Carolina Sala e Gea Dall’Orto: poco social, molto impegnate

Carolina Sala Instagram
Gea e Carolina: total look Dior, earrings and bracelet Piaget

Quasi coetanee (22 anni una, 20 l’altra), una carriera in rapida ascesa con ruoli equamente distribuiti tra grande e piccolo schermo, Carolina Sala e Gea Dall’Orto denotano una maturità, una chiarezza d’idee, obiettivi e riferimenti artistici che stride un po’ con l’età anagrafica. La caratura delle produzioni cui hanno partecipato (nel caso di Carolina Fedeltà, Vetro, Pezzi unici, La guerra è finita, in quello di Gea Tre piani, Mio fratello rincorre i dinosauri, Gli orologi del diavolo, Rinascere) è del resto eloquente, e consente di annoverarle a pieno titolo in quella new generation attoriale, risoluta e dinamica, che sta contribuendo attivamente a rinnovare tv e cinema italiani.

Davanti all’obiettivo del fotografo di questo servizio pare si fosse creato un certo affiatamento, vi sareste subito trovate insomma, è così? Cosa apprezzate di più l’una dell’altra, lavorativamente e umanamente?

Carolina: Era il mio primo shooting doppio, non sapevo cosa aspettarmi, alla fine è stato un divertimento. C’è bisogno di un’alchimia diversa da quella dei set, con pose statiche, ed è stato piacevole condividerlo con Gea, di cui mi ha colpito l’immediatezza, nel senso migliore del termine, è una persona che ti arriva subito, ne percepisci distintamente la bellezza. Non ci conoscevamo prima, eppure non ci son state difficoltà di alcun tipo.

Gea: Nemmeno io conoscevo Carolina, il suo lavoro sì però, La guerra è finita ad esempio, che mi era piaciuto moltissimo. Quando ho saputo che ci avrebbero scattato delle foto insieme, non potevo che esserne contenta, nelle collaborazioni aspiro sempre a trovare persone della mia età, con cui scambiare opinioni, confrontarsi su un piano intellettuale, con lei è avvenuto all’istante.
Mi sono divertita con gli abiti, mi ha ricordato quando da piccola giocavo a travestirmi con le amiche, certi capi sono talmente belli e complessi che mi è venuto naturale inserirli in una dimensione ludica.

Forse mai prima d’ora il panorama recitativo italiano ha visto in prima fila tanti giovani di talento che, anche grazie alla diffusione di piattaforme alla Netflix o Amazon Prime Video, si fanno conoscere oltre i nostri confini. Sentite di appartenere a una nuova generazione di interpreti in rampa di lancio? Cosa pensate vi accomuni?

C: Non sentendomi tuttora propriamente arrivata, fatico a percepirmi come un’esponente di questa nuova generazione, provo a restare coi piedi per terra, senza focalizzarmi sulle “appartenenze”. Una cosa che mi fanno notare sui colleghi della mia età, un tratto distintivo, ecco, è la voglia di lavorare insieme, anche con le maestranze, un approccio assai poco divistico. In passato c’era forse l’idea dell’attore distaccato, individualista, ora si tende al pragmatismo e si fa gruppo, o almeno questa è la mia impressione.

G: Sono completamente d’accordo. Oggi, probabilmente grazie ai social, noi attori riusciamo a essere connessi e, volenti o nolenti, finiamo col conoscere le rispettive quotidianità, empatizzando gli uni con gli altri. Ho lavorato spesso con miei coetanei e non ho mai trovato primedonne, anzi, c’era la volontà di supportarsi a vicenda. A distinguerci, credo, è proprio questo spirito empatico, di condivisione.

Gea Dall'Orto Cannes
Gea: total look Alexander McQueen, boots Valentino, earrings Albert M.

A proposito di colossi dello streaming, persiste una divaricazione tra addetti ai lavori sui giudizi ad essi riservati, vengono accusati da alcuni di danneggiare il cinema, l’esperienza della visione in sala. Qual è la vostra opinione?

G: Penso che non si possano condannare certi meccanismi industriali, il cinema è anzitutto un’industria, in costante movimento, è normale sia così. Contrastando il cambiamento faremmo solo peggio, da addetti ai lavori dovremmo cercare piuttosto di integrare l’home cinema nella nostra vita quotidiana, come gli spettatori. Ad ogni modo, sebbene il grande schermo non sia più il core system, io invito sempre tutti a frequentare le sale; è bello poter guardare tutto dal divano, scegliendo in un catalogo sconfinato, ma il cinema è un’esperienza diversa, non deve sostituirsi alla tv.

C: Hai ragione, dovremmo abituarci a considerarle esperienze differenti, vedere un film sul piccolo schermo è un’altra cosa. Finora siamo stati travolti dalle innovazioni, penso che quando acquisiremo maggiore consapevolezza a riguardo, allora sarà possibile una riscoperta del cinema, o perlomeno una sua valorizzazione.
Per quanto tutti i titoli finiscano in streaming, sono pensati quasi sempre per formati diversi, è una questione tecnica. Inoltre le piccole produzioni provano magari a rischiare, sperimentano, un aspetto che nelle grandi piattaforme, dai numeri enormi, c’è solo in parte.

G: Un tentativo secondo me si potrebbe fare riproponendo in sala capolavori passati, succede già con i vari Netflix e Amazon, che sfruttano un vasto archivio. Può accadere per opere restaurate di recente, però non è la norma.

Carolina Sala intervista
Carolina: dress and shoes Versace, tights Emilio Cavallini, earrings Etrusca Gioielli, necklaces Radà; Gea: dress and shoes Versace, tights Emilio Cavallini, earrings Radà

In Vetro Carolina, ragazza hikikomori, riesce a interfacciarsi col mondo esterno solo tramite uno schermo. La vostra generazione, per ragioni anche solo meramente anagrafiche, è la più connessa e digitalizzata di sempre, che rapporto avete con i social?

