vissuti, Lila è cresciuta e io con lei, non smetterò mai di essere grata al suo personaggio, mi è entrato sottopelle e continuo a portarmelo dietro. È stato un capitolo della mia vita magnifico, cui sono e sarò sempre legata.

Ci sono ruoli o generi in cui ti piacerebbe cimentarti? Per quanto riguarda i registi, invece, con chi sogni di collaborare?

Non saprei indicare ruoli o generi specifici, vorrei mettermi alla prova con tutto, dai film drammatici a quelli comici agli action, sperimentare insomma il più possibile per capire se determinate parti facciano o meno per me.
Credo che oggi in Italia ci siano tanti registi eccezionali, Martone, Sorrentino, Garrone, Rovere (con cui ho lavorato per Romulus), lo stesso Alessandro Celli di Mondocane, che era stato incluso nella selezione dei titoli italiani da candidare all’Oscar. Mi piacerebbe scoprire autori esordienti di talento con cui fare nuove esperienze, in questo senso più giovani ci sono meglio è, così la nostra generazione potrà dimostrare di sapersi impegnare per il suo futuro, anche nel cinema.




C’è qualche pellicola o serie che ti ha segnato, cui magari sei più legata?

Ci sono talmente tanti film che non saprei scegliere, tra le serie invece Stranger Things.

Frequenti il liceo linguistico, al di là di scuola e recitazione cosa ti piace fare?

Mi piace leggere, per il resto gioco a calcio, faccio un po’ di palestra e mi dedico ai miei nipotini e in generale alla mia famiglia, sono ciò che di più caro ho al mondo e adoro passare del tempo con loro. Fondamentalmente, comunque, quando non sono sul set studio, a volte persino lì.

Tua mamma ha una boutique e l’hai ringraziata perché «è un’ottima stylist», mi chiedevo quale sia il tuo rapporto con la moda, si tratti di red carpet e altre occasioni ufficiali o di vita quotidiana

Penso che la moda sia basilare anche nella quotidianità, in ogni contesto si alternano ormai abiti casual e capi più classici, io sono la prima a farlo, ritengo di non essere né troppo sportiva né eccessivamente elegante. Cerco un equilibrio tra questi due poli, la mamma per fortuna mi capisce al volo, consigliandomi sugli outfit più adatti, che riflettano anche il mio carattere. La moda è presente in ogni nostro passo e, nel mio caso, rappresenta un ambito nuovo e affascinante, nel quale immergersi pian piano sempre di più.

Hai delle novità, lavorativamente parlando, di cui puoi anticiparci qualcosa? Come e dove ti vedi tra dieci anni?

Dovrei iniziare a girare a breve, non posso ancora svelare nulla del progetto. Il cinema è il mio presente, per il futuro non so, vedrò dove mi porteranno cuore e testa, un passo dopo l’altro, al momento mi godo questo percorso recitativo, che mi rende felice.

Photography by Davide Musto 

Production & Styling by Alessia Caliendo 

Creative Direction Filippo Solinas @One Shot Agency 

Hair Kemon 

Make up Eleonora Juglair using Armani Beauty Luminous Silk Primer 

Location Stazione Milano Centrale 

Photographer’s assistants Dario Tucci and Riccardo Albanese 

Stylist’s assistants Andrea Seghesio and Laura Ronga

Cover Look: Total look | Balenciaga  @ Nida Caserta

Special thanks to Bowls and more 

Radiografia di un cult: il borsone Keepall di Louis Vuitton

Il nome dell’accessorio, denotandone la funzione, ossia custodire il nécessaire per un breve viaggio, dice (quasi) tutto; il resto lo fa l’alto lignaggio del marchio che, oltre alla paternità, può vantarsi di averlo ammantato di un’aura di desiderabilità e charme che travalica le qualità, peraltro eccellenti, dell’oggetto in sé, eternandolo come status symbol. Parliamo della Keepall di Louis Vuitton, weekender bag nata nel 1930, esempio calzante di quella “Art of Travel” che è da sempre un valore quintessenziale della griffe parigina, diventata nel ‘900 un colosso luxury mondiale proprio soddisfacendo le richieste di un’affluente élite di globetrotter, abituata a spostarsi da un capo all’altro del pianeta col relativo seguito di bagagli. Questa borsa cilindrica, nello specifico, è stata la prima flessibile e destrutturata mai prodotta dalla maison, una rivoluzione rispetto alle ingombranti valigie rigide in uso al tempo.





Nel caso ci fossero dubbi sulla portata iconica della Keepall, basti considerare poi che la borsetta probabilmente più famosa di Vuitton, il bauletto Speedy, arrivò sul mercato negli anni Trenta come versione mini della sacca in stoffa imprimé.
Pensata per un pubblico maschile ma di fatto unisex, le sue misure sono rimaste pressoché immutate fino ad oggi: le cifre delle quattro differenti denominazioni (45, 50, 55, 60) ne indicano la lunghezza, e corrispondono ad altrettanti formati; munita di tracolla staccabile, foderata in cotone, ha doppio manico e finiture (compreso il porte adresse, personalizzabile su richiesta con le iniziali del cliente) in vacchetta chiara, mentre il tono delle minuterie metalliche si accorda alla colorazione del corpo, e può essere dorato, argentato o nero opaco.



Il materiale principe è il Monogram canvas marrone, tessuto impermeabilizzato rivestito, sin dalla sua introduzione nel 1959, dello stilema più riconoscibile – e imitato, spesso maldestramente – del brand, costituito dalla ripetizione di L e V sovrapposte e fiori a quattro petali, inscritti in cerchi o rombi. Il modello primigenio, tuttora in produzione, è stato affiancato via via da una cospicua quantità di alternative in pellami e fantasie dissimili, da quelle in tela Damier Ebène o Graphite (affini all’originale per consistenza e allure classicheggiante) al lusso smodato dell’ultima arrivata per l’autunno, un mix di vitello e coccodrillo, dalla sobrietà irreprensibile della pelle scurissima alla sferzata vitaminica delle Bandoulière con dettagli color evidenziatore.



Credits: ph. 1 Anthony Mayan/The Corsair, ph. 4 Giovanni Giannoni/WWD

Pratica, versatile, una solidità che le consente di durare una vita, la duffel bag LV si è prestata – e continua a farlo – agli interventi artistici più estremi, accogliendo, all’epoca della direzione di Marc Jacobs, i pois di Yayoi Kusama come i graffiti al neon di Stephen Sprouse, oppure le bizzarrie pop di Takashi Murakami, tra ciliegie grafiche e loghi dissimulati nel camouflage; esemplari reperibili, a distanza di anni, solo nei circuiti del collezionismo, a prezzi da capogiro.
Non si è sottratto alle customizzazioni nemmeno l’ex responsabile del menswear della casa Kim Jones, deus ex machina, nel 2017, dell’operazione che sancì la definitiva saldatura tra moda “alta” e streetwear, cioè la collaborazione con Supreme, che includeva borsoni tinti di rosso fiammante, simbolo della label newyorkese. Anche il suo successore, Virgil Abloh, esercita volentieri la propria vena (lussuosamente) fancy sulla Keepall, come provano le borse effetto acquerello o in jacquard intessuto di fibre ottiche, che regalano al materiale una luminescenza pulsante.



Non si contano le celebrità che si sono lasciate conquistare dall’accessorio: se nel secolo scorso era un’appendice chic alle mise da viaggio di Catherine Deneuve, Liza Minnelli o Joan Collins, fra i tanti, illustri possessori odierni troviamo David Beckham, Kanye West, Bradley Cooper, Drake, Travis Scott e Kate Moss.
Parafrasando Carrie Bradshaw di Sex and the City, per spiegare le ragioni di un successo così duraturo si potrebbe forse ricorrere a una formula tanto semplicistica quanto efficace, che la scrittrice über fashionista interpretata da Sarah Jessica Parker pronunciava, disperata, di fronte al rapinatore che stava per rubarle l’adorata Baguette di Fendi: “This is not a bag, it’s a Keepall!”.

La Walk of Fame di Gucci, che presenta la sua collezione S/S 2022 a Hollywood

Gucci è un nome profondamente radicato nell’immaginario collettivo, ed è persino superfluo sottolineare il legame tra la maison fiorentina e lo star system internazionale, dai divi in pellegrinaggio nella boutique di via Condotti, negli anni della dolce vita, al glitz dell’era Tom Ford, che la trasformò in una potenza mondiale del lusso, bramata ad ogni latitudine, fino all’atteso biopic di Ridley Scott House of Gucci, dal cast sensazionale (Lady Gaga, Adam Driver, Al Pacino, Salma Hayek…).
La scelta di Hollywood come location del défilé Spring/Summer 2022 Love Parade, pertanto, è sembrata per certi versi il suggello di una liaison ininterrotta tra la griffe e il grande schermo, degno coronamento delle celebrazioni per il centenario del marchio toscano. Ad ogni modo l’incontro tra la cosiddetta fabbrica dei sogni e l’estetica flamboyant, traboccante di segni, suggestioni e rimandi (anche) cinematografici del direttore creativo Alessandro Michele non poteva che fare faville. Aggiungiamoci poi che lo stilista, cinefilo doc, afferma nelle note della sfilata di essere tornato col pensiero al lascito di sua madre, assistente in una casa di produzione (ovvero «al culto della bellezza di cui mi ha nutrito. Al dono irrinunciabile del sogno. All’aura mitopoietica del cinema») e il quadro è completo.



Lo show è mirabolante, una parata di oltre 100 outfit in scena sulla celebre Walk of Fame losangelina, cui assiste il gotha dello showbiz odierno, da Gwyneth Paltrow ad Anjelica Huston passando per Diane Keaton, Sienna Miller, Billie Eilish, James Corden, Florence Welch e i Måneskin, protagonisti dell’ultima campagna pubblicitaria del brand e ormai lanciatissimi anche al di là dell’oceano.
La collezione è un condensato di tutte le personali ossessioni che Michele, nel tempo, ha saputo trasformare nei nuovi – e assai richiesti – tratti identitari di Gucci (lo zig zag tra epoche e ambiti eterogenei, la rutilanza dei decori, lo stemperamento di etichette e rigide divisioni di genere, i cenni fetish-chic, l’insistenza su iniziali, morsetti, nastri tricolori e altri significanti della griffe), su cui si innesta una robusta dose di divismo e fascinazione per lo sfarzo dell’âge d’or hollywoodiana.



Le silhouette, specialmente quelle femminili, sono drammatiche, e indulgono volentieri alla teatralità, tra balze a tutto volume, ruches affastellate le une sulle altre, vezzose stole fluffy, bordature di piume o frange, una pioggia di cristalli e incrostazioni bling bling. Primeggiano mise dalle vibrazioni retrò, a partire dai completi tre pezzi di evidente matrice Seventies, con giacche sagomate e pantaloni flared, adorni di papillon, fiocchi in velluto, scenografiche broche floreali e grossi pendenti metallici, istoriati all’occorrenza da pattern geometrici che ammiccano al decorativismo tipico del decennio, per proseguire con jumpsuit tagliate da zip nastrate, camicie con floride stampe souvenir, cappotti dalle forme generose e capi in tessuto operato.
I colori, quanto a estrosità, non sono da meno (tocchi vividi di rosso, viola, verde e azzurro si alternano a tonalità zuccherine, dal menta al giallo pallido, al rosa), idem gli accessori: tra gli highlight della passerella cappelli a tesa larga da cowboy, diademi scintillanti, gioielli per il viso e occhiali a mascherina giganti (gli anni 2000, l’abbiamo capito, sono più vivi che mai).



