Lucrezia Guidone: teatro, cinema d’autore e serie cult

Abruzzese, 36 anni, Lucrezia Guidone vanta una formazione di prim’ordine, costellata di premi e collaborazioni con nomi di rilievo del panorama artistico italiano.
Diplomata all’Accademia Silvio d’Amico, ha proseguito gli studi al Centro teatrale Santacristina, diretto da Roberta Carlotta e da un mostro sacro del settore, Luca Ronconi (che l’ha voluta in tre opere, In cerca d’autore. Studio sui Sei personaggi, Panico, Celestina laggiù vicino alle concerie in riva al fiume) e al Lee Strasberg Institute di New York.

Lucrezia Guidone
Total look Giorgio Armani, earrings vintage

Vincitrice del Premio Ubu nel 2012, due anni dopo il ruolo in Noi 4 le vale un secondo, importante riconoscimento, il Premio Flaiano. Seguiranno numerose altri parti, per le quali si divide tra palco («una vera casa», il suo ultimo spettacolo, in scena fino al 6 aprile al Piccolo Teatro, è Romeo e Giulietta, regia di Mario Martone), cinema e tv.
Recita in Dove cadono le ombre, Senza distanza, La ragazza nella nebbia, Qui rido io, è però un terzetto di titoli su Netflix a garantirle notorietà e plauso unanime di spettatori e critica: Luna Nera, Summertime e Fedeltà, in cui brilla nei panni di Margherita, moglie – tradita e a sua volta traditrice – di Carlo/Michele Riondino; parlandone oggi, traccia un bilancio «molto positivo» di quest’ultima serie, «non solo per la meravigliosa risposta di pubblico, ma anche e soprattutto perché ho avuto la possibilità di lavorare con un cast di attori e attrici che amo. Tante donne si sono riviste in Margherita, se mi incontrano mi salutano un po’ come un’amica… Quando succede significa che ti sei avvicinata, hai fatto risuonare qualcosa».

Lucrezia Guidone serie
Trench Ermanno Scervino, earrings vintage, tights Calzedonia

“In futuro, oltre a Mare fuori 4, mi vedrete in un film e in una nuova serie Rai, poi ancora un giro a teatro”

Da quest’anno, è nel cast di un altro serial cult, Mare fuori 3: la sua Sofia dirige l’istituto penale minorile di Napoli, che fa da sfondo alle vicende di Filippo, Carmine, Rosa & Co.
Ne parla come di «un’esplosione, un’ondata di calore che ti avvolge, anche in modo inaspettato. La sceneggiatrice, Cristiana Farina, ha definito il mio personaggio “un cuore d’inverno”, un’immagine che mi piace molto». Per il futuro, invece, «oltre a Mare fuori 4, mi vedrete in un film e in una nuova serie Rai, poi ancora un giro a teatro».

Lucrezia Guidone 2023
Total look Giorgio Armani, earrings vintage

Lucrezia Guidone attrice
Total look Federica Tosi

Lucrezia Guidone Instagram
Total look Valentino vintage

Credits

Talent Lucrezia Guidone

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Davide Musto

Stylist Valeria Marchetti

Ph. assistant Valentina Ciampaglia, Giacomo Gianfelici

Make-up  Fulvia Tellone @Simone belli agency

Nell’immagine in apertura, Lucrezia Guidone indossa total look Valentino vintage

Versailles, cantante dirompente in continua mutazione

Potentino, 27 anni, chioma color platino (che ha da poco sostituito quella blu elettrico cui aveva abituato gli spettatori di X Factor 2021, la sua prima ribalta), una vena punk che declina tanto nei brani che nei look sfoggiati sul palco, Luca Briscese – aka Versailles – non ha mai nascosto le proprie ambizioni.

Total look Louis Vuitton

A cominciare dal nome d’arte, scelto, aveva spiegato, per evidenziare la portata innovatrice, dirompente di un progetto musicale inedito, un blend di metal, hard rock, electro e hip hop apparentemente assurdo (l’ispirazione, per usare le sue parole, viene dalle «sonorità del passato, rock e post rock, ma anche più moderne a livello di ritmica, su tutte hip hop e trap»), come del resto apparve all’epoca la scelta del re di Francia Luigi XIV, che costruì una magniloquente reggia appena fuori Parigi. Dovendo descrivere la sua musica, lui la definirebbe «in continua mutazione, si adatta molto a ciò che sto vivendo in quel momento, che provo a tradurre in suoni e immagini».
Il suo ultimo lavoro, uscito a febbraio, è il repack dell’EP -Patico, con cui aveva esordito nel 2022, preceduto – nell’ordine – dal singolo di debutto Truman Show (presentato alle audizioni del talent musicale targato Sky) e da Lisa dagli occhi blu ray e Assolo; le canzoni più recenti, Comfort Fit (feat. Missey) e Salute e Malattia, come pure Giustissimo, sono incluse nella suddetta versione arricchita del disco, ribattezzata A-Patico.

“L’ispirazione viene dalle sonorità del passato, rock e post rock, ma anche più moderne a livello di ritmica, su tutte hip hop e trap”

Total look Celine Homme

Fautore di uno stile venato di suggestioni rockettare e street, tra choker, t-shirt stampate, chiodi in pelle, anfibi e denim customizzato, si presta volentieri anche all’attività di modello: ha calcato la passerelle delle ultime due sfilate (primavera/estate 2023, autunno/inverno 2023-24) di Simon Cracker, marchio con cui condivide l’approccio radicalmente disruptive, iconoclasta al vestire (con la moda, puntualizza, «ci stiamo ancora conoscendo e corteggiando, al momento però mi piace»). Al momento, spiega, sta lavorando «a molti nuovi brani, però sono ancora alla ricerca del fil rouge che, nella mia testa, li leghi, dandogli un senso, work in progress insomma».

Credits

Photograper Alberto Alicata

Creative Direction Fabrizio Bezzi

Stylist Giorgia Melis

Hair Manuel Ian Farro

Grooming Giuseppe Paladino

Executive Producer Lucilla Spagnuolo

Production Iku Agency

Location and cars Brixia Motor Classic

Nell’immagine in apertura, Versailles indossa total look Louis Vuitton

Pitti Immagine Uomo, il meglio dell’edizione numero 104

Aggirandosi tra gli stand di Pitti Uomo, giunto quest’anno alla 104esima edizione, riservata alle collezioni primavera/estate 2024, si ha la conferma del fatto che il punto di forza della fiera, oggi come non mai, sia rappresentato dal mix ottimamente calibrato delle proposte, che coprono l’intera gamma del menswear, tanto nelle sue declinazioni più formali, afferibili alla categoria del classico, che in quelle più casual e sperimentali, così da intercettare ogni variazione – grande o piccola che sia – di un settore, quello dell’abbigliamento maschile, ben più dinamico di quanto non appaia.

Da Herno a KNT, le novità dei brand simbolo del made in Italy

La conferma arriva innanzitutto dai big del made in Italy che, lungi dal dormire sugli allori, riproponendo con minime variazioni i best-seller che gli hanno consentito di farsi conoscere – e apprezzare – in tutto il mondo, continuano a battere sul tasto dell’innovazione, ampliando ulteriormente guardaroba già ricchi e strutturati.
Herno, ad esempio, porta al Teatrino Lorenese, in Fortezza da Basso, la summa dei valori che persegue da sempre, ossia qualità ineccepibile, eleganza effortless, materiali pregevoli, trasversalità e un quid tecnologico necessario affinché gli abiti siano performanti e sostenibili; sugli scudi il capospalla, pilastro dell’offerta del brand sin dalle origini, accompagnato da maglieria, polo, t-shirt, camicie, pants e bermuda in diversi tagli e filati, dal cotone in differenti grammature al nylon tecnico, oltre che da un’ampia varietà di accessori coordinati.

Guarda (come anticipato a MANINTOWN da Walter De Matteis, founder e direttore creativo dell’etichetta insieme al fratello Mariano) a Procida, ai colori e al lifestyle rilassato di un’isola che è un concentrato di mediterraneità, la proposta per la prossima stagione calda di KNT, marchio che combina l’impareggiabile know-how artigianale di Kiton con la visione contemporanea dei gemelli De Matteis, terza generazione di una famiglia divenuta sinonimo di tailoring italiano. Il viaggio della label, stavolta, parte dal golfo di Napoli e arriva oltreoceano, precisamente a Los Angeles, simbolo della coolness californiana, mantenendosi in equilibrio fra tradizione e contemporaneità, formale e informale, materiali tecnici (ma lavorati a regola d’arte) e tessuti naturali, dalla seta al fresco di lana leggerissimo, al cotone (crispy, garzato, lavato e dalla mano vellutata…).

“Un abbigliamento che non rinuncia allo stile streetwear ma riscopre la bellezza dell’abito, il piacere di indossarlo”

Cromie sature quali turchese, rosa e giallo sono affiancate da tonalità must (nero, bianco, grigio, blu navy); tingono abiti dall’aria nonchalant, che pure rispettano tutti i crismi della sartorialità cara all’azienda: le vestibilità risultano ammorbidite, relaxed, come nei completi destrutturati e fluidi, negli smoking ultralight percorsi da minute fantasie ton sur ton, nei blazer mono e doppiopetto in seta canneté, con bottoni ricoperti.
Per quanto riguarda i pantaloni, atout del brand, i pantalaccio con coulisse in vita vengono affiancati dal nuovo modello “WD”, classico sul davanti, con gamba ampia e soffice sul retro, mentre il denim integra tre new entry dai volumi affusolati, carrot, multitasche e skinny fit. Non mancano accenti sportivi e urban (felpe e bomber oversize, trench, shirt con coulisse applicata e gilet, indumento trasversale par excellence), per un ready-to-wear che – chiosa Walter De Matteis – «non rinuncia allo stile streetwear ma riscopre la bellezza dell’abito, il piacere di indossarlo».

La maglieria deluxe di Piacenza 1733

Piacenza 1733, eccellenza italiana del knitwear, per la prossima primavera/estate rilegge l’heritage che solo un’azienda ultracentenaria qual è il lanificio biellese può vantare, conciliando un’allure giocosamente nostalgica, rètro e una ricerca stilistica proiettata al futuro. Si alternano così pezzi che simboleggiano al meglio la nozione di classico senza tempo, in lana merinos dalla finezza extra o mischie impalpabili di seta e cashmere, essentials che non possono mancare nel guardaroba dei globetrotter più esigenti.

E ancora, maglie ultra-contemporanee dalle vivaci lavorazioni tridimensionali, evergreen dell’armadio maschile (polo, camicie e pullover in svariate versioni, in maglia rasata, con microstrutture bicolori e finiture rigate, ornati da fantasie di marca vintage o effetti geometrici a rilievo, in mouliné a coste zig-zag, a costa inglese traforata, a punto losanga…) e capi versatili come la overshirt patchwork o il cardigan in spugna, il tutto in una palette sensoriale, legata ai colori naturali della terra, in contrasto con tinte che appaiono sbiadite dal sole e luminosi pastello.

Pitti Uomo 104 Piacenza 1733
Piacenza 1733 p/e 2024

Fiorio Milano, savoir-faire e artigianalità declinate (anche) nel beachwear

Altre storiche realtà tricolori, pur mantenendo salde le proprie radici, trasferiscono il proprio saper fare artigiano (anche) nella categoria estiva per definizione, il beachwear. È il caso di Fiorio Milano, celebre per le cravatte, disponibili in un’infinità di misure e motivi, dai regimental ai paisley.
I costumi del brand si distinguono per le stesse qualità che contraddistinguono la cravatteria, vale a dire raffinatezza, artigianalità, attenzione meticolosa ai dettagli; sono espressione di una qualità superiore, tailor made, riscontrabile in ogni particolare, interno o esterno, dalle asole alle cuciture di assoluta precisione, dalle comode coulisse in vita al taschino posteriore, per non parlare dei materiali, che spaziano tra filati manopesca, assai gradevoli al tatto, ai nylon e poliesteri ad asciugatura rapida, rifiniti con cura e resistenti, sostenibili in quanto, ad eccezione delle parti in metallo, sono biodegradabili.

I boxer da mare stagione p/e 2024 si accendono in un tripudio di cromatismi energici, bold, movimentati da allegri pattern floreali o folk: si va dalle stampe di ibiscus, su fondi che ricordano i muri scrostati delle case della Costa Azzurra, a quelli marmorizzati in grigio dégradé nei toni del verde, azzurro, giallo, rosé, con disegni che tracciano piume d’uccello d’ispirazione gypsy, passando per quadretti vichy e righe (che evocano lo stile da spiaggia della Saint Tropez anni ‘60), fantasie otpical, pois irregolari, riproduzioni di conchiglie, coralli o stelle marine, grandi fiori stilizzati.

Un estro decorativo allargato al fiore all’occhiello di Fiorio Milano, le succitate cravatte, confezionate in garza e mogador come pure in tricot, seta stampata, jacquard, cotone egiziano, lino mélange. Un’offerta in linea con l’obiettivo prefissosi dalla griffe, cioè parlare alle nuove generazioni che hanno (ri)scoperto il formale ma in modo inaspettato, rivisitato attraverso codici e contaminazioni che lo rendono accattivante e moderno.

La filosofia “Saving the Ocean” di Keeling, il debutto dello shoemaker Dario Zanco Milano

Sempre in tema sostenibilità, va menzionato il debutto di un’impresa che si propone di salvaguardare l’ambiente, quello marittimo in particolare, ergendosi idealmente a portavoce ed espressione vestimentaria delle meraviglie degli oceani, popolati da un’incredibile varietà di fauna e flora. Keeling, questo il nome dell’etichetta (dal nome delle isole Cocos o – appunto – Keeling, atolli situati a circa 1300 km a sud-ovest di Giava), esordisce sul mercato italiano con la collezione p/e 2024, un total look dal design distintivo pensato espressamente per gli amanti del mare, realizzato con materiali green e ricorrendo a tecniche come la rivoluzionaria Clean Color, procedimento brevettato di tintura tessile che riduce fino al 98,9% l’impiego dell’acqua, permettendo oltretutto alle molecole del colore di penetrare in maniera irregolare nelle fibre, così da conferire un aspetto irregolare, one of a kind alle texture.

Tra gli esordienti alla kermesse anche Dario Zanco Milano, brand di calzature luxury che affonda le radici nel sogno dell’omonimo fondatore, estasiato fin bambino dal lavoro artigianale svolto dal nonno nel laboratorio meneghino. Allontanatosi per scelte lavorative dallo shoemaking, decide infine di abbracciare in toto la sua passione lanciando una collezione dedicata al golf e la linea Reptile, scarpe in cuoio pregiato e suola XXX flessibile.

Dopo il Covid, Zanco, forte della continua interazione con la propria clientela, che gli ha permesso di verificare le esigenze del mercato, rilancia il marchio, fautore di uno stile classico che rifugge mode e stagionalità, imperniato su cult quali derby, mocassini, Oxford, polacchine e, da ultime, le sneakers, completamente made in Italy, dal disegno originario alle finiture, e in pellami sontuosi, dal coccodrillo allo struzzo, al rettile.

Pitti Uomo Dario Zanco
Sneakers Dario Zanco Milano

La capsule a tutela degli animali di Calabrese 1924, l’evento dedicato all’alta sartoria partenopea di Le Mani di Napoli

È animata da intenti ammirevoli la speciale capsule di Calabrese 1924, prestigiosa manifattura partenopa specializzata in cravatte ed eleganti accessori pour homme, realizzata per la non profit Humane Society International (HSI)/ Europe, dedita alla tutela di tutti gli animali. Denominata Calabrese 4PETS, consta di fazzoletti in cotone, da collo e da taschino, popolati da simpatici cani e gatti, stilizzati e dal flair vintage, tra dolci bassotti contornati da fiori dalle sfumature flou e felini dandy in papillon. La collezione sarà in vendita esclusivamente sul sito dell’organizzazione, per contribuire alla raccolta fondi a favore della mission che porta avanti dal 1991.

Pitti Uomo Calabrese 1924
Calabrese 4PETS, Calabrese 1924

A proposito di artigianalità made in Napoli, da segnalare la presenza, in Fortezza da Basso, dell’associazione Le Mani di Napoli, per una conferenza o meglio, una tavola rotonda sul tema Napoli dentro. Napoli addosso, animata da personalità quali il sindaco del capoluogo campano, Gaetano Manfredi, il rettore dell’università Federico II Matteo Lorito, il neopresidente di Pitti Immagine Antonio De Matteis, il sindaco di Firenze Dario Nardella, lo chef Gennarino Esposito, un «appuntamento imperdibile per raccontare la città e il suo talento nel campo sartoriale e degli accessori», nelle parole del primo cittadino napoletano.
Per l’occasione, viene inoltre esposto il Disciplinare della Sartoria Napoletana, un documento destinato a rivoluzionare il settore, con Le Mani di Napoli che si fa carico di codificare e rispettare i processi tradizionali che interpretano al meglio lo spirito della scuola partenopea.

Pitti Uomo Le Mani di Napoli
I partecipanti alla tavola rotonda di Le Mani di Napoli

Antony Morato tra stile timeless e pop culture

Eclettismo e versatilità sono le parole d’ordine per gli attori del mondo contemporary e sport presenti alla kermesse. Antony Morato, ormai habitué della manifestazione, lancia a Pitti una collezione che, al solito, viaggia nel tempo e nello spazio, prendendo a modello tre specifici decenni (gli anni ‘70, ‘80 e ’90) e altrettante città, Osaka, Seattle, Malibù; un blend di influenze disparate che trovano un denominatore comune nel gusto tipicamente italiano degli abiti, che rimane la stella polare della label. Nella p/e 2024 confluiscono, quindi, i caratteri distintivi dei periodi storici e contesti urbani menzionati, un brassage di tonalità brillanti, print astratti, floreali e geometrici, tocchi neon, tessuti naturali che si accompagnano a quelli dal sapore utilitarian.
Vengono aggiornati i must dell’armadio maschile, ossia camicie a righe, overshirt, pezzi in lino dai tagli lineari, sofisticati, mentre il grunge dei Nineties informa look mutuati dal workwear, con cargo pants sotto bomber leggeri. Le superfici, sovente grezze, materiche, donano un tocco edgy a capi e accessori di stampo minimal, facilmente adattabili a qualsiasi outfit. Non mancano colorazioni e grafismi d’impatto, che confermano la predilezione di Antony Morato per i pilastri della cultura pop, richiamati da tre capsule collection, omaggi ai Rolling Stones (con l’irriverente linguaccia della band), ai mitici Simpson e al logo Chupa Chups, dietro cui si cela il genio di Salvador Dalí, pubblicitario ante litteram di razza.

U. S. Polo Assn., uno show nel segno dell’unione tra moda, sport, arte e musica

Pitti Uomo 104 U. S. Polo Assn.
U. S. Polo Assn. p/e 2024 (ph. Filippo Maffei)

Fa le cose in grande stile U. S. Polo Assn.: oltre a svelare una collezione grintosa, esplicitamente sporty, che riprende nuance e atmosfere delle vacanze nel Mar Mediterraneo (perciò infinite gradazioni di blu, forme casual, fibre leggere, nobili quali lino o cotone seersucker, per una reinterpretazione sensibile ai trend dei capisaldi della casa, dagli elementi vintage inspired alle rigature, dal color block alle classiche polo), il brand ufficiale della United States Polo Association allestisce, infatti, uno spettacolo nel segno dell’unione tra moda, sport, arte e musica in una cornice magica, il Giardino Torriggiani, gioiello naturalistico nel cuore di Firenze.

Lo show si conclude con una cena esclusiva, allietata prima dalla performance di Antonio Signorini, scultore di fama mondiale che, per l’occasione, espone le sue opere con cavalli volanti in bronzo in tre piazze del centro (piazza del Carmine, San FirenzeA Firenze il laboratorio green di Cassetti per gli orologi di lusso e del Grano), poi da quella di Santi Serra, artista equestre capace di stabilire un’assoluta simbiosi con i cavalli, quindi – dulcis in fundo – dall’esibizione live dei mitici Planet Funk.

Pitti Uomo 104 U. S. Polo Assn.
Il concerto dei Planet Funk al Giardino Torrigiani (ph. Filippo Maffei)

The Pineider’s Timeless Passions

Non si può non menzionare, infine, l’evento organizzato da Pineider nella boutique di Lungarno degli Acciaiuoli, dunque fuori dai confini fieristici strettamente intesi, e che però ricalca alla perfezione il tema dell’edizione numero 104, Pitti Games, il gioco concepito come dimensione ludica, sfidante ma – soprattutto – creativa.

Aspetti condivisi in toto dalla maison toscana, i cui prodotti artigianali sono espressione di un lifestyle dinamico, energico, in costante movimento, tanto che oltre agli articoli di scrittura per cui è rinomata, ha da tempo in catalogo linee di pelletteria e valigeria ugualmente preziose, raffinate, completate adesso da borse da viaggio bicolor in sfumature (zafferano, sabbia, color cuoio naturale) e materiali (pelle martellata, bottalata, liscia, Mini Franzi, scamosciata) inediti, nonché dai nécessaire per arricchire il tempo libero e gli interessi personali degli intenditori, tra watch, jewelry e game holder e porta-racchette; novità salutate dalla griffe, mercoledì 14 giugno, con la serata The Pineider’s Timeless Passions, he ha avuto un anfitrione d’eccezione, Pierfrancesco Favino, ambassador del marchio.

Pitti Uomo 104 Pineider
Pierfrancesco Favino, ospite d’eccezione dell’evento The Pineider’s Timeless Passions

Per l’immagine in apertura, Pierfrancesco Favino all’evento The Pineider’s Timeless Passions (ph. Nicola Muro)

S|Style, a Pitti Uomo i designer emergenti che coniugano sostenibilità e ricerca creativa

Tracciabilità, filati riciclati (e riciclabili), tessuti di recupero o upcycled, uso della tecnologia per contrastare gli sprechi che, per una delle industrie in assoluto più inquinanti qual è la moda, costituiscono un gigantesco problema; sono alcune delle parole d’ordine adottate dai brand di S|Style, area di Pitti Immagine Uomo che, da tre anni a questa parte, porta avanti uno scouting dall’impronta fortemente inclusiva e internazionale, promuovendo il lavoro di designer emergenti che, nel realizzare le proprie collezioni, ricorrono a pratiche virtuose sotto il profilo etico e ambientale, unendo eco-responsabilità e desiderabilità dei capi.
A illustrarci le peculiarità dei marchi protagonisti quest’anno nella Sala delle Nazioni, in Fortezza da Basso (nello specifico, Ksenia Schnaider, Dalpaos, Permu, Cavia, Dhruv Kapoor, Isnurh, Steven Passaro, Jeanne Friot, Olooh Concept, Young n Sang), soffermandosi anche su credenze più o meno infondate ed esempi lodevoli, da imitare, è la giornalista e stylist Giorgia Cantarini, curatrice e ideatrice del progetto.

S|Style Pitti Uomo
Giorgia Cantarini, curatrice del progetto S|Style di Pitti Immagine Uomo

S|Style Pitti 104
Steven Passaro

“La soddisfazione maggiore è l’arrivo negli store, vedere che i brand di S|Style hanno riscontri commerciali e riscuotono il gradimento sia della stampa sia del pubblico”

S|Style è giunto alla settima edizione, a tre anni dal varo qual è il bilancio di quest’iniziativa, gli obiettivi già centrati e quelli a cui puntare negli anni a venire?

Sicuramente tra quelli già raggiunti il fatto che buona parte dei designer passati da S|Style abbiano fatta molta strada; sono approdati nei negozi più importanti e, in diversi casi, sono state offerte loro collaborazioni prestigiose o riconoscimenti. Steven Stokey-Daley (fondatore e creative director del brand S.S. Daley, ndr), ad esempio, che ha presentato con noi la prima collezione, ha vinto l’LVMH Prize 2022, Phipps ha firmato una collab con Boss, Uniforme è stato selezionato per la finale dell’Andam Fashion Award, Vitelli ha iniziato a lavorare con Collina Strada… Insomma, parecchi di loro si sono fatti notare e stanno portando avanti il proprio percorso. Personalmente, la soddisfazione maggiore è però l’arrivo negli store, vedere che hanno riscontri commerciali e riscuotono il gradimento sia della stampa sia del pubblico, cominciano ad essere nomi su cui puntare nel contesto del menswear. 

Nell’immediato, invece, ci attende la partnership con Kering, uno step ulteriore, perché potremo offrire una fase di formazione, avviando una mentorship col Material Innovation Lab, il centro di ricerca del gruppo che si occupa di tutto ciò che concerne la sostenibilità. Questo darà l’opportunità ai creativi selezionati di accedere a risorse difficili da ottenere per le rispettive griffe, di dimensioni ridotte; sicuramente potranno acquisire un know-how unico nel suo genere e saranno legati a una multinazionale che garantisce enorme visibilità. L’auspicio è che i più dotati vengano notati anche da altre maison e, di nuovo, riescano a entrare nelle boutique di riferimento in tutto il mondo. 

S Style sostenibilità
Isnurh

“La sostenibilità è un percorso estremamente lungo e tortuoso, che interessa il business a 360 gradi”

Da Cavia a Dalpaos, sono dieci i marchi selezionati per la 104esima edizione di Pitti Uomo, potresti fornirci una panoramica, illustrare brevemente le caratteristiche precipue di ciascuno?

Sono marchi piccoli, perciò si avvalgono tutti di materiali “fine pezza”, cioè le giacenze che si accumulano nei magazzini delle aziende manifatturiere. Alcuni hanno attive delle partnership con altre realtà del settore, si possono citare tra gli altri Permu e Steven Passaro, che fanno ricorso alla prototipia 3D, evitando di realizzare un numero eccessivo di pezzi di campionario e modellando tutto prima, per gestire al meglio l’intero ciclo produttivo; Ksenia Schnaider, che collabora col produttore di denim sostenibile ISKO; i danesi di Isnurh, coi loro capi in cotone organico certificato Oeko-Tex, che hanno trovato il modo di stampare senz’acqua, inoltre una parte della linea di ready-to-wear è artigianale, lavorata a mano (come avviene anche da Cavia), un’altra ancora viene ottenuta da tessuti certificati o vintage (e lo stesso vale per Dalpaos). 

“Sono esempi di best practice le imprese che mettono tutto in piazza, comunicando in maniera onesta e chiara, fornendo un quadro d’insieme che sia verificabile”

La sostenibilità è un argomento ormai all’ordine del giorno, eppure la confusione in materia è ancora tanta, basti pensare che un recente studio della Commissione europea ha evidenziato come oltre la metà delle indicazioni fornite dai brand siano vaghe, fuorvianti o del tutto infondate, mentre quasi la metà dei 230 che si professano “eco” non può fregiarsi di adeguate procedure di verifica. Puoi indicarci alcuni falsi miti da sfatare sull’argomento e, all’opposto, le best practice?

La sostenibilità è un obiettivo ad oggi irraggiungibile, non a caso la denominazione S|Style sta per sustainable style, quello perseguito dalle nostre label, responsabili e con un’attitudine – sul lungo termine – sostenibile; ci mettono il massimo impegno, però non possono definirsi pienamente tali, perché a monte c’è un percorso estremamente lungo e tortuoso, che interessa il business a 360 gradi, non riguarda solo la produzione dei capi, ma anche la tipologia dei materiali, la catena del valore, i fornitori, gli standard da adottare…
Nessuna griffe, a parte eccezioni virtuose alla Patagonia, può dirsi sostenibile al 100%, quelle della sezione sono però un esempio di cosa voglia dire essere coscienziosi, avere a cuore certe tematiche fin dal principio…

Tra i falsi miti, innanzitutto la pelle vegana, che purtroppo in termini di sostenibilità è peggio di quella naturale, infatti si stanno sviluppando alternative bio-based o rigenerative; bisogna comunque ammettere che, fintanto che continueremo a consumare carne, perlomeno con la concia dei pellami si evitano sprechi, reimpiegando gli scarti alimentari.
Si può fare un discorso simile per la finta pelliccia: i trattamenti e coloranti usati per riprodurre l’effetto del pelo animale la rendono più inquinante delle pellicce classiche, per quanto siano allo studio soluzioni meno impattanti. Si parla tanto, poi, di tessuti riciclati, ma il nodo riguarda la riciclabilità degli stessi, altrimenti rimane il problema di dover reimmettere sul mercato prodotti nuovi.
Sono esempi di best practice, al contrario, le imprese che mettono tutto in piazza, comunicando in maniera onesta e chiara se e come si stiano muovendo in tale direzione, fornendo un quadro d’insieme che sia verificabile. Rientra tra le best pratice anche il tenersi aggiornati sulle innovazioni e migliorie tecniche introdotte man mano (in particolare sulle lavorazioni che consentono di sprecare meno acqua o prevedono un limitato consumo di suolo, mi viene in mente l’agricoltura rigenerativa), come pure seguire gli aggiornamenti a livello legislativo e di certificazioni; sotto quest’aspetto, l’azienda migliore, trasparente in tutto e per tutto, è – ancora – Patagonia, che arriva a dire esplicitamente ai consumatori “se non vi serve, non compratelo”.

“Il focus di S|Style è la selezione, con marchi scelti non solo per l’approccio sostenibile, ma anche per l’effettiva vendibilità, per il valore intrinseco delle proposte”

S Style Pitti Firenze
Permu

Come vorresti evolvesse il progetto da qui ai prossimi anni?

Certamente sarebbe bello aprirsi anche alle realtà femminili, sebbene al momento non credo avremmo la capacità di gestire più di dieci label per volta; voglio che il focus di S|Style resti la selezione, i marchi devono essere scelti non solo per l’approccio sostenibile, ma anche per l’effettiva vendibilità, per il valore intrinseco delle proposte.
Di brand ce ne sono tanti, fin troppi, spesso si dà grande rilievo alla sostenibilità mentre la creatività passa in secondo piano, eppure le maggiori resistenze dei potenziali clienti sono dovute proprio al fatto che non vogliono mettersi addosso abiti esteticamente poco validi, non desiderabili. Non possiamo farci illusioni, nessuno acquista – o meno – un prodotto solo perché “buono”, comprare un vestito è un gesto emozionale, è nella natura umana essere attratti da ciò che ci piace, trasmettendoci sensazioni gradevoli. 

S Style 2023
Kseniaschnaider

Nell’immagine d’apertura, Giorgia Cantarini, curatrice del progetto S|Style di Pitti Immagine Uomo

Eli Russell Linnetz, narratore dai mille talenti

Definire fashion designer Eli Russell Linnetz (ospite d’eccezione, col suo ERL, di Pitti Uomo 104) è quantomeno riduttivo, dato che questo 32enne californiano dall’aria scanzonata è un creativo poliedrico dalle mille virtù, che si diletta volentieri anche di regia (ha diretto videoclip per Kanye West, Shawn Mendes e Tyga), fotografia (ha all’attivo servizi per brand – Yeezy, Skims – e testate quali Interview, GQ o Vogue), produzione musicale et similia, collaborando a vario titolo con titani dello show business odierno come il citato Ye, Lady Gaga, Kim Kardashian, Kid Cudi.

Tuttavia è col marchio che porta le sue iniziali, in cui ha trasfuso le vibe e la rilassatezza nel vestire tipiche della metropoli dov’è nato e cresciuto, Los Angeles, e in particolare del quartiere di Venice Beach, col suo crogiolo di etnie, culture e tipi umani, dai graffitari ai surfisti perennemente in shorts sbiaditi dal sole, agli skater coi loro abiti baggy, che si è fatto un nome nel circuito degli iniziati alle cose di moda (l’etichetta, non per niente, è distribuita da Dover Street Market, eldorado del fashion di nicchia), fino all’esplosione mediatica garantitagli dalla collaborazione con Dior.

Eli Russell Linnetz
Eli Russell Linnetz

Esattamente un anno fa, infatti, ha co-firmato la collezione Men Resort 2023 California Couture, un cortocircuito tra la sofisticatezza estrema della griffe parigina e l’immaginario edonistico della West Coast, tra suit rivoltati, tonalità zuccherine contrappuntate da fiammate di colore saturo, fitte incrostazioni di perle e paillettes.
A seguire, la vittoria del premio Karl Lagerfeld nell’edizione 2022 del LVMH Prize e, ora, la chiamata della kermesse di riferimento, a livello internazionale, per il menswear, dove porterà un’installazione speciale dal sapore hollywoodiano, che promette di fare faville.
Nulla di così strano per chi, come lui, parte «sempre dalla storia, prima ancora di sapere come sarà la collezione».

“ERL è casual, senza pretese, spensierato. Contempla tutta una serie di prodotti e personaggi, così da potersi adattare a tante situazioni diverse”

Sei il guest designer della 104esima edizione di Pitti Uomo. Come ti senti alla vigilia di un appuntamento tanto importante, che ti vedrà protagonista nella principale vetrina internazionale dell’abbigliamento maschile?

È un vero onore sfilare a Pitti Uomo, a Firenze, nella culla del Rinascimento; un sogno che ha del magico.

Cosa possiamo aspettarci dalla collezione Spring/Summer 2024 che presenterai nel capoluogo toscano? Puoi svelarci qualcosa in anteprima?

Ho studiato sceneggiatura alla USC (University of Southern California, ndr), perciò parto sempre dalla storia, prima ancora di sapere come sarà la collezione.
In questo caso, ad emergere è stato il tema del make believe (“fare finta” in inglese, ndr), con innumerevoli richiami ai film, universi di pura finzione, dalle scenografie ai costumi di scena, alle composizioni sonore; stavolta, dunque, era fondamentale che la sfilata includesse ogni possibile particolarità del cinema.

ERL Fall/Winter 2023
ERL Fall/Winter 2023

Hai fondato ERL cinque anni fa, i traguardi più significativi raggiunti finora? E quelli cui ambire in futuro?

Sicuramente è stato un onore vincere il premio Karl Lagerfeld nell’ambito del LVMH Prize 2022, e lo stesso vale per la collaborazione con Kim Jones da Dior Men.
Cito anche l’outfit di A$ap Rocky per il Met Gala 2021, dove si è presentato con Rihanna, e l’apertura del primo spazio retail ERL a Kyoto, in Giappone.

Come descriveresti l’estetica di ERL, quali sono le peculiarità del brand, cosa lo rende unico?

ERL è casual, senza pretese, spensierato. Contempla tutta una serie di prodotti e personaggi, così da potersi adattare a tante situazioni diverse, dipende dalla singola persona, dal modo in cui indossa i propri abiti.

“I miei lavori sono sempre provocatori, ma la provocazione può essere usata in modi diversi”

L’anno scorso hai co-firmato la collezione Dior Men Resort 2023California Couture, primo guest designer in assoluto nella storia della gloriosa maison francese. Come valuti a posteriori il tutto, cosa ti è rimasto più impresso di quell’esperienza?

Si è trattato di un processo completamente effortless, guidato solo da intuito e fiducia reciproca. Kim Jones e il suo team sono meravigliosi, a volte ci siamo trovati ad operare in silenzio, non c’era bisogno di parole che spiegassero ciò che stavamo facendo. Non ci sono state forzature né momenti in cui mettersi in discussione a vicenda, una pura gioia, sono davvero grato di aver avuto l’opportunità di collaborare con lui.

L’etichetta di stilista ti sta decisamente stretta, visto che sei anche fotografo, regista, produttore, scenografo, attività che ti hanno permesso di collaborare con il non plus ultra dello showbiz e grandi nomi dell’industria fashion ed editoriale. Qual è il minimo comun denominatore, il collante che tiene insieme le varie sfaccettature della tua creatività?

I miei lavori sono sempre provocatori, ma la provocazione può essere usata in modi diversi, ad esempio incanalandola in soluzioni giocose che sfidano chi guarda, oppure gli fanno vedere con occhi nuovi qualcosa di quotidiano.

Eli Russell Linnetz Pitti
ERL Fall/Winter 2023

“Il brand cresce e si evolve di continuo, come me del resto”

Il menswear non è mai stato tanto dinamico, secondo Euromonitor International crescerà a un ritmo medio annuo maggiore del womenswear, inoltre la pandemia ha ulteriormente scombinato le carte, prima con la casualizzazione dettata dai lockdown, poi col ritorno generalizzato a un’eleganza old-fashioned, rigorosa e misurata. In qualità di fondatore e direttore creativo di una delle label più “hot”, godi di un punto di vista privilegiato sulla moda maschile, qual è la tua impressione in merito?

Per quanto mi riguarda, non bado alle tendenze, non mi approccio alla moda in maniera tradizionale, lo spirito è piuttosto quello del costumista, gioco a vestirmi e immagino nuovi personaggi.

Come immagini ERL tra 10 anni? 

Il brand cresce e si evolve di continuo, come me del resto.

Eli Russell Linnetz 2023
ERL Fall/Winter 2023

Nell’immagine in apertura, un ritratto di Eli Russell Linnetz, founder e direttore creativo di ERL

Red-Eye Metazine, raccontare moda e arte nel metaverso

Se c’è un tema su cui oggi si riversano fiumi di parole, lanciandosi nelle speculazioni più ardimentose che prefigurano – alternativamente – scenari distopici in cui tutto viene smaterializzato in bit o, viceversa, un eden 3.0 dalle possibilità sterminate, quello è il metaverso, ovvero – stando alla definizione che ne dà un articolo pubblicato sul sito della Treccani – «un ecosistema costituito da spazi tridimensionali, all’interno dei quali le persone possono muoversi, condividere e interagire».

Metaverso moda arte
Red-Eye

Sono comunque in molti a pensare che rappresenti the next big thing, e la moda, che storicamente ha la sua raison d’être nella capacità di intercettare – e rielaborare – i fermenti in atto nella società, a tutti i livelli, ha guardato subito con interesse alla punta di diamante del cosiddetto web3, moltiplicando sforzi e iniziative, talvolta velleitarie, estemporanee (tra Nft, avatar dalle sembianze cartoonesche, outfit destinati a rimanere confinati sullo schermo del device di turno, collaborazioni con piattaforme o videogame quali Twitch, Roblox o Fortnite), talaltra ben più calibrate. È questo il caso di Red-Eye, un magazine, anzi, metazine che fa della contaminazione, della mescolanza tra fashion, arte, natura e musica, filtrate attraverso una visione avanguardistica (che contempla molteplici soluzioni tech, dalla virtual reality alla computer graphics, alle scansioni 3D) il proprio credo.