C: Di amore e odio, a volte disinstallo tutto perché raggiungo il limite. Vado a periodi, da un lato li considero un buono strumento per creare connessioni, scoprire persone o realtà di cui altrimenti non si scoprirebbe mai l’esistenza, dall’altro alimentano un circuito negativo e rendono difficile rapportarsi con modelli che appaiono inarrivabili solo perché fasulli. In generale, li uso per lavoro, il mio privato cerco di tenerlo in disparte.
Provo sentimenti contrastanti verso i social, e un filo di disillusione, specie riguardo la loro reale utilità nel supporto a determinate cause o battaglie.

G: … Anche perché chi è attualmente al potere li conosce e usa poco, su questo concordo. A me poi è sempre piaciuta la concezione dell’attore come di una figura enigmatica, ambigua, considerato che parlando spiattello tutto in cinque minuti, almeno sui social non sarebbe male mantenere un po’ di mistero.

Carolina Sala Fedeltà
shirt and skirt Vivienne Westwood, tights Emilio Cavallini, shoes Giuseppe Zanotti

Il ricordo più significativo, ad oggi, del vostro lavoro? Uno specifico ruolo, titolo, momento…

C: Più che un singolo episodio un’esperienza, Vetro appunto, che ha rappresentato una svolta; passando dodici ore al giorno nella stanza dove si girava, fra trucco, prove e altro, ho avuto infatti la possibilità di entrare in contatto con set e troupe in un modo che, in seguito, ha cambiato il mio approccio al lavoro. È stato coinvolgente, intenso, in più lavorare insieme a Tommaso Ragno, sostanzialmente solo con la voce, ha completamente stravolto l’idea che avevo della recitazione.

G: Sarà scontato ma non ho dubbi, il provino per Tre piani di Nanni Moretti, ne sono uscita dicendomi che, a prescindere dall’esito, si trattava dell’audizione più bella che avessi mai sostenuto; mi sono sentita ascoltata e per la prima volta a mio agio, inserita in un ambiente che consentiva di concentrasi appieno. Si è creata una sorta di magia, con lui seduto alla scrivania, che mi guardava in una maniera così accurata…  Continuo a cercare quel tipo di sguardo in ogni persona con cui interagisco per motivi professionali, perché stimola a dare il meglio. Oltretutto ha rivoluzionato la mia vita sotto vari aspetti, tra Cannes, attori incredibili e nuove opportunità, in primis Gli orologi del diavolo di Alessandro Angelini, a lungo assistente alla regia di Moretti.

Ruolo o genere dei sogni?

C: Sono attratta da storie e personaggi più che dai generi, detto ciò adorerei un film in costume, ambientato nel ‘700 o ‘800, o all’opposto un action puro, con sparatorie e combattimenti, alla Kill Bill per capirci.

G: Opto anch’io per il period drama, sarà che mia nonna era costumista. Un film degli Avengers, tuttavia, sarebbe il massimo, appagherebbe il mio lato nerd.

Gea Dall'Orto Instagram
Vest Sara Wong, top and skirt Reamerei, tights Emilio Cavallini, earrings and rings Radà

Un regista – o più di uno – da dream list?

C: Ne ho due impossibili perché, banalmente, non ci sono più, Kubrick e Buñuel. Tra quelli di oggi – ce ne sarebbero milioni, in verità – dico Paul Thomas Anderson.

G: Restando sui miti, da amante della Nouvelle Vague cito Truffaut, Godard e Chabrol. Tornando alla realtà, mi sono piaciute le due pellicole di Valerio Mieli, sarebbe bello in futuro lavorare con lui; spostando lo sguardo all’estero, trovo estremamente affascinante Damien Chazelle.

Gea Dall'Orto Carolina Sala
Gea: total look Moschino, necklace Radà, shoes Giuseppe Zanotti; Carolina: total look Moschino, shoes Giuseppe Zanotti, earrings Radà


Se non foste diventate attrici, cos’avreste voluto fare nella vita?

C: Sinceramente in questo periodo me lo chiedo anch’io, d’altra parte la mia carriera è iniziata per una contingenza, col mio agente che mi ha notata sul palco.
Studio storia dell’arte all’università, la adoro, ma è una passione nata – e alimentata – in parallelo alla recitazione. Sarebbe bello mettere insieme le due dimensioni, in un modo che non saprei indicare neppure io. Diciamo comunque gallerista o curatrice, dai.

G: Da golosa quale sono, da bambina volevo fare la gelataia (ride, ndr).
Scherzi a parte, nel mio caso vita e carriera si sono mescolate subito, i miei hanno una compagnia teatrale, mia nonno è regista, di nonna ho già parlato, faticherei a vedermi altrove, anche perché sono perdutamente innamorata del mio settore. Immagino che un’ipotetica altra strada mi avrebbe condotto ugualmente al cinema, magari in veste di critica o regista.

Su cosa siete impegnate attualmente? Cosa vi augurate per il futuro?

C: Uscirà a breve, probabilmente in autunno, Di più non basta mai di Pappi Corsicato.
Ci sono dei progetti in vista e le riprese cominceranno verso la fine dell’estate, non posso dire altro. Vivo un po’ da funambola, sempre sul filo, non so mai bene cosa augurarmi, di sicuro che sia sorprendente, via.

G: Adesso sono impegnata con la seconda stagione di Luce dei tuoi occhi, per il futuro mi auguro di potermi imbattere in persone – e personaggi – interessanti.