La consueta anarchia vestimentaria che innerva la moda di Michele rende possibile qualsiasi abbinamento, per cui i pants aderenti come leggings, con impresse le doppie G paradigmatiche della casa, si possono infilare sotto il blazer abbondante e il bomber trapuntato fucsia sopra panciotto e blusa.
Il designer si concede addirittura il lusso di arruolare, in qualità di indossatori, star del calibro di Jared Leto, St. Vincent o Macaulay Culkin, esempi perfetti di una «nuova cosmogonia contemporanea», come la definisce lui, formata da «creature ibride capaci di accogliere allo stesso tempo la trascendenza divina e l’esistenza mortale»; considerati i risultati strabilianti della sfilata, è difficile non condividere almeno in parte l’enfasi delle sue parole.



Per l’immagine in apertura: credits Frazer Harrison/Getty Images for Gucci

Call to the wild: l’e-store di Franz Kraler debutta con un fashion film

Fashionisti e patiti dello shopping di lusso possono contare da oggi su una nuova piattaforma digitale: il multibrand Franz Kraler, istituzione del retail d’alta gamma dell’Italia settentrionale con sette store dislocati tra Dobbiaco, Bolzano e Cortina d’Ampezzo, debutta infatti nell’e-commerce, lanciando per l’occasione un fashion film (e relativo editoriale) ad alto tasso emozionale, affidato alla direzione creativa di Arturo Delle Donne. 
Call to the wild, questo il titolo del progetto, è una fiaba moderna, un viaggio di ricerca e ritorno alle origini in cui si intrecciano natura e moda, dando forma a uno storytelling che rispecchia al meglio filosofia e valori del retailer altoatesino: rispetto e amore per il territorio, il mistero e la purezza della natura, e la passione inesauribile per lo stile con la S maiuscola. Scaturisce da queste premesse una poesia per immagini che mette in scena le collezioni A/I 2021 dei più blasonati marchi luxury e high-end, da Alexander McQueen a Bottega Veneta, passando per Moncler, Gucci, Prada, Brunello Cucinelli, Alanui, Etro e tanti altri.


Total look Etro
Total look Bottega Veneta

È proprio il richiamo agli spazi incontaminati – gli stessi che circondano le boutique del gruppo – il fil rouge di Call to the wild, i cui protagonisti si muovono in una foresta rigogliosa, tra boschi e ruscelli, sullo sfondo le cime che costellano il paesaggio montano del Nord-Est italiano; l’atmosfera è fiabesca, ovattata, quasi irreale, il silenzio in cui sono immersi una condizione indispensabile per centrarsi sulle proprie emozioni. I modelli avanzano in uno scenario che appare come sospeso, vestendo mise capaci di esprimere un’attitude timeless e up to date allo stesso tempo, tra cui risaltano capi dalle tonalità accese nei colori più gettonati in questa F/W, come giallo, rosso, verde smeraldo o blu elettrico, alternati alle immancabili cromie neutre.


Total look Bottega Veneta, Gucci, Moncler Genius


Protagonisti i volumi over, puliti e confortevoli (ché la comodità è ormai una conditio sine qua non per i consumatori), materiali deluxe (cachemire, suède, pelle, lana…) e un tocco sapientemente dosato di logomania, così da esaltare i codici estetici delle griffe selezionate, dalla doppia G di Gucci al chek di Burberry, per finire con le borchie e il VLogo di Valentino.
Per ciò che riguarda gli accessori, si contraddistinguono per le superfici materiche, spesso ultrasoft – basti vedere le sciarpe furry, le tote bag dalle consistenze spugnose oppure i morbidi berretti a coste, senza trascurare i best seller delle rispettive maison, per esempio la Cassette con motivo maxi intrecciato di Bottega Veneta o le borse Roman Stud firmate Valentino Garavani.


Total look Prada, Valentino, Burberry


Tra i must-have di stagione, per gli uomini, i blouson corti alla vita, i piumini laqué, i completi dal sapore sartoriale, i giubbotti e accessori rifiniti con dettagli colorful; per lei, invece, long dress eterei, capispalla scivolati, maglie cozy e abitini dalle linee geometriche. «Per il lancio del nostro online store – commentano i titolari, Daniela e Franz Kraler – abbiamo puntato sul valorizzare la bellezza del territorio, che sarà visto anche tramite le nostre proposte moda. Queste immagini rappresentano il perfetto binomio tra la nostra passione per la ricerca stilistica e l’amore per la natura che ci ospita. Anche online vogliamo fornire ai nostri clienti una shopping experience speciale, che possa regalare emozioni e sensazioni uniche».

https://www.franzkraler.com/it


Da sinistra a destra, total look Bottega Veneta e Prada
Total look Gucci

I nuovi talenti di 080 Barcelona Fashion puntano su ricerca e sostenibilità

Svoltasi dal 25 al 28 ottobre, la 080 Barcelona Fashion, tra le principali kermesse di moda del Sud Europa, ha avuto come (spettacolare) cornice l’Espai XC a Esplugues de Llobregat, un’infilata di archi, cortili e ambienti dall’elevata scenograficità che fu la dimora dello scultore Xavier Corberó. Un’edizione al 100% digitale, centrata su innovazione, creatività e sostenibilità (pilastri ormai irrinunciabili per l’industria fashion nel suo complesso), cui hanno preso parte brand noti e newcomer per un totale di 22 label.
Ad accomunare le quattro collezioni a nostro avviso più interessanti, elencate di seguito, è la sensibilità verso l’impatto ambientale ed etico della produzione, punto di partenza per una sperimentazione a tutto tondo – dall’origine e lavorazione dei materiali alla modellistica, alla valorizzazione dell’artigianato, così da coniugare design accattivante e green attitude.



Eñau

Giunto alla quinta collezione, il marchio di abbigliamento eticamente sostenibile Eñau trae ispirazione dall’osservazione dei flysch, strati di arenarie, calcari e altri sedimenti depositatisi gli uni sugli altri nell’arco di milioni di anni; trasla quindi le sfumature pietrose degli stessi (piombo, ardesia, bianco sporco, nero) nella palette, restituendone la caratteristica stratificazione attraverso l’alternanza tra morbidezza e rigidità, fra tessuti consistenti (lana rigenerata, tricot, pelle vegana…) e tenui come il poliestere riciclato.
Righe, pieghe e ondulature (frequenti su tank top e maglie finemente plissettate, camicie dal taglio squadrato, pantaloni slouchy che non vanno mai oltre la caviglia) rimandano invece all’aspetto frastagliato di queste formazioni detritiche, e non mancano neppure riferimenti più espliciti al tema, sotto forma di stampe fotografiche che ritraggono pareti rocciose, scogliere a picco sul mare o distese sabbiose.
Le silhouette si mantengono clean e lineari, il tocco finale è dato dagli accessori artigianali, realizzati appositamente dal gioiellere Tó Garal e dal brand di borse Nonnai.



Júlia G. Escribà

Júlia G. Escribà, giovane creativa catalana, prova a rispondere alle sfide del cambiamento climatico combinando soluzioni al limite dell’avveniristico e design di qualità, concepito per superare tendenze effimere, sovrapproduzione e altri (discutibili) riti che caratterizzano tuttora la moda. Si spiega così l’impiego della tecnologia di termoregolazione Outlast®, che permette agli indumenti di adattarsi alle variazioni della temperatura esterna, assorbendo e rilasciando calore; nello show Spring/Summer 2022 all’uso del brevetto, sviluppato originariamente per la Nasa, si unisce il focus su materiali dalle naturali proprietà termiche quali lino – green per definizione – o cupro, fibra setosa e carezzevole, declinati in nuance armoniche suggerite da Neil Harbisson, artista capace di “sentire” i colori grazie a una speciale antenna impiantata nel cranio.
Il titolo scelto, Utopia, sintetizza in maniera efficace l’ambizione di comporre un guardaroba all’avanguardia e timeless allo stesso tempo. Gli outfit, fluttuanti e dalla linea scivolata, comunicano un senso di purezza che ben si accorda ai valori professati dalla stilista, tra jumpsuit ariose, maxi bluse, ampi pantaloni cropped, coroncine bucoliche, orli e abbottonature asimmetriche.



LR3 Louis Rubi

Fondata a Barcellona nel 2019 da Louis Rubi e Daniel Corrales, LR3 intende porsi come una griffe realmente inclusiva, pertanto elimina i dogmi e le limitazioni che hanno irreggimentato nei decenni il mondo fashion per concentrarsi su pezzi one size, che valorizzino chiunque scelga di farli propri, indipendentemente dalla sua età, fisico, sesso o cultura di appartenenza.
A indossare le novità del marchio è un cast a dir poco eterogeneo: modelli e modelle occasionali si muovono in totale libertà all’interno dell’Espai XC, favoriti in questo dai volumi dilatati, quasi fuori scala degli abiti, perlopiù capispalla di foggia classica come blazer, car coat e spolverini, ripensati nelle proporzioni puffy, per l’appunto. I toni neutri – dal khaki al cammello, dal nocciola al verde oliva, si scontrano con sprazzi fluo (qua una pennellata arancione che fende il completo over, là una colata di fucsia sul maglione), una vivacità cromatica che acuisce l’impressione generale di compiaciuta giocosità, di assenza di regole della sfilata, a ribadire l’irriducibile diversità di ciascuno che, alla fine della fiera, è l’essenza stessa del vestire.



Martín Across

Una condizione di sospensione, di tensione continua tra dimensione onirica e slanci futuristici è il tratto peculiare del prêt-à-porter di Martín Across. L’ultima collezione dell’etichetta creata da Martín Maldonado, On the fragile nature of life, esplora i possibili significati del termine movimento, da intendere come individuale o collettivo, concreto o psicologico, graduale o impetuoso. Tutto questo viene tradotto, nei look, in pattern multicolor che smuovono le superfici, zigzagano su giubbetti, felpe e soprabiti, simulano il moto delle onde, i riflessi dell’acqua o, ancora, i diversi colori dei sedimenti, generando sorprendenti effetti cromatici.
Accessori utility quali bucket hat, tracolle a rete e sneakers in gomma si mescolano a capi dall’appeal classico (dai dolcevita ai gilet di maglia, ai pants segnati da profonde pinces), tutti realizzati a mano in Ecuador, paese d’origine del direttore artistico, usando materiali locali. 



Rome Cavalieri, un soggiorno d’autore tra opere d’arte e suite da mille e una notte

Dalla collina di Monte Mario, a Roma, si gode di un panorama privilegiato sulle meraviglie di una città che non ha bisogno di presentazioni, in cui, secondo Goethe, “ci si sente compenetrati dei grandi decreti del destino”. Sorge qui il resort 5 stelle Rome Cavalieri, tra i punti di riferimento assoluti dell’hôtellerie internazionale e unico avamposto italiano della prestigiosa catena Waldorf Astoria.
Leggermente defilato rispetto al centro storico, così da poterlo raggiungere con facilità eludendone, allo stesso tempo, l’inevitabile affollamento e trambusto, l’hotel è un autentico locus amoenus immerso in oltre sei ettari di verde incontaminato, pervaso da un’atmosfera di intima tranquillità e lusso studiato, mai eccessivo. Inaugurato nel 1963, è subito diventato il buen retiro romano di capi di stato, teste coronate, star di Hollywood e personalità dell’high society, da Fred Astaire a Henry Kissinger passando per Alberto di Monaco, Marcello Mastroianni, Julia Roberts, Celine Dion, Leonardo DiCaprio e tanti altri.