Il primo «metazine nativo per il metaverso»

Metaverso Red Eye
Gloria Maria Cappelletti

Nato alla fine del 2022 e giunto al terzo issue (dal titolo immaginifico, Bloomtopia), lo dirige Gloria Maria Cappelletti, vulcanica Editor-in-Chief: una vita nel settore della moda, dove ha ricoperto svariati incarichi (agente e producer di fenomenali fotografi quali Steven Klein, Stéphane Sednaoui e Daniel Sannwald, curatrice del Fashion Film Festival Milano, Editor at Large dell’edizione italiana di i-D, docente alla NABA, advisor del Circular Fashion Summit by Lablaco), ha l’entusiasmo e il trasporto di chi sembra aver colto appieno le potenzialità del medium, destinato – ne è convinta – a innescare una rivoluzione epocale, a tutti i livelli, compreso quello editoriale.

Prima di addentrarsi nei tanti progetti portati avanti col suo team, è d’uopo capire esattamente di cosa si occupi il primo «metazine nativo per il metaverso», domanda che rivolgiamo alla diretta interessata: «La parola chiave – specifica – è meta, suffisso connotato, associato ormai al metaverso, al punto che la casa madre di Facebook e Instagram se n’è appropriata. A mio avviso, bisognerebbe tornare invece a Platone, alla meraviglia del decifrare la dimensione digitale come nel mito della caverna, in cui le ombre, unica realtà possibile per i prigionieri della grotta, erano solamente delle sagome.

Lavorare sul digitale conduce a una riscoperta del reale, è questa secondo me l’accezione migliore del termine phygital, la compresenza di fisicità e virtuale, naturale e artificiale, che alla fine sono la stessa cosa, perché il mondo viene definito dal modo in cui lo si vive e interpreta. Sono nella moda dagli anni ‘90, ho vissuto l’evoluzione dello storytelling, il passaggio dall’analogico al digitale, dal racconto fotografico statico al fashion film; ora siamo di fronte a una tecnologia che può operare in un ambiente tridimensionale compartecipato, una realtà (non solo) virtuale di cui non siamo spettatori passivi, bensì fruitori attivi».

Metaverso magazine
Red-Eye, Bloomtopia

“Lavorare sul digitale conduce a una riscoperta del reale, è questa secondo me l’accezione migliore del termine phygital”

Una realtà, quella di Red-Eye, che fa regolarmente ricorso all’intelligenza artificiale (ad esempio per redigere la newsletter RADAR o in progetti come la mostra DUNE: Not for Spice, dedicata ad Alejandro Jodorowsky), argomento particolarmente caldo, tra previsioni dai toni millenaristi (ad opera, in verità, anche di esperti che hanno lavorato alacremente per svilupparla) e polemiche quotidiane su ChatGPT.

Viene spontaneo chiedersi in che modo possa risultare utile al lavoro editoriale uno «strumento potentissimo – per usare le parole di Gloria Maria – che dà la possibilità di effettuare ricerche impossibili da replicare col semplice Google Search». L’idea di base, spiega, è imbastire un dialogo con l’IA, «definendo un contesto specifico per il suo utilizzo, da abbinare ad altre stratificazioni, rimandi, operazioni di editing. Dal mio punto di vista, stimola chi la usa, lo rende un utente attivo. È una questione, per tornare alla filosofia, di maieutica, di estrapolare dall’algoritmo ciò che si vuole; tutto sta, infatti, al singolo utilizzatore, che ha a che fare con una sorta di specchio».

Per lei, quindi, il metaverso offre innumerevoli opportunità, anche e soprattutto al settore dell’editoria, di moda e non, in primis quella di «trovare modalità inedite per raccontare delle storie e documentare quanto avviene intorno a noi, sviscerando il lavoro di un artista attraverso interviste, focus sulle opere, link… Il punto, fondamentalmente, è esplorare i contenuti in maniera diversa, con layer ulteriori che completino l’articolo tradizionale»; in effetti, una volta inforcato il visore Oculus, ci si ritrova catapultati in un virtual reality assai particolareggiata, costellata di totem e isole verso cui spostarsi in souplesse per accedere ad ulteriori ambienti, muovendosi potenzialmente all’infinito di finestra in finestra.

“Penso che il metaverso possa contribuire a stimolare la curiosità, a (ri)scoprire la meraviglia”

L’industria fashion, lo si è visto, si è gettata a capofitto sul metaverso: fra le varie iniziative, una delle più chiacchierate è la Fashion Week dedicata su Decentraland, che l’anno scorso ha coinvolto marchi della caratura di Dolce&Gabbana, Etro, Paco Rabanne, Boss, Hogan; il risultato, a parere di chi scrive, non è stato dei migliori, tra figurini “plasticosi”, grafiche tutto sommato rudimentali e ambienti ricalcati fedelmente sul centro commerciale americano. Gloria Maria ne conviene, «sembrava di essere in un mall, era tutto fin troppo reale, su Red-Eye, invece, creiamo spazi completamente differenti, li customizziamo. Nella sezione delle sfilate, per esempio, abbiamo stanze ad hoc: accedendo – poniamo – a quella della collezione Diesel autunno/inverno 2023, si visualizzano immagini della passerella, scatti di backstage e altri approfondimenti, in una cornice dominata dalle sfumature di rosso e blu denim caratteristiche del brand».

Red Eye magazine
Red-Eye Metazine

“Il metaverso, per certi versi, non è altro che una sconfinata galleria”

Viene da chiedersi quale sia, in ultima battuta, il valore aggiunto apportato da tutto ciò al racconto della moda, alle dinamiche che la regolano, alle griffe che la plasmano e veicolano. «Penso – suggerisce – che possa contribuire a stimolare la curiosità, siamo arrivati a una saturazione dei contenuti, noto un affaticamento sempre maggiore nel fashion world, è tutto velocissimo, foto, post, calendari compressi, mille stimoli da gestire.
È importante, dunque, (ri)scoprire la meraviglia, una componente fondamentale; lavoro nella moda da anni, ricordo i défilé in silenzio, la ressa per entrare agli show di Alexander McQueen, come pure il tempo dilatato che portava ogni volta a sorprendersi davanti alle cover story di Vogue Italia firmate Steven Meisel, ciascuna un universo a sé, un viaggio eccezionale.

Ecco, per me il metaverso può aiutare a ottenere quell’effetto wow, io esplorandolo scopro una marea di cose, mi meraviglio, appunto, mentre la stessa dinamica temporale della suddetta attesa si stabilisce con l’IA, creando un prompt e aspettando, lasciandosi poi sorprendere dal risultato. Si stabilisce un dialogo in cui è contemplata una parentesi, il momento dell’attesa e quindi la rielaborazione, che dà vita a processi inediti.
La liquidità – per così dire – degli algoritmi, inoltre, richiama la fluidità che contraddistingue svariate collezioni contemporanee, basti considerare l’immaginario legato agli avatar, con look futuristici, cangianti, dai movimenti e texture stupefacenti, onirici, quasi; mi ricordano la visionarietà di McQueen».

Metaverso fashion
Red-Eye

Presente e futuro di un medium (potenzialmente) rivoluzionario

Il giudizio della direttrice è corroborato dalla sua competenza in materia di arte, il secondo pilastro, insieme al coté modaiolo, di Red-Eye. Con Gloria Maria Gallery, del resto, aveva cominciato a occuparsi di artisti digitali già nel 2009, quando erano visti pressoché all’unanimità come «giovani che perdevano tempo al computer» (ipse dixit).

Un’esperienza che ricorda come «assolutamente positiva, abbiamo ospitato autori come Petra Cortright, ora esposta in musei quali MoMa, New Museum o LACMA, che all’epoca lavorava solo su YouTube, noi trasmettevamo i suoi interventi in streaming, poi abbiamo introdotto il QR code e altre interessanti sperimentazioni; mi sono state utili, come pure avere una simile struttura da allestire; per me è fondamentale lavorare con gli artisti partendo dallo spazio e il metaverso, sotto quest’aspetto, non è che una sconfinata galleria». Non vanno trascurate, prosegue, «le possibilità incredibili in tema di presentazione ed espansione degli artwork, che risultano “esplosi”; vedendoli  in uno spazio così dilatato e avvolgente, gli autori rimangono sbalorditi».

Metaverso moda sfilate
Red-Eye issue 1, Fall 2022

“Il vero cambiamento, nel metaverso, avverrà con l’implementazione dell’intelligenza artificiale, una rivoluzione paragonabile a quella del passaggio dal Tuttocittà a Google Maps”

Eppure, le facciamo notare, il dibattito in materia è fortemente polarizzato, si va dalla visione incensante di chi auspica uno sconvolgimento epocale ai detrattori che, al contrario, sottolineano i passi falsi della Meta di Mark Zuckerberg. «Il metaverso attuale – riflette –  è solo una parte, va inquadrato nell’ottica di una compresenza di realtà aumentata, IA, virtualità e spazi altri; è in fase di sperimentazione, il vero cambiamento credo avverrà con l’implementazione dell’intelligenza artificiale, una rivoluzione paragonabile a quella con cui siamo passati dal Tuttocittà a Google Maps. Sul piano creativo, poi, è ancora tutto da definire, saranno gli stessi creator a occuparsene.

Il pericolo, invece, è costituito dall’uso che potrebbero fare governi e istituzioni di una tale quantità di dati, però il fatto di essere inseriti dal principio in un sistema permette di sviluppare prospettive critiche. L’altra sfida riguarda i singoli utenti, che avranno a disposizione uno strumento dalla potenza inaudita e dovranno mantenere un senso etico nell’approcciarvisi, per questo è importante educare i giovani, sensibilizzarli».

Nella visione di Gloria Maria Cappelletti, insomma, il metaverso è in un periodo ancora transitorio, gravido di occasioni e cambiamenti repentini; valutazioni che riportano alla mente un passaggio del libro Snow Crash, in cui l’autore, Neal Stephenson, scrive: «Le cose interessanti accadono lungo i confini, nelle transizioni, non nel mezzo, dove tutto è uguale»; e se lo dice lui, guru della letteratura sci-fi che coniò il termine metaverse proprio nel romanzo in questione, uscito nel 1992, c’è da credergli.

Metaverso arte
Red-Eye issue 2, Winter 2022

Metaverso moda
Red-Eye issue 2, Winter 2022

Beba, un (forte) punto di vista femminile nell’urban

28 anni, torinese, Beba (pseudonimo di Roberta Lazzerini), può fregiarsi di un curriculum musicale corposo, da far invidia a quelli di colleghi ben più navigati.
Ha il pallino del rap fin da piccola, quando viene folgorata dall’ascolto del ritornello di Nicki Minaj in Monster di Kanye West («mi ha colpito così tanto che mi son detta “ok, voglio farlo anch’io”»).
Partecipa a vari eventi hip hop e firma i primi pezzi, nel suo percorso professionale è però decisivo l’incontro con la dj e producer Rossella Essence, che diventa la sua doppelgänger; dalla collaborazione tra le due nascono, dal 2017 in poi, hit quali Fenty, 3nd, Vaniglia, Chicas, Morosita, Tonica.
Arrivano rapidamente le prime partnership di livello, con Lazza e Machete Crew, che la include nel disco da record Machete Mixtape 4, nel 2019 in vetta alla classifica italiana per settimane. Partecipa, inoltre, al popolare format Real Talk, in una puntata che alla fine raccoglie oltre sei milioni di visualizzazioni su YouTube.

Beba urban rap
Total look Ferragamo, shoes Giuseppe Zanotti, jewels Amants de la Lune

“L’ispirazione si può trarre davvero da tutto, perciò vivo con le antenne sempre alzate”

Nel 2021, per l’album d’esordio Crisalide, fa il pieno di collab d’autore (Carl Brave, Miss Keta e Willie Peyote, per citare solo tre nomi); il progetto, come suggerisce il titolo, simboleggia una rinascita per Beba, decisa a espandere i confini della propria cifra artistica in direzione di soluzioni più ibride, nel segno del pop.

Confessa di aver iniziato a fare musica «perché volevo essere il punto di vista femminile, nel rap e in generale nell’urban (genere in cui mi colloco ora), che a me è mancato». Per quanto riguarda l’ispirazione, è convinta che «si possa trarre davvero da tutto, perciò vivo con le antenne sempre alzate». Se le si chiede quale canzone abbia, per lei, un significato particolare, cita «Narciso, uno dei brani cui sono più affezionata, è una storia vera, incentrata su una relazione tossica; gli sono così legata perché, raccogliendo i feedback degli ascoltatori, mi sono resa conto di come abbia aiutato molte persone».
Per il 2023, ci confida, «è in cantiere un nuovo album, ci sto lavorando con Rosella Essence, dunque chi mi segue può aspettarsi un bel disco – lo spero, perlomeno».

Beba rapper
Coat and swimsuit Bally, shoes Sonora, necklace Rosantica

Beba album
Total look Sportmax, jewels Bea Bongiasca

Beba rap
Total look and Jewels Vivienne Westwood

Credits

Talent Beba

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Pietro Lucerni 

Fashion Direction Veronica Bergamini

Stylist Luigi D’Elia

Stylist assistants Noemi Baris, Giovanni Aiuto

Make-up & hair Elina Straume 

Videomaker Antonio “Boc” Bocola 

Ph. assistant Lorenzo Gariboldi 

Location Unimaginable Milano Studios 

Nell’immagine in apertura, Beba indossa total look Sportmax, jewels Bea Bongiasca

Designer e stylist, la new wave creativa. Un portfolio

Il ruolo di designer e stylist, nel fashion system contemporaneo, è imprescindibile. Il loro lavoro, poi, è strettamente correlato, perché se i primi plasmano l’estetica dei marchi che dirigono, i secondi provvedono a veicolarla attraverso lo styling, che si tratti di outfit da passerella, shooting o look della celebrità di turno.

MANINTOWN ha selezionato dodici figure di spicco nei rispettivi ambiti che, oltre a posare per l’obiettivo del fotografo Filippo Thiella, ci forniscono un prezioso insight sulla creatività che alimenta il loro operato.

Walter Chiapponi

Quali sono i tratti distintivi, i capisaldi stilistici del “tuo” Tod’s?

Mi piace che le collezioni siano l’espressione moderna dei segni iconici del brand, ovvero la sartorialità e il concetto di selleria, filtrati anche attraverso l’ottica del tipico lifestyle italiano.

Cosa ti ispira maggiormente, da dove prendi spunto per disegnare capi e accessori?

Guardo molto ai grandi personaggi del passato, come Gianni Agnelli, Marcello Mastroianni o John John Kennedy, che riuscivano a definire un’estetica con pochi elementi, ma giusti. Sono convinto che la nonchalance del loro stile, la capacità di sentirsi a proprio agio con tutto ne sottolineassero già all’epoca la contemporaneità.

I must assoluti del guardaroba, quelli su cui magari torni con regolarità nelle collezioni del marchio.

Il capospalla non manca mai, sia nelle collezioni invernali che in quelle estive, perché in qualche modo chiude il look. Un altro must è rappresentato dalla giacca in pelle, nella versione leggera come una overshirt o a mo’ di Valstar, oppure in versione più pesante, tipo biker jacket; in ogni caso, un capo in pelle esprime carattere.

Andrea Adamo

Quali sono i tratti distintivi, i capisaldi stilistici del brand che porta il tuo nome?

L’elemento centrale dell’estetica AndreĀdamo è la nudità intesa come verità. A volte essere nudi spaventa o intimidisce, nella visione del marchio, invece, il corpo e la nudità sono essenziali, così come l’approccio positivo alla propria fisicità, alla percezione di sé. Il colore nudo, in questa filosofia, è universale, per questo non abbiamo voluto dare nomi alle cromie utilizzate, denominandole tutte semplicemente “nudo”, come a significare che si tratta di una diversità visibile solo agli occhi, che bisogna andare oltre qualsiasi etichetta. AndreĀdamo è pensato per esprimere se stessi, i capi prendono vita e diventano unici, seguendo la forma specifica del corpo.

Cosa ti ispira maggiormente, da dove prendi spunto per disegnare capi e accessori?

Sono ispirato dalla vita quotidiana, dagli amici, dalle persone che conosco o da quelle in cui m’imbatto per caso. Tutte le esperienze che vivo nella quotidianità si traducono in suggestioni che elaboro negli abiti, capita che si declinino in un particolare, una silhouette, un taglio o che, più semplicemente, definiscano un mood, un’attitude.
Un’altra grande ispirazione è rappresentata da tutti quei luoghi, persone, culture ed energie che accumulo durante i miei viaggi; per me viaggiare significa libertà completa, immersione nella quotidianità di un posto sconosciuto.
Mi piace perdermi per le strade di una città dove non ero mai stato, sedermi in un bar di quartiere, entrare in contatto con persone che hanno una cultura diversa dalla mia. Esperienze simili sono un’inesauribile fonte d’idee per il mio lavoro, sotto forma di sfumature che, magari, non sono direttamente leggibili per chi vede o indossa un outfit ma, nella mia sensibilità, innescano un ricordo diretto e immediato dell’esperienza vissuta.

I must assoluti del guardaroba, quelli su cui torni con regolarità nelle collezioni del marchio.

In tutte le collezioni AndreĀdamo non mancano capi che originano o si rifanno alla lingerie, dato che parto sempre dal corpo umano, la mia principale fonte d’ispirazione. L’underwear si evolve e modifica, diventando di volta in volta il punto di partenza per un capospalla, il dettaglio di un top o la caratteristica peculiare di un pantalone. Per me è una costante, mi riporta all’idea centrale della mia estetica, all’ispirazione primaria: esaltare le forme naturali, con naturalezza e un pizzico di provocazione.

Christian Boaro

Quali sono i tratti distintivi, i capisaldi stilistici del brand che porta il tuo nome?

Le proposte firmate CHB-Christian Boaro nascono dai contrasti: bianco e nero, maschile e femminile, forza e fragilità. Ho sempre trovato affascinante osservare come il guardaroba dell’uomo e quello della donna potessero dialogare, influendosi a vicenda, così ho scelto di progettare dei capi che si allontanassero il più possibile dalla distinzione binaria di genere. Il messaggio è, semplicemente, di totale libertà.

Cosa ti ispira maggiormente, da dove prendi spunto per disegnare capi e accessori?

Mi ispira la gente comune, la strada, il cinema, la musica, l’arte e qualsiasi cosa catturi la mia attenzione. In ogni collezione ci sono molteplici ispirazioni e riferimenti, tratti da mondi completamente diversi tra loro.

I must assoluti del guardaroba, quelli su cui torni con regolarità nelle collezioni del marchio.

Sicuramente i capi sartoriali, quelli che provengono dal guardaroba maschile; il pizzo, un tessuto sensuale che mi piace utilizzare in modo inusuale; e poi, immancabili, i rimandi allo streetwear e alla couture, tutti elementi che convivono in una “perfetta” dicotomia

Andrea Pompilio

Quali sono i tratti distintivi, i capisaldi stilistici del brand che porta il tuo nome?

Parto dalla storia della sartoria maschile italiana, per rivisitarne le proporzioni, e dalle nuance, per ottenere un look finale molto contemporaneo, in linea con i tempi e gli orientamenti culturali del momento. Colore e abbinamenti cromatici hanno sempre avuto una grande importanza nel mio lavoro. 

Cosa ti ispira maggiormente, da dove prendi spunto per disegnare capi e accessori?

Prendo spunto da tutto, ogni cosa può essere fonte d’ispirazione, la mia mente non sta mai ferma purtroppo, a volte mi sveglio nel cuore della notte con un’idea, un ricordo che risale a uno dei miei tanti viaggi, e sono costretto ad alzarmi per farne uno schizzo. Può trattarsi di un frammento della mia vita frenetica, di un’immagine rubata in aeroporto, del frame di un bel film visto nel fine settimana… Assorbo e colgo continuamente sfumature, che poi si tramutano in idee.

I must assoluti del guardaroba, quelli su cui torni con regolarità nelle collezioni del marchio.

Amo follemente i capispalla e in particolare le giacche, parto sempre da loro per realizzare una collezione; un’ossessione acquisita probabilmente quand’ero piccolo, da mio nonno. Altro mio “feticcio” sono i boxer maschili e la classica t-shirt bianca, sembrano tutte uguali ma in realtà non lo sono affatto!

Alessandro Vigilante

Quali sono i tratti distintivi, i capisaldi stilistici del brand che porta il tuo nome?

Il marchio si esprime attraverso il sottile balance tra erotismo e rigore, tagli iperfemminili e sartorialità maschile, fibre seconda pelle e tessuti scultorei, cut-out grafici e volumi over, colori neutri e tonalità inaspettate (acide, shocking, fluo).

Cosa ti ispira maggiormente, da dove prendi spunto per disegnare capi e accessori?

La danza contemporanea è la mia fonte d’ispirazione primaria; nelle collezioni, la prospettiva e l’estetica di Merce Cunningham si fondono alla carica emotiva di Pina Bausch. Da un lato, la mia attrazione per i cut-out viene sicuramente dall’abbigliamento indossato dai ballerini durante le ore di lezione e prova, o dai loro costumi di scena; dall’altro, è riconducibile alla voglia di lavorare all’essenza dei capi, di togliere piuttosto che aggiungere, scartando e riducendo il tessuto al minimo, incorniciando le parti del corpo che trovo espressive, in particolar modo la schiena.

I must assoluti del guardaroba, quelli su cui torni con regolarità nelle collezioni del marchio.

I miei pezzi iconici – e best-seller – sono il blazer maschile, la gonna midi con spacco stondato, il pantalone dal fit rilassato, il body con dettagli cut-out. La giacca sartoriale tailored in neoprene, con la schiena nuda, è un omaggio a Carolyn Carlson (di cui porta il nome), coreografa e danzatrice americana di fama mondiale; quella oversize con revers lunghi fino al fondo, invece, si chiama Pina Bausch: l’iconica danzatrice e coreografa tedesca, infatti, portava ampi suit di taglio mannish, modellati appositamente per lei da Yohji Yamamoto, suo amico. Per quanto riguarda i tessuti, la natural vegan rubber è immancabile, subisco da sempre una grande fascinazione per questo materiale, la cui lavorazione richiede una tecnica artigianale che non fa che aumentarne il valore.

Salvo Rizza

Quali sono i tratti distintivi, i capisaldi stilistici di Des Phemmes?

Il brand trae ispirazione da ogni forma d’arte, focalizzandosi in particolare sull’immaginario fotografico dei Nineties, legato all’idea di giovinezza e sovversiva femminilità sublimato, all’epoca, da Kate Moss.
Sono affascinato dal rapporto tra luce e corpo, e utilizzo le superfici decorate per accentuare e sottolineare ulteriormente quest’opposizione.
Nel mio lavoro c’è un concetto di “tensione”, originato da antinomie quali uomo e donna, minimalismo e massimalismo; in quello spazio di mezzo, c’è un mondo nuovo che rende interessante il progetto. Nelle collezioni prevalgono dunque capi semplici, arricchiti però da contrasti, dettagli, sproporzioni che li rendono subito più interessanti. È proprio la tensione a generare un elemento di novità, facendo sì che il “difetto” venga valorizzato, diventando un segno di unicità.
L’approccio stilistico di Des Phemmes è a suo modo istintivo, con pezzi ricamati e speciali, dalla matrice quasi couture, mescolati a proposte daywear e street. Ogni capo, da quello più speciale all’ultrabasic, ha lo stesso valore, ma è proprio dalla fusione, dalla costante tensione tra universi opposti che nasce il marchio.

Cosa ti ispira maggiormente, da dove prendi spunto per disegnare capi e accessori?

La mia principale fonte d’ispirazione è la vita stessa, le persone che la costellano. Des Phemmes è una lettera d’amore a tutte le donne che fanno parte del mio percorso, o lo hanno fatto, spesso vengo ispirato da ricordi o indumenti che vedo addosso a chi mi circonda, portati magari con una particolare attitudine, che diventano il punto di partenza per sviluppare un’intera collezione. E poi i richiami fotografici agli anni ‘90, gli scatti di Corinne Day e Juergen Teller, che hanno plasmato la mia estetica personale.
A mio avviso il miglior modo per essere autentici è parlare di se stessi e del proprio vissuto, che per definizione è e resterà unico, differente da quello di chiunque altro.

I must assoluti del guardaroba, quelli su cui torni con regolarità nelle collezioni del marchio.

La camicia mannish in popeline, sempre presente nelle mie collezioni, declinata ogni volta in chiave diversa. L’idea del capo da uomo, oversize, sul corpo della donna è parte integrante dello stile Des Phemmes, la dualità continua tra maschile e femminile è un pò l’emblema di tutto il mio percorso. La camicia, ad esempio, può essere abbinata indifferentemente a longuette ricamate o cargo pants in denim. 

Mauro Biasiotto

Quali sono le peculiarità dei tuoi styling, a livello di reference, estetica, scelta di capi/accessori…?

Una delle principali caratteristiche è l’uso del colore, potrei dire che ricerco delle cromie forti in un mondo minimal, ispirato principalmente all’estetica di fine anni ‘90/inizio anni 2000. Cerco di realizzare degli styling che non si distacchino troppo dalla realtà ma, allo stesso tempo, abbiano un minimo di azzardo e follia, attraverso una ricerca a livello di forme o materiali.

Quali sono le principali fonti d’ispirazione dei tuoi lavori?

Sono cresciuto con Mtv, che ha rappresentato anche il mio primo lavoro come stylist, tanti anni fa, dunque musica e vecchi video sono la mia più grande fonte d’ispirazione, in particolare quelli degli autori che si distinguevano per l’uso minimalista dei colori, da Michel Gondry a Chris Cunningham. Negli ultimi anni, invece, a influenzarmi sono stati soprattutto i fotografi che si sono spinti “oltre”, nella moda o nei reportage, come Viviane Sassen o Pieter Hugo.

Lo stylist, oggi, è tra le figure di spicco dell’industria fashion, ha assunto una centralità per molti versi inedita. Cosa può fare la differenza, in una scena sempre più affollata e competitiva?

Credo che la cosa più importante sia sempre non smettere di crederci, seguire il proprio cuore e istinto. Non bisogna avere paura di rischiare, andando avanti per la propria strada senza farsi troppo condizionare né scalfire dalla superficialità della moda (un aspetto, questo, cui contribuiscono anche i media), proseguendo con la propria ricerca personale e restando fedeli al proprio credo.

Leonardo Caligiuri

Quali sono le peculiarità dei tuoi styling, a livello di reference, estetica, scelta di capi/accessori…?

Le mie scelte sono sempre basate sul mio istinto, preferisco non farmi fuorviare da mode a me non consone. Amo l’eleganza, la femminilità e tutto ciò che può definirsi timeless. Per la mia donna, lo styling non ha tempo, risulta sempre contemporaneo, sussurra sensualità e giocosa innocenza .

Quali sono le principali fonti d’ispirazione dei tuoi lavori?

La mia più grande fonte di ispirazione, fin da bambino, è mia madre; la mia visione della moda nasce dalla sua forte influenza, in termini di stile, carattere, esuberanza. Amavo guardarla quando si vestiva o si muoveva, era bellissima, sempre alla moda pur senza mai rinunciare alla sua femminilità.
Per anni, la mia unica fonte di ispirazione, a livello editoriale, è stata Vogue Paris, amavo quel tipo di estetica e quella tipologia di femminilità per veicolare uno styling. In termini fotografici e iconografici, invece, mi sono sempre piaciuti autori del calibro di Helmut Newton, Guy Bourdin, Mario Testino e David Sims.

Lo stylist, oggi, è tra le figure di spicco dell’industria fashion, ha assunto una centralità per molti versi inedita. Cosa può fare la differenza, in una scena sempre più affollata e competitiva? 

Stiamo vivendo un momento storico “schizofrenico”, nel quale tutto è possibile. La figura dello stylist è certamente cambiata, ma non sempre o per forza in senso migliorativo. La differenza, nel nostro lavoro, la faranno sempre la professionalità, l’esperienza, la cultura. Mai cambiare il proprio modo di essere per adeguarsi a tendenze passeggere, è fondamentale rimanere fedeli a se stessi.

Christian Stemmler

Quali sono le peculiarità dei tuoi styling, a livello di reference, estetica, scelta di capi/accessori…?

Ho un approccio piuttosto realistico, indossabile, che il più delle volte presenta un legame con le subculture degli anni ‘90/primi anni 2000, ma anche con il glam e il punk degli anni ‘70.
Nei mie styling sono predominanti elementi grunge, techno, denim, pelle, come pure lo sportswear e i codici street. I modelli che vesto indossano boots o sneakers tecniche, spesso anche occhiali da sole; sono visioni di creature divine, che si dirigono in un club chiuso ormai da tempo.

Quali sono le principali fonti d’ispirazione dei tuoi lavori?

Sono le persone la mia eterna fonte d’ispirazione, le guardo e parlo con loro, ovunque, per strada, nei bar, sulla metropolitana, nelle discoteche, in palestra, nelle stazioni…

Lo stylist, oggi, è tra le figure di spicco dell’industria fashion, ha assunto una centralità per molti versi inedita. Cosa può fare la differenza, in una scena sempre più affollata e competitiva?

Sicuramente essere un buon ascoltatore e un acuto osservatore, nonché dimostrarsi capaci di creare una narrazione e un’atmosfera, un mondo intorno agli abiti che dia loro vita.

Francesco Casarotto

Quali sono le peculiarità dei tuoi styling, a livello di reference, estetica, scelta di capi/accessori…?

Credo che la cosa che mi contraddistingue maggiormente sia, con ogni probabilità, la manualità. Trovo piacevole, spesso e volentieri, lavorare con materiali e accessori per creare qualcosa ad hoc per lo shooting. Adoro la personalizzazione, un elemento, questo, che deriva forse dal mio background in fashion design. Cerco di aggiungere a ogni look un twist, un tocco speciale. La maggior parte delle volte è anche una necessità personale, uno sfogo, motivo per il quale è nato il progetto Agglomerati.

Quali sono le principali fonti d’ispirazione dei tuoi lavori?

Le reference sono le più disparate, penso che ogni creativo sia come una spugna, che assorbe tutto ciò che vede, sente o immagina, per poi filtrarlo e restituirlo in una forma nuova. Un processo che può riguardare un film, una canzone, un’opera d’arte, persino un sentimento.

Lo stylist, oggi, è tra le figure di spicco dell’industria fashion, ha assunto una centralità per molti versi inedita. Cosa può fare la differenza, in una scena sempre più affollata e competitiva?

Secondo me è importante fare una distinzione tra lavoro editoriale e commerciale. Il secondo, svolto per un brand o un’azienda, è assai più complicato. In questo senso la nostra figura è di supporto, perché l’obiettivo di uno stylist non è proporre un’immagine straordinaria in senso assoluto, bensì una che si adatti perfettamente al Dna del marchio, soddisfacendo le richieste sia del marketing che del mercato. Spesso molti stylist si sentono incompresi, creativamente limitati, ma per me creatività significa trovare soluzioni, è una qualità che appartiene a ogni persona che, di fronte un problema o una richiesta specifica, usa la propria testa e i propri strumenti per fornire una risposta, a prescindere dal settore in cui opera.

Lorenzo Oddo

Quali sono le peculiarità dei tuoi styling, a livello di reference, estetica, scelta di capi/accessori…?

Quando inizio a pensare a uno styling, parto ogni volta dal personaggio o dall’estetica che vorrei venisse fuori. Non ho reference precise, mi piace spaziare, essere trasversale. Attingo dalla musica e dal cinema, come pure dall’arte in generale. Credo che nei miei lavori ci sia sempre qualcosa di stridente, quello che io definisco un “errore”, l’elemento “sbagliato”, di distrubo, che poi è la mia ossessione.
Se dovessi scegliere un accessorio cui riservo molta importanza direi le scarpe, ma sono attento anche ai gioielli.

Quali sono le principali fonti d’ispirazione dei tuoi lavori?

Traggo ispirazione da tutto, davvero, film, mostre, fotografie e, più di ogni altra cosa, da videoclip musicali e grandi fotografi, passati e presenti. Se dovessi citare una sola persona, sarebbe di sicuro Manuela Pavesi.

Lo stylist, oggi, è tra le figure di spicco dell’industria fashion, ha assunto una centralità per molti versi inedita. Cosa può fare la differenza, in una scena sempre più affollata e competitiva?

Dietro un lavoro all’apparenza semplice, spesso banalizzato, penso che la differenza possano farla solo dedizione e cultura. Sono avido di cultura, a 360 gradi, cerco sempre di approfondire ciò che conosco meno, spesso vengono fuori proprio da lì idee e cortocircuiti mentali utili, poi, all’ideazione e realizzazione dello styling.

Giovanni Beda Folco

Quali sono le peculiarità dei tuoi styling, a livello di reference, estetica, scelta di capi/accessori…?

Credo risiedano nell’equilibro tra severità, delicatezza e sensualità. Cerco di mischiare ambiti estremamente diversi tra loro, sono ad esempio affascinato tanto dalla sartoria quanto dal mondo degli sport estremi, oppure dalla pelletteria. Ogni mio progetto è definito anche da una rigorosa scelta degli accessori, ed è importante non smettere mai di fare ricerca, soprattutto tra i nuovi talenti.

Quali sono le principali fonti d’ispirazione dei tuoi lavori?

Principalmente navigo con la fantasia nell’immaginario che circonda il corpo maschile. Ho avuto modo di studiare come, negli anni, moda e fotografia abbiano favorito lo sdoganamento di una nuova concezione di “mascolinità”. In particolare, ho un’ammirazione per i codici queer definiti da Robert Mapplethorpe attraverso immagini sessualmente sfrontate, ma al tempo stesso armoniose.

Lo stylist, oggi, è tra le figure di spicco dell’industria fashion, ha assunto una centralità per molti versi inedita. Cosa può fare la differenza, in una scena sempre più affollata e competitiva? 

Lo stylist è una figura poliedrica, ricopre tanti ruoli che, nella definizione che va per la maggiore, vengono a volte dimenticati; per questo, personalmente, mi piace definirmi più un image curator. Nella scena contemporanea è fondamentale avere una visione propria, chiara e distintiva. L’identità personale deve spiccare attraverso il lavoro, è questo a fare la vera differenza.

In tutto il servizio, ph. by Filippo Thiella

Paulo, la nuova promessa dell’alt-pop

Lineamenti affilati, capelli corti, biondissimi, una certa – sana – sfrontatezza, del resto fisiologica per un ragazzo che, a poco più di vent’anni, ha già firmato singoli dai numeri importanti come Cielo Drive, Voglia, J e convinto big del livello di Lodo Guenzi, Carl Brave e Miss Keta, giudici del web talent Dream Hit, cui ha preso parte nel 2020. È questo, in breve, l’identikit di Paulo (vero nome Sergio Valvano), sotto contratto dal 2021 con la Sugar Music di Caterina Caselli, la cui parabola artistica, decisamente ascendente, è stata favorita anche dalla Doom Entertainment di Fedez, che ha organizzato tre anni fa il suddetto social talent.
Ora questo 21enne originario di Calvagese, energico e determinato, sembra pronto a fare un ulteriore salto di qualità, affinando il suo stile (che definisce «pop alternativo, mi piace sperimentare coi suoni, metterci quel tocco in più di diversità, di stranezza») e continuando ad alimentare una passione che si porta dietro dall’infanzia, «quando vedevo su Mtv i rapper impegnati nel freestyle», cresciuta nel tempo ascoltando i pesi massimi della scena internazionale («Il mio modello di riferimento, specie per il carisma, è Kanye West, mi piacciono però anche Post Malone, The Weeknd, Rosalía, Bad Bunny, tra gli italiani invece Battisti, Buscaglione e altri cantautori che mi porto dentro, sono parte integrante del mio bagaglio musicale»).

Paulo cantante
Denim jacket and jeans Moschino, shoes Adi Studios

“Voglio far comprendere ai miei fan che condividiamo gli stessi problemi, perché non si sentano soli e trovino conforto in ciò che comunico con la mia musica”

Il suo brano preferito, rivela, «è il prossimo, quello che devo ancora scrivere», perciò conta di «andare in studio con artisti e produttori nuovi, per cercare suoni inediti e sperimentare», seguendo lo stesso processo creativo perfezionato negli anni, «far partire la strumentale e concentrarmi su ricordi e immagini, per descriverle nel miglior modo possibile, così da rivivere quelle stesse sensazioni attraverso le parole della canzone»; con un obiettivo, che tiene a sottolineare, ossia «far comprendere ai miei fan che condividiamo gli stessi problemi, perché non si sentano soli e trovino conforto in ciò che comunico con la mia musica».

Paulo canzoni
Total look Givenchy, jewels tredici.zerodue jewels

Paulo cantautore
Total look Louis Vuitton

Credits

Talent Paulo

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Pietro Lucerni

Stylist Giulio Casagrande

Stylist assistants Morgan Dildar, Francesco Salimena

Grooming & hair Elina Straume

Videomaker Antonio “Boc” Bocola

Ph. assistant Lorenzo Gariboldi

Location Unimaginable Milano Studios

Nell’immagine in apertura, Paulo indossa total look SSHEENA

‘I miei racconti di fotografia oltre la moda’, a Casale Monferrato gli scatti d’autore di Maria Vittoria Backhaus

È in corso di svolgimento il Middle MonFest, festival fotografico lanciato lo scorso anno dal comune di Casale Monferrato e diretto da Mariateresa Cerretelli, che in questa seconda edizione celebra con una grande retrospettiva il prolifico opus di una maestra dell’obiettivo, Maria Vittoria Backhaus. I miei racconti di fotografia oltre la moda, questo il titolo dell’esposizione (aperta fino all’11 giugno), ripercorre la carriera della fotografa (classe 1942, il suo è un nome ben noto nel settore fashion, come pure in quello del design, degli accessori – dai gioielli all’oggettistica – e del food), dipanatasi nell’arco di cinque decenni, nei quali è passata dai reportage di eventi culturali, politici e musicali (il suo esordio fu sulle pagine del settimanale Tempo) agli editoriali di moda, proprio nel periodo storico in cui erano all’apice della diffusione.