Gea Dall'Orto film
Dress Vivienne Westwood, tights Emilio Cavallini, shoes Traffico, earrings and ring Piaget

Carolina Sala fashion
Dress Sara Wang, headpiece ILARIUSSS

Credits

Talents Carolina Sala, Gea Dall’Orto

Photographer Filippo Thiella

Stylist Simone Folli

Ph. assistant Davide Simonelli

Fashion assistant: Nadia Mistri, Francesco Paolucci

Hair Francesco Avolio @WM-Management

Make-up Anna Pellegrini using MAC Cosmetics

Nell’immagine in apertura, Carolina e Gea indossano total look Dior

Niccolò Ferrero e Nina Pons, insieme per ‘E buonanotte’ (e Manintown)

Niccolò Ferrero e Nina Pons, insieme sul set di E buonanotte di Massimo Cappelli, sono di nuovo insieme davanti all’obiettivo di Davide Musto e per Manintown.
Niccolò e Nina sono due giovani attori. Una cosa che si chiede sempre a un attore è: “Volevi fare l’attore?”, domanda che non si fa mai a un idraulico o a un ingegnere (ma poi, quanti ragazzini si pongono davvero domande esistenziali del tipo “cosa farò da grande?”).

Niccolò: total look Sandro; Nina: total look Gucci

Niccolò Ferrero: L’altra domanda è “se non avessi fatto l’attore, che cosa avresti fatto?”. Forse perché fare l’attore non è considerato un lavoro. Negli Stati Uniti, ad esempio, viene considerato tale, e non posso farlo senza studiare. C’è pure chi viene preso perché ha accompagnato un amico a un casting. E magari ottieni anche un buon risultato, ma per quel ruolo specifico.
Nel lungo periodo, credo nell’istruzione. Chiunque abbia raggiunto traguardi nella recitazione, li ha ottenuti studiando, perché nel tempo la mancanza di competenze si riflette sulla qualità del lavoro.

Nina Pons: Ho sentito spesso colleghi che, quando dicono “faccio l’attore”, si sentono rispondere “sì, ma di lavoro cosa fai?”. Noi studiamo per fare questo mestiere. Ecco perché è una domanda che non concepisco. La trovo anche offensiva. Se dovessero farla a me, risponderei che di lavoro faccio l’attrice. Se per loro non è un lavoro, il problema è loro.
Come studi per fare l’avvocato o l’ingegnere, studi per fare l’attore. Non è che una mattina ti svegli, dici che vuoi recitare e sali sul palco. Studio perché voglio che questo sia il mio lavoro. Sono una persona molto concreta. Poi, un provino può non andare per mille motivi. In quel caso preferisco assumermi le mie responsabilità. Lamentarmi e dare la colpa agli altri mi leva energie.

Che formazione avete?

N.F: Mi sono diplomato al Centro sperimentale di cinematografia e ho anche un Diploma di “Acting for the camera” alla UCLA.

N.P: Ho frequentato il Centro Intensivo Allenamento Permanente Attori di Gisella Burinato e la Golden Star Academy. Ho studiato con la regista Loredana Scaramella e la coach inglese June Jasmine. Questo è un lavoro che richiede un allenamento costante.

Nina: total look N°21; Niccolò: total look Sandro, sneakers talent’s own

Poi un bel giorno due youtuber arrivano al cinema e conquistano il box office. Quindi il cinema lo può fare chiunque?

N.F: Secondo me funzionano sui cento metri. In una maratona no. Noi che abbiamo alle spalle anni di studio e corsi di formazione, e che continuiamo a studiare, corriamo per la maratona, per costruirci una carriera. Quindi lo studio è imprescindibile.

N.P: Non li ho mai visti. È un fenomeno che non ho capito.

Non è un segreto che, a parità di attori, le produzioni scelgono quelli con più visibilità sui social per dare una mano alla sponsorizzazione del film. Ho dato un’occhiata al vostro IG e non credo che vi abbiano scelto per il numero di follower

N.F: Massimo Cappelli ha avuto gran coraggio a prendere due attori poco conosciuti. Quando ci ha scritturati, dovevo ancora uscire dal Centro sperimentale ed ero senza seguito sui social. Ma lui ha deciso di prendermi per un prodotto che forse, con due ragazzi molto seguiti, avrebbe avuto delle chances in più. Ha fatto questa scelta coraggiosa e per questo gli sarò eternamente grato.
Non mi appartiene il fatto di condividere continuamente la propria vita. Non lo critico, ma è un altro lavoro. Per me sarebbe una forzatura. Vorrei che i social fossero solo un mezzo di comunicazione, non il soggetto di quello che faccio. E io faccio l’attore. Spesso vengo rimproverato perché li uso poco. Purtroppo è vero che le produzioni guardano anche questo: è il mercato di adesso. Spetta a noi attori, con le nostre competenze, far sì di essere presi al posto di un influencer.

N.P: Questo è un motivo per cui sono grata ai produttori della Lime Film. Per questo ruolo ho sostenuto cinque provini. Il regista ha deciso di puntare su due persone nelle quali credeva. È stato bellissimo perché non tutti ragionano così, soprattutto ora. Sul mio IG non c’è neanche scritto attrice, perché per me il lavoro è una cosa e i social un’altra. Sono due lavori completamente diversi e non ho intenzione di cadere in questa trappola. Per me il social è uno svago. Sono un’attrice, non un’influencer. A voi spettatori cosa cambia se ho un milione o dieci follower? Vi interessa vedere qualcosa che vi fa emozionare. Ecco perché non capisco questo concetto e non ho intenzione di farmi fagocitare dal sistema.

Niccolò e Nina: total look Fendi

Il tormentone del momento è “i giovani non hanno voglia di lavorare vs/le nuove generazioni si ribellano al lavoro in condizioni di schiavitù”. Se c’è una categoria di sottopagati è la vostra, soprattutto in teatro. Perché gli attori continuano a lavorare anche gratis e l’elettricista no?

N.F: Cinema e televisione pagano il giusto. Il problema è se lavori dieci giorni l’anno. Allora quello che guadagni è insufficiente. Spesso però l’attore ha un fuoco dentro, qualcosa che ti fa battere il cuore talmente tanto, che lo faresti anche gratis. Per me era iniziato come un divertimento ma, quando ho provato a fare altro, ho capito che non potevo non recitare. Il problema è che se uno continua ad accettare lavori gratis, non è in grado di sostenersi col proprio lavoro.