La vista senza pari sull’Urbe, che permette di contemplare i monumenti che la simboleggiano da secoli (San Pietro, il Colosseo, Trinità dei Monti, Castel Sant’Angelo), architetture più recenti come l’Auditorium di Renzo Piano nonché il nugolo di basiliche, guglie e cupole che punteggiano lo skyline cittadino, è solo una delle numerose chicche riservate agli ospiti di quest’esclusiva struttura alberghiera, adagiata su un’altura che, dalla riva destra del Tevere, svetta sulla capitale. Al relax e alla cura di sé sono dedicate, ad esempio, quattro piscine, due campi da tennis Davis Cup, percorsi nel parco di 6000 metri quadrati e un’area consacrata al wellness che ha la sua punta di diamante nella Cavalieri Grand Spa Club, che fa affidamento su macchinari all’avanguardia e trattamenti d’eccellenza, con l’uso di prodotti La Prairie e Aromatherapy Associates.



Il lato gourmand, poi, non teme confronti: regno dello chef di fama internazionale Heinz Beck, il ristorante tristellato ‘La Pergola’, sulla terrazza panoramica che domina la città eterna, è a detta delle più autorevoli guide (a cominciare ovviamente da quella Michelin) e critici del settore uno dei migliori al mondo, grazie alla commistione tra haute cuisine e tradizione culinaria mediterranea in un ambiente di superba classe ed eleganza. L’offerta gastronomica si completa con la cucina italiana del ristorante ‘L’Uliveto’, guidato dallo chef Fabio Boschero e dal pastry chef Dario Nuti.



Il Rome Cavalieri può inoltre fregiarsi di una collezione d’arte da far invidia a un museo, oltre 10.000 pezzi (quadri, sculture, mobili d’epoca, preziosi manufatti, oggetti di design…) che, esposti in spazi comuni e suite, compongono una sorta di mostra permanente diffusa; un corpus dall’enorme valore storico-artistico, che spazia tra epoche, scuole e generi artistici diversi, dal fiore all’occhiello di questo selezione eterogenea, l’eccezionale trittico di Tiepolo eseguito dal maestro veneziano per Palazzo Sandi nel 1742 (che troneggia nella hall) ai bronzi di Thorvaldsen, dai sontuosi arazzi del XVI e XVIII secolo alle opere dei giganti della pop art Robert Indiana e Andy Warhol (alcune serigrafie Dollar Sign decorano le pareti della Penthouse, suite extralusso che richiama nel décor le cabine degli yacht, in cui trovano posto anche divani disegnati dal Kaiser della moda Karl Lagerfeld per la sua abitazione parigina, volte stellate simulate dalle fibre ottiche, rivestimenti in marmo e rubinetterie in cristallo di Boemia Swarovski), a quelle di esponenti di punta delle principali correnti dell’arte novecentesca come Mario Schifano, Enrico Baj o Victor Brauner.
Altro vanto della collezione, la serie di consolle, armadi, tavoli e altre rarità in stile Luigi XV e impero: nella Napoleon Suite, soprattutto, la maestosità degli arredi, tra porcellane di Sèvres, busti marmorei, uno scrittoio appartenuto a Napoleone II e mobili di pregio, riecheggia gli sfarzi di cui amava circondarsi il generale corso fattosi imperatore. Le suite, 25 su un totale di 370 camere, hanno tutte un balcone privato e metratura compresa tra 80 e 450 mq.




Dagli artwork disseminati nell’edificio all’interior design, al Rome Cavalieri tutto è curato sin nei minimi dettagli per offrire un soggiorno al limite della perfezione, che può essere ulteriormente arricchito con ‘Luxury Experiences’, visite esclusive, tour alla scoperta delle bellezze nascoste della capitale e altri servizi tailor made, ritagliati sulle richieste dell’ospite. Sorprende fino a un certo punto, perciò, la sfilza di riconoscimenti accumulata nel tempo dall’albergo (per esempio le ‘four stars’ della Forbes Travel Guide, l’inserimento nella Gold List Condé Nast Traveler, il premio Italy’s Best MICE Hotel 2020), cui si è aggiunta, da tre anni, la certificazione Green Key, marchio di qualità ambientale promosso dalla Foundation for Environmental Education, che certifica il carattere eco delle strutture cui viene assegnata; perché l’ospitalità di lusso non può prescindere, ormai, dalla sostenibilità.




Il rap senza confini di Random, dai social a Sanremo

Photography Simone Conte

Art direction & Production Miriam De Nicolò

Styling Sofia Radice & Miriam De Nicolò

Photographer assistant Luigia Imbastaro

Grooming Elisa Maisenti

Press Office Wordsforyou

Cover look: Coat, hoodie and pants | Collini; Shoes | Vic Matiè

Il freestyle ai tempi della scuola, la prima canzone pubblicata su Facebook a 14 anni, l’album Giovane oro col producer Zenit che sancisce l’avvio di una fruttuosa collaborazione, ascolti monstre sulle principali piattaforme di streaming, sei dischi di platino (tre per Chiasso, il singolo con cui è definitivamente esploso nel 2019), featuring di peso (Gué Pequeno, Carl BraveEmis Killa e Gio Evan tra gli altri), un EP – Montagne russe – rimasto per settimane nella top 10 dei più venduti. Sono questi i momenti salienti della repentina scalata ai vertici dell’industria musicale di Random, pseudonimo di Emanuele Caso, enfant prodige del rap nostrano. Ventenne, nato a Massa di Somma ma cresciuto a Riccione, indicato a suo tempo da Mtv New Generation come artista del mese, è già arrivato ai palcoscenici televisivi che contano (nello specifico, quelli di Amici Speciali, spin-off del programma di Maria De Filippi, nel 2020, e del festival della musica tricolore per eccellenza, Sanremo 2021), e sembra avere tutte le carte in regola per confermarsi come uno degli astri più fulgidi della new wave italiana. D’altra parte è lui il primo a volersi spingere oltre, affermando di aver ricominciato a  «vivere la musica come facevo quando non ero nessuno, è questa la chiave giusta per avere successo secondo me».



Sei molto attivo online e in particolare su TikTok, che ha veicolato il boom di Chiasso, brano certificato triplo disco di platino. Cosa apprezzi maggiormente dell’app di ByteDance e, più in generale, come vive i social un cantautore il cui successo passa (anche) da loro? 

Devo sicuramente parte del mio successo a questa piattaforma, ha rivoluzionato il modo di condividere la musica e trovo sia meritocratica, se sei costante e hai dalla tua bei contenuti, puoi arrivare a tante persone. Per un cantautore della nuova generazione i social possono essere davvero utili per farsi conoscere da migliaia di utenti con un semplice video, sono però anche un’arma a doppio taglio perché questi ultimi possono farsi condizionare, stabilendo che se una canzone non è particolarmente “tiktokabile” allora non è bella, ma non è vero; ogni brano ha la sua storia, il suo mondo, il suo modo di essere enfatizzato in un determinato contesto.

Quali canzoni o autori pensi abbiano influito di più sulla tua maturazione artistica?

All’inizio della mia carriera ero un fan scatenato di Emis Killa (se dovessi indicare una sola canzone direi Parole di ghiaccio, mi ha molto influenzato) e Marracash, la sua Sabbie mobili mi ha dato tanto. Con il passare del tempo mi sono lasciato ispirare da altri cantanti italiani, come Sfera Ebbasta e Jovanotti, e internazionali, ad esempio Ed Sheeran o Justin Bieber, adoro tutta la loro discografia, scegliere è difficile.

Se dovessi descrivere il tuo sound usando solo tre aggettivi?

Dirompente, vero, emozionante.



Hai collaborato con artisti di primo livello, da Gué Pequeno a Carl Brave, con chi immagini il feat dei tuoi sogni?

Mi piacerebbe collaborare con Sfera Ebbasta, come dicevo lo apprezzo molto, ha decisamente una marcia in più. Poi Ultimo, al quale mi sento affine, e Jovanotti.

Nel 2020 ti sei distinto tra i concorrenti di Amici Speciali, tra l’altro hai raccontato di aver provato a partecipare alla trasmissione di Maria De Filippi quando avevi 17 anni, com’è stato in definitiva l’approdo al principale talent italiano

L’esordio in televisione è stato un momento fondamentale del mio percorso creativo, grazie ad esso sono potuto entrare in contatto con il grande pubblico e, viceversa, quest’ultimo ha avuto la possibilità di conoscermi. Ho imparato tante cose, studiando per la prima volta canto, imparando a muovermi davanti alle telecamere. Ringrazio Maria e Stash (il frontman dei The Kolors con cui ha duettato nel programma, ndr) per la fantastica esperienza.

Hai partecipato al festival di Sanremo 2021, cosa puoi dirci a riguardo, com’è stato per un ventenne cresciuto – e affermatosi – sul web confrontarsi con uno dei massimi simboli della tradizione musicale italiana? 

Lo considero un altro enorme passo in avanti nella mia carriera, essere in gara a Sanremo mi ha tolto il fiato e mi ha formato, tantissimo. Ero incredibilmente emozionato, quasi incredulo di far parte di un cast di cantanti del genere, sono tuttora riconoscente per aver calcato il palco dell’Ariston.



Il rap è un genere fortemente connotato sotto il profilo dell’immagine, quanto conta per te lo stile, e come lo definiresti?

Penso sia cruciale avere un bel personaggio, la percezione che si ha di un artista passa anche da come appare dall’esterno; puoi fare della musica stupenda, ma se non hai una visione stilistica ed emotiva sei al 50%. In questo periodo sto lavorando parecchio in questa direzione.

A novembre il tuo tour farà tappa a Roma e Milano, cosa ti aspetti dalle due date? Come speri sia il ritorno on stage dopo tutto quello che è successo nell’ultimo anno e mezzo?

Saranno i miei primi due concerti veri e propri, un’emozione unica. Voglio che sia uno spettacolo in tutti i sensi e mi sto impegnando al massimo affinché lo sia. Mi piacerebbe ci siano persone che magari non conoscono nemmeno una nota delle mie canzoni e, sentendole, se ne innamorino.

Hai in serbo qualche novità che vorresti svelarci?

Posso dirvi che sto componendo diverse canzoni con produttori con i quali non avevo mai lavorato, e sperimentando nuove sonorità. Sto uscendo dalla mia zona di comfort e ricominciando a vivere la musica come facevo quando non ero nessuno, è questa la chiave giusta per avere successo secondo me.