Maria Vittoria Backhaus
Maria Vittoria Backhaus, Cuore di mamma #2, Milano 2001, editoriale per iO Donna

La mostra antologica, allestita negli spazi del castello della cittadina piemontese, è il risultato di un lungo, attento “scavo” di un archivio assai ricco ed eterogeneo, in cui si alternano svariati lavori su commissione per le principali testate, italiane e non, e immagini frutto di un incessante studio personale, still-life e composizioni artistiche, che rivelano il tratto innovativo, spesso controcorrente dell’artista milanese (ma ormai piemontese d’adozione, da tempo ha infatti trasferito la sua casa e studio nel Monferrato).

Una mostra che ripercorre decenni di carriera di un’autrice “in equilibrio tra visione, creatività e metodo”

Il visitatore si trova di fronte, dunque, a una caleidoscopica selezione di foto, a cura di Luciano Bobba e Angelo Ferrillo – e con la direzione artistica di Cerretelli, che restituiscono appieno l’immensa creatività dell’autrice. La sua è una cifra dirompente, sperimentale, rivoluzionaria per la fase storica a cui risalgono gli scatti, sempre un passo avanti rispetto alla staticità, al gusto classicheggiante delle immagini che allora dominavano le pagine delle riviste patinate, come pure le campagne pubblicitarie. Rileggendo in modo nuovo un archivio davvero sterminato, eccezionale quanto a mole e varietà dei materiali, l’exhibition passa in rassegna i vari temi affrontati da Backhaus, creativa geniale che, nel tempo, ha declinato la propria visione in ambito editoriale, pubblicitario e in un ricerca personale del tutto peculiare, indagando una società in costante evoluzione.

Maria Vittoria Backhaus mostre
Maria Vittoria Backhaus, campagna stampa, Milano 1978

Nelle sale del secondo piano del castello si susseguono così gli assi portanti di un racconto per immagini continuamente in progress, vale a dire moda, still-life, accessori, design, natura, statuine, collage, composizioni scenografiche realizzate con miniature di edifici e personaggi; un corpus rappresentativo di quasi mezzo secolo di lavoro, che include anche reportage e ritratti, tra cui quelli degli abitanti di Filicudi, isola del cuore della fotografa, e i più recenti di Rocchetta Tanaro e della gente monferrina.
Una girandola visiva dove il bianco e nero cede il passo al colore, racchiudendo l’essenza di un’iconografia sconfinata, costruita dall’autrice in decenni di carriera, che l’hanno vista cambiare – e studiare in maniera approfondita, per sfruttarne al meglio le specificità -diifferenti macchine fotografiche.


Maria Vittoria Backhaus Casale Monferrato
Maria Vittoria Backhaus, Ritratti di filicudari, Ivana Bonica, Filicudi 2014

“Ho dovuto imparare tutte le diverse tecniche, acquisite ma dimenticate al momento dello scatto, per concentrarmi sul racconto della fotografia”

Bobba, curatore della retrospettiva, sottolinea come questa sia stata studiata «passo dopo passo con Maria Vittoria [Backhaus, ndr]», e paragona il processo al «seguire la linea parallela di uno scambio naturale e spontaneo, senza barriere, in un fluire di pensiero e accordi estetici profondi e immediati, che derivano dalla comune passione per l’arte fotografica». Da parte sua, il co-curatore Ferrillo pone l’accento su un singolo termine, «immaginifico. È l’aggettivo che mi ha pervaso la prima volta che ho avuto la fortuna di vedere il lavoro di Maria Vittoria. Conoscendola poi a fondo, vivendo la produzione e approfondendo il suo pensiero, mi sono reso conto di quanto la sua fotografia si muova in equilibrio tra visione, creatività e metodo».
La diretta interessata dichiara, invece, di aver lavorato «con tutti i formati possibili, dal formato Leica ai grandi formati con il soffietto sotto il panno nero 20 x 25. Ho dovuto imparare tutte le diverse tecniche per poterle usare, acquisite ma dimenticate al momento dello scatto, per concentrarmi sul racconto della fotografia».

Maria Vittoria Backhaus fotografia
Maria Vittoria Backhaus, campagna stampa per Walter Albini, Milano, 1978

Monferrato festival fotografia
Maria Vittoria Backhaus, Biancaneve #2, Milano 2001, editoriale per iO Donna

Ad affiancare I miei racconti di fotografia oltre la moda, nell’edizione 2023 del Middle MonFest, è l’esposizione Fotografia in Vetrina (a cura di  Ilenio Celoria), ospitata nella Sala Marescalchi dell’edificio, con i commercianti cittadini in posa per gli studenti dell’Istituto Leardi, che per ritrarli hanno seguito lo stile di un altro virtuoso assoluto dell’obiettivo, Francesco Negri.

festival fotografia Monferrato
Maria Vittoria Backhaus, Cuore di mamma #1, Milano 2001, editoriale per iO Donna

Nell’immagine in apertura: Maria Vittoria Backhaus, Biancaneve #1, Milano 2001, editoriale per iO Donna

‘Gianni Versace Retrospective’, a Groningen una mostra monumentale sullo stilista calabrese

Quello di Gianni Versace, gigante della moda tricolore (che tra gli anni ‘70 e ‘80, insieme a un manipolo di illustri colleghi, contribuì a plasmare, rendendo il made in Italy sinonimo di eccellenza artigiana e savoir-faire senza pari), è un nome che non ha certo bisogno di presentazioni. Eppure, a dispetto di quanto si potrebbe pensare, finora sono state relativamente poche le mostre dedicate alla monumentale opera dello stilista nato a Reggio Calabria. Una lacuna cui prova a sopperire, ora, il Groninger Museum, nell’omonima città dei Paesi Bassi: l’edificio tutto spigoli e asimmetrie dell’istituto, frutto del lavoro congiunto di Alessandro Mendini, Michele De Lucchi e Philippe Starck, ospita infatti, fino al prossimo 7 maggio, la più grande esposizione mai realizzata sul fondatore del marchio della Medusa, a cura di Karl von der Ahé e Saskia Lubnow.

Groninger Museum
Il Groninger Museum visto da Jacopo Ascari

Gianni Versace top model
Gianni Versace and his models, Milan, 1 March 1991 – ©Vittoriano Rastelli/ Corbis Historical/ Getty Images (ph. courtesy of Groninger Museum)

Una mostra d’eccezione, che raccoglie una quantità impressionante di materiali d’archivio

I visitatori del museo hanno, dunque, la possibilità d’immergersi nell’immaginifico universo estetico del couturier, un mix unico nel suo genere di abbigliamento, pop culture e design, tra sontuose creazioni di prêt-à-porter, passerelle che hanno fatto la storia dell’industria fashion, videoclip, top model e nomi di spicco dello star system. La mole di materiali d’archivio raccolti per l’occasione è impressionante, e spazia tra abiti, accessori, tessuti, bozzetti, elementi d’arredo, filmati di spettacoli teatrali, tutti risalenti agli anni d’oro della maison, quelli compresi tra il 1989 e il 1997 (anno della tragica morte del designer, ucciso sulle scale della sua villa di Miami), testimonianze esemplari di una creatività che non conosceva limiti.

Gianni Versace, del resto, è stato un autentico precursore nel suo ambito, tra i primi in assoluto a unire moda e linguaggi espressivi eterogenei, in primis musica, fotografia e graphic design, aprendo la strada alla trasformazione di sfilate e campagne pubblicitarie in artwork a tutti gli effetti, in grado di segnare l’immaginario collettivo.

Versace camicie seta vintage
Gianni Versace, Silk Shirt Army – ©Dirk Patschkowski (ph. courtesy of Groninger Museum)

Tutti gli oggetti esposti sono pezzi originali, provenienti da collezioni private internazionali, in particolare da quella di Antonio Caravano; la curatrice di quest’ultima, Sabina Albano, ha intrapreso da tempo un personale viaggio-omaggio al lavoro dello stilista calabrese, di cui è tra le massime esperte. Commentando la mostra di Groningen, pone l’accento sul «desiderio di valorizzare costantemente il linguaggio della moda che interpreta il tempo. È una linea temporale che va dal passato al presente, quasi reperti archeologici con cui decifrare i nostri mondi».

Il percorso espositivo si snoda in stanze tematiche, dedicate alle “ossessioni” del fondatore del brand

L’esposizione (che, va precisato, non è legata in alcun modo al gruppo Capri Holdings, attuale proprietario del brand, né è stata autorizzata dalla famiglia) si configura, più che come una “semplice” celebrazione dell’heritage del founder, come un racconto sui generis, articolato in assonanze e intrecci con altre forme di creatività. Ad aprire il percorso tematico, il celeberrimo, scollatissimo “Safety Pin Dress” della collezione Punk (1994), indossato da Liz Hurley alla première londinese di Quattro matrimoni e un funerale, che tramutò l’attrice britannica in una star di caratura mondiale.

Liz Hurley Versace dress
“Four Weddings and a Funeral” premiere in London, 1994 – ©Dave Benett/ Hulton Archive/ Getty Images (ph. courtesy of Groninger Museum)

A seguire, le diverse ispirazioni che hanno alimentato, negli anni, il ready-to-wear griffato Versace, con un focus specifico per ogni sala: si va dalla pop art di Andy Warhol alla Magna Grecia, dal rapporto dello stilista con celebrità del calibro di Lady Diana o Elton John alla collezione Freedom, del 1991, che sostanzialmente sancì la nascità del fenomeno delle supermodel, nello specifico Cindy Crawford, Naomi Campbell, Linda Evangelista, Christy Turlington.

Gianni Versace visto da Jacopo Ascari e Bruno Gianesi

Gianni Versace mostra 2023
(Artwork by Jacopo Ascari)

Versace mostra
(Artwork by Jacopo Ascari)

Ad interpretare, per MANINTOWN, i must della retrospettiva (dagli outfit più spettacolari agli allestimenti delle varie stanze) è Jacopo Ascari, i cui coloratissimi disegni, in questa pagina, fanno il paio con quelli – straordinari – di Bruno Gianesi, pubblicati in esclusiva sul magazine. Storico collaboratore di Gianni Versace, Gianesi fa il suo ingresso nell’ufficio stile del marchio nel 1984: vi rimarrà per i successivi sedici anni, in qualità di capo stilista e responsabile dei sontuosi progetti teatrali che coinvolgono all’epoca il brand, curando la realizzazione dei costumi di scena per coreografi e registi del livello di Roland Petit, Maurice Béjart, William Forsythe e Bob Wilson e, in parallelo, disegnando gli abiti indossati dalle star coeve, i già citati Elton John e Lady D, Sting, Madonna e tanti altri, curandone anche le relative illustrazioni per la stampa.

Diversi suoi bozzetti sono stati selezionati proprio dal Groninger Museum, per l’exhibition in corso di svolgimento: quello olandese, d’altro canto, è solo l’ultimo museo, in ordine di tempo, a includere in una sua mostra il lavoro del prolifico artista, esposto negli anni in istituzioni culturali d’eccezione, dai Musei Civici di Palazzo Farnese, a Piacenza, alla Galerie Quadrige di Nizza, passando per il Teatro Litta di Milano, il Kronprinzenpalais berlinese…

Versace Magna Grecia
Illustrazione di Bruno Gianesi presentata alle mostre Gianni Versace Magna Grecia Tribute (Museo Archeologico di Napoli, 2017) e Gianni Versace Retrospective (Groninger Museum, 2022)

Versace costumi teatro
Dionysos di Maurice Béjart,costumi Gianni Versace (illustrazione di Bruno Gianesi)

“Con Gianni Versace non si faceva solo moda, ma arte e cultura”

Parlando con MANINTOWN dei suoi trascorsi nella casa di moda, Gianesi sottolinea in particolare un concetto: «Parlando di Gianni Versace – afferma – non si può non parlare di “bellezza”, definirei l’essenza di Versace proprio con questa parola. Gianni amava il “bello”, in tutte le sue sfaccettature ed espressioni artistiche, una bellezza non omologata né costretta entro i imiti imposti da una morale bigotta; un senso di bellezza che andava oltre gli stereotipi, i pregiudizi, i luoghi comuni, senza tempo né confini, che guardava al futuro senza scordarsi del passato. Ecco allora la sua passione per il neoclassico e la Magna Grecia, ma anche per l’avanguardia, il futurismo ,il pop, che amava accostare e contrapporre, facendoli dialogare. Da queste premesse sono nate collezioni cult, come Bondage (autunno/inverno 1992-93) o Punk (primavera /estate 1994), quella dell’iconico abito con tagli laterali trattenuti da spilloni d’oro».

Versace top model
Marpessa, bozzetto di Bruno Gianesi

«Sono rimasto a lavorare per la maison dal 1984 al 1999», aggiunge. «Ho avuto la fortuna di vivere gli anni d’oro della moda, della vera creatività, delle top model e del glamour, ma soprattutto, stando accanto a Gianni, ho imparato ad amare l’arte e il teatro, ad avere una mente più aperta, a viaggiare per conoscere altri paesi e culture. Ho imparato ad avere una mente veloce, lui era sempre avanti, la sua curiosità per tutto quanto lo circondasse lo portava ad anticipare tendenze e mode; non era mai fermo, sempre pronto ad affrontare nuovi progetti e sfide. Con Gianni Versace non si faceva solo moda, ma arte e cultura, e questo proprio attraverso i lavori e le progettazioni degli spettacoli teatrali, nonché lo studio attento del passato, così da poterlo rivisitare in chiave moderna e contemporanea».

Linda Evangelista Versace
Linda Evangelista, bozzetto di Bruno Gianesi

Nell’immagine in apertura, un allestimento della mostra visto da Jacopo Ascari

Le migliori collezioni co-ed delle fashion week di Milano e Parigi

Terminato il tour de force del cosiddetto fashion month, si può cercare di mettere ordine nella messe di show autunno/inverno 2023-24 succedutisi, dal 10 febbraio in poi, sull’asse New York-Londra-Milano-Parigi, soffermandosi in particolare sulle sfilate co-ed che, mostrando nello stesso contesto menswear e womenswear, permettono di cogliere la visione d’insieme di un determinato brand. A fare la parte del leone, in questo senso, sono state – ça va sans dire – la città lombarda e la capitale francese, diverse spanne sopra le altre capitali modaiole per quantità e qualità dei défilé misti nei rispettivi calendari; ad attestarlo sono (anche) le collezioni uomo e donna seguenti, opera di venerate maison come Valentino, Ferragamo, Alexander McQueen.

Diesel

Diesel A/I 2023

Alimentando il poderoso repêchage che, dal suo arrivo alla corte del patron Renzo Rosso, ha riportato Diesel in cima ai desideri dei consumatori, con l’A/I 2023-24 della griffe Glenn Martens alza ancora l’asticella, dando fondo alla visionarietà irruenta che connota in profondità il suo lavoro; a testimoniarlo, plasticamente, la piramide rossa che svetta nell’enorme spazio del Superstudio Maxi, migliaia di scatole di profilattici Durex (con cui è in arrivo una capsule collection).
L’ode alla positività sessuale è servita, i look si adeguano al mood libertario, compiaciutamente edonistico della passerella, col designer belga che scatena la sua verve creativa. Non si può ridurre il tutto, però, al mero sensazionalismo, ad uso e consumo di chi assiste alla sfilata, perché le iperboli del direttore artistico s’intrecciano all’ottima manifattura dei capi, gli eccessi al fiuto commerciale per accessori che mandano in solluchero torme di fan, le sperimentazioni radicali alla perizia dei laboratori dell’azienda, abilissimi a trattare il denim; quest’ultimo è il materiale d’elezione della collezione, stressato in ogni modo possibile e immaginabile, fino ad assumere un’aria più che invecchiata, tra screpolature, graffi, candeggi, ombreggiature, chiazze, abrasioni ripetute che lo rendono tenue come carta velina, mostrando la pelle dell’indossatore (o indossatrice) di turno.

Sexiness, d’altro canto, è tra le parole chiave della stagione: i volumi sono ridotti e cascanti, tra maglie microscopiche, spacchi, pantaloni scesi sui fianchi, sottovesti tenute su alla meglio da graffe di metallo o catenelle; fanno eccezione i capispalla, autentiche tele bianche per il virtuosismo degli artigiani Diesel, che si sbriglia in ecopellicce ricondizionate, paletot in jersey lavorato per dare l’effetto della nappa craquelé, giubbotti dalle superfici plastificate o metallizzate, per non dire delle serigrafie che zoomano su volti sorridenti dal sapore posticcio, stampigliate nel finale sugli ensemble, ulteriore, sapido ingrediente del godibile pot-pourri di Martens.

Diesel A/I 2023 (ph. credits Diesel)

Ferragamo

Ferragamo A/I 2023


A capo, dal marzo 2022, dell’ufficio stile Ferragamo, con lo show A/I Maximilian Davis seguita a perfezionare la sua idea di una label che, nell’anno domini 2023, deve necessariamente dotarsi di un’identità stilistica forte, distinta, complementare al retaggio di un nome conosciuto ovunque per la pregevolezza di borse, calzature e foulard. Il punto di partenza, dunque, è il periodo di massimo splendore della casa toscana, dagli anni ‘30 ai ‘50, che coincide coi trascorsi hollywoodiani del capostipite Salvatore, il «calzolaio dei sogni» (s’intitola così la sua autobiografia, trasposta sul grande schermo, due anni fa, da Luca Guadagnino) che, nella mecca del cinema, trovò la definitiva consacrazione, guadagnandosi il favore del jet set, attrici della caratura di Marilyn Monroe o Sophia Loren in testa.
Davis ammette di subire il fascino della loro bellezza, del glamour che vuol «rendere moderno», ancorato al qui ed ora, perciò s’immerge negli archivi, in cerca degli articoli o temi più rappresentativi della legacy della maison (tra gli altri i carré, la Wanda bag, le forme a campana o cocoon della couture novecentesca, l’esotismo dei print di metà secolo, i monili in bachelite…), attualizzati dal suo tratto svelto, grafico, perentorio, volto ad asciugare e slanciare la figura.

Il lavoro è minuzioso, coinvolge svariati aspetti, dalle sfalsature causate da asimmetrie e tagli di sbieco all’utilizzo di materiali lucidi (lamé, vernice, resina) o tecnici (lana stretch, nylon), dagli intagli attraverso cui rivelare cromie a contrasto alle costruzioni rubate all’abbigliamento da moto, dalle cerniere che restringono o dilatano le proporzioni dell’outfit alle scarpe che, in dettagli quali i tacchi a spillo dal profilo angolare o la corda tressé, riprendono il lessico dei modelli introdotti dal founder. L’intera collezione si risolve, alla fine, in una – suggestiva – polarizzazione tra soavità e rigore, da un lato la grandeur dell’età d’oro di Hollywood, dall’altro un afflato futuribile, entrambi centrali nel nuovo corso di Ferragamo.

Ferragamo A/I 2023 (ph. courtesy of Ferragamo)

Off-White

Off-White A/I 2023

Dallo scorso maggio art and image director di Off-White, Ib Kamara, stylist di successo, amico e collaboratore di lunga data di Virgil Abloh, è stato chiamato al compito – per nulla agevole – di garantire continuità al prolifico opus del fondatore, scomparso prematuramente nel 2021, figura titanica del fashion contemporaneo, che ha cambiato in profondità abbattendo gli steccati tra lusso e streetwear, boutique e marciapiede, preziosità da atelier e subculture metropolitane.
Una sfida immane, eppure il creativo sierraleonese, dopo le incertezze del debutto, in cui si era limitato a perpetuare gli assiomi di stile del brand, mostra di poterla affrontare nel migliore dei modi, rinvigorendo la primigenia vena artisticheggiante dell’etichetta, in un détour ardimentoso tra effettismo e giocosità, linearità e guizzi visivamente accattivanti.

L’atmosfera al Tennis Club de Paris è lunare, nel vero senso del termine, perché, come a segnare idealmente un nuovo inizio, il direttore artistico immagina un viaggio sul nostro satellite, evocato dai cumuli di terra rossiccia che attorniano la sfera riflettente al centro del setting, da cui sbucano modelle e modelli bardati con tenute parecchio elaborate, in bilico tra sci-fi e utilitarismo.
Le silhouette, tese e puntute, si smussano via via; a strutturarle provvedono zip (che corrono sui pantaloni, sostituiscono gli orli, fendono cargo e giacche), pannelli, cinghie, coulisse, imbracature reali (perfette per accogliere borse di ogni tipo e dimensione) o dissimulate dai trompe l’oiel, come pure le tracce degli pneumatici, usati anche a mo’ di ready made duchampiano per sagomare orecchini o bracciali fuori scala. Richiama la luna, il suo paesaggio colmo di crateri e asperità, pure l’infilzata di oblò, squarci, forature distribuita nelle 56 uscite, per non dire delle file di occhielli metallici, dispiegati in lungo e in largo sulle superfici.
L’ispirazione spaziale trova degna espressione nella tavolozza cromatica, che passa dai toni baluginanti dell’argento, ghiaccio e celeste alle sfumature pastose del sabbia, ocra, beige, khaki; queste ultime, in realtà, evocano i colori caldi, arsi dal sole, dell’Africa occidentale in cui è nato e cresciuto Kamara, che, pur conscio della statura ineguagliabile di Abloh («poteva esserci un solo Virgil», riconosce), sembra determinato a dare il suo contributo alla crescita di una griffe che, ne è certo, saprà «reinventarsi e resistere alla prova del tempo».

Off-White A/I 2023 (ph. credits Off-White™)

Andreas Kronthaler for Vivienne Westwood

Andreas Kronthaler for Vivienne Westwood A/I 2023

Data la scomparsa, neppure tre mesi fa, di Vivienne Westwood, tra i défilé più attesi della fashion week parigina non poteva non esserci quello del marchio eponimo, disegnato già dal 2016 da Andreas Kronthaler. Il marito, suo ex allievo e delfino, ha preparato per Dame Viv un tributo toccante, sotto forma di una struggente lettera, lasciata sulle sedute degli ospiti, in cui versi d’amore («sei stata la mia ragione, tutto ciò che ho fatto l’ho fatto per te», scrive) si confondono con la lode alla sua immensa eredità creativa; e poi, in pedana, di un compendio ragionato – e aggiornato – dei leitmotiv che hanno garantito gloria imperitura al brand, frammisti in una panoplia di ensemble dai mille colori e riferimenti, che annulla le differenze di genere, vestendo le donne da uomini e viceversa.

Ci sono dunque leggings dai motivi pittorici, sovrapposizioni e drappeggi intricati, gonnelloni a campana, stampe tappezzeria, rigidi tweed so british, tartan a non finire, mashup di fantasie e tonalità, accumuli di stoffe finemente lavorate («tessuti antichi, raccolti per dar loro nuova vita», recita il comunicato); ancora, giubbe, fiocchi, jabot e altri vessilli dell’estetica new romantic (saccheggiata varie volte dalla stilista inglese, in particolare per le memorabili collezioni degli Eighties) come pure corsetti, pizzi, balze, panier e tutto l’armamentario della femminilità più svenevole, passé, che lei seppe prodigiosamente tramutare in pezzi statement, assertivi e desiderabili, alla stessa maniera delle gigantesche platform, al limite della calzabilità, che fecero soccombere sul catwalk persino Naomi Campbell, o delle zeppe Rocking Horse, entrambe riproposte in varianti inedite. Fino al gran finale, con la nipote di Westwood, Cora Corré, avvolta in un robe-bustier di pizzo operato, virginale e impudente in egual misura. Abbraccia Kronthaler, visibilmente commosso, applaudito da un parterre all star che vede in prima fila Jared Leto, Halsey, Jean-Paul Gaultier, Julia Fox, accorsi al magniloquente Hôtel de la Marine, affacciato su Place de la Concorde, per un ultimo, sentito omaggio alla signora del punk.

Andreas Kronthaler for Vivienne Westwood (ph. courtesy of Vivienne Westwood)

Alexander McQueen

Alexander McQueen sfilata 2023
Alexander McQueen A/I 2023 (ph. by Chloé Le Drezen)

Al rientro nella ville lumière dopo le sortite a Londra e New York dell’ultimo triennio, per l’A/I di Alexander McQueen Sarah Burton decide di tornare ai fondamentali, a una parte forse meno nota, ma basilare, dell’operato del suo mentore e predecessore, che mosse i primi passi come apprendista a Savile Row, tempio dell’eleganza maschile made to measure. Già il titolo della sfilata, Anatomy, è una dichiarazione d’intenti, lascia supporre che a dominare la passerella sarà uno studio approfondito del vestire, dei suoi rudimenti (ovvero «sartoria, tessuti sartoriali, attenzione al taglio, alle proporzioni e alla figura», puntualizza lei), ed è effettivamente così. Non vi è traccia, tuttavia, di conservatorismo, né volontà di indottrinare chi guarda sui principi aurei del tailoring, l’obiettivo è invece «upside down», sovvertire il classico. Vaste programme, ma Burton è stata l’ombra del compianto Lee, ne ha assorbito le tecniche, il metodo, la tensione costante all’eccellenza, da raggiungere attraverso la confezione a regola d’arte del capo, può quindi permettersi una lectio magistralis sulle infinite potenzialità della sartoria.
Sulla passerella si materializzano silhouette verticalizzate, un secco tratto di matita ispessito dai volumi potenti, affilati, che di look in look si fanno più scolpiti, tra la solidità delle spalle, affilate come rasoi, e la robustezza delle calzature, che fa il paio con quella dei preziosi bold, pendenti, anelli e collane dai riflessi argentei o dorati.

Nel menswear, le linee filanti di jumpsuit, soprabiti e completi sagomati dialogano con le svasature dei pants, mai troppo aderenti, il cappottone tagliato a uovo con l’appiombo perfetto della giacca, l’opacità di filati quali lana, cotone, gabardine e maglia con la lucentezza della nappa, usata in abbondanza, i pattern della tradizione brit, su tutti gessato e pied-de-poule, coi top filamentosi simil-corazza, rifulgenti di paillettes. A disturbare l’imperio cromatico di nero e bianco, qualche stampa dégradé (ingrandimenti di orchidee) e le nuance sature del rosso e viola, anch’esse funzionali a un racconto che, per proiettare il marchio nel futuro, ne rinverdisce con acribia il passato.

Alexander McQueen A/I 2023 (ph. credits Alexander McQueen)

Valentino

Valentino Black Tie
Valentino A/I 2023 (ph. credits Valentino)

Saldo come non mai al timone creativo di Valentino, Pierpaolo Piccioli prosegue, con la destrezza e l’acume propri del couturier di razza, il percorso di risignificazione dei codici della maison avviato qualche stagione or sono, che gli ha permesso di conferire loro valori inediti, oltremodo attuali.
L’ennesima prova d’autore del designer romano, ospitata dai saloni ovattati, tutti stucchi e dorature, dell’hôtel particulier Salomon de Rothschild, si foggia sul Black Tie del titolo, da intendersi non solo nell’accezione letterale di “cravatta nera”, ma anche in quella di dress code massimamente elegante, richiesto per cene di gala, premiazioni, eventi in odore di “solennità”. Bisogna poi dire che, nel generale laissez faire che attanaglia l’abbigliamento formale, legare al collo una striscia di stoffa può risultare paradossalmente un gesto di rottura, anziché il cedimento a una leziosaggine superflua, antidiluviana, com’è ritenuta da un numero sempre maggiore di uomini.
Terreno fertile, comunque, per la sensibilità in materia di Piccioli, specializzatosi da tempo nell’attribuire nuovi, (potenzialmente) dirompenti contenuti semantici a indumenti, categorie, perfino colori (vedasi alla voce Pink PP). Il filo rosso che attraversa il guardaroba stagionale (intercambiabile, le mise di lei e lui sono sostanzialmente identiche), una teoria di coat, camicie, pullover, blouson & Co., è rappresentato pertanto dalle cravatte, onnipresenti, punto focale di outfit dall’esattezza adamantina, con shape in teoria antitetiche (soprabiti extra-lunghi e shorts esigui, caban dalla linea boxy e pantaloni smilzi, orli che lambiscono il pavimento e blazer sforbiciati sull’addome…) bilanciate alla perfezione.
A scalfire la precisione euclidea dell’insieme, col tocco punkish associato ormai indelebilmente a Valentino, le borchie coniche, che listano gli accessori, dalle suole dei boots lucidi ai manici delle borse, e i gioielli per il viso, piercing, ear cuff, cerchietti da apporre su labbra o naso, mentre la palette si riduce a poche, simboliche cromie, oltre alla combo black & white lo speciale rouge del marchio, il giallo, l’azzurro, il verde vivo.

Per ribadire l’assenza di qualsivoglia formalità, saltano tutte le distinzioni, comprese quelle tra maschile e femminile, daywear ed eveningwear; lo scopo, mette in chiaro il creative director, è «arrivare a un’uniforme che evidenzia le differenze, pronta per essere trasformata in un look personale. Anche perché credo sia necessario che il fashion crei delle ossessioni»; come quella, magnifica, di Piccioli per la moda, con la M rigorosamente maiuscola.

Valentino A/I 2023 (ph. credits Valentino)

Nell’immagine in apertura, il finale della sfilata Valentino A/I 2023-24 (ph. dal sito valentino.com)

Sanremo 2023, le anticipazioni sugli outfit dei big

Il countdown per Sanremo 2023 sta per terminare e, parallelamente, monta la curiosità per gli abiti che sfoggeranno i big in gara alla 73esima edizione del Festival. Da quando, in maniera un po’ inaspettata, il Teatro Ariston si è trasformato in una poderosa ribalta modaiola, con i look dei cantanti passati ai raggi X, in presa diretta, sui social, il “chi veste cosa” è infatti un genere a sé, dominato dagli stylist, autentici deus ex machina dai quali dipende la riuscita – o meno – della tenuta festivaliera di turno. A loro si affidano tutti, titani della canzone italica e giovani promesse in cerca del riconoscimento definitivo, ed è perciò naturale che siano figure come Lorenzo Posocco, Nick Cerioni o Simone Furlan a fornire indicazioni o, semplicemente, indizi sulle mise che, da martedì 7 a sabato 11 febbraio, alimenteranno il buzz mediatico intorno alla kermesse nazionalpopolare par définition.

La parola agli stylist, dominus dell’estetica sanremese

Il primo, ad esempio, già artefice degli outfit ad alto tasso di spettacolarità di Dua Lipa, incoronato dall’Hollywood Reporter nel 2019 «stylist più influente della musica», seguirà quest’anno Elodie, Marco Mengoni e Ariete. Nessuna certezza sui brand scelti per l’autrice di Tribale e il superfavorito della vigilia, né per quelli della 20enne cantante romana, sebbene siano gettonate, per Elodie e Mengoni, le ipotesi Versace (entrambi, alla finale di Sanremo Giovani dello scorso dicembre, hanno sfoderato capi della Medusa) e Valentino, per Ariete The Attico.

Cerioni, tra gli antesignani della professione, responsabile dello stile on stage di svariate celebrità musicali, da Jovanotti a Laura Pausini, curerà gli ensemble di Paola & Chiara (le indiscrezioni le vogliono in Dolce&Gabbana) e Tananai. Fa invece dei nomi Furlan, in quest’occasione al fianco di Mara Sattei (che, rivela in un’intervista a Fanpage, «indosserà un brand di alta moda per tutte le serate, sul palco vedremo momenti di sartorialità assoluta, un lavoro molto elegante e sofisticato»), Lazza (vestirà Missoni, con abiti disegnati appositamente per lui dal creative director Filippo Grazioli, «un mix tra l’identità di questo storico marchio e la sua, più street, hip hop, trap, legata a un certo tipo di immaginario») e Madame, che attraverso gli abbinamenti «concettuali» di Off-White «racconterà la storia di un personaggio che trova la forza in sé e diventa qualcos’altro».

Il mix sul palco dell’Ariston, tra suggestioni punk, simboli del made in Italy, label di nicchia

Giorgia Cantarini, mente creativa dietro i look sanremesi dei Coma_Cose, anticipa che il duo si presenterà sul palco dell’Ariston in Vivienne Westwood, con pezzi sartoriali dal gusto punk e british, tipici della griffe. La collaborazione è nata dal desiderio di omaggiare la leggendaria stilista britannica, recentemente scomparsa, «un mito senza tempo» secondo Fausto Zanardelli e Francesca Mesiano, che si dicono «onorati di andare a Sanremo con la sua moda. Oltre alla bellezza dei suoi abiti, ci ha sempre affascinato il suo essere anti-establishment e controcorrente, i messaggi sociali e culturali che ha voluto diffondere con il suo lavoro».

Coma Cose Sanremo 2023
I Coma_Cose in Vivienne Westwood (foto Attilio Cusani, styling Giorgia Cantarini, grooming Greta Ceccotti, ph. courtesy of Vivienne Westwood)

Rosa Chemical, seguito da Simone Folli, in Moschino sia sul red carpet iniziale che nelle serate successive, manterrà anche nel vestiario l’approccio dissacratorio che lo caratterizza musicalmente. Jeremy Scott, direttore artistico della maison, ha curato ogni dettaglio, con l’obiettivo di creare una sinergia tra i singoli capi e il brano Made in Italy, un inno alla libertà e all’accettazione, destrutturando i classici della sartoria maschile per infondergli un’allure inedita, distintiva, di forte impatto visivo e simbolico.
Non solo grandi maison sugli schermi Rai, però, gli esordienti Olly e Sethu, ad esempio, si affideranno alla creatività irruenta, scevra da schemi e preconcetti, di – rispettivamente – Çanaku e JordanLuca.

Moschino Rosa Chemical
Il bozzetto di un look disegnato da Moschino per Rosa Chemical (ph. courtesy of Moschino)

Le scelte dei big, da Blanco a Giorgia

La rentrée di Anna Oxa, al suo 15esimo Sanremo, dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – essere accompagnata dalle creazioni di Dolce&Gabbana, che grifferà le mise di un altro pezzo da novanta, Blanco, tra gli ospiti d’onore dopo l’exploit del 2022 con Brividi. Nessuna certezza neppure per Giorgia, che stando ai rumor dovrebbe optare per Dior.
Sebbene non ci siano conferme ufficiali, si dà tuttavia per scontato, vista l’intesa duratura tra i due, che a vestire per il Festival Levante sarà l’amico Marco De Vincenzo, oggi al timone di Etro.

Gianluca Grignani, altro frequentatore abituale della manifestazione, fedele alla tempra da irregolare che ne ha segnato ascese e cadute, sfoggerà i completi dal flavour rockeggiante di John Richmond. Non sarebbe Sanremo, poi, senza re Giorgio: ad indossare le ultime proposte della sua Emporio Armani saranno Leo Gassmann, gIANMARIA e, a quanto pare, Ultimo.

Meritano un cenno, infine, gli outfit dei conduttori: Amadeus, al solito, ricorrerà agli smoking di Gai Mattiolo, amico di famiglia, Gianni Morandi, con tutta probabilità, a quelli di un nome simbolo della moda tricolore (Armani?), la co-host più attesa, Chiara Ferragni, come abbondantemente preannunciato a mezzo Instagram, alternerà Dior e Schiaparelli. La gara (anche) vestimentaria può cominciare.

Nell’immagine in apertura, i Coma_Cose in Vivienne Westwood (foto Attilio Cusani, styling Giorgia Cantarini, grooming Greta Ceccotti, ph. courtesy of Vivienne Westwood)

Sestini, l’eyewear che combina ricercatezza e sostenibilità

Nonostante i numeri (quasi 490mila follower su Instagram) lo classifichino inequivocabilmente come tale, Carlo Sestini, fiorentino 29enne, sguardo di ghiaccio, charme d’altri tempi e affabilità da vendere, è un influencer per molti aspetti atipico. Di nobile lignaggio (la sua è una storica famiglia aristocratica toscana), studi in diplomazia e diritto internazionale a Londra, pacato, cortese, sfugge i facili cliché sulla categoria; anche sui social, non si segnala certo per l’iperattivismo osteso dalla maggior parte dei “colleghi”, piuttosto sembra attenersi al precetto latino del cum grano salis.

Carlo Sestini 2023
Carlo Sestini (ph. courtesy of Sestini)

Dopo aver collaborato con i pesi massimi della moda, da Dolce&Gabbana a Dior, da Versace a Canali, due anni fa decide di dedicarsi al pallino di sempre, l’occhialeria, ma anziché limitarsi ad apporre la firma sull’accessorio bell’e finito di un brand X, avvia la propria start-up, per seguire da vicino ogni passaggio della realizzazione, dall’ideazione dell’occhiale all’astuccio che lo contiene. Il risultato è il marchio che porta il suo nome, Sestini, montature luxury che sposano le ferree convinzioni del fondatore in tema di circolarità ed etica, rispolverando alla bisogna il sempreverde “meno, ma meglio”. Gli acetati provengono dai magazzini di produttori specializzati, la plastica di custodie e panni per le lenti è riciclata, imballaggi e spedizioni sono a emissione zero in quanto, per ogni nuovo paio, viene piantato un albero, in collaborazione con l’organizzazione One Tree Planted.
Lui, d’altro canto, ritiene i sunglasses un accessorio «necessario, non un effimero “it” o “must have” del momento»; l’ambizione, per converso, è ottenere «un’immagine classica, senza tempo, per occhiali made in Italy sostenibili, da tenere e usare tutta la vita».