N.P: Quando ti arriva un bel copione, e magari sei a casa e non stai lavorando, è un lavoro che ti fa stare attivo. E noi attori abbiamo bisogno di recitare. Se però tutti smettessimo di accettare, le produzioni che non pagano o pagano poco smetterebbero di proporre. Fortunatamente  c’è il ruolo dell’agente che è lì per tutelare l’attore. Secondo me è sbagliato accettare un lavoro non retribuito, a meno che non sia un progetto low budget nel quale credi. A me è successo, ma è un’eccezione. Recitare è un lavoro e il lavoro si paga. Dietro uno spettacolo teatrale, dietro un film, c’è un lavoro enorme. Non è che memorizzi una frase e vai sul palco a dirla. C’è un lavoro sulla costruzione del personaggio, su noi stessi. È un lavoro profondo e quindi non può essere sminuito. I corsi costano tantissimo. Se hai un provino difficile, chiami il coach e lo paghi. Perché quindi le produzioni non dovrebbero pagare gli attori?

E buonanotte è la storia di un ragazzo che non vuole dormire per non sprecare tempo. Per i giovani c’è sempre tempo, è sempre “scialla”. Ma una mattina ti guardi allo specchio, hai le rughe e percepisci di averne sempre meno. In realtà ogni attimo potrebbe essere l’ultimo. Avete mai pensato come sarebbe sostituire “scialla” con “vivi ogni istante come  fosse l’ultimo”?

N.F: Può accadere anche a 25 anni. C’è un momento in cui realizzi che gli anni che hai davanti non sono infiniti; accade qualcosa e da quel momento scegli come usare il tuo tempo. Luca, il protagonista del film, lo fa scegliendo di dedicare del tempo agli altri. Nina Pons, Roberta, lo porterà in una comunità di recupero e lui deciderà di dedicare tempo a chi ne ha più bisogno. Niccolò Ferrero lo sta facendo dedicandosi a ciò che ama: il cinema.

N.P: Il tempo è prezioso. Stare nel mood “scialla” è un riparo dal mondo esterno. Non ascolti con la pancia. Per me vivere vuol dire stare. Non fare tante cose, correre da una parte all’altra. Per me il sinonimo di vivere è stare nelle cose, moment by moment. Ascoltare, essere in connessione con gli stimoli esterni, con le persone che hai davanti. Per me, vivere ogni istante come fosse l’ultimo è vivere stando in quello che fai, sentire quello che fai. Quando vivi freneticamente fai fatica a goderti il singolo momento.

Nina: total look N°21; Niccolò: total look Sandro

Dopo la sala E buonanotte è disponibile su Amazon Prime e Chili. Le piattaforme sono considerate l’Hannibal Lecter o il Robert Bloch del cinema. Ha senso demonizzarle o sono un’opportunità?

N.F: So che vado controcorrente, ma credo ci siano dei film che puoi vedere sia al cinema che a casa. Altri hanno una resa diversa sul grande schermo. Trovo però che le piattaforme siano una grande opportunità. Lo strumento narrativo si è sempre evoluto: dal teatro al cinema, dal cinema alla TV, al computer e ai telefonini. Non ho questa sacralità del cinema come luogo unico deputato alla visione del film. L’importante è che ci siano prodotti di qualità. Dove il pubblico li fruisce è un discorso personale. Una cosa è certa: con le piattaforme arrivi a un pubblico vastissimo, anche a livello mondiale.

N.P: In lockdown le piattaforme ci hanno salvato. Per me, vedere un film a casa o al cinema fa la differenza. Sono molto felice che E buonanotte sia stato al cinema, perché vedermi sul grande schermo è stato fantastico. La sala, poi, è un posto che crea connessione tra tante persone diverse che in quel momento stanno facendo tutte la stessa cosa. Nell’era in cui i social ci separano, portano ad estraniarsi, la sala può essere un momento di condivisione. Anche fare un film è un atto di condivisione, perché tante persone sono insieme sul set per far sì che il film venga nel migliore dei modi. Il bello di questo mestiere è proprio vedere come si crea una squadra: tutti insieme per un obiettivo comune. E per tutto il tempo in cui giri, il set diventa la tua famiglia. Come in teatro: quando sei in tournée si crea una sinergia inspiegabile.
E la capacità di condividere è anche una delle cose che viene fuori da E buonanotte. Luca e Roberta entrano in sintonia imparando a vedersi l’un l’altro.

Cosa porterete con voi di questo film?

N.P: È stato il mio primo film da protagonista e ci sono tantissime cose che mi porterò dietro. Sicuramente Niccolò, col quale si è creata una grandissima complicità, e tutte le persone che hanno lavorato con noi. Massimo Cappelli, il regista, che si è fidato di me e mi ha dato questa possibilità. Ha dedicato molta attenzione ad aiutarci nel creare i personaggi. È un film che mi ha lasciato tanto come persona. Tocca tematiche forti. Interpreto una ragazza che lavora in una libreria, studiosa, che fa volontariato in un centro per persone con disagi, disposta sempre ad aiutare l’altro. Solo che non mi lascio mai andare perché, se pensi sempre ad aiutare il prossimo, a te chi pensa?
Il personaggio di Niccolò, Luca, è quello che mi insegna a essere leggera, a far uscire la mia femminilità, a vivere la mia età. Io, a mia volta, lo aiuto ad inquadrarsi. Niccolò interpreta un ragazzo che vuole solo divertirsi: ama andare alle feste, giocare con la PlayStation, non vuole studiare. Il messaggio è che si può cambiare mettendosi in relazione con l’altro.
La capacità di trasformarsi è uno dei messaggi più belli del film.