Tancredi: il nuovo volto della musica italiana



Parlando di Tancredi, cantautore salito alla ribalta nell’ultima edizione di Amici, non bisogna lasciarsi ingannare dall’età (20 anni) né dai modi pacati o dall’aria da “bravo ragazzo”, col viso pulito incorniciato da una massa di riccioli. Ha già dimostrato, infatti, di saper dare voce a paure, dubbi e tormenti che costellano il passaggio dall’adolescenza alla vita adulta, raccontandoli attraverso hit da milioni di stream come Las Vegas (doppio disco di platino), Balla alla luna o Leggi dell’universo. Non ha mai nascosto, del resto, ansie e fragilità, indici di una sensibilità fuori dal comune che riversa evidentemente nella sua musica, in cui, come ci rivela, confluiscono ricordi, esperienze e immagini, così da delineare «un proprio universo personale, come in un film».


Total look | Herd

Hai cominciato presto a fare musica, studiando al CPM Music Institute e mettendoti alla prova con strofe e contest. Come e quando ti sei avvicinato a quest’arte?

Intorno ai 12 anni, facevo freestyle con gli amici e ho iniziato a scrivere testi, il primo l’ho composto interamente a cappella, senza una base strumentale; sono partito dal rap per poi evolvere, toccando ambiti musicali eterogenei.

Restando in tema, chi sono i tuoi modelli di riferimento?

Mi lascio ispirare da tracce o autori diversi a seconda della canzone cui sto lavorando, i punti fissi sono sicuramente Drake, The Weeknd, Jaden Smith, la dance anni ‘80.

Quali brani, generi o artisti ti hanno accompagnato nelle varie fasi del tuo percorso?

All’inizio mi rifacevo al rap italiano, ascoltavo Salmo, Gemitaiz e MadMan, quindi sono passato a quello americano e inglese di big come 50 Cent o Eminem, poi a Post Malone: mi ha impressionato per il suo coniugare pop e rap, dando il la un nuovo filone che, partendo da basi rap, esplora i generi più disparati. In fin dei conti uno dei punti di forza dell’hip hop, secondo me, è proprio la capacità di adattarsi a svariati sound.



Potresti descriverci il tuo iter creativo, dalle prime idee alla registrazione finale?

Non mi sono mai dato un metodo preciso, a volte parto da un giro di accordi, altre da una frase appuntata, altre ancora da un vero e proprio concept che sviluppo man mano. Cerco di tenere insieme, nello stesso momento, la creatività pura e la parte più razionale e “rifinita” del lavoro, passando molto tempo in studio: è lì che cerco di portare a termine il processo, concentrando tutto ciò che ho voglia di esprimere.

Come descriveresti la tua musica a chi non l’ha mai ascoltata?

Mi ritengo eclettico nel mio approccio, provo a esplorare strade diverse e sono certo continuerò a farlo, altrimenti mi annoierei. Se dovessi individuare un genere specifico direi il pop, è una sorta di contenitore che comprende tutto, però preferisco non etichettare la mia musica, lo trovo limitante; parla della mia vita, delle esperienze vissute, delle immagini che ho in testa, il bello sta nel mescolare tutto liberamente plasmando un proprio universo personale, come in un film.

C’è stato un momento che hai percepito come un punto di svolta, uno snodo cruciale per la tua crescita artistica?

Sicuramente la prima canzone scritta, più a livello personale che per la carriera in sé, mi ha spalancato un mondo che ho amato all’istante.
È stato fondamentale anche avere il coraggio di prendere lezioni di tecnica vocale, è complicato cantare davanti a una sola persona che è lì per insegnarti. Un’altra svolta è arrivata poi grazie a un professore del CPM, ha riconosciuto il mio talento e mi ha aperto le porte del settore.


Total look | Balenciaga 

A maggio è uscito il tuo primo EP Iride, che contiene hit come Las Vegas, Fuori di testa o Leggi dell’universo, cosa puoi dirci a riguardo?

È un disco in cui è racchiuso il vissuto del lockdown o meglio, dei lockdown, nasce infatti da cose successe in precedenza che, durante quel periodo di pausa forzata, ho avuto modo di elaborare. In Fuori di testa, ad esempio, parlo dell’ultimo giorno di scuola, Iride è una specie di omaggio ai miei amici, alle persone che ho conosciuto e mi hanno reso ciò che sono, Leggi dell’universo è invece una ballad d’amore abbastanza triste. Considero l’EP un mio biglietto da visita, è passato del tempo e ora lo vedo un po’ acerbo, però sono soddisfatto perché, in un momento estremamente complicato, sono riuscito col mio team a portare a termine un progetto musicale degno del nome.

Sei arrivato in semifinale ad Amici 20, a distanza di qualche mese come valuti la tua esperienza nel talent show Mediaset?

Mi ha aiutato sotto molteplici aspetti, dal mantenere un ritmo veloce alla gestione dello stress, permettondomi inoltre di conoscere persone con cui condividevo il sogno della musica e di raggiungere un gran numero di spettatori, mostrando loro ciò che posso e potrò fare.

Vanti numeri di tutto rispetto su Instagram et similia (443 mila follower su IG, 1,6 milioni di like su TikTok) com’è il tuo rapporto con i social? Pregi e difetti, a tuo parere, di questo mondo?

Ho un rapporto particolare con i social, tendenzialmente non li amo perché credo suggeriscano una realtà distorta cui vorrei evitare di adeguarmi, non voglio sottostare a una sorta di obbligo per cui, in sostanza, esisti solo se posti. Vado a periodi, a volte li uso con regolarità, l’importante è che non diventino un obbligo, bisogna fare attenzione perché la vita non è fatta esclusivamente di fasi up e bei momenti, sebbene vengano mostrati quasi sempre quelli.
Il loro maggior pregio penso sia l’immediatezza, l’arrivare subito a una miriade di persone.



Provieni da una famiglia di creativi, tuo padre lavora per una nota maison e la musica non è certo indifferente ai codici fashion, che rapporto hai con la moda? Trovi ci sia un legame tra la cifra distintiva di un cantante e il suo stile, dentro e fuori dal palco?

Dipende dai singoli artisti, ad alcuni piace unire la musica a una certa esteriorità espressa dall’abito, ma non è fondamentale, ci sono cantanti che tengono egregiamente il palco pur non badando troppo all’outfit. Personalmente mi piace combinare queste due dimensioni, sono sempre stato immerso nella moda, mi va di farlo e credo funzioni.

Ci sono capi o accessori che pensi ti identifichino sotto il profilo stilistico? Hai un debole per qualche marchio o designer?

Degli orecchini con le ali che ho rubato a mia sorella, per me esprimono un concetto di libertà, e una collana a catena di chiodi: sono questi gli accessori che porto più spesso, credo mi rappresentino.
Per quanto riguarda i brand, mi piacciono Armani, Issey Miyake e Yohji Yamamoto, però indosso anche Zara, vario insomma, sia a livello di capi che di marchi specifici.

Ci sono novità in arrivo che vuoi anticiparci? Cosa speri ti riservi il futuro?

Le novità verranno svelate a breve, sto lavorando molto e dopo aver passato un periodo davvero tosto, caratterizzato da timori e ansie varie, adesso mi sento bene, come se avessi chiuso un cerchio. Non vedo l’ora che escano i nuovi lavori, sono soddisfatto, penso meritino più di un ascolto.
Per il futuro, spero di avere tanta serenità, non sono sicuro di meritarla ma ne ho bisogno, assolutamente.


Total look | Salvatore Ferragamo

Photography by Davide Musto 

Creative Direction Filippo Solinas @One Shot Agency 

Production & Styling by Alessia Caliendo 

Hair Kemon 

Make up Eleonora Juglair using Armani Beauty Luminous Silk Primer 

Location Stazione Milano Centrale 

Special thanks to Bowls and more 

Photographer’s assistants Dario Tucci and Riccardo Albanese 

Stylist’s assistants Andrea Seghesio and Laura Ronga 

L’omaggio ad Alber Elbaz e non solo: 4 sfilate-tributo memorabili

La Paris fashion week si è chiusa il 5 ottobre con uno spettacolo eccezionale, nel senso letterale del termine, organizzato da AZ Factory per commemorare Alber Elbaz, scomparso ad aprile per complicazioni legate al Covid, poco dopo essere tornato in attività con l’innovativa label di prêt-à-porter che porta le sue iniziali. Richemont, holding del lusso che ne detiene il controllo, ha infatti voluto rendergli un tributo invitando 44 brand, tra maison affermate e new names (un lungo elenco comprendente Dior, Valentino, Gucci, Burberry, Rick Owens così come Tomo Koizumi e Christopher John Rogers) a disegnare per l’occasione delle mise speciali.
Lo show, tra i più seguiti nel calendario parigino, non è stato certo un unicum nella storia del fashion, abituato a omaggiare i suoi principali protagonisti, in modi più o meno espliciti. Abbiamo selezionato quattro sfilate che, sotto quest’aspetto, meritano di essere ricordate, cominciando proprio da quella dedicata a Elbaz.

Love brings love – A tribute fashion show in honor of Alber Elbaz

Con la sua personalità affabile, spiritosa, istrionica, Elbaz smentiva clamorosamente il luogo comune dello stilista schivo e altezzoso, chiuso nella torre d’avorio. Stando al comunicato della società, avrebbe desiderato unire la grande famiglia della moda per una nuova edizione del Théatre de la Mode, spettacolo itinerante che, nel 1945, riunì decine di couturier francesi sull’onda della solidarietà e della comune voglia di ripartire diffuse nel dopoguerra.
Un concept alla base dell’evento tenutosi al Carreau du Temple, invaso da luci e suoni per accompagnare gli ensemble, pensati come una celebrazione del sense of style gioioso, sottilmente ironico e incline alla teatralità del designer; 71 outfit in totale, che si rincorrono nella sala tra strascichi chilometrici (Giambattista Valli) e balze scenografiche, caterve di ruches (Valentino) e cuori aggettanti sull’imponente robe-manteau (Viktor & Rolf), completi ricalcati sull’uniforme prediletta dall’ex direttore artistico di Lanvin, cioè suit scuro, occhialoni e maxi papillon (Ralph Lauren) e ritratti tipo fumetto intarsiati sullo spolverino (Dries Van Noten). Abiti espressione di pura creatività, che nel gran finale compongono un mosaico dai mille colori, issati sull’impalcatura con, al centro, la foto di Elbaz.



Sonia Rykiel S/S 2009

Nel 2008, per festeggiare il 40esimo anniversario di una griffe che, permeata dell’indole protestataria del fatale Sessantotto, aveva rivoluzionato il womenswear, bandendo voli pindarici e virtuosismi fini a se stessi in favore di uno stile svelto e pragmatico, Sonia Rykiel chiama a raccolta 30 designer du moment (per fare qualche nome Karl Lagerfeld, Jean Paul Gaultier, Martin Margiela, Christian Lacroix, Yohji Yamamoto), commissionando a ciascuno un look della Spring/Summer 2009.
Terminato il défilé “canonico”, in pedana irrompono, tra lo stupore dei presenti, creazioni assolutamente uniche nel loro genere, che in diversi casi integrano la riconoscibilissima chioma frisé rosso fuoco della padrona di casa, come fosse una signature stilistica del marchio, al pari di righe marinare, piume o fiori: Lagerfeld, ad esempio, ne fa un pattern cartoonesco sul completo blusa-pantalone, Margiela la struttura portante del gilet furry sovradimensionato, Jean-Charles de Castelbajac un bizzarro trompe-l’oeil, mentre Gaultier allude ai pullover all’uncinetto valsi a Rykiel il soprannome di “regina del tricot”, con una modella intenta a sferruzzare il proprio tubino in maglia.