Una start-up che ha già convinto i buyer di prestigiose boutique e department store

La seconda collezione, “Gloriosa”, è stata presentata qualche settimana fa, nel pieno della fashion week maschile di Milano, nella cornice pregevole e però intima, raccolta, di una suite dell’hotel Principe di Savoia. Perfetto anfitrione, Sestini si aggirava fra i tavoli con impilate le novità della griffe, un ventaglio di colorazioni e silhouette considerevole, a suggellare l’evoluzione di una realtà giovane ma seguita con attenzione dai buyer, già approdata, infatti, in boutique, department store e hotel blasonati.

Carlo Sestini brand
Il laboratorio dove vengono realizzati – a mano – gli occhiali firmati Sestini (ph. courtesy of Sestini)

«Per il debutto nella settimana della moda milanese – dichiara l’imprenditore e founder – ho pensato a una proposta audace»; il packaging è rinnovato (in chiave green, ça va sans dire), i modelli «senza loghi, perché mi piace pensare che il focus di chi indossa i miei occhiali da sole siano le persone».
Osservando le montature esposte, il pensiero corre subito ai fuoriclasse del cinema che fu, utilizzatori seriali che hanno sancito l’immortalità dell’equazione divo/a del grande schermo uguale occhiali inforcati accaventiquattro. Si fanno i nomi di Rodolfo Valentino, Elizabeth Taylor, Marcello Mastroianni, Stanley Kubrick, Sergio Leone. Il coté cinematografico, tuttavia, è solo uno dei pilastri della label, come si evince dalle risposte fornite da Carlo Sestini alle domande di MANINTOWN.

“Ho voluto creare degli stili timeless, senza inseguire mode e tendenze”

Quali sono i i tratti distintivi del marchio?

Qualità, artigianalità, sostenibilità, unicità. Ogni occhiale è creato in Italia a mano da un maestro artigiano, usando esclusivamente materiali recuperati dagli archivi di aziende italiane produttrici di acetato.
Ho voluto creare degli stili timeless, senza inseguire mode e tendenze, per questo ho scelto di non utilizzare loghi; a mio avviso, la personalità e lo stile di una persona non vengono definiti dalle etichette. Mi piace pensare che il focus di chi indossa i miei occhiali da sole siano le persone. Il volto è al centro della scena, non il brand e, anche se gli occhi sono schermati, la personalità di chi li sceglie dev’essere protagonista.
L’attenzione all’artigianalità, unita all’uso di tecniche all’avanguardia, fa di Sestini una collezione pregiata, luxury ma senza ostentazione, estremamente contemporanea nella sua predilezione per un gusto vintage.
Il design è essenziale ma ricco di dettagli: i telai sono realizzati a mano in quantità limitate, nessuno stile viene riprodotto una volta esaurito il lotto originale. Ogni paio è numerato, per ricordare a chi li indossa l’unicità del manufatto. Le lenti Carl Zeiss sono utilizzate su tutti gli occhiali, per garantire il massimo livello di protezione dai raggi UV.

Carlo Sestini occhiali da sole
Un occhiale da sole della nuova collezione Sestini (ph. courtesy of Sestini)

“Il tema della sostenibilità è fondamentale, l’ho affrontato a 360 gradi”

Sestini è fortemente improntato alla sostenibilità, sotto quest’aspetto come si concretizza l’impegno green dell’azienda? 

Il tema per me è fondamentale, l’ho affrontato a 360 gradi. I materiali usati sono interamente ecologici, a partire dalla confezione, progettata pensando alla totale funzionalità e sostenibilità della stessa. Ogni occhiale viene infatti proposto in un contenitore di pelle vegana, una custodia in seta riciclata, un panno per lenti in plastica riciclata, un biglietto di ringraziamento e un opuscolo in carta biodegradabile.
Nulla è lasciato al caso. Tutte le emissioni di carbonio delle spedizioni commerciali e dei clienti sono state compensate, aderendo al programma UPS Carbon Neutral Shipment, che permette di compensare l’impatto climatico delle operazioni. Sestini pianta, inoltre, un albero per ogni paio di montature venduto tramite One Tree Planted, un grande programma di riforestazione mondiale.

Carlo Sestini brand
Ph. courtesy of Sestini

Cosa caratterizza l’ultima collezione in termini di modelli, colori, ispirazioni…? 

Ho voluto omaggiare le star del cinema, reinterpretando le forme vintage più belle. I grandi nomi del settore, attori o registi, rappresentano a mio avviso un’eleganza aspirazionale che vorrei trasferire ai giovani, ovviamente lasciando loro totale libertà espressiva.
Potrei dire che la bellezza è la mia primaria fonte d’ispirazione; in particolare quella della mia terra, la Toscana, che ti travolge con la sua arte, cultura e natura.

“La mia mission è creare un vero e proprio lifestyle”

I riscontri ottenuti finora dagli addetti ai lavori sono lusinghieri, quali sono i prossimi passi? Novità o sorprese in arrivo di cui puoi anticiparci qualcosa? 

Sono molto soddisfatto dello sviluppo di Sestini, calcolando che si tratta pur sempre di una start-up. Dal lancio della prima collezione nel 2020, ho stretto collaborazioni con Eden Rock St. Barth, The Dorchester, Modes, LuisaViaRoma. Oggi siamo venduti da Level Shoes a Dubai, Harvey Nichols Riyadh, Galeries Lafayettes Doha, Modes Milano e Sankt Moritz, Curio at Faena Bazaar (Miami), Esmeralda in Sardegna.
Per carattere, tuttavia, non mi accontento mai e continuo a guardare avanti, cercando nuove sfide e traguardi. A livello distributivo, sicuramente l’obiettivo più strategico è l’ingresso nel mercato asiatico.
La mia mission è creare un vero e proprio lifestyle, inserendo nuove brand extension come, per esempio, le 300 bottiglie di vino che ho recentemente lanciato (un omaggio, non in vendita), a breve si potranno trovare in esclusiva… Ma non voglio svelare troppo!
Concludo con un ultimo pensiero, per me importante: mi piacerebbe essere considerato un giovane imprenditore che ha dato via a un progetto serio e coerente, aprendo la strada a una nuova generazione di giovani businessmen liberi e interessanti agli occhi dei player. Ho ancora tanto da fare, siamo solo all’inizio.

Sestini brand
Ph. courtesy of Sestini

Sestini sunglasses
Ph. courtesy of Sestini

Nell’immagine in apertura, un ritratto del fondatore e imprenditore digitale Carlo Sestini (ph. courtesy of Sestini)

Maison storiche, designer orientali, collettivi: il melting pot della PFW A/I 2023

A prescindere da durata (sei giorni scarsi) e numeri relativamente modesti, se paragonati a quelli della manifestazione gemella riservata al prêt-à-porter donna, la Paris Fashion Week Men’s è pur sempre un formidabile barometro, un indicatore delle direzioni che prenderà la moda pour homme da qui ai prossimi mesi. Tanto più che l’edizione Autunno/Inverno 2023-24, chiusa il 22 gennaio da Maison Margiela, ha registrato il rientro all’ovile di alcuni nomi eccellenti, dalla label belga (guidata da quel geniaccio di John Galliano), appunto, al menswear di Saint Laurent, nuovamente nella Ville Lumière dopo un lustro di peregrinazioni ai quattro angoli del pianeta, dal comeback – col format della presentazione – di Berluti, Ziggy Chen e Uniforme, a quello in passerella di brand come White Mountaineering, Sacai, Wales Bonner o Bode, che negli ultimi tempi avevano optato per show digitali.
Poi si sa, la capitale transalpina è la mecca del fashion, suona dunque persino ovvio ribadire, adattando la nota massima di Enrico IV di Francia, che Parigi val bene una gallery dei défilé, magari quelli seguenti.

Issey Miyake

Homme Plissé Issey Miyake A/I 2023

Inverando, per l’ennesima volta, il pensiero fondante del lavoro di Issey Miyake, modellato sulla pregnanza assoluta del design («è per la vita», ricordava lui), l’ufficio stile dell’etichetta Homme Plissé fa di un mirabile ossimoro, quello della semplicità complessa, l’asse portante della sfilata A/I 2023. Triangoli, cerchi, rettangoli e altre figure geometriche basilari costituiscono, infatti, le fondamenta sulle quali edificare silhouette diversificate, a raggio, dritte, arcuate e longilinee e cilindriche, mai banali, quasi sempre, per giunta, modificabili ad libitum grazie alla presenza di accorgimenti come bottoni a pressione, cordini regolabili, cinghie.

Backstage, ph. by Anthony Pomes (skin prep and make-up: Shiseido)

Nel Palais de Tokyo, trasfigurato dalla videoinstallazione della compagnia Adrien M & Claire B in un ambiente dove le percezioni risultano sfocate, s’incalzano le linee di cui consta l’offerta complessiva della griffe, come tante collezioni nella collezione, a cominciare dalla Monthly Color July, abiti in colori pieni, carichi, associati a toni smorzati (verde prato col panna, viola col bianco, arancione col senape…), e dai tagli smussati, con le plissettature che s’irradiano dal collo alle spalle, tracciando shape tubolari. Quindi gli Edge Coat, capispalla grafici; Skew Grid, outerwear, gilet e pants solcati da griglie in nuance chiare adagiate su fondi scuri, che ingannano l’occhio; le sovrapposizioni, personalizzabili tramite le abbottonature, di Unfold; infine, le formazioni esagonali di Three by Six e le fantasie optical di Triangular Grid, ispirate all’architettura di Richard Buckminster Fuller, sequenze di triangoli stampati dalle dimensioni scalari, per conferire tridimensionalità alle texture.
Un amalgama di geometrie indossabili, che riunisce nella stessa cornice, aggiornandoli, gli insegnamenti più preziosi del maestro giapponese, scomparso nell’agosto del 2022. Le immagini del fotografo Anthony Pomes consentono di apprezzarle al meglio.

Homme Plissé Issey Miyake A/I 2023, ph. by Anthony Pomes

Juun.J

Juun.J brand
Juun.J A/I 2023 (ph. courtesy of Juun.J)

Dopo tre anni di presentazioni digitali, lo stilista sudcoreano Jung Wook Jun, mente creativa di Juun.J, sfila in modalità co-ed all’Institut du Monde Arabe, nel V arrondissement. Il titolo – programmatico – della collezione A/I 2023 è Broken, una trasposizione nel prêt-à-porter dei tropi punk-rock, mirando a insufflare un che di nuovo, di – atipicamente – lussuoso in vestiti vecchi, malconci, afferibili al mondo militare, biker o workwear.
I modelli marciano spediti nella venue parzialmente illuminata, sorretta da alti pilastri; sono infagottati in mise corpulente, tutte cerniere e fibbie penzole, dai volumi sotto steroidi, strascicati, estesi a dismisura, oppure ridotti all’osso (esemplari, in tal senso, i top femminili, esili triangoli che coprono a malapena il seno). I fondamentali dell’estetica da motociclista, utilitaristica o army ci sono tutti, dal chiodo di pelle (opaca, dall’aria vissuta) ai giubbotti aviator in montone rovesciato, dalla maxi felpa col cappuccio al jeans, e assumono sovente conformazioni inaspettate, vedi il perfecto o la shearling jacket che si allungano fino a diventare abiti con la coda.
Lo styling deraglia volentieri in stratificazioni selvagge, per cui il cappottone va sul total denim (pieno di squarci, ovviamente), il bomber foderato sul completo délabré, la giacca tuxedo sulla minigonna in nappa. La tavolozza parca, notturna di neri, blu, marroni e verdi, come gli accessori (sacche, collari e bracciali irti di spuntoni metallici), si accordano al tono duro, spilogoso che ammanta lo show, una silloge di twist inaspettati per «superare i confini dei nostri capi signature», chiosa il direttore artistico.

Juun.J A/I 2023 (ph. courtesy of Juun.J)

Dior Men

Dior Men 2023
Dior Men A/I 2023 (ph. courtesy of Dior)

Saldamente al timone del menswear della casa, Kim Jones ha acquisito piena padronanza dell’heritage maestoso, ma talvolta ingombrante, di quel potentato della moda che è Dior. Può permettersi perfino di scomodare l’allievo più eminente del fondatore, Yves Saint Laurent, che gli succedette appena 21enne nel 1957 e subito ringiovanì il figurino principesco, ultra-bourgeois che aveva consacrato la griffe.
La parola chiave è dinamismo, lo stesso che marcò le passerelle del giovane Saint Laurent, e qui fa rima con fluidità, movimento, facilità. Le correnti, citate nelle note stampa, del Tamigi e della Senna (il designer, londinese doc, fa la spola tra la sua città e Parigi) si prestano al parallelismo col concetto di scioltezza, di suprema noncuranza intrinseca al je ne sais quoi, assunto fondativo dello stile parigino; viene adeguatamente distillato nei 60 look dell’A/I 2023, nelle forme dei calzoni, illiquidite, nei nastri, che oscillano a ogni passo, nella soavità degli ornamenti, coi filati irrorati di trapuntature, embroderies, perle che tradiscono la sbalorditiva abilità degli atelier.

Un’uscita dopo l’altra, prende corpo una miscela equilibrata di abbigliamento sportivo (parka, smanicati, cappelli a secchiello, bermuda, stivali glossy al polpaccio) ed estrema sofisticazione, affettazioni da dandy uso al bespoke e volumi svelti, grisaglie e nylon. Tutto, comunque, parla di Monsieur Christian e di chi ne ha proseguito l’operato nei decenni: i mughetti (fiore che lui considerava un portafortuna) ricamati sul golf, il monogramma Dior Oblique, le maglie a righe marinare, i revers delle giacche ripiegati verso l’interno, le cromie neutre, pastose. Una sintesi appropriata della collezione la fornisce lo stesso Jones, parlando di «idea della semplicità che si sente ovunque, dietro la precisione e la complessità di queste creazioni». Massima immediatezza, dunque, pur nella laboriosità dell’esecuzione: what else?

Dior Men A/I 2023 (ph. ©Morgan O’Donovan)

Sankuanz

Sankuanz brand
Sankuanz A/I 2023 (ph. courtesy of Sankuanz)

Una sinfonia in nero, notturna, minacciosa, battezza il catwalk Sankuanz, brand del creativo cinese Shangguan Zhe che, già nel 2013, si è dato la missione di provare come moda “alta” e street style possano e anzi, debbano coesistere, arricchendosi reciprocamente. Poi irrompono i baluginii dell’argento, il rosso torbido delle clutch, i drappeggi tortuosi dei dress aderenti da femme fatale, i profili acuminati di borchie coniche e pugnali (questi ultimi una sorta di trademark del marchio), a decorare cinture, tracolle delle borse, tacchi dei boots a punta. L’ispirazione è dichiaratamente noir: il creative director raggruppa una banda di vedove nere e assassini dallo sguardo torvo, minacciosi, sinistri eppure, in qualche modo, branché.
Shangguan calca sull’accrochage tra ready-to-wear ed estetica stradaiola di cui sopra, assemblando senza soluzione di continuità sneakers massicce e rielaborazioni delle vesti tibetane, camouflage e scollature da vamp, tutoni e orli frastagliati, l’allure sostenuta delle spalle da power suit e il caos cromatico dei graffiti che, a un certo punto, inondano gli outfit, alla ricerca di un equilibrio – precario, inevitabilmente – tra gli opposti.

Sankuanz A/I 2023 (ph. courtesy of Sankuanz)

At.Kollektive

La PFW, storicamente, dà spazio anche ai nuovi attori del settore, garantendo loro una visibilità che non teme confronti. È il caso di At.Kollektive, progetto voluto da ECCO Leather, azienda all’avanguardia nella lavorazione dei pellami: una – virtuosa – piattaforma di scambio tra artigiani e designer, con il know-how dei primi, esperti nei trattamenti più innovativi della pelle, messo a disposizione dell’inventiva dei secondi. I capi della Season 2, presentata durante la fashion week e raccontata visivamente dagli scatti di Drew Vickers, portano la firma di un quartetto d’assi, Natacha Ramsay-Levi, Isaac Reina, Kostas Murkudis e Bianca Saunders.
L’ex direttrice artistica di Chloé ripensa articoli quali stivali, trainers, borse, top e camicie, in un pastiche sintetizzato in maniera incisiva dalle stampe accese di Tchane Okuyan. Reina, da parte sua, sfida le capacità dei laboratori aziendali, rinuncia per quanto possibile alle cuciture e lavora sulle singole pezze, discostandosi dalle silhouette pure, lineari per cui è noto. Nasce dall’affastellarsi di forme curve e spinte contrapposte (Borromini, il punk, scorci della Repubblica Democratica Tedesca, car design), invece, la collezione di Murkudis, estremamente personale pure nella colour palette di grigi, rosa e blu “industriali”.
Chiude il cerchio Bianca Saunders, wunderkind della moda britannica, che sceglie di valorizzare le qualità naturali del materiale, in primis malleabilità e resistenza, per «esplorare tutte le sfaccettature della morbidezza, della bellezza e del movimento della pelle».

Nell’immagine in apertura, il finale della sfilata Dior Men A/I 2023-24 (ph. ©Adrien Dirand, courtesy of Dior)

Milano Fashion Week A/I 2023: debutti, conferme e nuovi protagonisti del menswear

Inossidabili del made in Italy, “outsider” pronti a raccogliere il testimone dai big storici, orde di fan adoranti davanti alla Fondazione Prada, in visibilio per gli Enhypen, i magnifici sette – a quanto pare – del K-pop. Ristretta nei tempi (quattro giornate effettive di défilé/presentazioni, con gli show digitali a chiudere il calendario) ma intensa, la fashion week meneghina, appena terminata, ci consegna una discreta quantità di insight sulla moda uomo Autunno/Inverno 2023-24; da esaminare singolarmente, caso per caso, anche attraverso i disegni di Jacopo Ascari, che ha interpretato per MANINTOWN gli outfit di alcune delle principali maison.

Gucci 

Gucci autunno inverno 2023
Un look della collezione Gucci A/I 2023 (artwork by Jacopo Ascari)

Dopo il terremoto dello scorso novembre, col divorzio tra Gucci e Alessandro Michele, era scontato che la sfilata più attesa fosse quella del marchio fiorentino, orfano del demiurgo che ne ha (ri)plasmato l’identità a suo piacimento, dando fondo a una visionarietà randomica, pantagruelica, capace di unire Rinascimento e cyberpunk, pomposità da vecchia Hollywood e hippismo, trine e BDSM.

Un esercizio di sintesi complicato, che rasenta l’impossibile, infatti il team interno che per ora lo sostituisce se ne tiene alla larga, mantenendo sì qualche cardine della sua estetica passatista (le forme liquide di blazer, pantaloni con la piega e capispalla di derivazione ‘70s, la predilezione per le tonalità pastello, versioni rivedute e corrette dei tormentoni introdotti dallo stilista romano, come la borsa Dionysus, qui ampia e destrutturata, o le slipper Princetown, l’utilizzo – contenuto – del monogramma, che infittisce il canvas d’archivio Crystal GG), mescolato a lessemi del vocabolario gucciano desunti dal passato (ad esempio le chiusure a pistone della valigeria, volute da Tom Ford, o l’abbigliamento biker e il denim delavé, tra i bestseller dell’azienda all’inizio del millennio), ma asciugando sensibilmente uno styling che, da otto anni, procedeva per accumulo, per stratificazioni.
La prova, nel complesso, risente della mancanza di una direzione univoca, aggregatrice, trattandosi però di una collezione di transizione è giusto sospendere il giudizio, in attesa della nomina del successore di Michele.

Gucci A/I 2023-24 (ph. courtesy of Gucci)

Dolce&Gabbana

Dolce e Gabbana autunno inverno 2023
Dolce&Gabbana A/I 2023 (artwork by Jacopo Ascari)

Archiviato il more is more che aveva caratterizzato le ultime passerelle del brand, con l’A/I 2023-24 Dolce&Gabbana cambia drasticamente rotta, centrandosi sull’essenziale o meglio, sull’Essenza (titolo della show) del menswear poiché, argomentano Domenico Dolce e Stefano Gabbana, «avevamo voglia di tornare al Dna, abbiamo tutti gli occhi così pieni di immagini che ci siam detti “facciamo ciò che siamo, togliendo tutto”». Il duo, perciò, sfronda il guardaroba stagionale di barocchismi e orpelli vari, disegnando figure nette, chirurgiche nella loro precisione, costruite sugli evergreen dell’etichetta (inappuntabili completi di sartoria, coat lunghi, avvolgenti, camicie immacolate, maglioni handmade, stringate…), cui il nero profondo che domina in pedana (sostituto, occasionalmente, da toni di grigio – perla, ardesia, ghiaccio – e bianco), dona un gradiente ulteriore di compostezza.

Nella linearità rassicurante dell’insieme, ci si concede però qualche guizzo alla D&G, ad esempio nell’uso di panciere e fusciacche per sagomare la vita, configurando silhouette a clessidra (le stesse che vengono ottenute da lievi imbottiture sui fianchi della giacca), oppure nell’abbondanza di ricami in cristalli, en pendant col total black prevalente, un rimando, puntualizzano i direttori creativi, «alla roccia vulcanica bagnata dell’Etna e dello Stromboli». Strizzando l’occhio alla Gen Z, ossessionata dalle tendenze dei primi anni 2000, vengono poi riproposti i baluardi di quella (non più) vituperata decade, dunque jeans generosamente strappati, underwear da ostentare con fierezza, targhette in metallo con logo apposte un po’ ovunque, per parlare a una clientela che «usa la felpa perché è a portata di mano, ma ha la sensibilità per capire il valore del sartoriale».

Dolce&Gabbana A/I 2023-24 (ph. courtesy of Dolce&Gabbana)

Fendi

Fendi autunno inverno 2023
Fendi A/I 2023 (artwork by Jacopo Ascari)

Inventiva, solidità, comfort, raffinatezza: si muove lungo simili direttrici l’uomo immaginato da Silvia Venturini Fendi per la griffe eponima, facendo collimare dimensioni in teoria oppositive («la moda – nota – cerca qualcosa che sembra non esistere, formale ma casual, sportivo ma sexy, elegante ma rilassato, ho voluto condensare tutto») in maniera esemplare, senza mai prendersi troppo sul serio, ché nel suo ready-to-wear leggerezza calviniana ed eccelsa artigianalità vanno a braccetto. Ci riesce puntando sui tratti caratterizzanti della casa, ovvero proporzioni calibrate, armoniche, accessori funny (categoria nella quale grandeggia, potendo rivendicare la paternità della Baguette, it bag primigenia, che stavolta si porta all’altezza della cintola, come un lussuoso marsupio extra size, nonché della Peekaboo, ora arricchita da imbracature e tracolle), preziosità dei filati, lavorati a regola d’arte; l’elenco di questi ultimi è corposo, include cachemire reversibile, sete jacquard, pellami bruniti, shearling sottoposto a complessi trattamenti, dall’intarsio alla ceratura.

Materiali che, solo a vederli, trasmettono un senso di calore, impiegati nell’outerwear (variegato, preferibilmente cocoon, tra overcoat, caban, piumini, mantelle…) ma anche in top monospalla, borse, berretti, coperte frangiate, enormi sciarpe su cui s’imprimono, cubitali, le FF, che di quando in quando si estendono pure su golf in mohair e, in modo più discreto, sulle calzature, stivaletti o mocassini.
In ossequio al mood disco dello show (la soundtrack è opera di Giorgio Moroder, nientemeno), nel finale si largheggia in decori e appariscenza delle mise, con spruzzate generose di dischetti in metallo, per riflettere le luci della scenografia.

Fendi A/I 2023-24 (ph. courtesy of Fendi)

Neil Barrett

Neil Barrett fall winter 2023
Neil Barrett con i modelli che indossano la collezione A/I 2023 (ph. courtesy of Neil Barrett)

Nello showroom del quartier generale di Neil Barrett dove si tiene la presentazione, volutamente disadorno, tra cemento a vista, canaline e teloni di plastica, non c’è distinzione tra backstage e passerella. I modelli posano per i fotografi, a poca distanza da moodboard, relle, polaroid di ogni uscita; sfoggiano subculture uniforms, così le definisce il creativo britannico, che in – apparente – contraddizione col significato letterale della parola («abito uguale per tutti coloro che fanno parte di determinati corpi, associazioni, categorie», recita il dizionario Garzanti), sono concepite per distinguersi, per valorizzare l’individualità, aprendosi a infinite variazioni attraverso la scelta di specifiche cromie, accostamenti, modi d’indossare il singolo capo, che spetta sempre a chi lo acquista. Le uniformi cui si fa riferimento, peraltro, sono quelle di gruppi e sottoculture musicali seminali, che hanno contribuito a scrivere pagine fondamentali nella storia del menswear: punk, post-punk, rocker, casual, new wave.

Giubbini, paletot, pull d’ascendenza grunge, intessuti con motivi nordici distorti, quasi optical, pants dai tagli affilati, anfibi e altri pièce de résistance del marchio rappresentano, quindi, addendi di stile il cui risultato, contravvenendo alla proprietà commutativa, cambia a seconda dell’ordine in cui sono disposti. Il padrone di casa, in questo senso, suggerisce delle possibilità, giustapponendo volumi asciutti e rilassati, tracksuit e smoking, maglieria a rombi e cinquetasche metallizzati, tonalità sobrie e punte acide di azzurro, rosa, viola, senza mai derogare da una certa compostezza, dal minimalismo che, a cavallo tra gli anni ‘90 e 2000, permeava le collezioni della label, come provano gli occhiali da sole Metropolis, realizzati in collaborazione con Siens, compendio perfetto del menswear Neil Barrett.

Neil Barrett A/I 2023-24 (ph. courtesy of Neil Barrett)

Shanghai Tang

Shanghai Tang Milano
Shanghai Tang A/I 2023 (ph. SGP/courtesy of Shanghai Tang)

Le sale affrescate di Palazzo Serbelloni, gioiello neoclassico nel cuore della città, accolgono il défilé A/I 2023 Shanghai Tang, luxury brand di Hong Kong che si propone, fondendo armoniosamente cultura orientale e modernità occidentale, heritage e avanguardia, mestieri d’arte del Regno di Mezzo e sensibilità stilistica ultracontemporanea, di sradicare i tanti, coriacei preconcetti sul made in China.
L’intento è ambizioso, la griffe ha però dalla sua un patrimonio impressionante per quantità e qualità dei mezzi espressivi, pratiche millenarie tramandate da generazioni (pittura a inchiostro, calligrafia, tessitura della seta, ceramica, tra le altre).

In passerella, il clash tra un tale bagaglio di tecniche artigianali dell’Estremo Oriente e modellistica europea è potente. Il rischio di scadere nel folcloristico viene subito eluso, poiché silhouette ed elementi tipici del costume cinese s’integrano bene con i codici classici del prêt-à-porter. Così il tradizionale abito Tang, se guardato di lato, sorprende per il profilo leggermente architettonico delle maniche, mentre fitti ricami manuali (leitmotiv della maison, prendono spesso la forma della stella policroma, inscritta nel logo ufficiale) e stampe rigogliose istoriano ensemble basici, svelti, dalle linee sciolte, che restano leggiadri anche quando la figura si assottiglia, con giacche segnate sul punto vita dalla cintura. 

Ricorre il nastro, emblema dello spirito celebrativo infuso nella collezione (intitolata Tuanyuan: una riunione di famiglia, da intendersi come momento di condivisione e vicinanza), presente su cravatte, sciarpe, maglioni; alamari e colletti stondati vanno ad inserirsi, con delicatezza, su casacche di lana che imitano il denim, bluse, soprabiti, jeans dall’aplomb sartoriale.
A rimarcare il tono allegro, sfaccettato di «un mondo pieno di contraddizioni giocose» (così viene descritto nel comunicato), la ricchezza della palette colori, accesa dalle nuance corroboranti del verde fluo, fucsia, vermiglio, blu elettrico. 

Shanghai Tang A/I 2023-24 (ph. SGP/courtesy of Shanghai Tang)

Magliano

Magliano collezione 2023
Magliano A/I 2023 (ph. launchmetrics.com)

Ormai habitué della MFW Men’s, Luca Magliano, con l’ultima collezione della linea che porta il suo cognome, si conferma tra gli autori più maturi dell’orizzonte creativo italiano. Nonostante debba ancora compiere 36 anni, infatti, ha una visione nitida, personalissima della moda e, in generale, della mascolinità odierna, tarata su contenuti e voci relegate generalmente ai margini dall’industria fashion, cioè l’umanità varia che popola la provincia del Belpaese (operai, viveur, giovani ansiosi di farsi notare attraverso i vestiti, discotecari…).
Un discorso di nobilitazione delle figure “periferiche”, delle loro abitudini e tic vestimentari, che in quest’occasione prosegue al ritmo indolente, rallentato dei modelli (la maggior parte non professionisti), che sostano di fronte a una parete di sedie ammassate; oggetti che evocano mancanza, introspezione, precarietà, le medesime qualità riscontrabili nei look in pedana, dall’aria – ingannevolmente – rabberciata, dissonante, tra superfici contorte dall’(ab)uso di coulisse, asole e tasche modulabili, drappeggi sconnessi aggrovigliati sul torso, indumenti puramente utilitaristici, nodi sbagliati, pantaloni cadenti, fibre soffici (mohair, tulle, jersey, pile) intersecate da tessuti tecnici, spessi, compatti.
Un assemblage in apparenza confusionario, che assorbe persino vecchie coperte militari, tele macchiate, scarpe antinfortunistiche fornite da U-Power, leader nel settore dell’abbigliamento da lavoro, epperò del tutto coerente con la poetica dell’imperfezione di Magliano.

Magliano A/I 2023-24 (ph. courtesy of Magliano)

Dhruv Kapoor

Dhruv Kapoor brand
Dhruv Kapoor A/I 2023 (ph. Sonny Vandevelde)

Alla seconda sfilata nel calendario meneghino, Dhruv Kapoor (promotore di un approccio circolare al ready-to-wear, incardinato su materie prime di scarto, inclusione, valorizzazione dell’artigianato tessile indiano, con progetti che coinvolgono villaggi e comunità di tutto il paese) vuole dimostrare il potenziale insito nei paradossi di un’epoca contrassegnata da percezioni divergenti; secondo lui, sono sinonimo delle innumerevoli sfaccettature dell’animo umano, da vagliare per portare alla luce il nostro io migliore, propositivo, curioso, aperto al nuovo, lasciando nell’ombra i lati più ostili, problematici.
Date le premesse, è ovvio che l’A/I del designer viva di polarità, di costanti rimodulazioni e cambiamenti, nel segno dell’inusualità, dell’abbinamento stridente, della mise alternativa (nell’accezione più positiva del termine). Sfilano outfit investiti da colate materiche di colore, che paiono liquefarsi sulla stoffa, completi percorsi da zip o bottoni a pressione, tute oversize, denim orlato da copiose sdruciture, per enfatizzarne i profili, capi dai ricami articolati, su cui vibrano paillettes, cristalli e filamenti, che delineano fiori, volti, cuori arsi dalle fiamme.

Quattro le collab stagionali: Marsèll firma le calzature, Huma Eyewear gli occhiali, Bijules i gioielli. Merita un capitolo a parte la capsule con la casa di produzione nipponica Toho, quella della saga di Godzilla, riprodotto con dovizia di particolari in illustrazioni iperrealistiche, strisce a fumetti, disegni tipo anime. Kapoor traccia un parallelo tra la mostruosità del lucertolone creato, negli anni ‘50, da Ishiro Honda e gli alter ego “oscuri” di cui sopra, immaginando che anche i suoi poteri straordinari siano «un modo per accogliere, proteggere e rinnovare la nostra essenza».

Dhruv Kapoor A/I 2023-24 (ph. courtesy of Dhruv Kapoor)

Nell’immagine in apertura, il finale della sfilata A/I 2023-24 di Dolce&Gabbana (ph. courtesy of Dolce&Gabbana)

Addio a Vivienne Westwood, regina incontrastata del punk

Scompare a 81 anni, «serenamente, circondata dalla sua famiglia, a Clapham, nel sud di Londra» (recita il comunicato del marchio eponimo, che nella serata di ieri ha dato la notizia sui propri canali social) Vivienne Westwood, figura monumentale della moda inglese (e non solo), un personaggio larger than life, come direbbero gli americani. Ribelle, anticonformista, irriverente, Dame Viv, com’era soprannominata (ché dama dell’Impero britannico, in fondo, lo era davvero, a nominarla tale fu, nel 2006, l’allora principe Carlo), in oltre mezzo secolo di onorata carriera ha saputo conferire piena dignità estetica a un movimento, il punk, per sua natura elusivo, magmatico, fino a renderlo un vero e proprio vessillo ideologico, una filosofia di vita, oltreché professionale.

Vivienne Westwood ritratto
Vivienne Westwood in un ritratto di Tim Walker

Gli inizi con Malcolm McLaren

Nata Vivienne Isabel Swire (Westwood è il cognome del primo marito, Derek, sposato nel 1962, da cui si separa nel 1965, dopo la nascita del figlio Ben) nel 1941, in un paesino del Derbyshire, da adolescente si trasferisce nei sobborghi della capitale dove, per sbarcare il lunario, lavora come insegnante. Sono gli anni della Swinging London, di una città ombelico del mondo tra cultura pop e minigonne, Beatles e prodromi della liberazione sessuale, per lei è però fondamentale l’incontro con un’altra personalità a dir poco carismatica, Malcom McLaren – futuro pigmalione e manager dei Sex Pistols, nientedimeno, cui si lega sentimentalmente e professionalmente.

Vivienne Westwood sfilate
La stilista al termine di uno show, nel 2017 (ph. Reuters)

Lo store di King’s Road, tempio dei freak londinesi

Insieme, nel 1971, aprono un negozio al civico 430 di King’s Road, che diventa in breve il sancta sanctorum della controcultura londinese, frequentato da giovani “alternativi” che vengono ad acquistarvi le creazioni outré dell’eclettica proprietaria. Inaugurato sotto l’insegna Let it Rock, lo spazio viene rinominato più volte (Too Fast to Live, too Young to Die, Sex, Seditionaries, Worlds End), rispecchiando i vorticosi cambi di registro stilistico della Westwood, che lo riempie, volta per volta, di maglie ricoperte di ossa animali, allineate a formare la parola “rock”, t-shirt perforate da spille e catene, indumenti borchiati, accessori in lattice dal sottotesto peccaminoso, bric-à-brac in metallo.

Vivienne Westwood Let it Rock
Vivienne Westwood davanti al negozio Let it Rock, negli anni ’70

Pezzi al limite dell’oltraggioso per la rigida morale vigente all’epoca, non a caso la polizia la costringe in diverse occasioni a chiudere i battenti, ma lei non si lascia certo intimidire, anzi, incoraggiata dal clamore suscitato dai primi, scandalosi articoli, si decide a compiere il grande passo, varando l’etichetta che porta il suo nome.

Il debutto in passerella di Vivienne Westwood

Il défilé d’esordio del 1981, Pirate, assurge ad autentico manifesto programmatico della designer (lo scopo, dichiara, è “distruggere il termine conformismo”), dando il via a una stagione che trasla sulle passerelle i codici musicali del new romantic. L’ispirazione, come si può supporre dal titolo, rimanda ai corsari, a modelli e modelle viene lasciata la libertà di scegliersi i propri outfit, e loro si presentano in pedana agghindati con marsine, cappelli a tricorno, gilet, stivali al ginocchio, tuniche guarnite di merletti, camicie pittate di rosso, giallo oro e blu, tra arabeschi ondulati e motivi wax.

Vivienne Westwood Pirate
Vivienne Westwood, collezione Pirate (ph. By David Corio/Getty Images)

Seguono collezioni consegnate da tempo al mito: Buffalo Girls (autunno/inverno 1982-83), col suo campionario carnascialesco di gonnelloni a ruota, reggiseni indossati sul top e stampe folk, modellato sull’abbigliamento tradizionale delle donne peruviane; Punkature (primavera/estate 1983), distopia in forma di prêt-à-porter che vagheggia il ritorno all’età della pietra, conseguente a una guerra nucleare, tra materiali sbrillentati, tele rustiche dipinte a mano, vestiti che, pur sostenuti dalle bretelle, appaiono sul punto di disfarsi; Witches (A/I 1983-84), con le superfici dei capi brulicanti di vivaci grafismi, mutuati – per ammissione della diretta interessata – dai celebri omini di Keith Haring, enfant prodige della graffiti art d’oltreoceano; Mini-Crini (P/E 1985), uno sberleffo alla pomposità delle crinoline settecentesche, qui riconfigurate in dress più che succinti.

Vivienne Westwood corsetti
I corsetti della collezione A/I 1990 del brand (ph. by John van Hasselt – Corbis)

Vivienne Westwood anni 90
Una sfilata Vivienne Westwood degli anni ’90 (ph. dal sito ufficiale del marchio)

Lo stile iconoclasta di Dame Viv

Vivienne Westwood the Orb
Il logo the Orb su una borsa della griffe (ph. dal sito ufficiale del marchio)

Inarrestabile, refrattaria alle convenzioni, nel 1985 lascia McLaren, ormai lanciata nell’empireo della creatività internazionale, affascinato dalla verve iconoclasta con cui la stilista dalla chioma rossa fa strame degli archetipi, passati e presenti, dell’eleganza comunemente intesa.

Sconquassa, a ogni piè sospinto, lo status quo fashionista, saccheggiando epoche storiche  e correnti artistiche, iniettando una grinta sfrontata nel vestiario della buona società inglese (i completi in tweed, l’impermeabile, il tartan, il girocollo di perle, trasformato in un choker sul quale, al centro, è effigiato the Orb, il logo del brand, un globo ripreso dallo stemma della Corona, circondato dagli anelli di Saturno e sormontato da una croce) oppure recuperando, in chiave dissacrante, l’armamentario femminile d’antan, dalla tournure ai falpalà, dagli strascichi alle trine, fino ai corsetti che, nelle sue mani, da simbolo di una sessualità castigata, quasi negletta, diventano un capo da esibire con orgoglio, decorato ad esempio, per l’A/I 1990-91, dai soggetti classici dei quadri di François Boucher, che stridono assai con la scollatura abissale dello styling di sfilata.