N.F: Lo ricorderò sempre come il mio primo film da protagonista. Ero preoccupato perché volevo dare il meglio di me. Mi sono preparato con un insegnante del Centro sperimentale e un’altra coach. Ero tesissimo, ma le persone sul set, da Massimo a Nina, mi hanno davvero supportato. Si respirava un’aria leggera, ci siamo divertiti, abbiamo riso tantissimo e la tensione si è allentata. Il clima amichevole mi ha aiutato.

Sei torinese, ti hanno affiancato una romana… non poteva andare diversamente.

N.F: Esatto!

Niccolò: total look Sandro, shoes Premiata; Nina: shirt and denim pants Zimmermann, shoes Jimmy Choo

Credits

Talent Niccolò Ferrero, Nina Pons

Editor in Chief Federico Poletti

Text Alessia de Antoniis

Photographer Davide Musto

Styling Andreas Mercante (Niccolò Ferrero), Other Agency (Nina Pons)

Ph. assistants Valentina Ciampaglia

Hair & make-up Eleonora Mantovani @simonebelliagency (Niccolò Ferrrero), Alessandro Joubert @simonebelliagency (Nina Pons)

Matthew Zorpas, il primo gentleman “digitale”

Se si parla di savoir-vivre, eleganza e stile maschile (concetti spesso abusati ma tuttora poco indagati nelle infinite sfumature di cui si fanno portatori), Matthew Zorpas è la persona giusta per sondare tutto ciò che attiene ad usi e costumi dei gentlemen moderni. Esattamente dieci anni fa, infatti, questo poliedrico creativo e imprenditore cipriota, londinese d’adozione, ha lanciato il sito The Gentleman Blogger, divenuto rapidamente un portale di riferimento per il menswear e il lifestyle più in generale tra outfit (spesso formali, sempre all’insegna della raffinatezza, che gli sono valsi riconoscimenti come quello di Esquire UK, che nel 2010 l’ha inserito nella classifica annuale dei Best Dressed Men), viaggi (altra passione e atout del fondatore), wellness, tips rivolti a una community di appassionati, esigenti e cosmopoliti.

the gentleman blogger influencer
Coat Paul Smith

Zorpas ha dimostrato insomma di essere un vero antesignano della materia, puntando sullo storytelling ben prima delle torme di influencer, o sedicenti tali, che affollano oggi i social media. A certificare il successo dell’operazione sono i numeri (oltre 52.000 utenti unici al mese per la piattaforma, più di 182.000 e 24.000 follower rispettivamente su Instagram e Facebook) e la caratura di griffe e aziende con cui The Gentleman Blogger ha collaborato nel tempo, da IWC a Tod’s passando per Fendi, Bentley, Nespresso e tanti altri. Abbiamo approfittato dello shooting cui si è prestato per l’issue Youth Babilonia di Manintown per parlare con lui di cosa distingua i veri gentlemen, dell’impatto del Covid sulle preferenze degli uomini in tema di abbigliamento, dei cambiamenti in atto nell’industria della moda maschile e la società nel suo complesso, del metaverso.

Matthew Zorpas influencer
Total look Pal Zileri, shoes Church’s, watch Cartier

Sei considerato una pietra di paragone dei gentlemen contemporanei – e aspiranti tali, lo si intuisce dal nome del tuo – seguitissimo – blog. Cosa contraddistingue, nel 2022, un gentleman, quali sono le qualità che deve assolutamente possedere, a livello stilistico e non?

Negli ultimi dieci anni ho visto cambiare sia la definizione del termine, sia l’atteggiamento, la forma in cui viene declinato. In fin dei conti il gentleman è un puro, è una questione di anima. È un modo di vivere vero e proprio, non una specifica azione né un lifestyle, e neppure un abito su misura ben studiato ma “imposto”, si tratta piuttosto della scelta di vestire con disinvoltura. Oggi vestirsi come un gentleman risulta semplice, decisamente più difficile è possederne le qualità.

The Gentleman Blogger taglia il traguardo del decennale. Grazie al sito godi di un osservatorio privilegiato sull’universo maschile, a tuo giudizio quali sono i cambiamenti principali avvenuti in quest’arco di tempo?

Ho fondato The Gentleman Blogger nel 2012, vivo questa splendida avventura da un decennio. Ho visto cambiare l’atteggiamento degli addetti ai lavori nei confronti degli influencer, dall’arroganza iniziale alla disponibilità odierna ad accoglierci, incoraggiarci e sceglierci. Per quanto riguarda il lifestyle maschile, si è passati da un modello formale, “standard” ad uno rilassato e variegato.

Matthew Zorpas Instagram
Jacket Gucci @Tiziana Fausti (www.tizianafausti.com), shirt and scarf vintage

Prediligi uno stile improntato alla ricercatezza, all’eleganza dal flair “vecchia scuola” di completi di fattura sartoriale, pattern della miglior tradizione britannica, tuxedo, abiti tagliati alla perfezione… Lockdown, lavoro a distanza e altre conseguenze della pandemia sembrano aver segnato in profondità, spesso penalizzandolo, il mondo dell’abbigliamento formale, già interessato da trasformazioni dettate dai cambiamenti di gusti e abitudini dei consumatori. Qual è il tuo parere in merito, come credi che cambierà il formalwear?

Il cambiamento è ben accetto. La fashion industry deve seguire i consumatori, che sono ormai diversi e consapevoli. Continuerà dunque a rispecchiare correnti, crisi politiche o ambientali; è nostro compito assicurarci che si aggiorni e modifichi, anticipando ed accompagnando tali cambiamenti. Purtroppo, chi resta indietro è destinato a fallire. Tutto ciò non si traduce in un incremento dell’offerta in termini di scelte e opzioni, bensì nel fare ciò che è in linea col Dna del marchio, e farlo bene.