Saint Laurent F/W 2016

Prima delle sfilate faraoniche ai piedi della Tour Eiffel volute da Anthony Vaccarello, a rilanciare Saint Laurent nella stratosfera modaiola, piegandone i codici distintivi alla propria estetica rockeggiante e affilata, era stato Hedi Slimane che, non va dimenticato, iniziò la sua folgorante carriera proprio alla corte di Monsieur Yves, dirigendone le linee Rive Gauche e Homme.
Per la sua collezione Fall/Winter 2016, omaggia quindi a tutti i livelli il maestro, a partire dalle caratteristiche dello show allestito nell’Hôtel de Sénecterre, sede dell’appena restaurato atelier di alta moda, andato in scena nel silenzio più totale, così da ricreare la solennità quasi religiosa dei défilé primigeni, interrotto solo dal numero di uscita pronunciato da Bénédicte de Ginestous (annunciatrice, fino al 2002, delle passerelle di YSL).
Dominatori assoluti del catwalk, gli outfit della Collection de Paris spingono al massimo gli eccessi del glam anni ’80 attraverso volumi drammatici, incrostazioni di cristalli e paillettes, succinti abitini con volant scultorei, minidress strizzati da cinture colossali, collant velati e labbra infuocate. Una rilettura estremizzata dell’eredità di Yves Saint Laurent, i cui capisaldi sono diligentemente compendiati, dagli spropositati fur coat che paiono richiamare la pelliccia verde smeraldo della collezione cosiddetta Scandale (1971) agli smoking che, a suo tempo, lo stilista nato a Orano aveva trasformato in capi femminili sublimemente sensuali. A suggellare un legame mai spezzato, al di là delle apparenze, l’abbraccio commosso tra Slimane e Pierre Bergé, socio e compagno di vita di Yves.



Versace S/S 2018

Donatella Versace è abituata a “rompere l’internet”, escogitando trovate sensazionali che terremotano il fashion system e, di rimbalzo, il web. Il pensiero va subito alla recente, mediaticissima collab con Fendi alias “Fendace”, al colpo di scena della sfilata S/S 2019 chiusa da Jennifer Lopez, radiosa con una replica esatta del celeberrimo jungle dress, oppure a quella S/S 2018, «un tributo alla vita e al lavoro di Gianni […] non solo al suo genio artistico ma all’uomo che, soprattutto, era mio fratello» come specifica lei, a vent’anni dall’omicidio a Miami.
L’omaggio è reso plasticamente, sulla passerella, dalle mise cariche dei simboli che hanno accompagnato l’irresistibile ascesa del couturier calabrese al pantheon della moda, in una girandola vorticosa e ipercolorata di motivi, grafiche e accostamenti cromatici desunti dalle collezioni più iconiche del brand, tra le fantasie marine della stampa Trésor de la Mer (introdotta nella stagione S/S ’92), gli arabeschi dorati su fondo nero di quella Baroque (F/W ’91), serigrafie lisergiche à la Warhol stampigliate all-over (S/S ’91), farfalle in tonalità acidule (S/S ’95), frange di pelle, bolo tie, cinghie e altri orpelli stile western meets bondage (F/W ’92). Per finire, il ritorno in forze delle top model, al cui mito contribuì attivamente proprio Gianni Versace, con Cindy Crawford, Claudia Schiffer, Naomi Campbell, Helena Christensen e Carla Bruni fasciate in abiti di mesh metallico sinuosi, come disegnati su una fisicità statuaria, oggi come allora.
Il défilé sbanca i social: considerate le suddette doti da influencer di Donatella, c’era da dubitarne?



Le novità di Pineider, marchio che celebra l’arte della scrittura a 360 gradi

Si può tranquillamente constatare, senza essere tacciati di luddismo, come la quotidianità ormai diretta da smartphone, pc, device vari ed eventuali abbia reso la scrittura manuale una pratica sporadica, sotto certi aspetti forse anacronistica, e però proprio per questo mai così affascinante, pregna di significati che vanno ben oltre il tracciare lettere su un foglio bianco. Lo confermano la diffusione – e i riscontri lusinghieri – di corsi e workshop di calligrafia in ogni dove (nel nostro Paese, quelli dell’Associazione Calligrafica Italiana registrano un boom), oppure il fatto che in templi del sapere quali Oxford o Harvard un numero non trascurabile di professori imponga agli studenti di prendere appunti manualmente.
Nell’ambito del fashion va registrata, invece, la rinnovata fortuna di biglietti d’invito e ringraziamenti vergati a mano, come pure la presenza di penne, matite, notebook et similia nelle proposte di numerosi brand: le rollerball Caran d’Ache vestite da Paul Smith, la papeterie extralusso di Hermès, la recente collezione Gucci Cartoleria, non ultimo il dinamismo di Pineider, marchio che ha dalla sua oltre 245 anni di storia (d’eccellenza) nel settore, cominciata in piazza della Signoria a Firenze, dove Francesco Pineider aprì, nel 1774, una bottega di carte intestate, realizzate curando dettagli infinitesimali e ricorrendo a tecniche d’avanguardia, che consentivano di perfezionare caratteri, rilievi, finiture così come di riprodurre stemmi elaborati o specifici monogrammi.



Nel corso del tempo vennero introdotti articoli di pelletteria lavorati a regola d’arte, avvalendosi della grande tradizione toscana, e quindi strumenti di scrittura altrettanto pregevoli. Una produzione nel segno del ben fatto artigianale insomma, che non tardò a conquistare case regnanti, artisti, intellettuali e appartenenti al beau monde coevo (Napoleone, i Savoia, Stendhal, Leopardi, D’Annunzio per citare solo i più illustri e, limitandosi al ‘900, star quali Marlene Dietrich, Liz Taylor e Luchino Visconti).
Di proprietà dal 2017 della famiglia Rovagnati, Pineider è tornata a far valere una legacy centenaria basata sul lusso discreto, sulla vera – e piuttosto rara – esclusività che, secondo l’azienda, poggia necessariamente sul connubio fra tradizione e innovazione, craftsmanship e raffinatezza, retaggio storico e contemporaneità.



Per tornare all’attivismo di cui sopra, nel solo mese di settembre il brand ha messo in fila novità di rilievo: il 15 è stato inaugurato il primo flagship store negli Stati Uniti all’interno del celebre Rockfeller Center, cuore nevralgico dello shopping newyorchese; una boutique pensata per esaltare i tratti distintivi di Pineider con ambienti dal gusto fin de siècle, scanditi da ferro, vetro, lampadari originali ed elementi cromati affiancati a librerie dai bordi in ottone e mobili in legno d’impronta retrò.
Il negozio di Manhattan va ad aggiungersi a quelli italiani di Firenze, Roma e Milano. Quest’ultimo ha preso il posto, nel 2020, della libreria Feltrinelli di via Manzoni 12, un autentico salotto letterario da cui sono passati, tra gli altri, numi tutelari della letteratura come Eco o Pennac, raccogliendone in qualche modo il testimone con uno spazio consacrato all’arte della scrittura, completo di area lounge denominata “il club degli scrittori”.


Pineider New York
Pineider New York
Pineider New York

Pineider New York

Nelle scorse settimane, ha ospitato due eventi indicativi della volontà di Pineider di consolidare il legame con il mondo letterario e artistico in generale: il 16 settembre i fondatori della scuola di scrittura creativa Molly Bloom, Leonardo Colombati ed Emanuele Trevi, hanno presentato i corsi di narrativa e poesia frutto della collaborazione tra l’accademia e e il marchio, al via il 6 ottobre, che si articoleranno in undici appuntamenti presso lo store milanese, coinvolgendo alcuni dei migliori autori sulla piazza, tra cui gli stessi Colombati e Trevi, Sandro Veronesi, Alessandro Piperno e il premio Pulitzer Jhumpa Lahiri.
In piena fashion week, poi, la boutique è stata teatro dell’incontro tra la verve creativa di Antonio Marras, infusa di lirismo e rimandi all’arte in ogni sua forma, e le carte “upcylced” di Pineider, destinate al macero e invece effigiate dallo stilista con schizzi di volti e soggetti eterogenei, ottenuti intervenendo con sovrapposizioni, strappi, lacerazioni, parole, in un’operazione a metà tra pittura e scultura. Il designer sardo ha firmato inoltre 36 vasi in ceramica, manufatti che giocano con un’idea di imperfezione naturale e poetica, cara sia al designer sia alla griffe toscana, in vendita fino al 9 ottobre.



Oltre alle creazioni in edizione limitata di Marras, nello store nel Quadrilatero della moda trovano posto, naturalmente, i fiori all’occhiello della maison, ovvero stilografiche, quaderni rilegati, card in diversi formati e grammature e la pelletteria, un’offerta che si arricchirà presto dei prodotti della collezione Spring/Summer 2022, tra i quali eccelle l’eleganza assoluta del nero, in versione lucida o matte nelle penne Avatar in UltraResina (materiale esclusivo di Pineider, una combinazione di madreperla e resina), oppure traslato nei pellami soft e nei nylon tecnici delle new entry Metro, due tote bag strutturate dai manici importanti. Non mancano neppure borsoni, zaini, portadocumenti e cartelle nelle sfumature vivaci dello zenzero e del senape, in vitello bottalato o stampato con i motivi miny franzy obliquo e Empress (in quest’ultimo il profilo delle buste da lettera si ripete geometricamente sul corpo delle borse, sfumando dal blu al grigio). Accessori dalla qualità sopraffina, che ben si addicono alla voglia di distinguersi di chi, ancor oggi, preferisce indulgere nel piacere quasi meditativo dello scrivere a mano piuttosto che digitare l’ennesimo messaggio sul telefono.



Models to follow: Paolo Diomande

Photographer: Manuel Scrima @manuelscrima
Talent: Paolo Diomande @paolo.diomande

È difficile immaginare, per un modello agli inizi, un viatico migliore dello sfilare sotto l’egida di Hedi Slimane, vate dell’estetica rock-chic nonché instancabile talent scout fin dagli anni d’oro chez Dior Homme. La carriera di Paolo Diomande comincia, perciò, sotto ottimi auspici: ventenne, fisico slanciato e asciutto sormontato da una massa di treccine, parlando sprigiona l’entusiasmo di chi, dopo un paio di lavori degni di nota (il lookbook della collezione Yezael by Angelo Cruciani S/S 2020 e un editoriale per Moncler su i-D Italy) è stato catapultato in uno show mirabolante. Nello specifico, quello organizzato da Celine sull’Île du Grand Gaou, oasi di sfolgorante bellezza nel Mediterraneo diventata, per l’occasione, il palcoscenico della Spring/Summer 2022 della griffe, tra riprese aeree, soundtrack martellante e una pedana chilometrica adibita a rampa per le acrobazie dei motociclisti (in abiti del marchio, ça va sans dire); cornice spettacolare per il défilé rivelatosi, come da prassi slimaniana, un concentrato di topoi rock e spavalderia da club kids sommamente stilosi. Tra loro Paolo, appunto, sceso in passerella con chiodo profilato di borchie, felpa, jeans seconda pelle, boots e collane a cascata, mise poi replicata negli scatti in bianco e nero, a firma dello stesso Slimane, che campeggiano sulle pagine Instagram, Facebook & Co. della maison.
Consapevole dell’importanza di una simile esperienza, specie per il suo futuro professionale, intende proseguire su una strada a questo punto ben avviata, mantenendo un’immagine (anche) social distinta, autentica, ché dall’esperienza di Celine si porta dietro una convinzione: «I brand preferiscono modelli con una personalità forte».