O, ancora, estremizzando l’ossessione della moda per i tacchi a stiletto con plateau “impossibili” (memorabile, in questo senso, il capitombolo di una certa Naomi Campbell durante uno show della griffe, nel 1993, causato dall’altezza stratosferica – superiore ai 30 centimetri – delle pumps calzate dalla top model).

Vivienne Westwood Obe
Vivienne Westwood a Buckingham Palace per la cerimonia d’investitura dell’OBE, nel 1992 (ph. PA)

Dallo sberleffo alla Thatcher all’OBE, le provocazioni della stilista

La comunicazione dell’azienda non è da meno, trainata dalla sua esuberante fondatrice che, nel 1989, arriva a schernire la premier Margaret Thatcher, di cui avversa in toto la politica conservatrice, posando per la copertina del magazine Tatler con un look che ricalca esattamente quello della Lady di ferro, trucco e parrucco compresi, corredato dalla scritta ironica “this woman was once a punk”. Westwood non rinuncia alla provocazione neppure in un contesto solenne come la nomina a Officer of the Order of the British Empire, onorificenza concessale nel 1992 dalla regina Elisabetta: terminata la cerimonia d’investitura, solleva la gonna davanti ai fotografi, svelando così l’assenza dell’underwear nella mise scelta per l’occasione.

Vivienne Westwood Thatcher
La stilista sulla cover del numero di aprile 1989 di Tatler

Le battaglie ambientali e civili della creativa inglese

Negli anni Novanta, per dare stabilità finanziaria al marchio, moltiplica le linee (Red e Gold Label, Anglomania), affiancata dal fido braccio destro Andreas Kronthaler, sposato nel 1993; quando quest’ultimo, nel 2016, assume la direzione creativa della maison, Queen Viv può spendere tutto il suo carisma ed energie per le battaglie che l’appassionano maggiormente, moltiplicatesi esponenzialmente nel corso del tempo.

Vivienne Westwood adv 2022
Vivienne Westwood e Andreas Kronthaler (ph. Juergen Teller)

Sposa senza remore la causa della sostenibilità (oltre il 90% della collezione A/I 2021-22, per dire, è stato realizzato con materiali dal ridotto impatto ambientale, tra cotoni e sete organiche, nylon riciclati, viscosa certificata Fsc), si batte caparbiamente per la pace, i diritti civili, la liberazione del fondatore di WikiLeaks Julian Assange, inscena proteste spettacolari nelle strade del Regno Unito, manifestando contro la Brexit, le armi nucleari, lo sfruttamento dei lavoratori, si spinge fino a guidare un (finto) carro armato davanti all’abitazione del primo ministro David Cameron, richiamando l’attenzione sulla controversa tecnica estrattiva del fracking.

Merita un capitolo a sé, poi, l’impegno ambientalista, abbracciato in tempi non sospetti e declinato in innumerevoli iniziative, dal supporto alle principali Ong (Greenpeace su tutte) a slogan d’impatto quali “Make Love, not Fashion” o l’attualissimo “Buy less, choose well, make it last” (cioè “compra meno e meglio, fallo durare”), convogliate da ultimo nella Vivienne Foundation, società senza scopo di lucro che sarà operativa dal prossimo anno; l’attività della fondazione, spiegano i vertici, verterà su quattro pilastri, «cambiamento climatico, stop alla guerra, difesa dei diritti umani e protesta contro il capitalismo». Difficile immaginare un lascito migliore per la stilista brit, che (anche e soprattutto) su certi temi non è mai scesa a compromessi.

Vivienne Westwood manifestazione

Nell’immagine in apertura, Vivienne Westwood a una manifestazione in supporto di Julian Assange (ph. © PA Archive)

Le proposte (stilose) di Antony Morato per le feste

Il periodo delle feste porta con sé innumerevoli occasioni in cui abbigliarsi di tutto punto, privilegiando mise studiate fin nei minimi dettagli, è cosa buona e giusta. Col ricordo in fondo ancora fresco dell’emergenza pandemica (tradotto in concreto: mesi interminabili trascorsi fra quattro mura e momenti di convivialità azzerati, o quasi), poi, si è ulteriormente stimolati a concedersi look comme il faut, improntati alla sofisticatezza, da ravvivare coi necessari twist di stile, siano essi cromie calde e avvolgenti, in perfetto spirito natalizio, o una dose extra di sbrilluccichii, per celebrare come si deve l’ultimo giorno dell’anno, che vanno innestati, però, su basi vestimentarie che non si discostino troppo dalle regole auree dell’eleganza, costruite intorno ai pilastri del menswear, cioè capispalla, maglieria, abiti d’impeccabile fattura, scarpe e accessori di pari livello.

Antony Morato collezione
Antony Morato A/I 2022-23

La collezione autunno/inverno 2022-23 di Antony Morato, col suo mix di proposte ispirate all’estetica di quattro capitali europee (Berlino, Amsterdam, Londra, Stoccolma), cui si aggiungono camicie, giubbotti e altri essentials della linea denominata Timeless, viene in soccorso di chiunque sia alla ricerca di pezzi trasversali, curati, espressione di una sensibilità marcatamente metropolitana, tra note pop e accenti retrò, che nel complesso definiscono un guardaroba «versatile, sovrapponibile, abbinabile», per usare la parole del Ceo del brand, Lello Caldarelli.

Capi e accessori raffinati, versatili, che si prestano ad essere mescolati – e interpretati – liberamente

I tratti essenziali dei diversi “temi” stagionali, infatti, si prestano perfettamente allo scopo, delineando un assortimento di capi eterogeneo, da cui attingere in piena libertà per comporre l’outfit festivo di turno. La scelta è ampia, si può spaziare tra i volumi rigorosi, affilati della selezione Berlin (influenzata, anche nella palette notturna e nelle grafiche, dal melting pot della città tedesca, dove convivono tradizione e avanguardismo, architetture severe e movimenti underground); il vintage rivisto e corretto di Amsterdam, infuso di reminiscenze anni ‘70, con la sua teoria di tartan, lane bouclé, velluti lisci e a coste; la pulizia visiva di Stockholm, tutta giocata su silhouette essenziali e nuance fredde, anche in color block; la mescolanza di codici street e militareschi di London, che tiene insieme tecnicismi e monogram, nylon lucidissimi e stampe camouflage, grafismi energici e suggestioni sporty.

Focus sul binomio black & white, arricchito da dettagli inaspettati e scelte di styling estrose

I possibili abbinamenti, lo dimostrano le immagini che accompagnano l’articolo, risultano “immediati” eppure d’impatto, centrati come sono sul fascino inossidabile del binomio black & white, al quale conferiscono carattere dettagli inaspettati (che possono essere il motivo jacquard all-over, per vivacizzare la superficie scura del blazer, i revers cosparsi di glitter della giacca avvitata, le fantasie minute, tono su tono, della camiceria) o scelte di styling fantasiose, che prevedono ad esempio di portare la biker jacket in morbido suède, percorsa da zip oblique, sulla camicia immacolata, chiusa dalla cravatta per un’aria più habillé, oppure di non indossare il cappotto candido a tre bottoni (tra gli irrinunciabili della stagione A/I), ma di adagiarlo disinvoltamente sulle spalle, incorniciando così il suit doppiopetto nero, tagliato col bisturi.

A completare – con garbo – il look firmato Antony Morato intervengono infine gli accessori, una serie ragionata di zaini, pochette, marsupi e cartelle portadocumenti dalle forme clean, armoniche, pensate per accompagnare l’uomo del marchio in ogni contesto, aperitivi di natale, pranzi in famiglia, veglioni et similia compresi; e che, una volta passata la tornata di festività prossima ventura, sarà naturale usare per rifinire le uscite invernali, cominciando il 2023 nel migliore dei modi, stilisticamente parlando.

Nell’immagine in apertura, un look Antony Morato della collezione A/I 2022-23

Rosa Chemical, bipolarità (musicale) elevata a forma d’arte

Tra gli artisti che parteciperanno al prossimo Festival di Sanremo, in programma dal 7 all’11 febbraio 2023, c’è – per la prima volta – Rosa Chemical. Rapper dalla verve iconoclasta, impostosi a colpi di sonorità sincopate e testi abrasivi, incanalati in brani da milioni di stream come il disco d’oro Polka, Britney, Londra e Tik Tok (insieme a Radical). Ma anche performer camaleontico, deciso a sfidare il machismo imperante – a suo dire – nella musica italica con look sgargianti, tra decolorazioni, glitter e make-up marcato, (ex) modello di Gucci, abile polemista (ha attaccato il “politicamente corretto”, in quanto si limiterebbe a proibire determinate parole o sbandierare supporto alla causa Lgbtq, illudendosi di arginare l’omofobia) intenzionato, però, a confrontarsi col grande pubblico, raggiunto di recente grazie al duetto con Tananai sul palco di Sanremo 72, nella serata delle cover.

Rosa Chemical, nom de plume di Manuel Franco Rocati, è tutto questo e altro ancora, ed è dunque piuttosto complicato rendere conto delle sue tante sfaccettature, artistiche e personali; ci abbiamo provato, rivolgendo alcune domande al cantante 24enne, originario di Grugliasco, nel Torinese, autodefinitosi, in un’intervista a Repubblica, «una sorta di alieno».

Rosa Chemical 2022
Bodysuit Paolo Nocilla, tracksuit Antonio Marras, hat Gianmarco Bersani

“Penso di essere uno dei pochi in Italia a fare quello che gli pare, senza preoccuparsi del giudizio del pubblico e dei colleghi”

Un disco (cui si è poi aggiunta un’edizione deluxe), un EP, feat. con – tra gli altri – Gué Pequeno, Ernia, Tananai, Gianna Nannini, una serie di hit virali tra Spotify e YouTube… Un pezzo, o più d’uno, cui sei particolarmente legato, che pensi esprima appieno la tua cifra artistica.

Sicuramente Boheme, scritto per una persona che non sa di esserne la protagonista e non lo scoprirà mai, però mi ha fatto vivere delle emozioni intense. Non c’è mai stata una storia tra noi, ma le sensazioni che ho provato hanno ispirato le parole giuste per scrivere una delle canzoni finora più belle della mia carriera. Poi è il primo pezzo cui ho lavorato con Bdope dopo un po’ di serate all’insegna di trasgressione e rock’n’roll. Ho un ricordo piacevole di quel brano.

Rosa Chemical Sanremo
Total look Dolce&Gabbana, earrings Radà, handpiece Myril Jewels, boots Sonora

Un alieno (come quello del tuo singolo) sbarca in Italia e si imbatte in Rosa Chemical: come gli descriveresti la tua musica?

È troppo difficile descrivere la mia musica senza darmi la zappa sui piedi, la mia arte contiene parecchia bipolarità; c’è chi la chiama poliedricità e chi dice che faccio tutto, io penso invece di essere uno dei pochi in Italia a fare quello che gli pare, senza preoccuparsi del giudizio del pubblico e dei colleghi.

In alcune interviste ti sei scagliato contro il machismo di cui è ancora intriso l’ambiente del rap e l’ipocrisia del politically correct. Sotto questi punti di vista, qual è lo stato dell’arte della scena musicale italiana nel 2022?

Critico, non è cambiato nulla dall’ultima intervista in cui ne ho parlato. Fortunatamente sono tornato per salvare ancora una volta il Paese.

“La moda è sempre stata un chiodo fisso, un modo in più per dire a chi mi guarda che ho stile, che sono diverso anche in questo”

Hai posato e sfilato per Gucci, collaborato con Danilo Paura, sei «super fan delle borse» e prediligi «accessori vistosi». Che rapporto hai con la moda, nel senso più ampio del termine?

La moda è sempre stata un chiodo fisso per me, un modo in più, oltre l’arte e la musica, per dire a chi mi guarda che ho stile, che sono diverso anche in questo. Ho sempre cercato di prenderne le regole per infrangerle a mio piacimento, fin dai tempi in cui mi sentivo gabber e cercavo le bluse dell’Australian più stilose, oppure, nella fase metallaro, volevo le borchie più lunghe, i trench più cool, gli ombretti più neri; ora passo da momenti in cui mi sento più femminile, e ricerco perciò una borsa di Valentino o una giacca di Prada, ad altri in cui mi percepisco più maschile e vesto “full” Saint Laurent o vado di look Maison Margiela. Sono amante di tutto ciò che porta un’innovazione.

Rosa Chemical canzoni
Jacket, trousers and earrings Yezael by Angelo Cruciani, hat Borsalino, necklace Radà, shoes Anja Zecevic

Cosa possiamo aspettarci in futuro da un artista che ha fatto dell’ecletticità, del funambolismo (anche) estetico il suo marchio di fabbrica?

Ho sempre consigliato alle persone di non aspettarsi nulla da me, in quanto faccio solo quello che mi va, davvero. Posso solo dirvi che ultimamente mi sento mooolto brillantinato! 😉

Rosa Chemical Polka
Total look Roberto Cavalli, earrings Radà, boots stylist’s archive

Rosa Chemical Instagram
Total look Chicken Turtle, shoes Giuseppe Zanotti

Credits

Talent Rosa Chemical

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Kali Yuga

Stylist Simone Folli

Ph. assistants Letizia Montanari, Matia Chiodo

Stylist assistants Nadia Mistri, Melania Musci

Grooming Mara Bottoni

Nell’immagine in apertura, Rosa Chemical indossa total look Dolce&Gabbana, orecchini Radà, handpiece Myril Jewels, boots Sonora

Passato, presente e futuro di Arav Group nelle parole della Ceo Mena Marano

Un traguardo significativo, quello del ventennale, appena tagliato; un portfolio di marchi ben assortito, con cui presidiare i diversi segmenti del fashion, dal prêt-à-porter di John Richmond, intriso di flavour rock (com’è normale per uno stilista che, dagli anni ‘80 ad oggi, ha vestito parecchie divinità del pantheon musicale, da Mick Jagger a Lady Gaga), alla moda ricca di estro, coloratissima, targata MarcoBologna, fino alle collezioni accessibili – ma briose – di Silvian Heach; i dati lusinghieri del 2022, che hanno visto il gruppo crescere del 26% rispetto all’anno precedente, con l’ultimo semestre che ha segnato addirittura un +39%. I numeri, è risaputo, non mentono, e nel caso di Arav Group testimoniano la bontà del lavoro svolto finora.

Orgogliosa dei risultati già conseguiti, l’azienda campana, nelle parole della Ceo Mena Marano, non nasconde le proprie ambizioni, che interessano tutte le griffe controllate, da valorizzare ulteriormente per «costruire un’impresa che, al di là delle dimensioni, abbia uno standing internazionale».

Mena Marano
Un ritratto di Mena Marano (ph. courtesy Ladisa Communication)

Intervista con Mena Marano

Il gruppo Arav celebra nel 2022 due decenni di attività, c’è un traguardo, fra i tanti raggiunti in questo lungo arco temporale, che la rende particolarmente orgogliosa?

Una storia di vent’anni comprende innumerevoli momenti, troppi per poterli ricordare tutti, di certo l’inizio è stato tra i più entusiasmanti. Altro traguardo rimarchevole è senz’altro l’acquisizione di Richmond, che ha rappresentato un’enorme soddisfazione perché giunta al termine di una negoziazione complessa, durata quasi un anno. E ancora, il primo Pitti Bimbo (un mondo completamente nuovo per noi), con una collezione che ha riscosso un successo strepitoso, visionata da tremila persone messesi in fila davanti allo stand. Di ricordi e passaggi felici ce ne sono in quantità, probabilmente i principali sono i due appena menzionati, che mi hanno trasmesso un’energia incredibile.

“Svolgere il compitino senza assumersi rischi non è mai stato il nostro modo di pensare e agire, abbiamo sempre cercato di andare oltre”

Tutto è partito nel 2002 da Silvian Heach, con collezioni che hanno trovato un ottimo riscontro nel pubblico. A suo modo di vedere qual è stata – ed è – la chiave di successo del brand?

Credo che a suscitare l’interesse dei consumatori siano state le proposte, diverse da ciò che offriva il mercato, imperniate su capi facili, accessibili, con un price point interessante. Oggi può suonare banale, ma vent’anni fa un marchio simile, con un’identità forte, netta, lontana dal pronto moda di allora, e però immediata, accessibile, risultava dirompente. La chiave era, e rimane, proprio questa, un’idea democratica dello stile; le donne che compravano Silvian Heach erano contente di acquistare un prodotto che le faceva sentire cool, nonostante potessero permetterselo tutti.

Cosa l’ha spinta, nel 2017, a puntare su John Richmond?

Da un lato, la mentalità imprenditoriale per cui, raggiunto un gradino della scala, si vuole subito passare al successivo; venendo dal fast fashion, l’ambizione di arrivare al lusso penso fosse comprensibile, perfino scontata. Dall’altro, quel pizzico di sana follia che contraddistingue il nostro operato; il rischio era elevato, abbiamo rilevato un nome su cui pendevano 32 cause tra civile e penale, solo persone un po’ folli potevano imbarcarsi in un’impresa simile. Tuttavia, è proprio questa “pazzia” a spingerti ad alzare l’asticella, svolgere il compitino senza assumersi rischi non è mai stato il nostro modo di pensare e agire, abbiamo sempre cercato di andare oltre.

“Con Club Richmond forniamo una cornice in cui musica e fashion convivono, esaltandosi reciprocamente”

La label è sinonimo (anche) di rock’n’roll, avete intenzione di rafforzare lo speciale legame che, sin dagli esordi, unisce l’estetica del designer britannico all’universo musicale?

Se parliamo della sinergia tra moda e rock, inteso come fenomeno musicale, John Richmond è stato un pioniere, sarebbe un grave errore non insistere su questo tasto, specialmente nel contesto odierno, in cui il Dna stilistico di un marchio è fondamentale. Altri devono costruirselo, noi dobbiamo mantenere un modus operandi che risale agli anni ‘80, quando John iniziò a vestire personalità musicali di primissimo livello (indica una foto appesa alla parete dello showroom: Lady Gaga in total look della maison, scattata nel periodo in cui la superstar americana aveva appena cominciato ad affacciarsi sulla scena, ndr).
Mi racconta spesso di come, all’epoca, gli artisti comprassero i suoi capi, a volte era costretto a dire di no o a farli aspettare, non riusciva a star dietro al processo di design e produzione, perciò rimane esterrefatto di fronte allo scenario attuale, in cui la situazione si è ribaltata e sono i testimonial a pretendere un compenso per indossare l’abito.

Comunque sia, parte ancora tutto da lì, vista l’accoglienza del Club Richmond di Milano (evento tenutosi durante la fashion week di settembre, ndr) vorremmo portare avanti il format, creando nuovamente momenti che uniscano i due mondi, consolidando un’iniziativa che, in futuro, potrebbe diventare itinerante; per adesso la ospitiamo nella nostra sede di Napoli, rompendo un po’ gli schemi perché portiamo le persone all’interno di una realtà aziendale, mettendo da parte il discorso puramente imprenditoriale per fornire una cornice in cui musica e fashion convivono, esaltandosi reciprocamente e radunando attorno al brand, in modo dinamico, coinvolgente, una community di performer, dj, fan, talenti più o meno affermati.

Club Richmond moda
Club Richmond (ph. courtesy Ladisa Communication)

“Crediamo tanto in MarcoBologna, i riscontri, specie per quanto riguarda il posizionamento della griffe, sono più che interessanti”

Ultimo arrivato, nel vostro portfolio, è MarcoBologna, quali saranno in questo caso i prossimi step?

Per me Marco e Nicolò (Giugliano e Bologna, fondatori e direttori artistici dell’etichetta, ndr), a livello creativo, sono fenomenali. Certo, il contesto è particolare, sono entrati a far parte del gruppo nel 2020, in un momento sfavorevole dal punto di vista economico, che tende a penalizzare i marchi “piccoli”.
Nonostante tutto, però, crediamo tanto in loro, e i riscontri, specie per quanto riguarda il posizionamento della griffe, sono più che interessanti; celebrities come Madonna, Paris Hilton e i Måneskin ne sono stati attratti, chiedendoci capi e accessori.
Il potenziale, insomma, è enorme, non si è ancora tradotto in un business strutturato ma siamo convinti che i risultati arriveranno, perciò continuiamo a investire e coinvolgere partner internazionali, per rafforzare l’allure del brand e, soprattutto, penetrare in quei mercati dove potrebbe rendere al meglio.

“Penso che gli imprenditori abbiano il dovere di partecipare, ciascuno secondo la propria disponibilità, a un’azione corale per ridurre le diseguaglianze del Paese”

Nella vostra azienda i risultati economici sono sempre andati di pari passo con la solidarietà e l’inclusione sociale, vuole dirci qualcosa in più?

È un fatto culturale, non mediatico, ci tengo a precisarlo. Da Arav, alla base di tutto, ci sono i valori, l’attenzione a quanto accade nella società, che nel tempo ci ha portato a sostenere numerosi progetti di sostegno a ospedali e bambini con alle spalle famiglie disagiate, o quello “al femminile” che ha coinvolto le detenute del carcere di Pozzuoli (che mi ha segnato in profondità, ne sono orgogliosa). Il punto sta nel dare una chance alle donne – e non solo loro – meno fortunate, alle volte non ci si rende neppure conto di cosa e come vivano alcune di esse, dei motivi per cui sono finite in prigione, della mancanza cronica di opportunità che le mettano in condizione di emanciparsi.

Ecco, toccando con mano situazioni del genere si comprende come gli imprenditori abbiano il dovere di partecipare, ciascuno secondo la propria disponibilità, a un’azione corale, mirata a ridurre le croniche diseguaglianze del Paese. Da parte nostra, abbiamo sempre cercato di fornire un piccolo contributo; è una questione di ascolto, di rispetto, non si tratta tanto di regalare qualcosa a queste persone, bensì di dar loro una possibilità.

Arav Group
La sede di Arav Group (ph. courtesy Ladisa Communication)

Pensando al futuro, cosa sogna per i prossimi vent’anni di Arav Group?

A dire la verità il sogno è lo stesso degli inizi, cioè costruire un’impresa che, al di là delle dimensioni, abbia uno standing internazionale, che possa aggregare nuove realtà, magari altri dieci brand, e radicata in almeno due o tre aree cruciali, Stati Uniti, Cina, Medio Oriente.

Arav Group Napoli
L’ufficio stile dell’azienda (ph. courtesy Ladisa Communication)

Nell’immagine in apertura, un ritratto di Mena Marano, Ceo di Arav

Alessio Praticò, l’arte della versatilità

Studi alla scuola di recitazione del Teatro Stabile genovese, un’infilata di parti ottenute subito dopo esserne uscito, due importanti riconoscimenti nel giro di tre anni (il premio Federico II al festival La Primavera del Cinema Italiano, nel 2016, il premio Vincenzo Crocitti International nel 2019), la partecipazione, dal 2016 in avanti, alle produzioni “giuste” (Il cacciatore, Il miracolo, Lo spietato, Il traditore, Blocco 181…) che ne fanno un volto familiare per gli spettatori di serie e film italiani. Si potrebbe riassumere così la traiettoria ascendente di Alessio Praticò, attore 36enne tra i più richiesti – e dotati – della sua generazione; come dimostra la manciata di titoli in arrivo a breve sui nostri schermi, che gli hanno permesso, confida a Manintown, di tenere «vivo il lato fanciullesco, il bambino che alimenta la passione e mi fa vivere questo mestiere con entusiasmo, sopportando volentieri i sacrifici che richiede».

Hai parecchi lavori in uscita, è un periodo intenso per te…

Decisamente, dal 26 ottobre è disponibile su Disney+ Boris 4, sono una delle new entries. Il 30 novembre, poi, sarà la volta di Il mio nome è vendetta su Netflix, action movie “puro” (genere cui non siamo abituati in Italia), dove impersono l’antagonista di Alessandro Gassmann. Sulla stessa piattaforma, a dicembre, arriverà Odio il Natale, versione italiana del serial norvegese Natale con uno sconosciuto. Uscirà prossimamente, infine, la serie Rai Il nostro generale, sulla figura di Carlo Alberto Dalla Chiesa.

“Credo che ogni regista ci lasci qualcosa, soprattutto alle prime battute del proprio percorso di crescita, sia umana sia professionale”

Un fermento professionale accresciutosi dopo l’ottima accoglienza di Blocco 181, come hai vissuto quel progetto?

Per fortuna ho sempre lavorato con una certa continuità, detto ciò Blocco 181 è stato una novità anche per me data l’idea alla base, cioè inscenare una sorta di sequel di Romeo e Giulietta, inserendolo però in una cornice crime. Si è creata così, a mio avviso, una narrazione coinvolgente di cui è stato bello essere parte, lavorando con i tre autori avvicendatisi alla regia, Giuseppe Capotondi, Ciro Visco e Matteo Bonifazi.
Un’esperienza davvero interessante, condivisa con Alessandro Tedeschi, che ho ritrovato sul set (i due hanno recitato insieme in Lo spietato e Blackout Love, nda), del resto quando si ha a che fare con la serialità il team diventa un po’ una famiglia.

Alessio Praticò serie
Ph. by Alessandro Rabboni

Tra i registi con cui hai collaborato, ce n’è qualcuno cui ti senti più legato?

Credo in verità che ogni regista ci lasci qualcosa, soprattutto alle prime battute del proprio percorso di crescita, sia umana sia professionale. L’Alessio degli inizi è diverso – ovvio – da quello che oggi si prepara per un nuovo lavoro. Per quanto ci sia stata una maturazione, però, rimane sempre vivo il lato fanciullesco, il bambino che alimenta la passione e mi fa vivere questo mestiere con entusiasmo, sopportando volentieri i sacrifici che richiede.

“È innegabile che le piattaforme abbiano creato maggiori possibilità, aumentando il numero di sceneggiature da portare sullo schermo”

I big dello streaming, cresciuti enormemente negli anni e ormai imprescindibili per il settore, hanno imposto una visione inedita dell’intrattenimento, difficile da classificare. Qual è la tua opinione in materia?

Netflix e simili hanno lanciato una nuova modalità di comunicazione, non starò qui a dire se è un bene o un male, comunque esiste, bisogna farci i conti. Chiaramente l’esperienza della sala o del palco manterranno la loro funzione, sono convinto che andare al cinema non sia paragonabile al vedere un film a casa; d’altro canto è innegabile che le piattaforme abbiano creato maggiori possibilità, aumentando le produzioni e, di conseguenza, il numero di sceneggiature da portare sullo schermo, soprattutto in forma seriale, dandoci la chance di raccontarle attraverso un arco temporale più lungo, caratterizzando al meglio i personaggi sia sotto l’aspetto della scrittura che di quello di chi dovrà effettivamente interpretarli o dirigerli.

Di personaggi, appunto, ne hai interpretati molti, spesso lontanissimi l’uno dall’altro, per quali ruoli ti senti più portato?

Per una mia indole un po’ “cialtronesca” preferisco confrontarmi con storie che virano sul comico o il tragicomico, tuttavia mi è capitato di frequente di dovermi calare in parti che richiedevano drammaticità, o comunque personalità sfaccettate. Resto convinto che la componente legata alla comicità sia fondamentale anche per opere all’estremo opposto dello spettro, si dice spesso che gli interpreti del genere soffrono due volte, necessitano di filtrare ciò che poi tireranno fuori. Nella commedia mi diverto forse di più, ma ho la fortuna – o sfortuna – di potermi adattare abbastanza bene al resto.

“Cinema e teatro sono due attività bellissime ma profondamente diverse e, in quanto tali, vanno gestite in maniere diverse”

A quando risale il tuo primo ingaggio?

Al periodo immediatamente successivo alla scuola del Teatro Stabile di Genova, con Antonia, opera prima di Ferdinando Cito Filomarino sulla vita della poetessa Antonia Pozzi, in cui interpretavo Remo Cantoni, filosofo suo contemporaneo. Ricordo che mi stavo preparando per l’esame di recitazione, fecero dei provini e, inaspettatamente, iniziai a girare subito dopo il diploma.

Alessio Praticò Boris
Ph. by Alessandro Rabboni

Da attore messosi alla prova con entrambi, preferisci il cinema o il teatro?

Vengo da una scuola in cui il teatro è alla base di tutto, se dovessi scegliere, sinceramente, non saprei rispondere, sono due attività bellissime ma profondamente diverse e, in quanto tali, vanno gestite in maniere diverse. Sul palcoscenico devi buttarti e catturare il pubblico usando voce e corpo, rimanendo credibile, al cinema è l’opposto, è il pubblico che viene a spiarti. Si tratta, perciò, di adeguarsi al mezzo.

Forse è l’action la cosa più lontana dalle tue corde…

(Ride, nda) Mi è capitato in passato di girare scene d’azione, ne Il mio nome è vendetta ho partecipato a qualcuna ma il lavoro sporco è toccato ad Alessandro, che si è molto divertito nel farlo.

Alessio Praticò Instagram
Ph. by Alessandro Rabboni

Nell’immagine in apertura, Alessio Praticò in uno scatto di Alessandro Rabboni

Alessandro Piavani, attore al servizio delle storie

Blocco 181, prima in-house Sky Studios italiana, andata in onda a maggio, gli ha regalato notorietà e qualche soddisfazione extra (vedi alla voce premio Kinéo 2022). In attesa dei nuovi episodi della serie (definita dallo sceneggiatore Paolo Vari «una favola metropolitana, dark e iperrealista»), Alessandro Piavani è stato impegnato in produzioni di notevole levatura, Nata per te (di cui ci parla più approfonditamente nell’intervista) e La bella estate, pellicola tratta dal romanzo eponimo di Pavese, di cui sono appena terminate le riprese; due nuove opportunità per mettere in pratica il credo artistico dell’attore 29enne, originario di Romano di Lombardia, ovvero raccontare «storie, vite, personaggi, esplorando queste dimensioni e permettendo a chi ci guarda di viverle attraverso di noi».

Alessandro Piavani
Total look Calvin Klein Jeans

Blocco 181, di cui avevamo già parlato nell’intervista di maggio, ha ottenuto riscontri più che positivi su giornali nostrani come Vanity Fair o Il Venerdì di Repubblica. Ex post e nel complesso, come valuti il tutto?

È stato incredibile, ho potuto girare per sette mesi con un gruppo di professionisti fantastico, vivendo Milano per tutto questo tempo e conoscendo persone di ogni parte del mondo (sia il cast che la troupe erano internazionali), uno scambio davvero proficuo, formativo. La serie in sé, inoltre, racconta cose non banali in modo coinvolgente, quindi è stato bello anche vedere i feedback ricevuti in Italia e all’estero. Vivendo a Londra, mi son trovato coi miei coinquilini che si sono sparati tutte le puntate su Sky, apprezzandole. Dà soddisfazione vedere una storia del genere che arriva oltre i confini nazionali.

Blocco 181 Ludo
Coat and trousers Marsēm, silk chiffon shirt Maison Laponte, shoes Giuseppe Zanotti

“Sto cercando di limitare giudizi e critiche a ciò che può davvero tornarmi utile e, per il resto, lasciare andare, ricordandomi che tutto ciò che faccio è per il pubblico, non per me”

Che effetto ti ha fatto rivederti in video? Potendo tornare indietro, cambieresti qualcosa nel modo in cui hai reso la figura di Ludo?

In linea di massima, sì. Tuttavia la questione è più articolata, riguardarsi fa sempre effetto, specie considerando che il cuore della recitazione, a mio parere, sta nel farlo mettendosi al servizio degli altri; raccontiamo storie, vite, personaggi, esplorando queste dimensioni e permettendo a chi ci guarda di viverle attraverso di noi. La performance attoriale, dunque, non può essere fine a sé, basti pensare al teatro, dove non c’è nemmeno la possibilità di vedersi dall’esterno. Nel cinema o nella tv, purtroppo o per fortuna, ciò che fai è immutabile, impresso su pellicola.
Per me rimanere soddisfatto dopo un lavoro è difficile, cerco sempre di migliorarmi, di individuare i punti sui quali potrei intervenire, alla fine però sono contento perché mi pare si percepiscano dei lati di Ludo che volevo si notassero. Oltretutto il mio giudizio in merito è relativo e – per forza di cose – differente da quello di uno spettatore che, ovviamente, non può sapere cosa stava succedendo sul set, cosa pensassi in quell’istante e così via; colgo degli elementi che chi guarda la scena non nota neppure. Comunque sto cercando sempre più di limitare giudizi e critiche a ciò che può davvero tornarmi utile e, per il resto, lasciare andare, ricordandomi che tutto ciò che faccio è per il pubblico, non per me.

“Nata per te è un progetto di cui sono orgoglioso, sicuramente verrà seguito e apprezzato da tante persone”

La serie è stata rinnovata per una seconda stagione, cosa possiamo aspettarci?

È ancora in fase di scrittura, non ne so nulla effettivamente, di certo spero che i protagonisti vengano esplorati – ancora più – a fondo nei nuovi episodi. Secondo me parecchi aspetti della prima stagione erano preparatori per un continuo, come dimostra il finale aperto, che lascia la possibilità di sviluppi diversi per ognuno. Sarà interessante vedere dove sia finito Ludo, sono curioso io per primo.

Hai girato da poco Nata per te di Fabio Mollo, dove condividi il set con Teresa Saponangelo, Barbara Bobulova e Iaia Forte. Puoi darci qualche anticipazione sul tuo ruolo e la pellicola in generale?

Si basa sull’omonimo romanzo scritto da Luca Trapanese (insieme a Luca Mercadante), per raccontare la sua vicenda di single omosessuale che è riuscito ad adottare una bimba con la sindrome di Down. Interpreto Lorenzo, il suo compagno, col quale condivide il desiderio di avere una famiglia, sebbene concepiscano la genitorialità in modo diverso; un ruolo molto stimolante da interpretare, porta una nota politica nel film, è evidente che è mosso da un senso di dovere nei confronti della comunità Lgbtq, dalla volontà di portare avanti delle istanze e ottenere dei diritti.
Tra l’altro abbiamo girato a Napoli, città meravigliosa, con un team favoloso; sono stato felice di ritrovare sul set Barbara Bobulova dopo Saremo giovani e bellissimi, ma il resto del cast non è da meno, Teresa Saponangelo, Antonia Truppo, Pierluigi Gigante… Un progetto di cui sono orgoglioso, sicuramente verrà seguito e apprezzato da tante persone.

Alessandro Piavani Blocco 181
Suit Marsēm, shirt Çanaku

“In occasioni come i red carpet cerco di divertirmi, di mettere qualcosa che mi stia bene ma si discosti dai capi che uso solitamente, trovando, nelle proposte di un brand che veste tanti artisti come Zegna, la mia cifra”

A settembre hai ricevuto, alla Mostra del cinema di Venezia, il premio Kinéo 2022, com’è stato ritornare in una rassegna cinematografica così prestigiosa per ricevere un riconoscimento dedicato alle “giovani rivelazioni”?

Il premio è stato una prima assoluta. Io poi sono non dico restio, ma dubbioso di fronte a certi riconoscimenti, mi chiedo sempre cosa significhino. Lo prendo come una conferma del fatto di essere sulla strada giusta – utile perché in questo mestiere si è spesso in balia delle incertezze, spero sia di buon auspicio per ulteriori lavori. Mi spiace soltanto che, in eventi simili, ci sia pochissimo tempo a disposizione e non si possa vivere appieno il contesto, mi piacerebbe un giorno tornare alla Mostra “in incognito” e guardarmi tutti i film.

Proprio in laguna ti sei presentato sul red carpet in total look Zegna, griffe che vesti spesso e volentieri nelle occasioni ufficiali, hai anche assistito alla sfilata primavera/estate 2023. Cosa ti piace di più della moda di Zegna?

Le ultime novità del marchio, ho avuto il piacere, come dicevi, di partecipare alla sfilata p/e 2023 e si è rivelata uno spettacolo grandioso, per certi versi quasi commovente, non me lo sarei mai aspettato. Proprio lì ho adocchiato il vestito che avrei poi indossato a Venezia, in occasioni del genere cerco infatti di divertirmi, di mettere qualcosa che mi stia bene ma si discosti dai capi che uso solitamente, trovando, nelle proposte di un brand che veste tanti artisti come Zegna, la mia cifra. Ecco, col completo della Mostra è andata così, ho subito insistito per averlo.

“Quello della scrittura è un processo creativo differente dalla recitazione, richiede molto più tempo e una sorta di onda buona, anche interiore”

Mi ricollego allo stile appariscente di Ludo in Blocco 181, rispecchia in qualche misura il tuo?

Non credo proprio (ride, ndr), per quanto ci sia stato un momento, mentre giravo, in cui nell’armadio avevo un sacco di camicie hawaiane “alla Ludo”, appunto, lì ho capito che forse mi era rimasto appiccicato qualcosa di suo. Per la prima della serie, a Milano, il tentativo fatto con Etro, che mi ha vestito per l’occasione, è stato proprio quello di richiamare l’immagine del personaggio. Mi piace, se sto presentando un film o una serie, creare un link tra lui e me; è una cosa bellissima e, con ruoli come quello di Ludo, ci si può davvero sbizzarrire.

Ci avevi già rivelato che cerchi sempre di scrivere e collaborare coi tuoi amici, in una recente intervista hai poi confidato di avere «molte storie incompiute nel cassetto», pensi di concluderne presto qualcuna, di portarla – chissà – sullo schermo?

Magari! Non necessariamente sullo schermo, andrebbe benissimo pure il palcoscenico, però è un processo creativo differente dalla recitazione, richiede molto più tempo e una sorta di onda buona, anche interiore. Sicuramente me lo auguro, forse un domani…

Manintown fashion uomo
Jacket, cargo pants and turtleneck Calvin Klein, necklace De Liguoro

Credits

Talent Alessandro Piavani

Photographer Cosimo Buccolieri

Fashion Editor Rosamaria Coniglio

Grooming Kim Gutierrez @Studio Repossi

Stylist assistant Federica Mele

Nell’immagine in apertura, Alessandro Piavani indossa total look Calvin Klein Jeans

Artissima 2022, il direttore Luigi Fassi svela i punti cardine della 29esima edizione

174 gallerie, nel 59% dei casi straniere, provenienti da 28 stati; quattro sezioni ormai consolidate e tre curate; cinquanta tra curatori e direttori di musei di assoluto rilievo, selezionati per far parte di giurie o coinvolti in iniziative speciali; dieci tra premi, riconoscimenti e supporti assegnati durante la manifestazione. I numeri appena elencati danno la dimensione dell’importanza di Artissima, fiera di riferimento per l’art world (non solo) nazionale, che dal 4 al 6 novembre torna ad animare Torino con una messe di esposizioni, percorsi monografici, approfondimenti e progetti satellite che, dalla sede principale dell’Oval, si estendono a vari altri place to be culturali della città.