The gentleman blogger
Total look Dolce&Gabbana, watch Cartier, burgundy ring Bulgari, shoes Christian Louboutin

Il Covid ha impattato anche sugli influencer tra restrizioni, chiusure e stravolgimenti più o meno sostanziali, forzandoli a rivedere tono e tipologia dei post. Senza contare, poi, che erano già alle prese con sfide inedite, dalla saturazione dello spazio alle insidie poste da “colleghi” virtuali, metaverso e novità che potrebbero cambiare i social per come li conosciamo. Cosa puoi dirci a riguardo, qual è lo stato dell’arte dell’influencing?

L’industria degli influencer continuerà a esistere a lungo; esattamente come quella editoriale, fa il suo percorso, dobbiamo lasciare che lo spazio digitale si espanda, cresca, si evolva e, quando sarà il momento, entri in una fase declinante. Non abbiamo ancora raggiunto il picco, stiamo vivendo solo ora la transizione dall’offline all’online. La Generazione Alpha (i nati dopo il 2010, ndr) è nata e cresciuta online, si concentra solo su di esso.

A proposito di metaverso, cosa te ne pare? I gentiluomini potrebbero – e dovrebbero – ritagliarsi un proprio spazio anche in una realtà virtuale fatta di pixel, avatar e affini?

Sono consapevole dell’esistenza del metaverso, non è però un mio spazio personale né un’opzione, idem TikTok. Va ricordato a tutti che possiamo scegliere di essere presenti ovunque vogliamo. Le nuove piattaforme o mondi non dovrebbero sostituire quelli vecchi, ma rispondere al consumatore, soddisfarlo.

Matthew Zorpas jewels
Total look Emporio Armani, ring Nikos Koulis

I viaggi sono una tua grande passione, hai sempre seguito con interesse il settore dell’ospitalità, collaborando anche col ministero del turismo di Cipro. Dopo il ciclone Coronavirus, ritieni ci saranno cambiamenti strutturali?

Dall’inizio della pandemia, ogni settore (dalle consegne al turismo, all’ospitalità) ha dovuto avviare trasformazioni strutturali, soprattutto in Occidente. Col mio team e il viceministro del turismo di Cipro, siamo riusciti a organizzare il primo evento “social distancing” RoundTable all’aperto nel 2020, seguito dalla campagna 7AM nel 2021 e da ImagineBeingHere nel 2022. Dovevamo ricostruire il sogno quando ancora non c’erano voli per il paese, quando sono stati consentiti di nuovo bisognava fare altrettanto, ricreare la necessità di visitarlo, e adesso, tornando alla normalità, ricordiamo entrambi gli aspetti ai visitatori.

Puoi dirci almeno tre capi/accessori che non dovrebbero mai mancare nel guardaroba, i mai più senza di ogni gentleman che si rispetti?

Non esiste un capo basilare che chiunque dovrebbe avere, assolutamente. Infrangiamo ogni regola, ciascuno dovrebbe possedere solo ciò di cui avverte il bisogno, che reputa necessario.
Una volta rispondevo sempre un doppiopetto e uno smoking, oggi possiamo essere dei gentlemen con una semplice t-shirt bianca e jeans Levi’s. I tempi sono cambiati.

Total look Zegna

Per quanto sia azzardato fare previsioni, come immagini The Gentleman Blogger di qui a dieci anni? Cosa potrebbe caratterizzare la community dei gentlemen del futuro?

The Gentleman Blogger è stato una meravigliosa impresa. Sono davvero soddisfatto del cambiamento, dell’innovazione, della creatività, della passione, in definitiva della comunità che, per un decennio, ha amato e si è stretta attorno a questa fantastica iniziativa. Non posso azzardare previsioni sul mio prossimo progetto, di sicuro non vedo l’ora di intraprenderlo con la forza, la sincerità e la determinazione necessarie affinché abbia successo.

Matthew Zorpas style
Total look Alexander McQueen

Credits

Talent Matthew Zorpas

Photographer Georgios Motitis

Styling Giorgia Cantarini

Stylist assistant Federica Mele, Emma Thompson, from MA Fashion Styling – Istituto Marangoni London

Location The Dorchester

Nell’immagine in apertura, Matthew Zorpas indossa total look Alexander McQueen

Dsquared2 Wallpaper, intervista con Dean e Dan Caten

Dean Dan Caten Dsquared2
Dean e Dan Caten di Dsquared2

Manintown torna sulla collezione Dsquared2 Wallpaper, in partnership con LONDONART, che sancisce l’ingresso del marchio canadese nell’home décor, segmento che i creative director Dean & Dan Caten considerano una naturale estensione dell’universo griffato D2. Nella conversazione che segue, i gemelli canadesi si soffermano su ispirazioni, sinergie, sfide e obiettivi della collaborazione con il brand specializzato in carte da parati, tornano su alcuni elementi che hanno segnato, e continuano a farlo, il loro percorso di stile (dalla musica al rapporto con le celebrity) e si spingono a fare qualche ipotesi sul Metaverso…

La vostra storia è la dimostrazione che i sogni possono diventare realtà, in 27 anni avete creato un vero impero, qual è il segreto del vostro successo?

Dean & Dan: Credere in noi stessi e in quello che facciamo; con l’esperienza abbiamo compreso che bisogna fare sempre quello che sentiamo e che è giusto per noi. Amiamo profondamente il nostro lavoro, non ci pesa perché è una passione.

Un mix perfetto tra moda canadese e tradizione italiana, con un occhio di riguardo ai dettagli. Come definireste il vostro stile in tre parole?

D&D: Il nostro stile è easy, cool, informale.

Il brand ha un forte legame con il mondo della musica che sembra fa parte del vostro background, da dove arriva?

D&D: La musica è molto importante anche nel nostro modo di lavorare. Questo legame esiste da sempre, siamo cresciuti ascoltando Frank Sinatra con nostro padre. La nostra cultura musicale comprende tutti i generi, ogni canzone ha il potere di emozionarci e darci la carica.

Il periodo storico che stiamo vivendo ci ha fatto comprendere ed apprezzare un nuovo senso del tempo, è stato così per voi?