Quando e come hai iniziato a fare il modello?

Ho iniziato nel 2019, a dire la verità non ero molto propenso ma i miei amici mi hanno spinto a provare. Così per un paio d’anni ho fatto la “gavetta”, firmando il primo contratto a marzo.

Quali sono stati i lavori che ti hanno dato maggior soddisfazione, i più significativi?

Il lavoro appena fatto con Celine, un’esperienza unica, ad ora la migliore in assoluto.



In effetti pochi mesi fa hai preso parte allo sfilata Celine S/S 2022, posando anche per le foto in bianco e nero diffuse via social dalla maison. Cosa puoi dirci a riguardo?

Non saprei nemmeno da dove partire, è stato il primo lavoro “serio”, non avevo idea di cosa mi aspettasse né di come comportarmi. Arrivato lì, ho capito che questo era ciò che avrei voluto fare nella vita.
In un evento del genere ci sono modelli da tutto il mondo, si ha la possibilità di entrare in contatto con culture e stili di vita eterogenei. A colpirmi, in positivo, è stato in particolare il team di Celine, per come ci hanno trattato, per la gentilezza e i modi, in quelle due settimane ho legato con tutti loro. È stata un’esperienza fantastica, dallo show al clima che si respirava, e poi l’emozione di conoscere Hedi Slimane, straordinario anche a livello umano, ci ha fatto divertire mettendoci sempre a nostro agio.

Com’è stato essere “diretto”, tra passerella e shooting, da un gigante del fashion quale è Slimane?

Mi ha davvero impressionato, è una persona eccezionale, alla mano, durante pranzi o cene si sedeva con noi senza problemi. Durante il fitting, poi, ha iniziato a parlarmi in italiano, raccontandomi delle vacanze che trascorre spesso nel nostro Paese. Su Slimane non potrei trovare nemmeno volendo qualcosa da eccepire, posso anzi solo ringraziarlo per l’opportunità che mi ha concesso fin dal casting, è stato magnifico lavorare con lui e il suo team.

L’outfit indossato per l’occasione era da rocker consumato, decisamente strong (biker jacket, felpa, jeans aderenti, stivaletti), rispecchia il tuo modo di vestire o preferisci altri stili?

Non è esattamente il mio stile, infatti durante le prove ho avuto qualche problema con i boots, tanto che, al momento di girare nella location piena di alberi che precedeva la passerella, avevano preparato delle scarpe di riserva, nel caso non riuscissi a camminare come stabilito, per fortuna è andato tutto liscio.
Il mio look è diverso da quello rock di Celine, solitamente prevede jeans o pantaloni semplici sotto t-shirt che riflettano appieno la mia personalità, sono abbastanza fissato con le magliette.



Quale capo o accessorio non potrebbe proprio mancare nel tuo guardaroba?

Tutto sommato vesto in modo basic, non ci sono capi o accessori imprescindibili, posso uscire in jeans e tee come in tuta, oppure indossando un outfit elegante se il contesto lo richiede.

Celine a parte, ci sono altri marchi o designer con cui ti piacerebbe lavorare?

Amo Virgil Abloh perciò direi senz’altro Off-White e Louis Vuitton Men, ma mi piacerebbe molto lavorare anche per Fendi e Gucci.

Cos’è per te la moda, a  cosa ti fa pensare?

Penso sia un qualcosa cui è possibile approcciarsi da diversi punti di vista, può riguardare il semplice vestirsi come i valori che ciascuno vuole trasmettere, soprattutto è un mondo bellissimo, dalle infinite sfumature. Probabilmente da fuori, come la vedevo del resto anch’io prima di lavorarci, l’idea che dà è lontana dalla realtà, per comprendere la moda la si dovrebbe vivere dall’interno, rendendosi conto di tutto ciò che c’è dietro, della creatività, del numero di persone coinvolte.



Cosa ti piace fare, come passi le giornate?

Mi piace giocare a basket e calcio, uscire la sera con gli amici, andare in discoteca, cose semplici.

Il tuo rapporto con i social, che tipo di immagine cerchi di trasmettere?

Uso Instagram e TikTok, quest’ultimo però solo per guardare i video. Ho un buon rapporto con i social, seguo molti profili, da quelli dei miei amici agli account di personaggi noti, alle pagine di attualità. Sul mio IG cerco di essere semplicemente me stesso, senza filtri o accorgimenti particolari, così che chiunque possa farsi un’idea. Il lavoro per Celine, in questo, mi ha aperto gli occhi: prima di partire, agitato com’ero, ho modificato il profilo mettendo nome e cognome, per dare un’impressione di maggior “serietà”, ma alla fine ho capito che è sempre un vantaggio essere se stessi e coltivare la propria unicità, i brand preferiscono modelli che sappiano distinguersi, con una personalità ben definita.

Ci sono altri lavori all’orizzonte?

A fine settembre forse andrò in Spagna, per un lavoro che dev’essere ancora confermato, spero che in futuro, con un pizzico di fortuna, arrivino tante nuove opportunità.



Il punto sul menswear visto alla Milano Fashion Week S/S 2022

La fashion week dell’agognato ritorno alla (quasi) normalità, con show e presentazioni perlopiù in presenza e l’abituale messe di serate ed eventi satellite, è terminata lunedì 27; si possono dunque passare in rassegna gli outfit pour homme che hanno fatto da corollario al womenswear di Milano Moda Donna, ché sempre più marchi optano per la formula co-ed, con l’intento di enfatizzare la comune vis creativa che informa le linee femminili come pure quelle maschili. Vediamo, quindi, di analizzare le proposte uomo per la stagione Primavera/Estate 2022 alla luce di tre keywords.

Sensualità

Buona parte di designer e brand sembra aver trovato nella sensualità, fiera e disinibita, la nemesi stilistica dei periodi più cupi della pandemia, quando il contatto fisico era – sostanzialmente lo è tuttora – limitato al massimo, negletto in quanto possibile fonte di contagio. Il tema, com’è ovvio, si sostanzia seguendo le modalità più disparate: l’interpretazione data da Roberto Cavalli è ferina, letteralmente, poiché il glam tutto eccessi, brillii e animalier della maison fiorentina allo zenit della popolarità, negli anni Zero, diventa la pietra di paragone per la direzione creativa di Fausto Puglisi (cominciata nel 2020), che intervalla le uscite femminili con mise maschili tracimanti sfacciataggine e compiaciuta sexyness, tra striature tigrate, metallerie a forma di zanna o artiglio, biker jacket tempestate di borchie, sandali aggressivi e slip sgambatissimi, in bella vista sotto la vestaglia con stampa safari.
L’eros di N°21, al contrario, scaturisce da ponderazione e accortezze couture, trasferite su pantaloni sbottonati sui fianchi, completi costruiti su strati di tulle evanescente, pull a punti larghi che lasciano intravedere la pelle, tutti impreziositi da stole di marabù, cristalli, frange di pellicola sulle slippers tricottate. Tra questi due estremi – per così dire – dello spettro c’è spazio per diverse altre declinazioni, dalla misurata languidezza di Emporio Armani (riscontrabile nelle giacche, blouson e capispalla vari indossati a pelle, al solito decostruiti, carezzevoli sulla figura, negli harness che si fanno sofisticate cinghie da incrociare sul torso, nelle cerniere dei pantaloni lasciate aperte sulle ginocchia) all’underwear che, in passerella da Versace, occhieggia malizioso sotto spolverini, blazer smanicati e gilet, dai capi fascianti di ATXV (brand del giovane Antonio Tarantini, debuttante alla settimana della moda milanese) che, tra panneggi attorcigliati sul busto, lacci e fenditure scoprono ad arte il corpo, al pizzo chantilly con cui CHB di Christian Boaro cuce canotte, diafane camicette e top microscopici, romantici e voluttuosi in egual misura.



Roberto Cavalli, N°21, Emporio Armani, Versace, ATXV, CHB

Rilassatezza

Sarà che mesi di restrizioni e chiusure a intermittenza hanno definitivamente fiaccato le velleità formali dei consumatori, compresi i più attenti al dress code, o forse il famigerato smart working ha favorito un laissez-faire stilistico generalizzato, di sicuro l’abbandono di qualsivoglia rigidità (nei volumi, tagli, materiali, abbinamenti…) è un dogma a cui il menswear non sa più derogare. Lo confermano gli outfit visti a MMD: si è già detto della levità dei look di Emporio Armani, si può tornare pure su quelli di Versace, contraddistinti da linee fluidificate specialmente dalla vita in giù, con pantaloni svasatissimi, bermuda e jeans baggy completati da canotte infilate sotto la giacca, maglie sblusate, calzature che più “off” non si può (sabot aperti sulla punta, slides di gomma, ginniche dalle dimensioni generose).
Boss, invece, bissando la collaborazione con Russell Athletic, mette in scena nel campo da baseball del Kennedy Sport Center un défilé giocoso incardinato su mise casual di immediata lettura, tra bomber collegiali tappezzati di patch, cardigan con iniziali ricamate, sweatpants e felpe alla Ivy League sempre e comunque, perfino in abbinata a cappotti rigorosi, loden, soprabiti quadrettati e suit doppiopetto dalle proporzioni esatte. E ancora, è vestita di tuniche sfilacciate, pullover XXXL, maxi dress ridotti a brandelli e capispalla ingigantiti l’armata di beautiful freak protagonista della sfilata-happening organizzata da Marni. Forme dilatate e fit ampi, se non oversize, anche da Salvatore Ferragamo, Sunnei, GCDS, Aspesi e Pierre-Louis Mascia.



Emporio Armani, Versace, Boss, Marni, Salvatore Ferragamo, Sunnei, GCDS, Aspesi, Pierre-Louis Mascia

Edonismo

Come spesso accade, la pur graduale uscita da frangenti storici particolarmente complessi e tormentati si accompagna, sulle passerelle, a un’impennata di fervore e gaudente edonismo. Non sfuggono alla regola gli show avvicendatisi nei giorni scorsi, a partire dalla trovata ad effetto rivelatasi il clou della fashion week, cioè “Fendace”, la collaborazione tra Fendi e Versace presentata, a sorpresa, nel quartier generale della Medusa in via Gesù con una sfilata all star, zeppa di supermodelle e celebrities (da Dua Lipa a Naomi Campbell passando per Kate Moss, Emily Ratajkowski, Elizabeth Hurley e Demi Moore), in cui le doppie F si confondono con greche, fregi barocchi e altri stilemi che alimentano fin dal principio l’universo creativo versaciano. Un discorso simile vale per la collezione disegnata in solitaria da Donatella Versace per la griffe eponima, dove dettano legge ensemble brulicanti di motivi grafici in technicolor (tra cui il new entry Acid Bouquet), foulard annodati sul capo o intorno alla vita, bluse in seta stampate all-over, completi dalle tonalità acide.
Dean e Dan Caten di Dsquared2, da parte loro, addolciscono il mood di stagione tra il grunge e il militaresco (suggerito dalla ricorrenza di anfibi, cargo pants, colori terrosi, patchwork e tessuti squarciati) innestandovi pattern floreali più o meno estesi, lustrini spalmati su jeans destroyed o giubbetti, coroncine di metallo, addirittura ali di tela poggiate sulle spalle dei modelli.
Difficile restare indifferenti, poi, all’esplosione di cromie e rimandi pop del designer Alessandro Enriquez, che si scatena con ripetizioni ritmiche di frutti, cuoricini, francobolli delle mete estive più famose e disegni assortiti (compresi i ritratti funny del bambolotto fidanzato di Barbie, Ken), oppure alle creazioni dai colori acrilici di Redemption o, infine, al mix and match sfrenato di Giuliano Calza per GCDS, che passa senza un plissé dalle frange di perline ai maglioni crochet, dal total pink ai manga riprodotti sulla camicia hawaiana.