A unirli, il tema individuato quest’anno come minimo comun denominatore, Transformative Experience, un concetto elaborato dalla filosofa L. A. Paul che, nell’eponimo saggio del 2014, ne parla come di un’esperienza in grado di modificare nel profondo chi la vive, mettendone in crisi le aspettative più “razionali” e aprendogli prospettive inedite.

Artissima direttore
Luigi Fassi (ph. by Giorgio Perottino/Artissima 2022)

Ad illustrarci obiettivi, peculiarità e sfide raccolte dalla rassegna, sensibile per definizione allo zeitgeist di un’epoca attraversata da molteplici crisi e trasformazioni impetuose, è il neo-direttore Luigi Fassi; intervistato da Manintown, anticipa le novità di un’edizione, la numero 29, che «è anche un’enorme kunsthalle, dove si incrociano centinaia di opere, dalle quali si dipanano connessioni, narrazioni e incroci, dunque un luogo dove lasciar spazio ai propri desideri, alla speranza di sapere come l’arte sia oggi uno strumento di fiducia, ispirazione e ottimismo».

“Nel 2022 abbiamo voluto privilegiare un tema che raccontasse la volontà di ripartire e guardare avanti e, al tempo stesso, potesse approfondire cosa si cela nel nostro desiderio di lasciarci ispirare dall’arte”

Quali sono le aspettative alla vigilia di un’edizione che segna il ritorno al format fieristico canonico, dopo la parentesi “unplugged” del 2020 e quella “ibrida” dell’anno scorso?

La priorità, dopo due anni importanti per la fiera, benché caratterizzati dai limiti del Covid, è stata rilanciare tutta la forza della rete internazionale di Artissima, nei due pilastri attorno a cui è costruita, gallerie e collezionismo. In questo senso, il 2022 è stato un anno di viaggi, ricerche e contatti ad ampio raggio a livello globale, dall’Europa all’America, dall’Africa all’Asia.
In termini numerici, un dato chiave è quello delle 42 gallerie, per la maggior parte internazionali, che nel 2022 partecipano per la prima volta alla rassegna, testimoniando la sua attrattività e il suo saper essere un catalizzatore di investimenti di mercato e interscambi in ambito artistico. Ma Artissima opera su tanti livelli, facendo convergere differenti esigenze, quelle dei collezionisti (alla ricerca di scoperte piuttosto che di conferme), dei curatori con volontà di aggiornarsi e dei direttori museali, interessati a trovare idee per la costruzione del programma espositivo nelle rispettive istituzioni.

Marcos Luytens artista
Forbidden Pleasure, Marcos Luytens, 2021; courtesy Alberta Pane and the artist

“In tre decenni il rapporto tra Artissima e Torino è sempre cresciuto in termini di cooperazione e sinergie”

Come verrà sviluppato, in concreto, il tema scelto quest’anno come filo conduttore, Transformative Experience?

Individuiamo un tema guida per ispirare la progettazione di ogni specifica edizione di Artissima. Nel 2022 abbiamo voluto privilegiarne uno che raccontasse la volontà di ripartire e guardare avanti dopo le difficoltà del biennio appena trascorso e, al tempo stesso, potesse approfondire cosa si cela nel nostro desiderio di lasciarci ispirare dall’arte.

Transformative Experience rimanda a un saggio scritto nel 2014 dalla filosofia analitica Laurie Anne Paul, che inquadra il modo in cui affrontiamo le esperienze personali trasformative, che secondo lei sono quelle che non possiamo in alcun modo anticipare o prefigurare razionalmente, perché nulla può sostituirne il vivo manifestarsi come rivelazione di un territorio a noi ancora sconosciuto. Come anticipato, dal pensiero della studiosa americana abbiamo tratto un’ispirazione che vale anche per illuminare il modo in cui da appassionati viviamo l’arte. Chi nella propria vita sceglie l’incontro con un’espressione artistica, in tutte le sue forme rivelative, è già abituato all’esperienza arricchente dell’ignoto, ad avere fiducia nell’innovazione e nel potenziale del proprio cambiamento.

Il calcolo razionale, ribadisce Paul, non è in grado da solo di aprirci all’accoglienza dell’inatteso, anche quando quest’ultimo detiene un potenziale di grande positività. Occorre dunque accendere la dimensione del desiderio, ovvero desiderare conoscere cosa diventeremo attraverso le scelte trasformative che sapremo affrontare.
Abbiamo condiviso l’argomento con gallerie, artisti e curatori coinvolti nella ventinovesima edizione, intrattenendo un dialogo direttamente con L. A. Paul, che ha accettato di essere a Torino per condividere l’esperienza di Artissima; terrà una lecture all’Oval, sabato 5 novembre.

Alessandro Fogo
The brightest hour, Alessandro Fogo, 2022; courtesy the artist and Cassina Projects, Milan

“L’idea è avviare delle riflessioni critiche e interpretative su fenomeni come il rapporto dell’arte con NFT e metaverso, in cui si cerchi di coinvolgere artisti, addetti ai lavori e pubblico”

Accompagna le sezioni principali l’abituale corollario di mostre, premi e progetti speciali, che coinvolgono varie istituzioni e luoghi di Torino, dalla GAM al Museo d’Arte Orientale, fino all’estensione digitale Artissima Voice Over. Può indicarci gli appuntamenti da non perdere, dentro e fuori gli spazi dell’Oval?

All’Oval Artissima si presenta strutturata con le sue quattro sezioni storiche (Main Section, Monologue/Dialogue, New EntriesArt Spaces & Editions) e il ritorno in presenza delle tre curate, Disegni, Present Future e Back to the Future. Queste ultime sono guidate da un rinnovato team di curatori, che hanno fornito un nuovo approccio all’identità di ciascuna. Penso ad esempio a Irina Zucca Alessandrelli, che ha interpretato il disegno come strumento primario di creazione, individuando autori che lo adoperano come mezzo principale della loro pratica. In partnership con Juventus torna anche Artissima Junior, un workshop creativo per bambini, la cui regia artistica è affidata a Giovanni Ozzola.
Fuori fiera, un progetto importante è la mostra Collective Individuals, organizzata alle Gallerie d’Italia – Torino di Intesa Sanpaolo, in piazza San Carlo. Curata da Leonardo Bigazzi, affronta alcuni nodi sociali del nostro tempo presentando opere video – per lo più inedite nel nostro paese – di artisti rappresentati dalle gallerie partecipanti. So will your voice vibrate presenta invece tre lavori sonori di Riccardo Benassi, Charwei Tsai e Darren Bader, rispettivamente alla GAM, al MAO e a Palazzo Madama. Nel Salone delle Feste dello storico hotel Principi di Piemonte, poi, ci sarà un progetto personale di Diego Cibelli, Tempo rizomatico.

Yael Bartana
The Undertaker, Yael Bartana, 2019; courtesy the artist and Galleria Raffaella Cortese, Annet Gelink Gallery, Sommer Contemporary Art, Petzel Gallery

Cinthia Marcelle & Tiago Mata Machado
DÍVIDA [Trilogia do Capital] / Debt [Capital Trilogy], Cinthia Marcelle & Tiago Mata Machado, 2020-21; realization: Katásia Filmes, cinemari, Galeria Vermelho; courtesy the artists and Sprovieri Gallery

“Dalla prospettiva dell’osservatorio di Artissima abbiamo il privilegio di seguire il modo in cui gallerie, artisti e collezionisti si approcciano a cambiamenti e innovazioni”

Al di là dell’ospitare la sede – o meglio, le sedi – della manifestazione, cosa caratterizza lo stretto legame tra Artissima e la città sabauda, qual è il valore aggiunto apportato da quest’ultima?

Artissima è giunta alla sua ventinovesima edizione, in questi tre decenni il suo rapporto con Torino è sempre cresciuto in termini di cooperazione e sinergie. La settimana in cui ha luogo cambia il volto della città, rafforzandone i legami internazionali attraverso la rete artistica, divenendo così un progetto che offre una direzione di sviluppo di rilievo al capoluogo piemontese. Nei giorni della fiera, Torino accoglie un pubblico molto selezionato di operatori professionali dell’arte, collezionisti e anche giornalisti che, senza di essa, non avrebbero la città nella loro agenda.

Si è poi creata, negli anni, un’interazione continua tra Artissima, istituzioni cittadine e Piemonte, mediante un network territoriale che rende la prima un’esperienza esplorativa su più ambiti, dall’arte al turismo culturale, alla cultura agroalimentare. A questo va aggiunto che la fiera è da diversi anni pubblica, la sua proprietà è condivisa dalla Città di Torino e dalla Regione Piemonte, ed è incardinata nella Fondazione Torino Musei.

Diego Cibelli mostra
Totem Fuochi d’artificio 5, Diego Cibelli 2022; courtesy Alfonso Artiaco, Napoli, ph. by Grafiluce

“Artissima è anche un luogo dove lasciar spazio ai propri desideri, alla speranza di sapere come l’arte sia oggi uno strumento di fiducia, ispirazione e ottimismo”

Come altri ambiti, quello dell’arte contemporanea è stato travolto dall’ondata tech di NFT, realtà aumentata & co. e, se nel 2021 era stata lanciata l’iniziativa Surfing NFT, ora la piattaforma Beyond Production, in sinergia con l’OGR Award, esplorerà il metaverso. Lei cosa ne pensa?

Il progetto Beyond Production è nato in stretta cooperazione con la Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT, per affrontare il rapporto tra produzione artistica contemporanea ed evoluzioni della cultura digitale nei suoi sviluppi tecnologici ed economici, tra realtà virtuale e impatto ad ampio raggio sulla società. L’idea è avviare delle riflessioni critiche e interpretative su fenomeni come il rapporto dell’arte con NFT e metaverso, in cui, senza retoriche celebrative, si cerchi invece di coinvolgere artisti, addetti ai lavori e anche il pubblico, per avere degli strumenti in più e comprenderne così i possibili sviluppi. È fondamentale, sotto quest’aspetto, la presenza del polo delle OGR che, tra progetti artistici e incubazione di start up, ha accresciuto la capacità di Torino di produrre ricerca sui temi in questione.

Marco Giordano artist
To Disturb Somnolent Birds, Marco Giordano, 2020; courtesy l’artista e The Modern Institute/Toby Webster Ltd, Glasgow, ph. Patrick Jameson

A suo parere, quali sono le principali sfide poste al settore dalle innovazioni tecnologiche epocali che si profilano all’orizzonte, ulteriormente accelerate dal Covid?

Dalla prospettiva dell’osservatorio di Artissima abbiamo il privilegio di seguire il modo in cui gallerie, artisti e collezionisti si approcciano a cambiamenti e innovazioni, dal rapporto con le tecnologie digitali alle logiche di produzione delle opere, sino a quelle di comunicazione e di vendita, sempre all’interno di uno scenario completamente globalizzato. L’obiettivo è seguire e accompagnare questi ed altri cambiamenti in termini attivi e partecipati, contribuendo a valorizzare sempre di più la progettualità delle gallerie partecipanti e l’esperienza dei collezionisti.

“La fiera consente al visitatore un’esperienza speciale, permettendogli di immergersi in uno scenario composto soprattutto da gallerie e lavori di artisti nel pieno della forza creativa, dove domina il senso del cambiamento, di qualcosa colto nel pieno del suo farsi”

In una fase storica più incerta e tumultuosa che mai, tra guerra, strascichi pandemici, effetti del cambiamento climatico e una probabile, ennesima crisi economica, quale ruolo può svolgere una rassegna d’arte?

Una fiera d’arte è un’impresa commerciale finalizzata a massimizzare il profitto dei galleristi che vi partecipano, dunque la loro soddisfazione sotto il profilo economico e di network, e il nostro lavoro è finalizzato a produrre nuove opportunità di sviluppo per le 174 gallerie che partecipano nel 2022. Ma Artissima è anche un’enorme kunsthalle, dove si incrociano centinaia di opere, dalle quali si dipanano connessioni, narrazioni e incroci (che tra l’altro quest’anno, per la prima volta, racconteremo con la nuova iniziativa AudioGuide, in collaborazione con Lauretana e parte di Artissima Digital), dunque un luogo dove lasciar spazio ai propri desideri, alla speranza di sapere come l’arte sia oggi uno strumento di fiducia, ispirazione e ottimismo.

Diversamente da un museo, inoltre, consente al visitatore un’esperienza speciale, permettendogli di immergersi per alcuni giorni in uno scenario composto soprattutto da giovani gallerie e lavori di artisti nel pieno della loro forza creativa, dove domina il senso del cambiamento, di qualcosa che non è definito e istituzionalizzato, ma colto nel pieno del suo farsi. Immergersi in un simile scenario di trasformazione credo sia un privilegio.

Victoria Colmegna
Embroidering vest during vigil, Victoria Colmegna, 2022; courtesy Weiss Falk and the artist, ph. Gina Folly

 Petrica Stefan
Drawing Series, Petrica Stefan, 2022; courtesy 418, Munich, Cetate  

In apertura, una delle immagini che definiscono la visual identity della 29esima edizione della fiera (credits: FIONDA/Artissima)

Il meglio della Milano Fashion Week donna P/E 2023

A distanza di qualche giorno dalla conclusione della fashion week women’s primavera/estate 2023, si possono tirare le somme di una tornata dai ritmi serrati, distribuita su sei giornate animate, complessivamente, da 210 appuntamenti tra passerelle (nella stragrande maggioranza dei casi, 61 su 68, fisiche), presentazioni (130) ed eventi vari. Trattandosi della settimana della moda femminile, il focus era sul womenswear della prossima stagione calda, non sono però mancate collezioni co-ed e altre che hanno scansato abilmente la canonica suddivisione per genere dell’abbigliamento, percepita sempre più, specie dall’agguerrita generazione dei nativi digitali o Z che dir si voglia, come un vetusto retaggio del passato, asfittico e limitante. Vediamole nel dettaglio.

Il dress to impress secondo Collini Milano

Lo street show organizzato da Collini Milano per la P/E 2023 (courtesy of Collini Milano)

Indicativa della volontà di diluire le differenze tra prêt-à-porter uomo e donna è, per cominciare, la proposta P/E 2023 di Collini Milano, in cui lei e lui si scambiano volentieri i pezzi forti dei rispettivi armadi, in un assemblage a tutto lucore di eccessi rococò da Marie Antoinette del XXI secolo, tropi glam rock e vitalità cromatica.

La donna del brand porta completi con giacche tagliate a mantella, jumpsuit, liquidi abiti drapée, crop top e minigonne XXS su plateau stratosferici, l’uomo si diletta ad appaiare tessuti brillanti e opachi, grammature impalpabili e corpose, pizzo e animalier, anfibi glitterati e nappa, entrambi prediligono spalmature dorate, giochi di vedo-non vedo, pants dall’appiombo morbido, jacquard dai motivi fiorati, il tutto intervallando i colori forti con quelli zuccherosi, che sembrano usciti da una vetrina di Ladurée (rosa in tutte le varietà, giallo candy, verde menta, acquamarina…). Outfit perfetti per party notturni sfrenati, in cui la filosofia del dress to impress diventa uno scudo dai tempi grami che viviamo.

Outfit della collezione Collini Milano P/E 2023 (ph. courtesy of Collini Milano)

La “complessa semplicità” di Aspesi

Da Aspesi, label ascrivibile alla categoria del casual compito, ben fatto, l’approccio alla questione è altrettanto sottile: nello showroom di corso Venezia vengono presentate le novità della P/E femminile, rimodulazioni di capi archetipici («complessamente semplici» recita, con un ossimoro azzeccato, il comunicato stampa) quali set coordinati camicia-pantaloncini, golf, blazer, impermeabili e così via, che però funzionano egregiamente anche sugli uomini, come testimoniano i modelli che si aggirano nella sala in mise speculari a quelle delle colleghe, concedendosi guizzi misurati, ora il pijama a bolli sotto il completo, ora la tuta da lavoro indossata a metà col gessato; è sempre il marchio a dichiarare di voler «fluidificare l’atto del vestirsi», creando pertanto, coi suoi essentials, «un’uniforme contraria all’uniformità».

Il genderless di Ssheena, la maglieria edgy della capsule collection di Domenico Formichetti per Avril 8790

Apertamente genderless, invece, la collezione Ssheena (“ambiguo per scelta” è, d’altronde, il motto dell’etichetta). Sabrina Mandelli guarda alla danza soave di Isadora Duncan (che faceva della fluidità un valore assoluto, nei movimenti come nella struttura dei costumi, semplici tuniche in luogo dei costumi arzigogolati in voga all’epoca) per concepire abiti dal retrogusto biker, tra giubbotti di pelle, lunghe cinghie penzoloni, occhielli e metallerie, che abbracciano dolcemente la silhouette, con alcuni capisaldi condivisi per i look di modelle e modelli, vale a dire addome scoperto, effetti see-through, spacchi, volumi illiquiditi.

Ssheena brand Sabrina Mandelli
La collezione Ssheena P/E 2023


Elementi in comune tra menswear e womenswear anche da Avril 8790, che presenta con un evento pop-up da Antonioli Inner la capsule autunno/inverno 2022-23, frutto della collaborazione con Domenico Formichetti, nome caldo della scena street milanese; il creativo chiazza pull in filati blasonati (dal cachemire alla lana vergine, al mohair) di maculati al neon, oppure li fa attraversare da rombi over, trame ondose e righe multicolor, spingendo sul carattere unconventional della maglieria del brand.

Husky omaggia la monarchia inglese

Non manca, nel proliferio di show e presentazioni meneghine, l’omaggio a The Queen e al nuovo re inglese; a firmarlo è Husky, produttore di outerwear tra i più rappresentativi del british style, oggi di proprietà dell’imprenditrice Alessandra Moschillo. I volti di Elisabetta II e Carlo III compaiono, in rilievo sulla Union Jack aerografata, sul retro di un modello limited edition dell’iconico giaccone trapuntato, apprezzato – e indossato, tra gli altri, proprio dai membri della monarchia britannica. Inventata nel 1965 dall’aviatore Steve Gulyas con sua moglie Edna, la hacking jacket costituisce tuttora il perno dell’offerta del marchio, che continua a rivisitarla e, in questa stagione, le fa assumere le fogge più diverse, dal bomber al trench, dalla sahariana al blouson chiuso da zip, oppure ne sparge qua e là gli elementi identificativi, dalla trapuntatura usata come decorazione alla lunghezza 3/4 elevata a standard.

Il prêt-à-porter metamorfico di Lara Chamandi

Tra le new entry nel calendario di Camera Nazionale della Moda Lara Chamandi, griffe giovanissima (è nata l’anno scorso) che, per la collezione zero, s’ispira al mito immortale di Amore e Psiche, traducendolo metaforicamente nella trasformazione del baco in farfalla; alludono proprio alla fragilità dell’insetto durante il processo di metamorfosi, alla potenza creatrice della natura, che può apparire a volte imperfetta o misteriosa, le lavorazioni degli ensemble, incorniciati dall’installazione site-specific dell’artista Francesca Pasquali, strati su strati di carta dispiegati negli ambienti della boutique Daad Dantone, in via Santo Spirito; hanno un che di non finito, di mutevole, restituito da slabbrature, candidi crochet, drappeggi avvolgenti, contrasti sia materici che estetici (ad esempio tra ampio e stretto, tessuti leggiadri e croccanti, cromie soffuse e cariche), per abiti talismano che ogni cliente può interpretare in totale libertà, lasciandosi contagiare dalla loro energia.

Fashion4Ukraine, Pineider supporta l’artigianato ucraino

Fashion 4 Ukraine Pineider
La collezione Fashion4Ukraine, presentata nella boutique Pineider di Milano

Lodevole, in tutti i sensi, l’iniziativa organizzata da Pineider, che nello store monomarca di via Manzoni (autentico tempio della scrittura, dove oltre alla gamma di stilografiche, carte da lettera, biglietti intestati, pelletteria e altri articoli di lusso del marchio, trovano posto, custoditi sotto teca come in una Wunderkammer, i memorabilia di una realtà d’eccellenza della manifattura toscana, che in due secoli e mezzo di storia ha ammaliato capi di stato, aristocratici, letterati e star del cinema, da Dickens a Elizabeth Taylor) offre un sostegno concreto agli artigiani ucraini, promuovendone l’operato nel momento in cui, inevitabilmente, rischia di venire offuscato dalle notizie di guerra che giungono da Est.

Viene infatti presentata – e messa in vendita, il ricavato devoluto a Save the Children – Fashion4Ukraine, una selezione di tailleur, tubini, dress a portafoglio e altri capi dall’allure contemporanea, impreziositi da broderie di vibrante ricchezza, che la stilista Inha Maksymyuk, nativa di Černovcy, ha fatto confezionare a sarte e ricamatrici del suo paese, per promuovere l’identità e lo spirito nazionali in questi tempi difficili.

Lo show di Moncler in piazza del Duomo per i 70 anni del marchio

Con la celebrazione del settantesimo anniversario di Moncler, infine, si entra nel campo dell’intrattenimento puro: 1952 talenti (numero che corrisponde all’anno di nascita dell’etichetta francese), nello specifico 700 ballerini, 200 musicisti, 100 coristi, 952 modelli, tutti vestiti con un’edizione speciale color panna del piumino bestseller Maya, invadono piazza del Duomo, formando una marea nivea che si muove all’unisono, diretta dal coreografo Sadeck Waff. Il colpo d’occhio è impressionante, aumenta la spettacolarità di una performance corale che, in una piovosa serata settembrina, richiama decine di migliaia di persone, regalando nuovi significati allo storico claim di un’azienda guidata costantemente dal desiderio di “ricercare lo straordinario”.

Moncler 70 anni

Nell’immagine in apertura, la performance organizzata da Moncler in piazza del Duomo per i 70 anni del brand (ph. courtesy of Moncler)

Gli angeli edonisti di Yezael aprono la Milano Fashion Week

Uno show inclusivo e variegato per età, genere e corporatura dei modelli

«Angeli senza limiti, senza definizioni, senza timori. Il sacro silenzio contemplerà ogni bellezza. Guardiamoci meglio». L’ode di Angelo Cruciani ai modelli fuori dai canoni (ammesso che esistano) scelti per l’ultima sfilata del suo brand, letta dall’attore teatrale Angelo Di Genio, risuona in un dehors coperto della Stazione Centrale (dov’è stata disposta la passerella “ufficiale”, che prosegue in realtà nella sala attigua), precedendo la parata finale dei beautiful freaks abbigliati Yezael. È uno show pirotecnico, partecipato e inclusivo, quello allestito dallo stilista marchigiano – che lo dedica al suo paese, Cantiano, sconvolto di recente da un’alluvione che ha causato morti e distruzione – nel Mercato Centrale di Milano lunedì 19 settembre, un giorno prima dell’apertura della fashion week meneghina.
Patrocinata dal Comune, la sfilata si apre infatti agli sguardi curiosi del pubblico, permettendo a chiunque di osservare le diverse fasi della costruzione e svolgimento della stessa, dal backstage all’uscita dei singoli mannequin.

Il casting organizzato a luglio, libero e accessibile a tutti, ha passato al vaglio oltre mille volti, selezionandone infine 36, rappresentanti di un’umanità solitamente negletta dal regno dorato del fashion; ne fanno parte, tra gli altri, ragazzi irsuti, uomini rotondetti, trans, signore agé, una mamma col suo bambino di 14 mesi… Contemporary angels, come da titolo della collezione, edonisti sfacciati e sicuri di sé, che si riconoscono nelle culture – e sottoculture – più varie, usando gli abiti come uno strumento espressivo potente, festoso, liberatorio. Gli outfit, di conseguenza, prorompono in tinte sgargianti, forme rivelatorie, decorazioni a non finire.

Yezael by Angelo Cruciani, Contemporary Angels

In passerella lo stile dirompente degli “angeli contemporanei” vestiti Yezael

I completi, fittati o dalla vestibilità carezzevole, grondano perle, lustrini, jais, ganci metallici a guisa di cuore, quadrato o cerchio, pile di boules che si spargono anche sulla parte inferiore delle mise e sulle calzature, stringate o boots militari. Tonalità ultra-sature (dal rosa satinato al bluette, dal giallo lime al turchese) vengono declinate su capi teatraleggianti, pensati per esteti che urlano al mondo la propria individualità, trasformando la vita quotidiana nella loro personale runway.
Le giacche, generalmente scorciate sulla vita, mettono in evidenza le cinture col simbolo del marchio (la Y, stilizzazione di una figura alata); cingono pantaloni, minigonne che più mini non si può, jeans ridotti a brandelli. Le superfici si fanno viepiù lacere, strapazzate, tra fili penzolanti e orli a vivo, col ricorso a spille da balia e catenelle tintinnanti che si rivela puramente decorativo, un vezzo al pari degli svolazzi delle piume posate qua e là, dei veli evanescenti a mo’ di strascico, di gioielli e applicazioni variopinte che rilucono sotto i flash dei fotografi.

A bilanciare le linee smilze, taglienti della gran parte dei look, la vaporosità di alcuni denim pants, che si aprono in onde spumose di tessuto, oppure la sagoma a trapezio di un lungo dress con scollo all’americana, che cozzano (volutamente) coi colori al neon, con l’uso ripetuto del logo, con la quantità di pelle esibita maliziosamente.
Un guardaroba irruento, risultato anche – e soprattutto – di scelte di styling piuttosto radicali, nette, che non ammettono mezze misure, com’è in fondo naturale per un designer che, folgorato sulla via di Damasco dagli album dei Nirvana, ha introiettato l’insofferenza alle regole del grunge, per poi ergerla a manifesto di stile.

La bellezza contrastata, imperfetta del ready-to-wear di Angelo Cruciani

Difficilmente incasellabile, già collaboratore dei team creativi di X-Factor e Amici, art director del Pride milanese, un’attitudine rabdomantica che l’ha portato a sfilare in metropoli estranee ai circuiti modaioli (come Città del Messico o Shanghai), un legame ininterrotto con l’universo musicale (ha vestito, e continua a farlo, la meglio gioventù canora d’Italia, da Damiano David ad Achille Lauro, passando per Ghali, Elodie, Sangiovanni, Michele Bravi, Rosa Chemical, il deus ex machina del pop italico Dardust…), Cruciani crede nel valore dell’imperfezione, del difetto comunemente inteso.

Li utilizza come grimaldelli per scardinare quel complesso sistema semiotico edificato, nel tempo, dalla moda per inseguire una perfezione del tutto artificiosa, cui lui contrappone un’idea di lusso centrata sulla singola personalità, sul rifiuto delle convenzioni, sull’autenticità, sul come as you are propugnato da Kurt Cobain e soci. Gli angeli della contemporaneità di Yezael, di ritorno a Milano dopo un’assenza ventennale, sono pronti a raccogliere la sfida.

Angelo Cruciani brand
Angelo Cruciani in passerella al termine della sfilata

Nell’immagine in apertura, un look della collezione Contemporary Angels di Yezael by Angelo Cruciani

Joshua Sasse, uno stacanovista che si divide tra set, poesia e ambientalismo

Attore, scrittore, poeta: si presenta così, su Instagram, Joshua Sasse, che da ieri gli spettatori di Fox possono apprezzare in Monarch, musical drama sulla famiglia texana dei Roman, a capo di un impero del country retto dalla matriarca Dottie (la gigantesca Susan Sarandon), attorno alla quale orbitano gli altri personaggi, compreso il “suo” Luke. Tre sostantivi che, effettivamente, danno conto delle tante attività cui si dedica questo 34enne londinese dagli occhi verdi, sempre sorridente e disponibile, nonostante una mole di impegni da far impallidire Stachanov.

Joshua Sasse
Joshua Sasse, ph. by Kevin Scanlon

Già il suo curriculum si discosta parecchio da quello “classico” dell’attore divorato dal sacro fuoco dell’arte: cresciuto in Nepal, si arruola come ufficiale nell’esercito britannico ma, ammaliato dalla possibilità di dar vita a personaggi ogni volta diversi che è propria della recitazione, molla tutto per frequentare la Hurtwood House e, quindi, i corsi del Cygnet Theatre di Exeter, girando le città europee in tournée, prima di trasferirsi oltreoceano alla ricerca di un salto di qualità; che arriva, regalandogli il ruolo principale nella serie musicale Galavant e altre parti in produzioni televisive (Rogue, No Tomorrow) e cinematografiche (Frankenstein’s Army).
In parallelo, coltiva il suo amore per la letteratura scrivendo due romanzi, un libro di viaggio e raccolte di poesie (forma letteraria per cui ha un penchant, al punto da dedicarle il podcast The Poet’s Voice) e si tuffa in varie attività imprenditoriali, lavorando in un’officina di auto d’epoca, gestendo un caffè in Australia, lanciando la Classic Zambia Safaris. Last but not least, l’impegno profuso nell’ambientalismo, che lo porterà presto in Antartide, a documentare le drammatiche conseguenze dello scioglimento dei ghiacciai. Sasse si mostra determinato a supportare le cause che gli stanno a cuore perché «ho dei figli, non voglio lasciare loro il pianeta in condizioni peggiori di quelle in cui l’ho trovato».

“La serie è stata l’occasione per dedicarmi a un’ottima sceneggiatura drammatica, con attori e registi di talento”

Monarch serie tv
Il cast di Monarch (ph. ©Fox)

Verranno trasmessi a settembre i primi episodi di Monarch, come ti senti alla vigilia dell’uscita di un serial atteso e dal cast stellare, con protagonista il premio Oscar Susan Sarandon? C’è qualche aneddoto o ricordo specifico del set che vuoi condividere coi lettori?

È passato più di un anno da quando abbiamo iniziato a girare, quindi siamo tutti eccitati all’idea di condividere col pubblico il risultato finale. Per ciò che concerne gli aneddoti, non sono certo di poterne parlare in modo conciso… Per me la serie è stata l’occasione per dedicarmi finalmente a un’ottima sceneggiatura drammatica, con attori e registi di grande talento. Il lavoro fatto con Susan (Sarandon, ndr) è stato un momento davvero significativo della mia vita, adesso tra l’altro è una delle mie amiche più care.
Ci sono diverse persone speciali nel cast di Monarch, sul set abbiamo legato molto, come una famiglia; certo, il team che ha curato il casting per Fox ha lavorato magnificamente – io e Anna (Friel, che interpreta sua sorella, Nicolette “Nicky” Roman, ndr) ne rideremmo, ci assomigliamo così tanto, ma la dinamica familiare che si è creata era reale, sincera, le riprese sono state splendide.

Susan Sarandon Monarch
Joshua Sasse sul set con Susan Sarandon (foto dal profilo IG @joshuasasse)

In quali progetti sei impegnato al momento?

Contano anche i bambini? Sono stato via quasi dodici mesi l’anno scorso, per i vari impegni lavorativi, quindi adesso mi sto godendo lo stare insieme a mia moglie e i miei figli. Viviamo in Australia, è bello poter sparire per un po’, penso sia necessario.

“Ho sempre trovato insensato avere degli eroi se, poi, non si cercava di perseguire attivamente l’emulazione”

Joshua Sasse actor
Joshua Sasse, ph. by Kevin Scanlon

Attore, poeta (durante la pandemia hai lanciato The Poet’s Voice e stai lavorando al libro The Poetry Orchard), attivista, imprenditore (hai co-fondato Classic Zambia Safaris, specializzato nell’organizzazione di safari che hanno l’obiettivo di far scoprire – e tutelare – la meravigliosa natura del continente africano), avventuriero instancabile… C’è un fil rouge che tiene insieme tutto questo?

Un tempo non era così insolito per le persone avere molte frecce al proprio arco, e poi ho sempre trovato insensato avere degli eroi se, poi, non si cercava di perseguire attivamente l’emulazione. Sono cresciuto in una regione sperduta dell’Himalaya, il mio padrino era un esploratore polare, mio padre un poeta, sto semplicemente tenendo alta quella bandiera. Amo la vita all’aria aperta, in spazi il più possibile remoti, dove trovo un senso di pace, alla fine credo sia questo ad attrarmi. Per quanto riguarda la poesia, è sempre stata una forma d’espressione che sentivo mia.

“La poesia è un modo per spiegare la propria visione della vita, ha a che fare con tutto ciò che ci rende umani”

Parlaci del tuo amore per la poesia: quando è nato, come e perché? Cosa ti piace di più di questo genere letterario?

Come ho detto, mio padre, morto quand’ero giovane, era un poeta; la poesia è stata probabilmente un modo per entrare in contatto con lui.
Ho frequentato la scuola di teatro a 15 anni e iniziato a lavorare abbastanza presto, non ero granché appassionato di musica – tutto ciò che ascolto si riduce ancor oggi a Van Morisson, perciò quest’arte letteraria ha colmato un vuoto adolescenziale.
C’è un verso di Byron che recita «per mescolarsi con l’universo, e sentire ciò che non posso esprimere, eppure non posso celare»; nella vita è insito una sorta di enigma mistico, dobbiamo cercare di tradurre le emozioni che proviamo, quando esperiamo il mondo sulla pagina o con altre persone. Ad essere davvero speciale, della poesia, è la sua struttura, che richiede concisione (immagina un’opera che duri solo 30 secondi!); Paul Valéry sosteneva che le impedisce di dire tutto, bisogna perciò affidarsi a un’assoluta onestà e chiarezza, come pure a una profonda conoscenza del linguaggio. È un modo per spiegare la propria visione della vita, ha a che fare con tutto ciò che ci rende umani.

Galavant serie

“Contrasto del riscaldamento globale e biodiversità sono sinonimi di sopravvivenza”

Supporti diverse cause ambientaliste, ce n’è qualcuna che ti è particolarmente cara, che pensi sia urgente divulgare e affrontare?

Contrasto del riscaldamento globale e biodiversità sono sinonimi di sopravvivenza, non potrei fare diversamente. Ho dei figli, non voglio lasciare loro il pianeta in condizioni peggiori di quelle in cui l’ho trovato.
La situazione del bracconaggio africano, negli ultimi dieci anni, è stata peggiore che nei trenta precedenti, un fatto sconcertante; nel Parco nazionale dello Zambia, dove opera la nostra impresa, sono stati uccisi 12.000 elefanti in un decennio, in un’area sette volte più piccola di Rhode Island, è scioccante, sul serio. Anche in Antartide, dove il mio padrino ha una base, i ghiacci intorno alla terraferma si stanno sciogliendo a una velocità spaventosa. Credo sia solo questione di educazione, se l’opinione pubblica realizza cosa sta succedendo, questo può tradursi in un cambiamento a livello politico.

Cosa pensi – e speri – ci sia nel futuro di Joshua Sasse?

Diciamo che se Paolo Sorrentino o Guillermo Del Toro mi chiamassero a colazione per offrirmi un ruolo, sarebbe fantastico.

Monarch Luke Roman

Nell’immagine in apertura, Joshua Sasse fotografato da Kevin Scanlon

Radiografia di un cult: i Persol 649

Lo scorso giugno, in piena fashion week maschile, un party al bar Martini Dolce&Gabbana ha salutato il lancio di una speciale collezione eyewear, realizzata dal duo di stilisti con Persol. Quattro occhiali, due da sole, altrettanti da vista, impossibili da ignorare dato il carattere bold delle montature, tra silhouette D-frame enfatizzate, audaci combinazioni coloristiche, scritte-logo gigantizzate sulle aste, un cordino gommoso da agganciare ai terminali; in sostanza, una trasformazione – radicale – del modello più rappresentativo del brand sabaudo, identificato dal codice 649. Un’icona a tutti gli effetti, inclusa in quanto tale nella mostra della Triennale Storie. Il design italiano, che nel 2018 ha compendiato il meglio della progettazione tricolore attraverso 180 oggetti innovativi, esteticamente pregevoli e amati dal pubblico.

Persol 649 limited edition
Occhiali della limited edition lanciata per il centenario del marchio, con dettagli in oro 18 carati

Dai tram torinesi al grande schermo, un successo pluridecennale

Disponibili oggi in decine di tonalità, oggetto di (re)interpretazioni d’autore (ci torneremo), le origini dei sunglasses su cui Persol ha costruito buona parte della propria fortuna non lasciavano certo presagire i gloriosi trascorsi che li avrebbero resi un cult. Si parla, infatti, di un occhiale modellato sulle necessità dei tranvieri, che all’epoca (siamo nel 1957) guidano mezzi sprovvisti di finestrini, dunque lenti grandi e frontale sagomato, per proteggersi da polvere e vento.

Persol 649 colori
Varianti cromatiche della montatura 649

Nulla di sorprendente, tuttavia, per una griffe che ha instillata già nel nome, in forma acronimica (è la contrazione di “per il sole”, descrizione tanto sintetica quanto efficace dei prodotti), la sua vocazione alla funzionalità, nello specifico alla schermatura dai raggi solari. Non per nulla i primissimi occhiali, nel 1917, erano tarati sulle esigenze pratiche di aviatori e piloti, che il fondatore Giuseppe Ratti, titolare dell’ottica Berry di Torino, intendeva soddisfare grazie ai Protector, subito adottati da vari corpi aeronautici nazionali e idoli del tempo (due su tutti, il vate D’Annunzio e il campione di Formula 1 Juan Manuel Fangio).