D&D: Non ci siamo rilassati in realtà, abbiamo lavorato anche più di prima ma con tempi diversi. Nonostante alcuni alti e bassi, abbiamo imparato a fare le cose diversamente e ci siamo resi conto dell’importanza di ciò che forse prima davamo per scontato. In questo momento stiamo provando a tornare alla normalità perché la moda, che è energia pura e sinergia, ha risentito molto di questa mancanza di presenza fisica.

Che messaggio si cela nelle vostre creazioni? Credete molto nelle collaborazioni e sinergie tra brand diversi, lo considerate uno spunto per arricchirsi?

D&D: È davvero stimolante lavorare con altri creativi e marchi. Crediamo sia importante perché attraverso la loro esperienza, contribuiscono alla nostra storia, e viceversa, noi alla loro. È un arricchirsi a vicenda, lo troviamo estremamente interessante.

Avete vestito moltissime popstar, a chi siete particolarmente legati e perché?

D&D: Siamo molto fortunati ad aver collaborato con diversi artisti; sono stati loro a cercarci e questo fa la differenza, perché dimostra che a loro piace ciò che facciamo. È stato fantastico trovarsi da subito sulla stessa lunghezza d’onda. Lavorare con persone che apprezzi ed avere il privilegio di vestirle interpretando il loro gusto è una cosa meravigliosa!
Madonna è stata la prima a rivolgere l’attenzione al brand e ha un posto speciale nel nostro cuore; ma anche Beyoncé, per la quale abbiamo disegnato alcuni abiti del suo The Formation World Tour e Ibrahimović, con cui abbiamo avviato una collaborazione.

Dsquared Beyonce
Beyoncé sul palco durante il The Formation World Tour con un look custom made Dsquared2 (ph. Kevin Mazur/WireImage)
Dsquared 25 sfilata
Dean e Dan Caten con le Sister Sledge al termine del défilé per il 25esimo anniversario del marchio (ph. AFP/Miguel Medina)

Com’è nata la collaborazione con LONDONART?

D&D: È la prima volta che ci avviciniamo al mondo del design ed eravamo molto curiosi. La collaborazione è nata grazie ad una sinergia immediata tra noi e LONDONART, siamo davvero felici del risultato.

Il design vi appassiona? Cosa vi piace di questo mondo?

D&D: Il design parla con altri materiali; con la moda abbiamo a che fare perlopiù con tessuti, nel design invece i supporti sono tanti, c’è un approccio completamente diverso ed intrigante, che ci permette di esplorare altri mondi.

A cosa si ispira la collezione?

D&D: Questa collezione di wallpaper per LONDONART integra e amplia il nostro progetto di lifestyle. Dsquared2 non è solo moda ma anche un’esperienza e, in questo caso, abbiamo avvicinato il nostro mondo a quello degli interni con alcune stampe rappresentative per noi e il nostro brand.

Come sarà il futuro della moda? Nel Metaverso?

D&D: Probabilmente.

Dsquared2 Wallpaper
Dsquared2 Wallpaper Cement Horizon (ph. courtesy Dsquared2)
Dsquared2 Wallpaper
Dsquared2 Wallpaper Monogram (ph. courtesy Dsquared2)

Vi state preparando?

D&D: Può sembrare una follia, ma forse esisterà un nuovo mondo parallelo, nonostante siamo convinti che resterà tutto anche in questo universo. È decisamente interessante e ci piace pensare che esisterà un luogo virtuale dove potersi trasformare in qualcosa di diverso.

Intervista courtesy of LONDONART Magazine
www.londonart.it

Napapijri x Moreno Ferrari, outerwear d’autore sostenibile

La capsule collection Napapijri x Moreno Ferrari nasce dalla collaborazione tra il brand outerwear e il celebre designer e artista italiano. L’ispirazione arriva dal “NO” project, installazione realizzata da Ferrari nel 2018, quando rivisitò l’iconica giacca del marchio Skidoo, trasformandola in un’opera d’arte, e riflettendo così sul confine tra impegno e responsabilità verso l’ambiente, che la moda – tra le industrie più inquinanti in assoluto – non può più permettersi di eludere.

Alan Cappelli sostenibilità
Alan Cappelli Goetz indossa la T-shirt della capsule Napapijri x Moreno Ferrari

Design, sostenibilità e innovazione in una capsule collection unica

La volontà di sviluppare progetti che abbraccino questa filosofia, in cui il negativo diventa positivo, si traduce ora in una collezione circolare che coniuga design, sostenibilità e un approccio innovativo ed etico alle tematiche ambientali.

Napapijri x Moreno Ferrari presenta una serie di look urban interamente riciclabili, declinati in cinque stili che rimandano ad elementi del paesaggio urbano (come pluriball e reti di sicurezza in plastica), evidenziando la necessità di riutilizzare e riciclare il più possibile. Trasformati in stampe all-over e grafismi, questi dettagli creano una connessione con il “NO” project, concretizzando l’impegno di dare nuova vita e scopo a tessuti di scarto e oggetti ordinari, comune sia alla griffe che al designer vincitore del Compasso d’Oro.

La collab include due giacche Northfarer, due felpe (con cappuccio o collo a imbuto) e una T-shirt; capi interamente riciclabili confezionati in ECONYL®, nylon rigenerato di ultima generazione, realizzato a partire da materiali di recupero quali reti da pesca, scampoli, moquette… Tutti i pezzi possono essere resi dopo due anni dall’acquisto e trasformati in nuovi filati e prodotti. 