GCDS

“Fendace”, Versace, Dsquared2, Alessandro Enriquez, Redemption, GCDS

Immagine in apertura credits: Ivan Marianelli for The New York Times

Il best of della Milano Design Week 2021

Conclusa la Milano Design Week della ripartenza, è tempo di tirare le somme e il bilancio, stando ai numeri (limitandosi alla piattaforma Fuorisalone.it, 900 designer, 600 eventi, oltre due milioni di pagine viste), alla qualità dei progetti, alle questioni affrontate (sostenibilità, inclusione e creatività consapevole, per citarne solo tre) è assolutamente positivo. Tra incursioni nel settore di eminenti marchi fashion e collaborazioni di rango, ecco un best of della kermesse.

Gucci Cartoleria

Da segnalare anzitutto l’ennesimo coup de théâtre orchestrato dall’ineffabile direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele, stavolta in forma di temporary store riservato alla collezione lifestyle, che lui spiega così: «Quand’ero bambino, andare in cartoleria e trovare matite, penne, quaderni, giochi, equivaleva a far entrare il sogno nella routine giornaliera. Ho immaginato una […] Wunderkammer che potesse accogliere questi elementi del quotidiano e li restituisse a una dimensione fiabesca». In via Manzoni 19 è stato dunque allestito un antro delle meraviglie colmo di chicche in puro Gucci style, dai ninnoli stregati agli scacchi zoomorfi. La parte del leone la fanno però taccuini, astucci, pastelli & Co., su cui si intrufolano i codici emblematici della maison (dalle doppie G al nastro Web), tutti disponibili nel negozio (aperto fino al 17 settembre) oltre che in boutique selezionate e su gucci.com.


Le vetrine della cartoleria Gucci: temporary store dedicato alla linea Lifestyle
Gucci celebra ma Milano Design Week 2021 con una collezione di taccuini, quaderni, astucci e diari
L’interno della Cartoleria Gucci, inaugurata per la Milano Design Week 2021
Gli interni della Cartoleria Gucci, il temporary store dedicato alla linea Lifestyle
Un’immagine della campagna per le presentazione della linea Lifestyle di Gucci

Pyrite di Francesco Maria Messina alla Galleria Rossana Orlandi

Per l’esposizione Collectible Design ospitata dalla Galleria Rossana Orlandi, Francesco Maria Messina ha presentato Pyrite, cabinet composto da cinque moduli di diverse dimensioni assemblati tra loro, che come suggerisce il nome assume le linee irregolari del cristallo di pirite. Un oggetto scultoreo in equilibrio tra funzionalità e decoro, caratterizzato dall’alternanza ritmica di elementi cubici, la cui struttura in legno è rivestita da vernici lavorate per assumere il colore tipico del cristallo.
Il mobile risulta sospeso, come fosse un’escrescenza metallica del blocco di marmo portoro grezzo su cui poggia, che può essere anche rimosso, conferendogli così l’appeal di un’installazione d’arte. Con questo progetto Messina (30enne già annoverato tra i top designer contemporanei) firma un tributo alla sorprendente varietà di forme, volumi e proporzioni della natura, per lui inesauribile fonte d’ispirazione.



La collaborazione tra Zegna e Riva 1920

Definire eccellenze Zegna e Riva 1920 è persino banale, lo è assai meno che i due marchi uniscano le forze per un’iniziativa all’insegna di sostenibilità e artigianalità. Il Salone del Mobile ha rappresentato l’occasione ideale per condividere la filosofia green che accomuna il progetto #UseTheExisting della griffe biellese al concetto di eco-natural living dell’azienda brianzola. Il flagship store Zegna di via Montenapoleone è stato pertanto la cornice di uno speciale allestimento in cui i capi della linea #UseTheExisting (che persegue l’obiettivo di una moda zero waste, riutilizzando tessuti usati o creandone di nuovi dalle eccedenze) venivano affiancati a complementi d’arredo in legno Kauri. Quest’ultimo, un legno millenario di origine neozelandese, viene plasmato dagli artigiani di Riva 1920 in autentici capolavori di design, nello specifico due tavoli e un tavolino, esposti insieme alla libreria in legno massello di Briccole.


La boutique Zegna in via Montenapoleone a Milano
Gli interni del flagshiip store Zegna ospitano la linea #UseTheExisting e i complementi d’arredo Riva1920 per la Milano Design Week 2021
La moda zero waste by Zegna si sposa con il legno kauri dei tavoli Riva1920 per la Milano Design Week 2021
L’interno del flagship store Zegna allestito per la Milano Design Week 2021 con i tavoli di design by Riva1920

La collezione Mesa da Amleto Missaglia

Visitando lo store di Amleto Missaglia durante la Design Week, era possibile ammirare le novità silverware di Mesa, realtà artigianale guidata da Giuliano Malimpensa, allievo di Lino Sabattini e già collaboratore di figure apicali del design tricolore quali Gio Ponti o Bruno Munari. Proposte che, pur attenendosi alla migliore tradizione argentiera italiana, appaiono assolutamente contemporanee nelle loro forme stilizzate, lavorate manualmente dagli artigiani nell’atelier di Como. La novità più impattante, per il 2021, sta nell’uso dei colori per gli articoli in argento e lega antiossidante, dipinti manualmente all’interno di ciascun pezzo.
In edizione limitata, la collezione ruota intorno a tre cardini: il colore, appunto (decisivo soprattutto per reiventare i vasi d’archivio), le finiture fresate a mano e l’ottone brunito.


Il vaso ovale satinato della collezione Mesa silverware presentata durante la Milano Design Week 2021
Due vasetti lucidi Mesa presentati nello store di Amleto Missaglia durante la Milano Design Week 2021
Coppia di piccoli vasi silverware della collezione Mesa 2021
Argento satinato ed estremamente chic per questo vaso dalle forme ovali by Mesa Silverware
Un foglio d’argento crea la struttura del vaso Mesa della collezione Silverware presentata alla Milano Design Week 2021

La creatività di Chiara Bernardini in mostra da Pomandère

Pomandère ha aperto le porte del proprio showroom alla creatività di Chiara Bernardini, celebrando così la sinergia tra moda e arte in un’inedita contaminazione, basata sulla condivisione di principi ispiratori e forme espressive.
Bernardini si è concentrata sul piatto, oggetto di uso quotidiano che, nella semplicità delle sue linee, si presta ad accogliere, enfatizzandola, l’inventiva dell’artista romagnola, intervenuta sulle superfici intonse con tocchi di nero, dalle sembianze astratte o naturali. Il tratto grafico dell’autrice viene esaltato dall’unicità dei singoli pezzi e dalle dimensioni degli stessi.
La forte identità e la pulizia concettuale delle opere di Bernardini si possono ritrovare negli abiti Pomandère, capi dal gusto contemporaneo, nobilitati da finiture e dettagli sartoriali timeless. Denominatore comune del progetto è, nemmeno a dirlo, la qualità eccelsa del Made in Italy.


Piatto in porcellana decorato dall’artista Chiara Bernardini ospitata nello showroom Pomandère durante la Milano Design Week 2021
Decori geometrici sul piatto in porcellana realizzato da Chiara Bernardini per la Milano Design Week 2021
Un piatto in porcellana decorato con le linee potenti e decise tipiche dello stile di Chiara Bernardini
Un decoro in cui le macchie monocromatiche sembrano acquarelli in movimento sul piatto in ceramica dipinto da Chiara Bernardini
Un abito della nuova collezione PE 2022 Pomandère: Contaminazioni

La poltrona MASS PRESSURE by Dror per Horm + Novacolor allo Spazio Neven

Horm ha preso parte al Salone con la seduta MASS PRESSURE ideata dal pluripremiato designer Dror Benshetrit, dimostrazione plastica di come sia possibile trasformare la gommapiuma in un elemento d’arredo funzionale e innovativo a un tempo, visivamente accattivante, risultato della compressione di tre strati di gomma espansa all’interno della struttura in metallo. La colorazione, unica nel suo genere e perciò di volta in volta diversa, ricorda il cemento o una lastra metallica ossidata, ed è frutto di un procedimento messo a punto con Novacolor, al 100% manuale, che ha reso possibile verniciare la gommapiuma preservandone la morbidezza, per un oggetto di sicuro impatto che, durante la serata svoltasi nella Sala Sironi del Palazzo dell’Informazione, ha preso vita grazie alle tecnologie immersive di Neven.



MP Massimo Piombo X Understatement Milano da Masterly for 10 Corso Como

C’è chi ha approfittato della ribalta garantita dalla Design Week per lanciare una linea d’abbigliamento votata alla perfezione sartoriale: è il caso della collab tra Understatement Milano e MP Massimo Piombo per la stagione A/I 2021, presentata ufficialmente nel pop-up Masterly for 10 Corso Como, in cui l’urban style del marchio fondato da Paolo Salluzzi e Matthias Tarozzo incontra la ricercatezza tailored della griffe dell’omonimo stilista. Protagonisti della capsule collection cappotti e maglieria per lei e lui in filati preziosi par définition – dalla baby alpaca al mohair, dal cachemire alla lana, che aggiungono un twist ai dettami della sartoria tradizionale, ora con accenti di colore inaspettato come rosa o corallo, ora attraverso la tridimensionalità di pattern elaborati; se i tagli basic e puliti degli overcoat lasciano parlare la qualità delle texture, particolarmente corpose, le trame a nido d’ape dei maglioni donano profondità al lambswool. Capi che, nelle parole degli ideatori della collezione, racchiudono «l’idea di moda, ovvero eccellenza, tessuti esclusivi e couture squisitamente italiana».


Cappotto in lana mohair della collezione Massimo Piombo per Understatement Milano
Cappotto bianco e nero parte della collezione realizzata da Massimo Piombo per Understatement Milano
Cappotto marrone pied de poule presentato in occasione della Design Week 2021 da MP per Understatement Milano
Cappotto rosso e nero damascato per lei: tessuti esclusivi ed eccellenza che riassumono l’idea di moda di Understatement Milano e Massimo Piombo
Maglioni dolcevita per lui e per lei nella collezione Massimo Piombo per Understatement Milano

La moda romantica di Ann Demeulemeester, dagli Antwerp Six ad oggi

Ha da poco riaperto i battenti, completamente ristrutturata, la boutique ammiraglia di Ann Demeulemeester ad Anversa, tassello importante nella strategia di rilancio avviata nel 2020, che passa adesso da un luogo intimamente legato ai (gloriosi) trascorsi dell’etichetta belga. Lo store è stato ridisegnato da Patrick Robyn, marito e stretto collaboratore della stessa Ann, e si pone a tutti gli effetti come vetrina del nuovo corso della label sotto l’egida di Claudio Antonioli. L’imprenditore, titolare dei multibrand eponimi, già tra i co-fondatori del conglomerato di marchi urban New Guards Group, ha acquisito la griffe un anno fa, deciso a restituirle il ruolo che le spetta nell’olimpo modaiolo. A portarla ai vertici del fashion world era stata infatti la fondatrice, ovvero uno dei mitologici Antwerp Six, i sei stilisti (oltre a lei Dries Van Noten, Marina Yee, Dirk Van Saene, Dirk Bikkembergs, Walter Van Beirendonck) laureatisi nei primi anni 80 alla Royal Academy of Fine Arts di Anversa che, di lì a breve, avrebbero impresso un segno indelebile sulla moda del tempo, entrando negli annali.