Persol modello 649
I sunglasses Persol 649

Nei decenni successivi, Ratti si sarebbe rivelato un instancabile pioniere, brevettando innovazioni divenute pietre angolari dell’azienda – e dell’occhialeria nel suo complesso, a cominciare dal sistema Meflecto, introdotto negli anni Trenta, con stanghette flessibili che possono adattarsi a qualunque fisionomia, facilitando la calzata. Arriveranno poi Victor Flex, il ponte a tre intagli che garantisce maggiore curvatura e aderenza al volto, e ovviamente la peculiarità fondamentale del marchio, la Freccia, l’attacco a cerniera dalle linee affilate suggerite, pare, dalle spade in uso nell’antichità. Tutti elementi dispiegati, con dovizia di know-how manifatturiero, nei 649.

Persol 649 occhiali

Le star del cinema conquistate dagli occhiali del marchio

Dai tram del capoluogo piemontese al regno rarefatto dello charme maschile, veicolato allora soprattutto dalle stelle del cinema, il passo è insospettabilmente breve; merito di Marcello Mastroianni, protagonista di Divorzio all’italiana. Nel film di Pietro Germi del 1961, il “divo involontario” (come da titolo della biografia dedicatagli da uno dei suoi amici più intimi, Costanzo Costantini) è il barone Cefalù, fedifrago dalla condotta discutibile ma raffinatissimo, col bocchino tenuto sempre di sbieco, le robe de chambre, gli abiti gessati, le cravatte scure sulla camicia inamidata e, giustappunto, la montatura del produttore torinese.

Marcello Mastroianni Divorzio all'italiana
Marcello Mastroianni in Divorzio all’italiana

Dopo qualche anno, precisamente nel 1968, a consegnare al mito il 714, “fratello” della montatura di punta della casa (che, alle succitate qualità costruttive ed estetiche, aggiunge una novità capace di innescare una rivoluzione copernicana nell’eyewear, cioè la struttura folding, che permette di piegare l’accessorio fino a fargli assumere la dimensione di una singola lente) è Steve McQueen. Ne Il caso Thomas Crown, l’attore di cui Vasco Rossi sognava di emulare la vita spericolata indossa i panni – sartoriali, s’intende – del miliardario blasé dedito alle rapine, da compiere però in azzimati completi tre pezzi, maglioni Aran color burro e giacche Harrington; outfit che, inizialmente, non comprendevano i sunglasses Persol, McQueen tuttavia se n’era invaghito e li inforca in questa e altre pellicole capitali della sua filmografia, nell’ordine Bullitt, Getaway!, Le 24 ore di Le Mans, come pure fuori dal set.

Persol Steve McQueen
Thomas Crown/Steve McQueen con i Persol 714 (ph. by Silver Screen Collection/Getty Images)

Persol e Hollywood, un legame solido oggi come ieri

A quel punto il legame con la settima arte è solido, negli anni a venire si snoderà attraverso collaborazioni con le principali manifestazioni internazionali (dalla Mostra del Cinema di Venezia ai Nastri d’argento), campagne pubblicitarie che arruolano fascinosi interpreti americani (Vincent Gallo, Scott Eastwood), uno stuolo di utilizzatori famosi da who’s who hollywoodiano, prima Al Pacino, Jack Nicholson, Isabella Rossellini, poi Leonardo DiCaprio, Ryan Gosling, Daniel Craig, Adrien Brody, Jay-Z, Chris Pine, Alexander Skarsgård, l’Armie Hammer di Chiamami col tuo nome… Star del firmamento cinematografico conquistate, al pari dei comuni mortali, dal connubio di charme e impeccabilità tecnica del modello, frutto del certosino lavorio (richiede giorni interi) necessario per assemblare, a mano, gli oltre 40 componenti di ogni paio nella fabbrica di Lauriano, non troppo distante da Torino.
Persol, insomma, costituisce un ottimo esempio della decantata eccellenza artigiana del Paese, tutelata finanziariamente da Luxottica, gigante del settore che ne ha rilevato la proprietà nel 1995.

Pierce Brosnan
LOS ANGELES, CA – FEBRUARY 08: Rapper Jay-Z arrives at the 51st Annual Grammy Awards held at the Staples Center on February 8, 2009 in Los Angeles, California. (Photo by Larry Busacca/Getty Images)

Ryan Gosling (ph. by Derek Storm/Splash News), Adrien Brody (ph. by Alfonso Catalano/SGP Italia), Pierce Brosnan, Jay-Z

Rivisitazioni d’autore di un’icona dell’eyewear

Si diceva all’inizio della collab con Dolce&Gabbana, d’altronde anche le icone hanno bisogno di aggiornamenti, seppur minimi, per perpetuare la loro allure scansando, al contempo, l’effetto reliquia. La prima risale al 2020, e consta di tre combo cromatiche (con montature in acetato marrone, avana o bianco matt abbinate, rispettivamente, a lenti sfumate nelle tonalità del verde, nocciola e grigio) messe a punto da Jean Touitou di A.P.C., maison parigina che ha fatto dell’abbigliamento basic di buona fattura un (proficuo) credo di stile.

Persol A.P.C. collezione
Le colorazioni della collezione Persol x A.P.C.

L’anno seguente, il bis con un’iniziativa ancor più sorprendente perché coinvolge il brand omonimo di Jonathan Anderson, avanguardista lambiccato uso ai concettualismi, in teoria lontano dal design timeless del best-seller del marchio. Lo stilista nordirlandese, in questo caso, si limita a screziare di colori carichi (rosso, blu) o tenui (ambra, rosa, degradé) frontale e aste dell’originale; un intervento che non intacca minimamente l’essenza dei 649, accessorio che – confida Anderson a Esquire – «mi fa pensare all’idea stessa di perfezione». Se lo dice una delle voci più autorevoli della moda contemporanea, c’è da crederle.

JW Anderson Persol
Il 649 secondo JW Anderson (ph. by Tyler Mitchell)

Persol 649 sunglasses

 

Models to follow: Marcello Thiam

Videomaker, pilota di droni, project manager di The Drop, con cui si dedica allo scouting e promozione di talent che gravitano attorno al design, alla musica, all’arte; quella del modello è solo una delle voci che infittiscono la biografia di Marcello Thiam, ragazzone (è alto quasi due metri) che colpisce per la spigliatezza dei modi e la convinzione nelle proprie idee.

Manintown models to follow
Tank top Sloggi, denim pants Palace x Evisu, shorts Ecko, underwear Supreme, belt, jewels and watch talent’s own

Dreadlock e barbetta incolta, trasmette la sicurezza di chi è riuscito a fare di una presunta “diversità” il tratto saliente del suo lavoro, il perno di una pratica creativa che abbraccia con entusiasmo ambiti più o meno affini, attraverso cui tentare di «esprimere un punto di vista unico in quanto risultato di un certo vissuto, di un percorso».

Da quanto fai il modello e come ti sei avvicinato a questo mondo?

Da due anni, mi ci sono avvicinato mosso da un interesse personale; ho sempre avvertito la necessità di crearmi outfit “giusti”, efficaci, riservando una cura maniacale alla scelta di cosa indossare, capi tecnici piuttosto che firmati dai grandi nomi del settore, così da combinare performance e contenuto fashion. Tramite l’Accademia di Belle Arti di Roma, poi, ho sfilato ad AltaRoma, in precedenza avevo partecipato a campagne per Nike e Diadora. Quest’anno, inoltre, sono stato invitato come guest all’ultimo show di Missoni, insieme a Haroun Fall.

Quali traguardi ti sei fissato nel modelling?

Vorrei contribuire a rimuovere una visione della moda un po’ antiquata, che resiste soprattutto a Roma (per Milano vale un altro discorso). Per questo collaboro con gli studenti dell’Accademia alla realizzazione di progetti e concept inediti, alternativi. Dall’anno scorso, ad esempio, curo con altre persone The Drop, evento itinerante che mira a supportare i giovani talenti.

“ho sempre avvertito la necessità di crearmi outfit ‘giusti’, efficaci”

models to follow Manintown
Tank top Sloggi, denim pants Palace x Evisu, shorts Ecko, sneakers Air Jordan, bandana A Bathing Ape, jewels and watch talent’s own

L’hai appena menzionato, sei il project manager di un progetto che«hal’obiettivo di fornire uno spazio di libera espressione a designer e artisti»; vuoi spiegarci nel dettaglio di cosa si tratta?

È stato avviato nel 2021, dopo il picco della pandemia, in un momento in cui sentivamo la necessità di vivacizzare il panorama socioculturale capitolino con qualcosa di diverso. Per fortuna siamo stati compresi e aiutati da altre realtà che stavano già prendendo piede in città, hanno colto subito la lungimiranza dell’iniziativa, la nostra volontà di impegnarci nella promozione di talent emergenti. The Drop è nato così, fondamentalmente è una serata nella quale tutto ruota intorno a un designer, collezione o performance, ogni volta però cambiamo location, mood, tipo di musica ecc. per adeguarci al progetto specifico, dandogli il massimo dello spazio – e della valorizzazione.

Manintown fashion shooting 2022
Jacket Supreme, denim pants Palace x Evisu, shorts Ecko, durag A Bathing Ape, sneakers Air Jordan, jewels and watch talent’s own

Citavi Haroun Fall, sul tuo Instagram compare in effetti parecchie volte, che rapporto avete?

È il mio coinquilino, un grandissimo amico. Mi ha suggerito lui di intraprendere una carriera in quest’ambito, del resto se in precedenza volti e misure unconventional non godevano di molta considerazione, ora si è diffusa una certa insofferenza per tutto ciò che veniva reputato “conforme”. È un mondo che attrae entrambi, ci sproniamo a vicenda, proviamo a esprimerci su più piani restando fedeli alle nostre idee, lasciandoci coinvolgere dalle tendenze ma portando avanti, in parallelo, una ricerca personale.
Inoltre essendo italo-senegalesi abbiamo background abbastanza simili, possiamo capire le difficoltà incontrate da persone black che operano in industrie come quelle della moda o dello spettacolo, confrontandoci sull’argomento. Haroun è un artista a tuttotondo, cerco come lui di dedicarmi a molteplici attività, dal videomaking al pilotaggio dei droni, all’organizzazione di eventi, provando a esprimere un punto di vista unico in quanto risultato di un certo vissuto, di un percorso.

“Sentivamo la necessità di vivacizzare il panorama socioculturale capitolino con qualcosa di diverso”

Altra passione che traspare dal feed IG è quella per il basket

Provo un grande interesse per questo sport, sarà che non mi sono mai ritrovato nel calcio né in altre discipline praticate abitualmente in Italia. Nel basket, invece, colgo connessioni stimolanti, ad esempio con l’industria fashion: le stelle dell’NBA, penso su tutti a LeBron James, ormai sono delle vere icone di stile, seguite e ammirate ovunque. Diciamo che, nel complesso, mi trasmette degli ideali culturali, estetici ed espressivi, è qualcosa di più di una semplice competizione sportiva.

La pallacanestro influenza anche il tuo modo di vestire?

Sicuramente nel mio stile riscontro elementi black e americani, più di tipo musicale che sportivo però. Ammetto di essere un profano in materia di musica italiana, mia madre mi faceva ascoltare jazzisti e brani sudamericani, mio padre giganti come Bob Marley, James Brown, Fela Kuti, Tupac… Sono cresciuto immedesimandomi in una realtà che non mi rispecchiava, capendo che avrei potuto trovare personalità cui ispirarmi per altre vie, attraverso canzoni, film, viaggi. Tutto ciò ha inevitabilmente condizionato il mio stile e ciò che faccio – e vorrei fare – nei lavori da modello.

Manintown fashion editorial 2022
Tank top Sloggi, denim pants Palace x Evisu, shorts Ecko, sneakers Air Jordan, bandana A Bathing Ape, jewels and watch talent’s own

Restando sul tuo stile, come vesti solitamente? Opti per una divisa quotidiana o vari il più possibile?

Nella vita quotidiana prediligo abiti sfruttabili appieno, con molte tasche (facendo il videomaker devo portarmi dietro caricatori, card, attrezzi…), la componente utility è fondamentale.
Poi presto attenzione all’aspetto della sostenibilità, che comporta fibre naturali, materiali preferibilmente riciclati, finissaggi non tossici… Sono caratteristiche che controllo, prima di acquistare voglio informarmi sul paese di provenienza di un capo, oppure sul modo in cui è stato confezionato.

“Credo che i settori creativi siano tutti collegati, è fondamentale seguirli, conoscerli a fondo”

Marchi o stilisti da inserire in una personale lista dei desideri?

Senz’altro Kanye West, poi sarebbe stato un sogno collaborare con Virgil Abloh, per Off-White o Louis Vuitton. È stato un mito, ha reso accessibile determinati mondi a persone che prima ne erano totalmente escluse, e lo sarebbero ancora se non ci fossero stati lui o Ye; hanno integrato la cultura black nel proprio lavoro, attuando una rivoluzione dall’interno.

Su quali progetti stai lavorando al momento? Pensando al futuro, invece, cosa ti auspichi?

Attualmente sto lavorando con Silverback, brand che ha debuttato di recente nel mercato nostrano. Si focalizza sul basket 3×3, incluso dal 2020 nelle Olimpiadi ma ancora poco conosciuto qui.
Oltre a proporre collezioni streetwear, alla Supreme per capirsi, hanno allestito una struttura mastodontica ad Ancona. Vogliono fare le cose in grande, collaborando con preparatori atletici, tattoo artist, studi di design, mettendo insieme ambiti differenti. È un po’ ciò che mi ripropongo io, credo che i settori creativi siano collegati, è fondamentale seguirli, conoscerli a fondo, così da stabilire il maggior numero possibile di relazioni, umane e professionali.

male models follow 2022
Jacket Supreme, tank top Sloggi, denim pants Palace x Evisu, shorts Ecko, durag A Bathing Ape, sneakers Air Jordan, jewels and watch talent’s own

Credits

Model Marcello Thiam

Photographer & art director Dario Tucci

Nell’immagine in apertura, Marcello indossa giacca Supreme, canotta Sloggi, jeans Palace x Evisu, shorts Ecko, durag A Bathing Ape, sneakers Air Jordan, gioielli e orologio talent’s own

‘Reflecting Pasolini’, le fotografie di Ruediger Glatz rileggono vita e opere di PPP

A cent’anni dalla nascita, la figura di Pier Paolo Pasolini non ha perso un grammo della propria forza, dell’icasticità di opere che hanno segnato come poche altre la letteratura, il cinema, la politica, in breve la società italiana del Novecento, riverberandosi nel lavoro di autori che continuano ad esaminarne l’eredità artistica, le sfaccettature forse meno evidenti, ma ugualmente pregnanti, del suo opus.

Reflecting Pasolini mostra
L’allestimento della mostra Reflecting Pasolini al Palazzo delle Esposizioni, a Roma

Lo prova una mostra in corso di svolgimento al Palazzo delle Esposizioni romano, in cui l’obiettivo di Ruediger Glatz (fotografo 47enne i cui ritratti concettuali, quasi esclusivamente in bianco e nero, appaiono immersi in un flusso temporale impetuoso, vibrante) si sofferma su aspetti precipui del lavoro di PPP, ossia i film da lui diretti e il rapporto coi luoghi che più lo hanno influenzato, sul piano creativo e umano, indagati nelle oltre 60 fotografie che compongono due serie distinte.

Embodying Pasolini performance
La sala dell’esposizione con le foto della serie Embodying Pasolini

Due serie fotografiche celebrano l’eredità artistica di Pasolini

Nella prima, Reflecting Pasolini – questo il titolo della personale curata da Alessio de’ Navasques, che resterà aperta fino al 4 settembre, si passano in rassegna pellicole seminali della filmografia pasoliniana, Il Vangelo secondo Matteo, Porcile, Il Decameron, Uccellacci e uccellini, Edipo re…; vengono evocate attraverso i monumentali – in tutti i sensi – costumi di Danilo Donati, interpretati, è il caso di dirlo, da una performer d’eccezione, Tilda Swinton, attrice dalla carriera stellare (coronata, nel 2020, dal Leone d’oro consegnatole a Venezia), nonché personificazione di uno stile androgino sommamente chic, corteggiatissima dalle griffe per la facilità con cui riesce a valorizzare anche le mise più ardite.
Esattamente un anno fa, infatti, la musa di Jim Jarmush era la star dell’happening Embodying Pasolini, chiamata a vestire gli abiti di scena dei film citati, ricercando al loro interno, nelle pieghe e sgualciture del tessuto di cimeli provenienti da set passati alla storia, gesti e pensieri dei personaggi che li avevano indossati sullo schermo e, quindi, l’essenza stessa del cinema dell’intellettuale friulano.

Tilda Swinton Pasolini
Credits: Ruediger Glatz, Embodying Pasolini, performance di Tilda Swinton e Olivier Saillard con Gael Mamine – Mattatoio, Roma, 2021

Ad accompagnare la performance, svoltasi al Mattatoio di Roma, erano stati proprio gli scatti di Glatz (sodale di lunga data del curatore, Olivier Saillard), ospitati adesso in una sala al pianoterra dell’edificio di via Nazionale, affissi alle pareti di quella che si configura come una specie di stanza temporale, deputata a raccogliere il ciclo fotografico che ricapitola visivamente l’esibizione.
L’autore tedesco non si limita, effettivamente, a documentare quanto accaduto, ma come un novello esponente della Subjektive Photographie (movimento degli anni ‘50 che opponeva, alla mera registrazione, la necessità di un’interpretazione soggettiva del dato reale), sottopone la pellicola a esposizioni prolungate o multiple, ottenendo riflessi e sdoppiamenti dell’immagine, che rendono appieno il pathos emanato dalla Swinton durante la prova.

Tilda Swinton performance 2021
Credits: Ruediger Glatz, Embodying Pasolini, performance di Tilda Swinton e Olivier Saillard con Gael Mamine – Mattatoio, Roma, 2021

Tilda Swinton “interpreta” i costumi più noti della filmografia pasoliniana

Da sola o attorniata da collaboratori che l’aiutano a vestirsi, in posa con tutta la ieraticità di cui è capace o colta nell’atto di saggiare la consistenza del capo o accessorio di turno, col volto camuffato o nature, l’inconfondibile pixie cut argenteo sempre pettinato all’indietro, l’attrice domina ogni fotogramma, stagliandosi nettamente sul black&white dell’insieme. La vediamo – o intravediamo, dati i succitati effetti ottici – avvolgersi negli abiti liturgici commissionati dal regista per il Vangelo (ricalcati a loro volta, mitra torreggiante inclusa, sulla raffigurazione fattane da Piero della Francesca in alcuni affreschi), oppure nel tabarro di velluto drapée del narratore de I racconti di Canterbury (lo stesso Pasolini).

Altrove si muove delicatamente sul palcoscenico, come danzando, nonostante sia appesantita dalle imponenti tuniche bicolori dell’Edipo re, indugia sui tessuti sfarzosi del guardaroba de Il fiore delle Mille e una Notte, esamina i simboli della vanità femminile che fu, ripescati dall’archivio di Salò o le 120 giornate di Sodoma (corsetti, cappellini, un bouquet floreale), infila il completo scuro e il trilby sfoggiati da Totò in Uccellacci e uccellini, esibendo una mimica indecifrabile.

Pasolini Tilda Swinton
Credits: Ruediger Glatz, Embodying Pasolini, performance di Tilda Swinton e Olivier Saillard – Mattatoio, Roma, 2021

I singoli momenti dello show, insieme al volto ineffabile della protagonista, trasfigurato dall’intensità della performance, rappresentano il punctum delle foto – Roland Barthes, nel fondamentale La camera chiara (1980), lo descrive come «quella fatalità che […] mi punge (ma anche mi ferisce, mi ghermisce)», all’interno del quale i leitmotiv della cinematografia di Pasolini, veicolati dalla Swinton, si riflettono e rifrangono. Da qui la presenza, nel titolo, del verbo reflecting, alla base in realtà dell’intero progetto, completato da immagini di On PPP, che costituiscono un’ideale topografia pasoliniana.

On PPP: un itinerario sulle tracce dello scrittore e regista

Pasolini Roma serie fotografica
Credits: Ruediger Glatz, On PPP, La chiesa di San Felice da Cantalice a Centocelle dal film Accattone, Roma 2022

Nella sala adiacente alla prima, ecco perciò un itinerario sulle tracce dell’autore degli Scritti corsari, tra le ormai note borgate romane, scelte come ambientazioni delle pellicole più rappresentative, eremi in campagna e scorci che esemplificano bene la natura agreste da lui mitizzata.
Il fotografo cattura la luce che investe le architetture di quartieri quali Centocelle o Quadraro, la placidità lacustre di Villa Feltrinelli (ultima residenza di Mussolini, presa a modello per la Salò del film), alternando frammenti (ammassi di sterpaglie, le canne al vento in un parco, una finestra in controluce, le pietre dell’amato rifugio a Torre di Chia, in provincia di Viterbo) e panoramiche, come la foto scattata dall’alto dei tetti del Mattatoio, che abbraccia con lo sguardo il Gazometro. Glatz, in definitiva, sembra voler condividere coi visitatori le coordinate di una mappa (anche) emotiva che, nel centenario di PPP, offre prospettive inedite sulla legacy di uno dei massimi pensatori italiani.

Pasolini Salò film villa
 Credits: Ruediger Glatz, On PPP, Il Grand Hotel Villa Feltrinelli, Salò, 2022

Mattatoio Roma Pasolini
Credits: Ruediger Glatz, On PPP, Vista dai tetti del Mattatoio verso il Gazometro, Roma 2022

Nell’immagine in apertura, credits: Ruediger Glatz, Embodying Pasolini, performance by Tilda Swinton and Olivier Saillard, Mattatoio, Rome, 2021

I 3 brand sostenibili del momento

Acclarato che la sostenibilità è cosa buona e giusta, il punto, per le griffe alle prese con un tema ormai ineludibile, è tenere insieme dettami green e una ricercatezza nel design in grado di scacciare l’associazione degli stessi (il più delle volte frutto di pregiudizio, ma tant’è) con uno stile anonimo, penitenziale. I tre marchi di quest’articolo provano, appunto, come sia possibile conciliare le due esigenze, per la felicità dell’ambiente oltreché dei consumatori.

Veja

Veja sneakers vegane

I numeri di Veja sono oggi ragguardevoli (fatturato in costante crescita, 3000 rivenditori in 60 stati, «prodotto sostenibile più venduto nel 2020» secondo Lyst, un’eccellente rosa di collaborazioni), eppure fino a qualche tempo fa in pochi avrebbero scommesso su una start-up di calzature vegane, guidata da un duo pressoché estraneo al fashion world. Sébastien Koop e François-Ghislain Morillion, infatti, lavoravano per una Ong di consulenza sull’impatto ambientale; frustrati dal velleitarismo in materia di tanti, troppi brand, nel 2005 mettono su la società, individuando nelle sneakers il prodotto giusto per far breccia nei desideri dei clienti.
Concepiscono la sostenibilità come un modus operandi, declinabile in ogni singolo passaggio del modello aziendale, dalla scelta dei materiali (cotone biologico, gomma naturale, fibre ottenute da plastiche riciclate o scarti della filiera alimentare…) ai salari equi dei lavoratori. La certificazione B corp (assegnata ad aziende che si distinguono per l’impatto positivo del proprio operato su persone e ambiente) è la logica conseguenza di tali, virtuosi pratiche.

Mansur Gavriel Veja sneakers
Veja x Mansur Gavriel

Le trainers in catalogo fanno propri gli stilemi degli anni ‘70, quando quelle che allora erano “solo” scarpe da ginnastica (gli sneakerhead erano di là da venire) presentavano un aspetto funzionale, senza fronzoli. Un design semplice eppure efficace, raffinato dalle collab – cui si accennava – con la migliore intellighenzia fashionista (leggesi Agnès b., Lemaire, Bleu de Paname e altri ancora). Le ultime recano la firma di Mansur Gavriel (ginniche in tonalità candy) e Marni, che ha provveduto a scarabocchiare le tomaie con ghirigori energici. Perfino Rick Owens, profeta della moda goth tutta cupezze e slanci scultorei, ha messo mano volentieri, in più occasioni, alle scarpe Veja, in una “collisione creativa” – così è stata ribattezzata – risoltasi in piccole ma decisive modifiche, tra allacciature incrociate, nuance acide e suole stratificate.

Veja Rick Owens collab
Veja x Rick Owens

Re/Done

Dare nuova vita – e stile – ai jeans dismessi, dissezionati e ricomposti per attualizzarne le vestibilità mantenendo, però, la patina used, autentica, che distingue l’abbigliamento vintage: è questa, in sostanza, l’idea perseguita con profitto da Sean Barron e Jamie Mazur sin dalla nascita della label, nel 2014. Un’attività intrinsecamente sostenibile, assai laboriosa, tanto che il primo lotto, appena 300 paia di denim pants Re/Done (nomen est omen), è il risultato di nove mesi di tentativi e ricerche per arrivare ai fit desiderati, a vita media e skinny oppure dalle forme più gentili, sold out in men che non si dica sull’e-shop approntato dai fondatori.

Redone jeans men
Sean Barron e Jamie Mazur nell’headquarter Re/Done (ph. by Jace Lumley)

Nel laboratorio losangelino del brand vengono convogliate cataste di vecchi Levi’s, sottoposti a un certosino lavoro di taglia e cuci che li tramuta in cinque tasche dall’allure contemporanea, unici perché, essendo il processo di upcycling interamente manuale, nessun esemplare può essere identico.
Il successo dei jeans, prontamente adottati dalla fauna modaiola (supermodel – Kendall Jenner, le sorelle Hadid, Emily Ratajkowski, Hailey Bieber, Kaia Gerber, Candice Swanepoel – in testa), convince Barron e Mazur a dotarsi di una linea apparel (che reimpiega, tra le altre, t-shirt di seconda mano fornite dal produttore Hanes) e collezioni maschili. Un paio di capsule collection ben assestate, in tandem con G.H. Bass & Co. (per mocassini che stillano vibe rock, tra motivi animalier e borchie) e The Attico (per capi arricchiti da strass, nastri, grafiche retrò, particolari vezzosi), fanno il resto, cementando la notorietà di un’etichetta venduta in decine tra department stores e mecche dello shopping di nicchia, on e offline, da LuisaViaRoma a Saks Fifth Avenue passando per Antonia, 10 Corso Como, Net-A-Porter, The Boon Shop, Harrods, Kith

Redone jeans collezioni

Blowhammer

Applicare allo streetwear, segmento generalmente avido di novità consumate a ritmi frenetici, i diktat dell’eco-responsabilità, che contemplano molteplici sfide e opportunità. È questo l’obiettivo di Blowhammer (in inglese “colpo di martello”, a sottolineare la dirompenza del progetto), marchio con sede a Nola che fonda la sua filosofia su principi quali la libertà d’espressione, l’autodeterminazione, la ricerca di un’identità creativa che assecondi totalmente le proprie idee e gusti.

Blowhammer brand
Blowhammer

Prima ancora che di azioni (invero esemplari, l’azienda opera quasi esclusivamente sul web, implementando un modello di produzione just in time che, pur velocizzando gli ordini, riduce al minimo emissioni di CO2, invenduti, giacenze di magazzino e scarti, occupandosi inoltre di riciclare o smaltire correttamente gli articoli inutilizzati), il founder e Ceo Salvatore Sinigaglia ne fa una questione di valori, perché, afferma, «chi ci sceglie non indossa solo una maglia o una t-shirt, ma una vera e propria storia che racchiude visioni, aspirazioni, desideri».

Blowhammer collezione
Blowhammer

Scevre dall’omologazione, le collezioni si distinguono per lo stile sincretico, un blend di contaminazioni provenienti da musica, arti figurative, sport, subculture. Si inserisce in quest’ottica la collaborazione con EasyWeasy, Giovanni Maisto e Paskull, tre giovani artisti scelti da Blowhammer per personalizzare altrettante capsule. Il primo, con Outworlds, si serve del digital painting per compiere un viaggio spaziotemporale verso universi altri, massimalisti e alienanti, reso attraverso la ripetizione di figure geometriche, arzigogoli fluo e simboli architettonici. Il secondo usa per Organik la medesima tecnica, tracciando sul tessuto composizioni colorful dal sostrato sci-fi, sul crinale sottile tra realtà e finzione. Il tatuatore Pasquale D’agostino aka Paskull, da ultimo, sparge nella linea OverminD i suoi soggetti preferiti, demoni, teschi e falene bianche su fondo nero.

Felpa della collezione OverminD

Nell’immagine in apertura, una foto della campagna di lancio della collezione Veja x Marni

‘Second Life – Rinascita’, un racconto per immagini dei luoghi abbandonati della Sicilia

Palazzi, chiese, dimore fatiscenti sparse nel territorio siciliano che diventano il palcoscenico di mise-en-scène estemporanee, ispirate da plurime fonti (miti, personaggi biblici, capolavori del cinema, dipinti ottocenteschi…). Oreste Monaco, fotografo e art director catanese, fa un utilizzo metaforico di questi spazi disabitati, fissati su pellicola con l’intento di stimolare una riflessione su due tematiche speculari: lo stato di incuria in cui versano strutture (anche) di grande rilevanza storica e l’abbandono della propria individualità, indotto dai ritmi forsennati, il più delle volte insostenibili, che regolano le nostre vite. «Come questi luoghi sono stati abbandonati a loro stessi, allo stesso modo capita che le parti più belle di noi vengano lasciate nell’ombra», specifica l’artista.

Second life rinascita
Ph. Oreste Monaco

Abbiamo approfittato dell’inaugurazione della mostra Secondo Life – Rinascita, da sabato 30 luglio nei bassi di Palazzo Ducezio, a Noto (dal 2 agosto si sposterà poi, fino al 30 settembre, nella Sala Gagliardi di Palazzo Trigona), per rivolgergli qualche domanda sull’iter produttivo, le influenze e gli obiettivi dell’exhibition. 

“Per quanto sia problematica e complessa, la decadenza è fondamentale, una specie di precondizione”

È previsto per il 30 luglio il vernissage di Second Life – Rinascita, ci racconti la genesi del progetto?

Essenzialmente è nato col mio ritorno in Sicilia, dopo aver vissuto per anni a Milano e poi in Spagna. Durante la pandemia ho deciso di fare ritorno alla mia terra, cominciando a sperimentare, a esplorare i paesi etnei. Un giorno sono andato a vedere la villetta dove sono cresciuto e, sulla strada del ritorno, ho notato una casa abbandonata; entrandovi, ho riflettuto su come sarebbe stato mettersi a nudo in un ambiente che, per quanto scomodo e difficile, trovavo senz’altro suggestivo. Così, insieme a un’amica, ho iniziato a realizzare scatti di nudo all’interno di quest’abitazione fatiscente.
Col tempo ho voluto approfondire due temi affini, l’abbandono degli edifici (nella regione sono davvero tanti, incluse costruzioni di enorme valore, tra cui una chiesa di Noto, in disuso nonostante sia patrimonio dell’umanità) e quello di se stessi, dell’individualità, sacrificata da molti per rincorrere il successo, lontano dalle proprie origini.
Penso che le nostre parti migliori vengano lasciate spesso al buio, proprio come i luoghi disabitati che fotografo; solo noi possiamo riportarvi la luce, seppur nel mio caso in maniera effimera, attraverso set ricreati appositamente per lo shooting, un faro puntato su un argomento per me rilevante, per stimolare una riflessione. Sviluppando il progetto, inoltre, ho capito che mi spronava a ritrovare il contatto con la natura, con valori semplici che però mi fanno star bene.

Second Life Oreste Monaco
Metamorfosi, ph. Oreste Monaco

“Penso che le nostre parti migliori vengano lasciate spesso al buio, proprio come i luoghi disabitati che fotografo”

Individui il fil rouge delle immagini nel «fascino della decadenza», come a voler conferire un’accezione positiva a un termine solitamente sinonimo di abbandono, dissolutezza, sciatteria…

Esattamente, perché ciò che è decadente in precedenza non era tale, ha una storia. È come comprare un oggetto in un mercatino, sebbene sia malandato e scheggiato può raccontarci qualcosa, nasconde dei significati. Il fascino della decadenza si ricollega poi alla voglia che suscita nell’osservatore di superarla, di restaurare una condizione pregressa, come fosse un incipit che sprona al cambiamento.
In fondo accade lo stesso con le persone, possiamo scorgere il bello anche in uomini e donne che dall’esterno ci appaiono in difficoltà, perse. C’è della bellezza in tutto ciò, nel notare la vulnerabilità altrui superando la retorica imposta dai social, che ci inducono a mostrare solo la parte migliore della nostre vite, una finzione che in realtà ci spinge alla tristezza.
Per quanto sia problematica e complessa, la decadenza è fondamentale, una specie di precondizione; abbracciandola, posso comprendere come far risplendere luoghi, menti e persone.

mostra nudo artistico
Medusa, ph. Oreste Monaco

“Second Life – Rinascita è una selezione di storie, delle fiabe se vogliamo”

Riferendoti ai luoghi ritratti parli del valore «terapeutico» associato all’esplorazione degli stessi, di «viaggio introspettivo per riscoprire lati di me». Puoi approfondire questi e altri concetti chiave del lavoro?

Ho avuto un forte rapporto con la natura fin da piccolo, e sono riuscito a mantenerlo. Sentivo puntualmente la necessità di evadere dalle metropoli in cui vivevo, sebbene mi avessero dato tanto e ne percepisca ancora l’attrattiva, al momento sono qui ma in futuro chissà. Ad ogni modo, il contatto con l’ambiente che ci circonda per me era e resta importantissimo, penso ci aiuti a dimenticare, almeno momentaneamente, meccanismi, regole e costrutti sociali alla base della quotidianità, dalla necessità di costruirsi una carriera all’orario lavorativo di 40 ore settimanali.
Vivendo così intensamente la natura, avverto il bisogno di ritagliarmi dei momenti a contatto con essa, fosse solo la pausa pranzo al parco. È una necessità comune a tutti, credo, in quanto esseri umani sentiamo un richiamo ancestrale, innato, eppure finiamo pian piano col perderlo. Gli edifici di cui vado alla ricerca, guarda caso, sono quasi tutti distanti dai centri urbani, abbandonati proprio perché lontani da questi ultimi, dai ritmi che li caratterizzano. Rischiamo di sacrificare il nostro essere per cose che ci auto-imponiamo, scegliendo città affollate e caotiche, complicandoci la vita da soli.

mostra Noto estate 2022
La scala, ph. Oreste Monaco

Mettendo insieme questo corpus fotografico hai potuto visitare numerosi magioni, basiliche, palazzi dismessi dell’entroterra siciliano, ce n’è qualcuno che ti ha particolarmente emozionato?

Li ho scoperti tutti grazie a Carlo Arancio, la mia guida. Il primo amore non si scorda mai e lo condivido con lui, una villa nei pressi di Giarre, con le pareti affrescate. A pensarci bene, tuttavia, il ricordo più significativo è legato forse alla casetta di tre stanze di cui dicevo all’inizio; la decisione di avviare il progetto è scaturita da lì.

“Vorrei arrivare a persone distanti da me, che magari guardando le foto comprendano che certi temi vengono dibattuti da sempre”

Hai appena citato la collaborazione con Carlo Arancio di Sicily in Decay, un excursus visivo su quei «luoghi incantati» che hanno poi attratto anche te. Cosa apprezzi del suo lavoro?

Il coraggio, è continuamente in giro a scoprire questi posti e può essere davvero pericoloso, si può incappare in situazioni al limite, trovando persone che li abitano, giri strani, malintenzionati. Inoltre non si può mai sapere se e quanto siano stabili le strutture, a volte i tetti sono franati, i pavimenti pericolanti… Ci vuole coraggio, poi, per dedicare tutto quel tempo a un progetto di cui non si conosce l’eventuale ritorno economico, un modo di fare che trovo estremamente affascinante, proprio perché contrasta con gli obiettivi che ci si pongono oggi, proiettati al successo, al guadagno.
Mi sono lasciato ispirare da Carlo come da altre persone che vivono qui, decise a inseguire le loro passioni a tutti i costi.

Oreste Monaco
Il palazzo d’oro, ph. Oreste Monaco

“Per me il cristianesimo è una mitologia, al cui interno si possono tuttavia riscontare messaggi positivi”

Soffermandoti sull’universo pittorico ricreato nelle immagini, citi esplicitamente i Preraffaelliti, nell’exhibition sono confluite altre ispirazioni artistiche?

Le ispirazioni sono molteplici, le fotografie con Leona Vegas, per dire, si rifanno a Malèna di Tornatore; ho immaginato una Malèna queer, disprezzata in pubblico e desiderata segretamente. Guardo sicuramente, poi, alla mitologia greco-romana, rappresentando tra gli altri lo scontro tra Perseo e Medusa, che alla fine non avviene, perché il protagonista del mito si imbatte non in una creatura mostruosa, bensì in una bellissima ragazza dai capelli ricci. Dei Preraffaelliti riprendo ad esempio la figura di Lady Lilith, Lilit nell’Antico Testamento, prima moglie di Adamo, ripudiata e scacciata perché rivendicava i suoi stessi diritti, considerata a lungo dalla tradizione post-biblica un demone e, successivamente, riabilitata in quanto simbolo delle lotte femministe.
Un’altra opera riprende L’angelo caduto di Alexandre Cabanel, che diventa un custode chiamato a vegliare su un edificio disabitato.
Second Life – Rinascita è una selezione di storie, delle fiabe se vogliamo; sono ateo, per me il cristianesimo è una mitologia, al cui interno si possono tuttavia riscontare messaggi che, se interpretati e rielaborati, risultano positivi.

mostre fotografiche Sicilia 2022
L’angelo caduto, ph. Oreste Monaco

“È l’occhio a colpire la nostra attenzione, se qualcosa è bello ci spinge ad avvicinarci”

Cosa speri di lasciare ai visitatori di Second Life – Rinascita?