E dire che Demeulemeester, nata nel 1959 a Waregem, nelle Fiandre Occidentali, all’inizio pensava di dedicarsi alla pittura, attratta com’era dalla ritrattistica fiamminga, ma resasi conto della forza espressiva degli abiti, si iscrive al corso di fashion design dell’Accademia Reale di Belle Arti. Ne uscirà nel 1981, dando vita con Robyn, quattro anni dopo, al brand che porta il suo nome.
Nel 1986 unisce le forze con i compagni d’università di cui sopra: affittano un furgone, lo riempiono delle proprie creazioni e viaggiano fino a Londra per esporle alla fiera British Designers Show, dove faranno enorme scalpore. Le loro proposte, d’altronde, sono sideralmente lontane dalla pomposità imperante negli eighties, decade caratterizzata, stilisticamente parlando, da spallone, barocchismi, luccichii vari ed eventuali, i punti di contatto sono semmai con il concettualismo spinto degli innovatori giunti qualche anno prima a Parigi dall’Estremo Oriente, Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo.



Ph. Marleen Daniëls, Karel Fonteyne, Erik Madigan Heck

Guadagnatasi la notorietà, Demeulemeester comincia a dettagliare la sua particolarissima visione del prêt-à-porter: l’abbigliamento secondo lei è un mezzo per comunicare, un’emanazione della personalità di chi ne è artefice, delle sue sensazioni, esperienze e interessi. Questi ultimi, per la creativa belga, si appuntano sui versi di poeti come Rimbaud, Blake o Byron, sulla musica che esprime le inquietudini dei giovani di allora (Doors, Velvet Underground, Nick Cave…), su quei dipinti che, in gioventù, l’avevano indirizzata verso la scuola d’arte di Bruges.
Da adolescente, poi, si imbatte nella copertina del disco Horses di Patti Smith, su cui campeggia il ritratto dell’autrice in bianco e nero, con un outfit superbamente androgino (opera di Robert Mapplethorpe, genio maledetto della fotografia americana); si innamora della musica e ancor più del suo stile, negli anni dell’accademia confeziona tre camicie bianche e riesce a spedirle all’indirizzo della cantante, a Detroit. La sacerdotessa del rock diventa la sua musa, tra le due nasce ben presto un rapporto di amicizia e stima reciproca, Smith firmerà persino l’introduzione della monografia pubblicata da Rizzoli Usa nel 2014, che ripercorre con parole e immagini oltre trent’anni di storia della label, soffermandosi sul valore sentimentale che hanno per lei i capi signé Demeulemeester («Traggo un gran potere dall’indossare gli abiti di Ann. Mi fanno sentire sicura […] Sono un talismano»).

Nelle collezioni del marchio tutto ciò si traduce in un romanticismo crepuscolare venato di malinconia e spirito bohémien, nell’assolutismo cromatico del bianco e nero (spezzato talvolta da lampi di colore brillante), nella tensione tra elementi opposti (rigore e delicatezza, corposità e leggerezza, forme fluide e altre accostate al corpo) che caratterizza ogni mise, vero e proprio filo conduttore del lavoro della designer.
È del 1991 la prima sfilata donna a Parigi, in una spoglia galleria d’arte dove irrompono look severi, smaccatamente dark, che la critica stronca bollandoli come “funerei”. Lei corregge il tiro, asciuga le silhouette e perfeziona ulteriormente una visione dalla precisione quasi scientifica, sfuggente però a definizioni univoche e facili schematismi, che inizia presto a solleticare l’interesse di stampa, buyer e semplici osservatori, colpiti dall’approccio cutting-edge, sovente decostruzionista, della stilista.



Ph. Marleen Daniëls, Jacques Habbah

Il menswear non tarda ad arrivare, nel 1996 compaiono outfit per lui mescolati senza soluzione di continuità alle uscite femminili, una scelta che verrà ripetuta nelle collezioni successive fino alla nascita di una linea dedicata nel 2005. Demeulemeester del resto non bada troppo alle distinzioni di genere, in netto anticipo rispetto al gender fluid odierno. Uomini e donne condividono pertanto molti dei capisaldi che, una stagione dopo l’altra, forgiano l’estetica della maison: l’insistenza su linee fluide e allungate; i tagli di sbieco; i tessuti di preferenza leggiadri, naturalmente morbidi (seta, rayon, jersey, lino), con le consistenze ridotte ai minimi termini anche nei materiali più densi quali pelle o panno; le superfici puntualmente increspate da giochi di layering o sapienti drappeggi; l’uso copioso di cinture, nastri e cordoncini, come a voler sorreggere capi da cui promana un senso di precarietà, di noncuranza solo apparente che è poi l’essenza della moda di Demeulemeester.
L’uomo del brand ha l’aria perennemente trasognata e un animo nobile ma tormentato; un po’ maudit dei giorni nostri, un po’ ribelle metropolitano acconciato di tutto punto, con pantaloni dal fit rilassato e blazer stropicciati; i polsini, troppo lunghi, scivolano sulle mani, preferisce combat boots e sneakers alte a mo’ di stivaletto, a cingere il polpaccio. Si concede una punta di vanità ricorrendo al plumage, decoro che esemplifica la dialettica tra naturale ricercatezza ed eccentricità cara alla stilista: le piume si posano così sui cappelli a tesa larga, vengono agganciate a collane, bracciali e altri monili o, addirittura, ricoprono i boa che avvolgono gli abiti dello show Fall/Winter 2010.

Il processo di consolidamento della griffe raggiunge l’acme con il défilé S/S 1997, una sinfonia in black & white scandita, per la parte maschile, da accenni di stratificazione, camicette ampiamente sbottonate e pants quasi liquidi nella loro scioltezza. I critici stavolta plaudono entusiasti alla prova da manuale, il Costume Institute del Met newyorchese provvede a comprare diversi pezzi chiave, lo status di marchio cult è ormai acclarato.
Il ritiro dalle scene giunge a sorpresa nel 2013, con una lettera vergata a mano. Le succede Sébastien Meunier, che si muove nel solco dell’illustre predecessora, introducendo di tanto in tanto minime variazioni, qua tocchi fluo (S/S 2016), là mollezze da esteta decadentista chiuso nella camera da letto (S/S 2018).
Nell’estate 2020, la nuova svolta: Meunier lascia l’incarico e a distanza di poche settimane Antonioli, uno dei primi, storici retailer del brand, lo rileva per una cifra che non viene comunicata. La fondatrice viene (ri)chiamata a svolgere il ruolo di consulente creativo, alcuni ipotizzano già un suo maggiore coinvolgimento, lei nicchia, il neoproprietario parla a MFF di un «new beginning», ancora tutto da scrivere. In fondo, è in atto un ripensamento del concetto di mascolinità, chiamata finalmente a riconoscere tutte le fragilità, dubbi e timori insiti nell’animo umano: l’ideale maschile di Demeulemeester è più che mai attuale.



Ph. Alexandre Sallé de Chou, Giovanni Giannoni

‘Born in Italy – Travel and Joy’, a Noto la mostra che unisce tradizioni siciliane e innovazioni contemporanee

Patrimonio dell’Unesco dal 2002, riconosciuta universalmente come capitale del Barocco siciliano, finita tre anni fa sui radar di milioni di persone grazie a uno dei matrimoni più mediatici di cui si abbia memoria, quello dei Ferragnez, Noto vive una fase di vivacità che non accenna a diminuire, tutt’altro. Lo conferma un’iniziativa che, fino al prossimo 5 novembre, arricchirà ulteriormente la già movimentata scena artistica locale, Born in Italy – Travel and Joy, mostra o meglio, progetto culturale di ampio respiro, con opere disseminate in diverse sedi, dall’ex caserma Cassonello al Parco dell’Anima (suggestiva commistione di arte e agricoltura in un’area di 50 ettari immersa nella campagna netina), al centro espositivo di Palazzolo Acreide, comune poco distante da Noto.



L’exhibition segna la nascita del Museo dell’Anima, polo espositivo e di ricerca che intende affermarsi come un dinamico laboratorio di studio, sperimentazione, produzione e innovazione. Si compone di due sezioni, il Centro Espositivo Museale delle Tradizioni Nobiliari (che, forte della cospicua collezione di reperti, racconta una lunga storia familiare aristocratica di origini sciclitane) e quella di Arte Contemporanea, completamento del succitato Parco dell’Anima, inaugurato nel 2020.
Born in Italy – Travel and Joy, ideata da Alessia Montani e Federica Borghi, è stata realizzata da M’AMA.ART e Icons Productions, in collaborazione con il Sistema Museale Iblei, Luigi Grasso (presidente della sezione Arte Contemporanea) e Titti Zabert Colombo (a capo invece dei dipartimenti delle Tradizioni Nobiliari e Memoria storica), con il patrocinio del Ministero dello Sviluppo Economico.



La curatrice Alessia Montani riassume così l’idea alla base dell’iniziativa: «Artisti di fama internazionale sono stati scelti per confrontarsi sul valore del recupero delle antiche tradizioni e dell’artigianato artistico in chiave innovativa, anche grazie all’ausilio delle nuove tecnologie digitali. Il ricamo, l’uncinetto, le luminarie, le incisioni, l’intarsio, la ceramica, i preziosi oggetti della tradizione – selezionati da Cetty Bruno – diventano, in Born in Italy, il filo rosso che unisce passato e futuro, tradizione e contemporaneità. Un progetto multidisciplinare, per recuperare le antiche colture e culture del Mediterraneo, patrimonio materiale e immateriale del nostro Paese, dove l’importanza della biodiversità è incisa nella terra e nel grano autoctono con l’opera Rebirth – Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto, ormai simbolo di sostenibilità nel mondo». Proprio quest’ultimo artwork, una riconfigurazione del simbolo matematico dell’infinito con due cerchi contigui, rappresentanti i poli opposti di natura e artificio, cui si frappone un terzo anello (a indicare una possibile compenetrazione tra dimensioni teoricamente antitetiche), assurge in qualche modo a emblema della rassegna, tanto da venire proiettato, in forma di mapping, sulla facciata della cattedrale di Noto.
Oltre al lavoro di Pistoletto, esponente di rango dell’Arte Povera, i visitatori potranno ammirare un corpus decisamente nutrito di opere e installazioni site specific, realizzate tra gli altri da Domenico Pellegrino, Paola Romano, Titti Garelli, Julia Krahn, Franco Politano e Giulio Rigoni.