Mi auguro che colgano il significato delle storie, perlomeno di alcune. So di poter contare su amici e conoscenti che capiscono, e apprezzano, il mio lavoro, ma vorrei arrivare a persone anche molto distanti da me, che magari guardando le foto, leggendo le didascalie, comprendano che certi temi vengono dibattuti da sempre; Lilit dimostra come le donne combattano da secoli per affermare i propri diritti, Leona è un simbolo della comunità Lgbtq, storica seppure a lungo nascosta, e così via.
Si tende a etichettare determinate questioni come “mode” del momento, invece sono lì dalla notte dei tempi e, proprio affidandosi a figure realmente esistite, ad episodi storici, si può sperare di trasmetterle a tutti, imitando un po’ la religione, che si appella a esempi antichissimi per estrapolarne verità valide tutt’oggi. Devo sperare che l’estetica sia quella giusta, perché come nella pubblicità (dove ho lavorato a lungo) è l’occhio a colpire la nostra attenzione, se qualcosa è bello ci spinge ad avvicinarci, ad andare in profondità; per questo l’impostazione delle immagini è pittorica, simbolica, quasi didascalica.

Oreste Monaco opere
Lilith e Adamo, ph. Oreste Monaco

Oreste Monaco foto
Luci da palcoscenico, ph. Oreste Monaco

Oreste Monaco mostra
Equinozio d’autunno, ph. Oreste Monaco

Nell’immagine in apertura, Custode, foto di Oreste Monaco

‘Iddi’, in mostra a Noto i beautiful loser di Mariano Franzetti

La culla del barocco siciliano è pronta ad accogliere un drappello di visitatori oltremodo atipici, eppure irresistibili: saranno infatti on show dal 30 luglio al 30 agosto, nelle sale nobiliari di Galleria Palazzo Nicolaci, a Noto, gli umanoidi dai tratti sgraziati di Mariano Franzetti. Iddi, questo il titolo della mostra a cura di Federico Poletti, è la prosecuzione del progetto Putty Toys Tricky, avviato nel 2020, concepito dall’artista italo-argentino come un flusso libero che assume le sembianze di figure «dalle espressioni e movenze distorte, mai a loro agio né perfettamente collocate nello spazio»; o, per essere più precisi, di soggetti dalle fattezze irregolari, esasperate, a metà tra orrorifico e caricaturale ma, proprio per questo, esemplificativi di una bellezza non convenzionale, lontana dai canoni impostisi col tempo nell’arte, che ben riflette le contraddizioni della realtà odierna.

Mariano Franzetti artist

La community ugly but cool dell’artista nelle sale di Palazzo Nicolaci

Mariano Franzetti opere
Una scultura di Mariano Franzetti

Una sorta di armata Brancaleone, decisa a sfidare nozioni comunemente intese e dicotomie irrisolvibili (essenza versus apparenza, materia versus spirito), che vede tra le proprie fila personaggi surreali epperò ricercati, muniti spesso di capigliature appariscenti (ciuffi punk, creste ossigenate), parte di look altrettanto sgargianti che incorporano capi/accessori di griffe quali Prada, Saint Laurent, Celine, Bottega Veneta, tra color block, animalier, camicie stampate, chiodi di pelle e occhiali over. Visitando l’esposizione ci si trova di fronte, perciò, a beautiful loser che popolano un universo visivo stravagante, difforme, pervaso di ironia e disincanto. I meravigliosi perdenti del creativo si stagliano su disegni, dipinti policromi o grandi arazzi dalle tonalità pop, oppure prendono forma in bassorilievi e scoolture (così le definisce lui) di varie dimensioni, singole o disposte a gruppo, impilate per comporre piramidi dall’aspetto alquanto precario o raggrumate in vortici che strabordano da cornici circolari.

Sono impegnati nelle attività più disparate, fissati in atteggiamenti da poser vanesi o posizioni equivoche, che spesso fanno il verso ai topoi dell’iconografia classica (ad esempio deposizioni, naufragi, scenette simil-religiose, creature mitologiche), a cavalcioni su una mucca, sospesi a mezz’aria, o ancora nelle vesti (ultra posh, come si è detto) di prodi cavalieri che affrontano il mostro di turno.

Personaggi eccentrici ma decisamente cool, che riflettono le contraddizioni della società odierna

Proprio per rendere omaggio alle meraviglie della regione che lo ospita, la Sicilia, l’artista amplia il corpus scultoreo di Putty Toys Tricky con opere giocate sui contrasti cromatici, declinate tra gli altri in total black (a richiamare le pietre vulcaniche del territorio), oppure nelle nuance dorate dei rilievi barocchi; sono inoltre presenti, per la prima volta, proiezioni in modalità digital art.

La personale a Palazzo Nicolaci evidenzia come l’autore padroneggi le tecniche più diverse, di cui si serve per allestire tableau vivant colmi di simbolismi e allusioni, suscitando nel visitatore reazioni eterogenee, non di rado spiazzanti, in bilico tra curiosità e straniamento, che spingono a riflettere sui tanti (troppi?) stereotipi e incongruenze che affollano la nostra società. Il grottesco in salsa fashion – ugly but cool, per ricorrere nuovamente alle sue parole – di Franzetti diventa, dunque, una lente deformante attraverso cui provare ad analizzare la contemporaneità; uso della categoria che sorprende fino a un certo punto, se già Umberto Eco, nel saggio Storia della bellezza, ne aveva parlato come della «più ricca delle sorgenti che la natura possa aprire alla creazione artistica».

Palazzo Nicolaci Noto mostra


Nell’immagine in apertura, un arazzo dell’artista esposto a Palazzo Nicolaci

Models to follow: Sireno Zambon

I tratti efebici (grandi occhi cerulei, viso sottile, labbra carnose), unitamente ai capelli bleached (dovuti, specifica, all’hairstyling per uno specifico editoriale fotografico, tenuti perché «mi trovo decisamente a mio agio con questo colore») e all’innegabile je ne sais quoi, come lo definirebbero i francesi, rendono Sireno Zambon, 21enne, uno di quei modelli che restano impressi già al primo sguardo. Nella chiacchierata con Manintown confessa di essere debitore a Siermond (alter ego artistico del fotografo, videomaker e musicista Pasquale Autorino), che lo ha scoperto e immortalato in intensi ritratti dai toni seppiati, incoraggiandolo a proseguire.

model to follow Manintown
Denim shirt Polo Ralph Lauren, pants Dalmine, tank top OVS, sneakers Air Jordan, necklace Sting

I risultati cominciano a vedersi, con ingaggi che l’hanno portato di recente a salire in passerella per lo show di chiusura dell’edizione 2022 del concorso Who is on Next?, ad AltaRoma; appena una settimana fa, infine, la firma del contratto con la rinomata agenzia newyorchese Muse. Il suo sogno è poter affiancare, prima o poi, sfilate, shooting e affini ai set cinematografici o televisivi, nel frattempo tiene a sottolineare l’importanza del definire i propri limiti, concepiti come strumenti utili «a circoscrivere i traguardi da raggiungere».

Da quanto tempo fai il modello, e come hai iniziato?

Da circa un anno e mezzo, grazie a un fotografo, Siermond. Mi aveva chiesto di posare per lui, consigliandomi la mia agenzia madre attuale, cui si sono poi aggiunte la s2model, a Seoul, e dalla settimana scorsa la Muse per New York, adesso devo capire come muovermi sulla città di Milano.

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Denim shirt Polo Ralph Lauren, pants Dalmine, necklace Sting, bracelet Idontwannasell

Il traguardo più importante raggiunto finora?

Sono due in realtà, raggiunti entrambi recentemente. Innanzitutto sfilare al Campidoglio (il défilé di Who is on Next?, patrocinato da AltaRoma e Vogue Italia, quest’anno si è tenuto eccezionalmente ai piedi del Palazzo Senatorio, ndr), prestato per la seconda volta nella storia alla moda; un ottimo traguardo, emozionante, inoltre hanno assistito allo show designer come Alessandro Michele, Pierpaolo Piccioli e Silvia Venturini Fendi. Quindi, il contratto con l’agenzia Muse, di cui ho appena detto.

Il fashion system è parecchio affollato (eufemismo), quali sono a tuo parere le qualità che un modello deve possedere, oggi, per farsi notare e affermarsi nel settore?

In primis bisogna sapere ciò che si vuole, fin troppe persone affermano di volerlo fare per diventare famosi o ricchi. È fondamentale, invece, avere ben chiaro il tipo di percorso, i sacrifici connessi a questa professione, che come qualsiasi altra implica richieste, requisiti, anche qualità, certo, tra cui a mio giudizio intraprendenza, disponibilità, una mentalità aperta. Molti applicano al modeling gli stessi parametri che valgono per influencer o blogger, un mondo totalmente differente perché, se loro si autogestiscono in tutto e per tutto, noi siamo sì dei liberi professionisti, ma il tipo di lavoro che svolgiamo è caratterizzato da una serie di regole, non si può non adeguarvisi.

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Tank top OVS, pants Dalmine, necklace Sting, bracelet Idontwannasell

La prima cosa che salta all’occhio, guardando questi scatti, è l’hairstyle platinato, una scelta puramente estetica o c’è dietro qualcos’altro? In generale, ti piace variare look, sperimentando con tinte e acconciature?

Mi piace variare, sono sempre alla ricerca di novità, possono essere anche dettagli o piccole modifiche, che non comportino necessariamente stravolgimenti, vale per il modo di vestire (alterno streetwear ed elegante, casual e sartoriale) come per l’aspetto nel suo complesso.
Il biondo platino è dovuto a una richiesta di Siermond, aveva bisogno di un modello dai capelli ossigenati e gli ho dato subito la mia disponibilità. D’altra parte, non ho mai avuto grossi problemi rispetto ai cambiamenti di look, a meno che non fossero permanenti o invasivi, devo comunque rispondere a un’agenzia, ottenere il loro consenso. In linea di massima tendo a cambiare spesso, ammetto però che mi trovo decisamente a mio agio col colore di capelli di adesso.

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T-shirt Zara, pants Dalmine, necklace Sting, bracelet Idontwannasell

Hai già accennato all’argomento, ma come descriveresti il tuo stile?

Di base preferisco le tinte piatte ed evito loghi o scritte, le uniche t-shirt stampate che metto sono quelle delle band punk o rock che ascolto. Fondamentalmente, definirei il mio stile punk-rock, appunto, poco pulito perché ogni volta cerco di inserire nell’outfit qualcosa che stoni un po’, tranne nelle occasioni in cui è richiesto un determinato dress code, ovvio.

I tre brand più cool, secondo te?

Se parliamo di moda street mi piace parecchio Diesel, tra le griffe simbolo dell’eleganza cito Louis Vuitton. Aggiungo MCS Marlboro Classics, specialmente per alcuni pezzi vintage.

In ottica professionale, invece, per quali maison o designer sogni di sfilare/posare?

Louis Vuitton, di nuovo, Valentino (lo adoro) e Ralph Lauren, marchio che tende a essere sottovalutato ma propone a volte look estremamente interessanti. Poi i big, Gucci, Versace, ma più per un discorso di curriculum che per gusto personale.

Ci sono capi o accessori che reputi must di stile imprescindibili?

Uso regolarmente i pantaloni Diesel (hanno un’ottima vestibilità e si sposano alla perfezione col mio modo di vestire) e stivali in pelle alla cowboy. Ogni tanto opto per jeans over oppure a zampa, tra gli accessori sicuramente una bella cintura può fare la differenza.

Hai citato Siermond (alias Pasquale Autorino), cosa ti affascina della sua estetica?

Premetto che mi ha certamente influenzato, è stato lui a scoprirmi e, in parte, ha plasmato i miei giudizi sulla moda. Penso riesca a portare le sue idee su un piano superiore, fotografa un numero ristretto di soggetti, che considera muse da cui lasciarsi ispirare. Rimango tuttora legato al suo modo di concepire la fotografia, tengo sempre conto del giudizio di Siermond, per questo sul mio account Instagram ho taggato la sua pagina.

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Tank top OVS, pants Dalmine, sneakers Air Jordan, necklace Sting, bracelet Idontwannasell

Parlando di IG, sul tuo profilo la frase “define your limits” è in evidenza, cosa significa per te?

Tanti credono che definirli sia una cosa negativa, personalmente sono insofferente ad espressioni sul genere “non porti alcun limite”, è vero esattamente il contrario secondo me. Trovo sia importante fissarli, anche perché non ho una socialità particolarmente spiccata, sono spesso nel mio mondo, perciò individuandoli e comunicandoli posso aiutare gli altri a relazionarsi con me. Specifico, comunque, che per come la vedo io i limiti non vanno intesi come confini invalicabili, piuttosto circoscrivono i traguardi da raggiungere; quando si fissa l’asticella, viene stabilita una soglia da superare, e così ci si possono porre altri limiti, cioè obiettivi da centrare.

Dove ti vedi tra dieci anni?

Studio recitazione e, se devo esser sincero, mi piacerebbe combinare le due attività, lavorare come modello e attore. Mi è stato ripetuto più volte che sono due realtà incompatibili, vorrei smentire quest’affermazione. Aspiro a darmi un profilo nel modeling, possibilmente a livello internazionale e, in prospettiva, a recitare in inglese, continuando in definitiva a stabilire nuovi limiti.

Polo Ralph Lauren camicie 2022
Denim shirt Polo Ralph Lauren, pants Dalmine, tank top OVS, sneakers Air Jordan, necklace Sting

Credits

Talent Sireno Zambon

Photographer Xin Hu

Nell’immagine in apertura, Sireno indossa tank top OVS, pantaloni Dalmine, collana Sting, bracciale Idontwannasell

Ryan Cooper, entusiasmo e dedizione, sul lavoro e nella vita

Irradia energia Ryan Cooper, modello e attore con base a New York. Perennemente sorridente, barbetta incolta, muscoli guizzanti (esibiti anche nel servizio per Manintown che vedete qui, ad alto contenuto di carnalità) che indicano una scrupolosa devozione alla causa dell’allenamento (nel 2019 ha varato il programma wellness che porta il suo cognome), una parte nella dramedy di prossima produzione You Are Not Alone, che segue quelle in serie e film come Crazy Night – Festa col morto, Eye Candy e Confess, svariati lavori tra riviste maschili e marchi che contano, specie negli Stati Uniti (A|X Armani Exchange e Boss, per citarne un paio); eppure, fino a qualche anno fa, la sua vita era sideralmente distante dallo sfavillio delle mille luci newyorchesi.

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Nato 36 anni fa in Papua Nuova Guinea, da genitori missionari, svolgeva una professione del tutto canonica nell’edilizia; poi nel 2008, appena sbarcato nella metropoli della East Coast, la grande occasione, con la campagna DKNY Jeans Spring/Summer 2008, al fianco della supertop Behati Prinsloo. Da allora, Ryan passa senza batter ciglio dai set modaioli a quelli televisivi o cinematografici, sentendosi puntualmente gratificato in quanto «ogni ruolo mi lascia con nuove abilità o qualcosa in più che so di me, è tutto ciò che si possa desiderare», e apprezzando parimenti il lavoro nel modelling perché lo aiuta «a sentirmi a mio agio nel cinema».

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Come riportato dal sito Deadline, sarai nella pellicola You Are Not Alone, le cui riprese cominceranno a breve in Texas. Cosa puoi rivelarci del progetto?

È una bellissima storia vera, che racconta l’esperienza della sceneggiatrice Cindy McCreery col fratello, che ha assistito durante gli interventi di rimozione del cancro e della vescica. Il regista è Andrew Shea, lavorerò tra gli altri con l’attrice di The Surrogate Jasmine Batchelor.
Si tratta di uno dei ruoli più impegnativi tra quelli finora interpretati, perché dovrò onorare un’esperienza umana reale e, al tempo stesso, lasciarmi coinvolgere totalmente dalla storia.
C’è molto dolore fisico e imbarazzo nel film, ma alla base di tutto troviamo una famiglia che, in un periodo traumatico per il mio personaggio AJ, si riunisce per guarire aspetti del suo passato. Non vedo l’ora che esca.

Ryan Cooper attore
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Al cinema il battesimo del fuoco è arrivato nel 2017, nella commedia Crazy Night – Festa col morto , con un cast al femminile di prim’ordine (Scarlett Johansson, Zoë Kravitz, Demi Moore, Jillian Bell…), dove interpretavi uno spogliarellista. Che ricordo serbi di quel primo, importante set?

Lavorare con star del genere è stato incredibile. Ho potuto farne esperienza come esseri umani, prima che attrici, imparando molto da loro. Scarlett era davvero accogliente nelle scene, Jillian incoraggiante; quanto a Kate McKinnon, è stata una delle co-protagoniste più gentili in assoluto.

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Ci sono ruoli o generi che finora non ti hanno proposto e vorresti invece sperimentare?

Ho avuto la fortuna di impersonare villain ed eroi, cantare come una rockstar e torturare la gente. Trovo decisamente divertente poter spaziare tra vari personaggi.
Adoro i film cui ho preso parte, sinceri e sentiti, e altri ne verranno. Il mondo ha bisogno di pellicole che ci cambino, aiutandoci a riflettere dopo essere usciti dal cinema. Mi piacerebbe tanto, però, fare qualcosa con parecchie scene d’azione e, forse, ballare (al momento mi limito a farlo in salotto, quando sono solo). Ogni ruolo mi lascia con nuova abilità o qualcosa in più che so di me, è tutto ciò che si possa desiderare, sul serio.

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Da cultore del fitness, nel 2019 hai messo a frutto questa passione nel programma CooperFit, dedicato al wellness nel suo complesso, dall’allenamento alla meditazione. Un bilancio a riguardo?

CooperFit è stato lanciato dopo aver osservato i clienti, lavorando a stretto contatto con loro, e capendo così che le nostre barriere fisiche, o il mancato raggiungimento degli obiettivi, sono direttamente collegati al benessere mentale. Adoro aiutare le persone a perdere peso o metter su muscoli, ma a lungo termine il cliente viene gratificato maggiormente dall’essere favorito in relazioni più serene, oppure dal ricevere supporto nel raggiungimento di un obiettivo di vita. Le parole d’ordine, “cuore e salute”, indicano che le due dimensioni sono interconnesse, si influenzano reciprocamente.

Cooperfit
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Prima della recitazione, e poi in parallelo, hai lavorato ai massimi livelli come modello, esordendo in una campagna per DKNY Jeans nel 2008 e comparendo poi in editoriali e adv delle principali griffe e testate fashion (tra cui A|X Armani Exchange, Trussardi, Boss, Esquire, L’Officiel Hommes). C’è qualche esperienza, tra quelle citate e non, che ti abbia segnato, che ti capita di ricordare per un motivo preciso?

Il settore della moda mi era del tutto sconosciuto quando sono entrato a farne parte. Facevo il carpentiere, ero abituato al lavoro duro, perciò l’ambiente in questo mi è apparso estremamente agevole. Il lato più complicato del mestiere è invece quello relativo ai viaggi, al senso di solitudine che dà l’essere sempre in giro.
Mi sento privilegiato per aver avuto la possibilità di volare in mete incantevoli per gli shooting o incontrare persone artisticamente così dotate; nel complesso, però, tutto ciò ha solo rafforzato la comprensione del fatto che, in quanto esseri umani, lottiamo con situazioni che sono reali per noi, a prescindere dal contesto, e possiamo scegliere se impegnarci, crescendo, o eludere gli altri. C’è sempre un approccio diverso (gentile, egotico, collaborativo, battagliero…) per affrontare qualsiasi lavoro o persona, o il modo in cui ci vediamo.
Stare davanti all’obiettivo da modello mi ha aiutato a sentirmi a mio agio nel cinema. Allo stesso modo, lavorare sui set mi ha fatto apprezzare di più le occasioni in cui ho lavorato nella moda. Credo che nella vita sia tutta questione di apprendere qualcosa e alimentarla, in ogni ambito. Ricordo un’esperienza con Peter Lindbergh, che lavorava nella maniera più calma e gentile che si possa immaginare, senza farne mai un dramma, in pace; mi ha fatto venire voglia di trasmettere a mia volta questa sensazione.

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Attualmente a cosa stai lavorando? Cosa ti auguri per il futuro, in termini sia professionali che umani?

Girerò fino alla fine di luglio per You Are Not Alone, quindi spero di fare una piccola vacanza con mia figlia.
Inoltre sto producendo altri progetti in fase di sviluppo, e come sempre mi piace lavorare con i clienti di CooperFit, attività che posso svolgere a distanza.

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Ryan Cooper magazine
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Credits

Talent Ryan Cooper 

Photographer Dean Isidro

Art Director Paul Lamb

Stylist Gregory Wein

Stylist assistant Brianna Klouda

Grooming Michael Moreno

Photo retouch Jay Arora

Project coordinator Giorgio Ammirabile

Nell’immagine in apertura, Ryan indossa collana e bracciali Title of Work, camicia Musika

Carolina Sala e Gea Dall’Orto: poco social, molto impegnate

Carolina Sala Instagram
Gea e Carolina: total look Dior, earrings and bracelet Piaget

Quasi coetanee (22 anni una, 20 l’altra), una carriera in rapida ascesa con ruoli equamente distribuiti tra grande e piccolo schermo, Carolina Sala e Gea Dall’Orto denotano una maturità, una chiarezza d’idee, obiettivi e riferimenti artistici che stride un po’ con l’età anagrafica. La caratura delle produzioni cui hanno partecipato (nel caso di Carolina Fedeltà, Vetro, Pezzi unici, La guerra è finita, in quello di Gea Tre piani, Mio fratello rincorre i dinosauri, Gli orologi del diavolo, Rinascere) è del resto eloquente, e consente di annoverarle a pieno titolo in quella new generation attoriale, risoluta e dinamica, che sta contribuendo attivamente a rinnovare tv e cinema italiani.

Davanti all’obiettivo del fotografo di questo servizio pare si fosse creato un certo affiatamento, vi sareste subito trovate insomma, è così? Cosa apprezzate di più l’una dell’altra, lavorativamente e umanamente?

Carolina: Era il mio primo shooting doppio, non sapevo cosa aspettarmi, alla fine è stato un divertimento. C’è bisogno di un’alchimia diversa da quella dei set, con pose statiche, ed è stato piacevole condividerlo con Gea, di cui mi ha colpito l’immediatezza, nel senso migliore del termine, è una persona che ti arriva subito, ne percepisci distintamente la bellezza. Non ci conoscevamo prima, eppure non ci son state difficoltà di alcun tipo.

Gea: Nemmeno io conoscevo Carolina, il suo lavoro sì però, La guerra è finita ad esempio, che mi era piaciuto moltissimo. Quando ho saputo che ci avrebbero scattato delle foto insieme, non potevo che esserne contenta, nelle collaborazioni aspiro sempre a trovare persone della mia età, con cui scambiare opinioni, confrontarsi su un piano intellettuale, con lei è avvenuto all’istante.
Mi sono divertita con gli abiti, mi ha ricordato quando da piccola giocavo a travestirmi con le amiche, certi capi sono talmente belli e complessi che mi è venuto naturale inserirli in una dimensione ludica.

Forse mai prima d’ora il panorama recitativo italiano ha visto in prima fila tanti giovani di talento che, anche grazie alla diffusione di piattaforme alla Netflix o Amazon Prime Video, si fanno conoscere oltre i nostri confini. Sentite di appartenere a una nuova generazione di interpreti in rampa di lancio? Cosa pensate vi accomuni?

C: Non sentendomi tuttora propriamente arrivata, fatico a percepirmi come un’esponente di questa nuova generazione, provo a restare coi piedi per terra, senza focalizzarmi sulle “appartenenze”. Una cosa che mi fanno notare sui colleghi della mia età, un tratto distintivo, ecco, è la voglia di lavorare insieme, anche con le maestranze, un approccio assai poco divistico. In passato c’era forse l’idea dell’attore distaccato, individualista, ora si tende al pragmatismo e si fa gruppo, o almeno questa è la mia impressione.

G: Sono completamente d’accordo. Oggi, probabilmente grazie ai social, noi attori riusciamo a essere connessi e, volenti o nolenti, finiamo col conoscere le rispettive quotidianità, empatizzando gli uni con gli altri. Ho lavorato spesso con miei coetanei e non ho mai trovato primedonne, anzi, c’era la volontà di supportarsi a vicenda. A distinguerci, credo, è proprio questo spirito empatico, di condivisione.

Gea Dall'Orto Cannes
Gea: total look Alexander McQueen, boots Valentino, earrings Albert M.

A proposito di colossi dello streaming, persiste una divaricazione tra addetti ai lavori sui giudizi ad essi riservati, vengono accusati da alcuni di danneggiare il cinema, l’esperienza della visione in sala. Qual è la vostra opinione?

G: Penso che non si possano condannare certi meccanismi industriali, il cinema è anzitutto un’industria, in costante movimento, è normale sia così. Contrastando il cambiamento faremmo solo peggio, da addetti ai lavori dovremmo cercare piuttosto di integrare l’home cinema nella nostra vita quotidiana, come gli spettatori. Ad ogni modo, sebbene il grande schermo non sia più il core system, io invito sempre tutti a frequentare le sale; è bello poter guardare tutto dal divano, scegliendo in un catalogo sconfinato, ma il cinema è un’esperienza diversa, non deve sostituirsi alla tv.

C: Hai ragione, dovremmo abituarci a considerarle esperienze differenti, vedere un film sul piccolo schermo è un’altra cosa. Finora siamo stati travolti dalle innovazioni, penso che quando acquisiremo maggiore consapevolezza a riguardo, allora sarà possibile una riscoperta del cinema, o perlomeno una sua valorizzazione.
Per quanto tutti i titoli finiscano in streaming, sono pensati quasi sempre per formati diversi, è una questione tecnica. Inoltre le piccole produzioni provano magari a rischiare, sperimentano, un aspetto che nelle grandi piattaforme, dai numeri enormi, c’è solo in parte.

G: Un tentativo secondo me si potrebbe fare riproponendo in sala capolavori passati, succede già con i vari Netflix e Amazon, che sfruttano un vasto archivio. Può accadere per opere restaurate di recente, però non è la norma.

Carolina Sala intervista
Carolina: dress and shoes Versace, tights Emilio Cavallini, earrings Etrusca Gioielli, necklaces Radà; Gea: dress and shoes Versace, tights Emilio Cavallini, earrings Radà

In Vetro Carolina, ragazza hikikomori, riesce a interfacciarsi col mondo esterno solo tramite uno schermo. La vostra generazione, per ragioni anche solo meramente anagrafiche, è la più connessa e digitalizzata di sempre, che rapporto avete con i social?

C: Di amore e odio, a volte disinstallo tutto perché raggiungo il limite. Vado a periodi, da un lato li considero un buono strumento per creare connessioni, scoprire persone o realtà di cui altrimenti non si scoprirebbe mai l’esistenza, dall’altro alimentano un circuito negativo e rendono difficile rapportarsi con modelli che appaiono inarrivabili solo perché fasulli. In generale, li uso per lavoro, il mio privato cerco di tenerlo in disparte.
Provo sentimenti contrastanti verso i social, e un filo di disillusione, specie riguardo la loro reale utilità nel supporto a determinate cause o battaglie.

G: … Anche perché chi è attualmente al potere li conosce e usa poco, su questo concordo. A me poi è sempre piaciuta la concezione dell’attore come di una figura enigmatica, ambigua, considerato che parlando spiattello tutto in cinque minuti, almeno sui social non sarebbe male mantenere un po’ di mistero.

Carolina Sala Fedeltà
shirt and skirt Vivienne Westwood, tights Emilio Cavallini, shoes Giuseppe Zanotti

Il ricordo più significativo, ad oggi, del vostro lavoro? Uno specifico ruolo, titolo, momento…

C: Più che un singolo episodio un’esperienza, Vetro appunto, che ha rappresentato una svolta; passando dodici ore al giorno nella stanza dove si girava, fra trucco, prove e altro, ho avuto infatti la possibilità di entrare in contatto con set e troupe in un modo che, in seguito, ha cambiato il mio approccio al lavoro. È stato coinvolgente, intenso, in più lavorare insieme a Tommaso Ragno, sostanzialmente solo con la voce, ha completamente stravolto l’idea che avevo della recitazione.

G: Sarà scontato ma non ho dubbi, il provino per Tre piani di Nanni Moretti, ne sono uscita dicendomi che, a prescindere dall’esito, si trattava dell’audizione più bella che avessi mai sostenuto; mi sono sentita ascoltata e per la prima volta a mio agio, inserita in un ambiente che consentiva di concentrasi appieno. Si è creata una sorta di magia, con lui seduto alla scrivania, che mi guardava in una maniera così accurata…  Continuo a cercare quel tipo di sguardo in ogni persona con cui interagisco per motivi professionali, perché stimola a dare il meglio. Oltretutto ha rivoluzionato la mia vita sotto vari aspetti, tra Cannes, attori incredibili e nuove opportunità, in primis Gli orologi del diavolo di Alessandro Angelini, a lungo assistente alla regia di Moretti.

Ruolo o genere dei sogni?

C: Sono attratta da storie e personaggi più che dai generi, detto ciò adorerei un film in costume, ambientato nel ‘700 o ‘800, o all’opposto un action puro, con sparatorie e combattimenti, alla Kill Bill per capirci.

G: Opto anch’io per il period drama, sarà che mia nonna era costumista. Un film degli Avengers, tuttavia, sarebbe il massimo, appagherebbe il mio lato nerd.

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Vest Sara Wong, top and skirt Reamerei, tights Emilio Cavallini, earrings and rings Radà

Un regista – o più di uno – da dream list?

C: Ne ho due impossibili perché, banalmente, non ci sono più, Kubrick e Buñuel. Tra quelli di oggi – ce ne sarebbero milioni, in verità – dico Paul Thomas Anderson.

G: Restando sui miti, da amante della Nouvelle Vague cito Truffaut, Godard e Chabrol. Tornando alla realtà, mi sono piaciute le due pellicole di Valerio Mieli, sarebbe bello in futuro lavorare con lui; spostando lo sguardo all’estero, trovo estremamente affascinante Damien Chazelle.

Gea Dall'Orto Carolina Sala
Gea: total look Moschino, necklace Radà, shoes Giuseppe Zanotti; Carolina: total look Moschino, shoes Giuseppe Zanotti, earrings Radà


Se non foste diventate attrici, cos’avreste voluto fare nella vita?

C: Sinceramente in questo periodo me lo chiedo anch’io, d’altra parte la mia carriera è iniziata per una contingenza, col mio agente che mi ha notata sul palco.
Studio storia dell’arte all’università, la adoro, ma è una passione nata – e alimentata – in parallelo alla recitazione. Sarebbe bello mettere insieme le due dimensioni, in un modo che non saprei indicare neppure io. Diciamo comunque gallerista o curatrice, dai.

G: Da golosa quale sono, da bambina volevo fare la gelataia (ride, ndr).
Scherzi a parte, nel mio caso vita e carriera si sono mescolate subito, i miei hanno una compagnia teatrale, mia nonno è regista, di nonna ho già parlato, faticherei a vedermi altrove, anche perché sono perdutamente innamorata del mio settore. Immagino che un’ipotetica altra strada mi avrebbe condotto ugualmente al cinema, magari in veste di critica o regista.

Su cosa siete impegnate attualmente? Cosa vi augurate per il futuro?

C: Uscirà a breve, probabilmente in autunno, Di più non basta mai di Pappi Corsicato.
Ci sono dei progetti in vista e le riprese cominceranno verso la fine dell’estate, non posso dire altro. Vivo un po’ da funambola, sempre sul filo, non so mai bene cosa augurarmi, di sicuro che sia sorprendente, via.

G: Adesso sono impegnata con la seconda stagione di Luce dei tuoi occhi, per il futuro mi auguro di potermi imbattere in persone – e personaggi – interessanti.

Gea Dall'Orto film
Dress Vivienne Westwood, tights Emilio Cavallini, shoes Traffico, earrings and ring Piaget

Carolina Sala fashion
Dress Sara Wang, headpiece ILARIUSSS

Credits

Talents Carolina Sala, Gea Dall’Orto

Photographer Filippo Thiella

Stylist Simone Folli

Ph. assistant Davide Simonelli

Fashion assistant: Nadia Mistri, Francesco Paolucci

Hair Francesco Avolio @WM-Management

Make-up Anna Pellegrini using MAC Cosmetics

Nell’immagine in apertura, Carolina e Gea indossano total look Dior

Sara Ventura, fitness e arte al servizio del benessere individuale

Chi l’ha detto che le palestre debbano essere luoghi funzionali (all’allenamento) ma, tutto sommato, asettici, standardizzati, una successione di ambienti con macchinari, musica sparata e schermi perennemente accesi? Non la pensa così Sara Ventura: ex tennista con 15 titoli italiani nel proprio palmarès, fitness coach, autrice del libro A testa alta (dal sottotitolo wildiano, programmatico, Amare se stessi è l’inizio di una storia d’amore infinita), è una convinta sostenitrice dell’assioma secondo cui corpo e spirito formano una monade inscindibile, dunque non può esistere benessere fisico senza quello interiore, e viceversa.

Sara Ventura fitness
Sara Ventura nel suo spazio in Ripa di Porta Ticinese, a Milano (ph. Vincenzo Valente)

Sara Ventura Art and Body, tempio del benessere fisico e spirituale

Luogo deputato alla concretizzazione di tali principi è Sara Ventura Art and Body in Ripa di Porta Ticinese, a Milano, struttura di 500 metri quadri dall’aspetto post-industriale, pensata come un connettore tra universi diversi eppure affini, aperta a eventi fashion, mostre, shooting, produzioni video o musicali.

Un métissage, quello tra allenamento e arte, che può suonare insolito, per usare un eufemismo; lei però lo reputa del tutto naturale, se infatti le si chiede come e perché abbia pensato di combinare i due mondi, risponde di essersi «sempre interessata all’arte, alla pittura in particolare, fin da piccola mi divertivo con colori e pastelli, realizzavo murales… Una volta smesso con lo sport agonistico, ho ripreso questo lato artistico, frequentando un’accademia, quindi ho deciso di aprire una palestra che unisse le mie passioni».

Luce, silenzio e artwork in uno spazio polifunzionale

Ha le idee chiare, Sara, soprattutto sul corpo, visto come «un’opera d’arte, da cesellare – e celebrare – in un contesto scandito da silenzi, luci, installazioni artsy, ideale per le sessioni di training, certo, ma che può ospitare ogni tipo di evento. Ne ho sviluppato personalmente l’estetica, fin nei minimi dettagli, mantenendo l’anima industrial (era una fabbrica di bastoni, ndr) e facendone un ambiente multifunzionale, dove i clienti possano allenarsi circondati da artwork».
Il fitness, a suo parere, non è mai stato tanto in auge, tuttavia «è inflazionato, quasi ovunque si preferisce la quantità alla qualità, con posti pieni di gente su file infinite di macchine, io invece voglio concentrarmi sulla cura del movimento, anche visiva, sul training personalizzato che dia valore alla persona, rispettandone tempi e spazi, tirando fuori il meglio da ognuno».

Sara Ventura Milano
Sara Ventura (ph. Vincenzo Valente)

«Il benessere – prosegue – passa necessariamente dalla consapevolezza della propria corporeità, per acquisirla bisogna dedicarcisi a fondo». Lo sguardo si posa sulle tele appese alle pareti, «alcune sono mie», specifica, «le ho realizzate negli anni dell’accademia o in quelli seguenti, dipingere è una forma di meditazione. Qui generalmente organizzo delle mostre itineranti, adesso, dopo il Covid, stiamo ripartendo».

Allenamenti “tailored” che si avvalgono della collaborazione con Rossella Migliaccio

C’è tempo per introdurre la novità più recente di Sara Ventura Art and Body, un format innovativo che si avvale delle riflessioni di Rossella Migliaccio, consulente d’immagine che, dopo averci edotto sui poteri dell’armocromia, nel 2020 si è occupata di body shape col saggio Forme, classificandone sei – a triangolo, ovale,  a clessidra, a mela… – e inquadrandole in un sistema che aspira a valorizzare l’unicità di ciascuna. Partendo da qui, Sara «porta l’allenamento “su misura” nel lavoro di gruppo, con classi – per ora esclusivamente femminili – differenziate in base alle tipologie di fisico e percorsi che hanno l’obiettivo non di cambiare il corpo, ma di stabilire un’armonia con ogni sua forma».

«Si possono così mettere a punto soluzioni mirate anche nei corsi collettivi, mentre nelle palestre di solito si propone a tutti la stessa formula, uomini di cinquant’anni e ragazze 20enni, persone alte e basse si ritrovano ad allenarsi in modo identico. I miei programmi, al contrario, rispecchiano appieno la mia filosofia di non omologazione, centrata sulla singola personalità». Marina Abramović, Bruce Nauman, Urs Lüthi e altri insigni esponenti della body art, propugnatori dell’idea di corpo come veicolo artistico privilegiato, approverebbero senz’altro.

Sara Ventura art e body
Ph. Vincenzo Valente

Credits

Photographer Vincenzo Valente

Make-up Maddalena Brando @simonebelliagency

Il best of di Pitti Uomo 102

Abbandonato il low profile (obbligatorio, in verità, per cause che è ormai superfluo specificare) dell’ultimo biennio, Pitti Uomo torna al consueto format pre-pandemico, con un tourbillon di presentazioni, progetti speciali ed eventi collaterali, spalmati su quattro giornate, dal 14 al 17 giugno. Metabolizzata la massa di input stilistici concentrati nei padiglioni della Fortezza da Basso, abbiamo pensato di ricapitolare alcune novità primavera/estate 2023 viste durante la rassegna.
A seguire, il best of di Manintown della 102esima edizione del salone, categoria per categoria.

Pitti uomo 102

Capispalla

L'impermeabile brand
L’Impermeabile P/E 2023 (ph. courtesy L’Impermeabile)

Con le belle stagioni che, ahinoi, saranno caratterizzate sempre più da clima canicolare, umidità, rovesci forse sporadici ma violenti (sposare la sostenibilità, d’altra parte, è urgente proprio per mitigare le conseguenze del climate change), i produttori di outerwear non lesinano gli sforzi per adeguarsi alle – mutate – necessità e preferenze dei clienti.