Durante la design week, la capsule collection verrà esposta presso la galleria Rossana Orlandi: l’appuntamento è per martedì 7 giugno, dalle ore 18. A “interpretare” questa partnership d’eccezione, che fonde mirabilmente ricercatezza stilistica e principi green, è stato chiamato l’attore Alan Cappelli Goetz. Di origine belga, si divide tra recitazione (ha preso parte a numerosi film e serie di successo, in Italia e all’estero, da I Medici a The Poison Rose passando per Carla, La fuggitiva, Provaci ancora prof!…) e attivismo ambientale, spendendosi in prima persona per cause e progetti che sposano le istanze (fondamentali) della sostenibilità nel senso più ampio del termine, parlandone anche sui social (su Instagram conta oltre 91 mila follower), nonché sul sito di Style Magazine, dove cura una rubrica ad hoc.
Abbiamo colto l’occasione per rivolgergli qualche domanda sulla collezione e, più in generale, su alcuni punti chiave della moda “eco”.

Alan Cappelli Goetz ci parla della collab e della moda sostenibile

Napapijri Moreno Ferrari
Alan Cappelli Goetz indossa la felpa Napapijri x Moreno Ferrari

Da “ambassador” della collab Napapijri x Moreno Ferrari, cosa ti ha più colpito di questa collezione?

Oltre ad essere esteticamente accattivante, rappresenta un passo avanti nella giusta direzione, quella verso cui dovrebbe dirigersi l’intera industria; se il sistema della moda prendesse realmente in considerazione la sostenibilità oltre che il design, avremmo un enorme problema in meno cui badare nel nostro tentativo di risolvere i disastri combinati finora con un modello di consumo – e produzione – completamente sbagliato.

Quello della sostenibilità è un argomento cruciale per il fashion system come mai prima d’ora, il rischio è che si risolva tutto in mera comunicazione. Secondo te come può orientarsi il cliente nel mare magnum odierno di iniziative, formule, termini più o meno accattivanti…?

Il rischio del greenwashing c’è, inutile negarlo. Va intanto precisato che la moda, in quanto parzialmente superflua, ha responsabilità ancora maggiori di altri settori, ad esempio quello alimentare.
Per rispondere alla domanda, se si vuole visitare il Machu Picchu non basta prendere l’aereo, bisogna chiedere a una guida, capire come arrivarci, organizzarsi… Idem se si vuole mangiare un piatto sano, è necessario andare al mercato, scegliere gli ingredienti, cucinarli, dedicarci insomma tempo, fare una ricerca. Allo stesso modo, nel momento in cui si acquista un capo bisognerebbe avere un minimo di cognizione di causa, orientandosi verso oggetti dall’iter produttivo sostenibile.
Il fattore principale è l’educazione. In linea di massima, il fast fashion è sempre sbagliato perché imperniato su modelli errati, per il resto dobbiamo verificare l’approccio dei brand alla questione: alcuni puntano sul riuso dei filati, altri sull’economia circolare, altri ancora (come Napapijri) consentono di recuperare i materiali recycled dopo due anni. Non possiamo permetterci scelte comode o pigre, per questo è consigliabile anche leggere i giornali “giusti” e seguire determinati influencer. Vale, inoltre, il principio del consumare meno ma meglio; pensiamo magari di non avere abbastanza tempo da dedicare alla ricerca, tuttavia se si comprano meno abiti, pagandoli di più, sicuramente avranno una qualità maggiore e dureranno anni, e si evitano così nuovi giri di shopping. In alternativa, si può optare per il vintage, la scelta migliore in assoluto.

Napapijri maglie sostenibili
T-shirt della capsule Napapijri x Moreno Ferrari

Su cosa dovrebbero puntare i brand per rendere realmente sostenibili le collezioni? E sotto il profilo comunicativo, quali pensi siano le modalità migliori per informare i consumatori sul tema? 

Per un marchio è sicuramente complicato, in termini economici, creare collezioni sostenibili e ricercate esteticamente a un prezzo accessibile. Per muoversi nella giusta direzione, però, si potrebbe intanto guardare ai competitor in questo senso più bravi, tenendo poi a mente i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU, siglare partnership, selezionare materie prime di un certo tipo, far confezionare i prodotti in paesi dove la manodopera sia tutelata (non può esistere una vera sostenibilità ambientale senza quella sociale).
Un discorso tanto ovvio, banale quanto complesso da tradurre in realtà. In fondo è comodo lasciare le cose come stanno perché – per adesso – le conseguenze ricadono sui paesi più sfortunati, che subiscono per primi gli effetti del cambiamento climatico. Viviamo in un pianeta ormai globalizzato, qualsiasi cosa succeda in altre nazioni finirà con l’avere un impatto anche su di noi; non possiamo prescindere dal benessere altrui, ogni fabbrica che inquina in Cina danneggia il mondo in cui viviamo tutti.
Penso – e spero – che a un certo punto interverranno sul tema stati e governi, la responsabilità è infatti anche delle istituzioni; gli attori privati non faranno mai tutto il possibile finché non ci saranno leggi che li obblighino a farlo. Se i consumatori scelgono determinati prodotti e le aziende li seguono, indirizzando il mercato, le istituzioni agiscono di conseguenza.
Credo sia importante pure individuare i testimonial giusti, come dicevo. Non a caso le Nazioni Unite hanno chiamato DiCaprio, che oltre a dare un contributo estremamente importante, si distingue comunicando in modo incisivo sull’argomento.
Infine, un punto che rimarco sempre: noi consumatori possiamo votare sia con le elezioni sia col portafoglio, compiendo cioè scelte che abbiano un risvolto politico, ricordandoci che ogni volta i nostri acquisti “sbagliati” danneggiano l’ambiente, dunque la nostra stessa salute. La responsabilità non è solo nostra, ma è anche nostra.

Alan Cappelli Goetz
Anorak Napapijri x Moreno Ferrari
Napapijri green
La T-shirt della collezione indossata da Alan Cappelli Goetz

Credits

Talent Alan Cappelli Goetz

Photographer Filippo Thiella

Ph. assistant Davide Simonelli

Stylist Alessandra Gubinelli

Grooming Claudia Blengio @simonebelliagency

Nell’immagine in apertura, Alan Cappelli Goetz indossa Napapijri x Moreno Ferrari

Urban jewellery made in Milano: Nove25

Laboratorio creativo, retailer e innovatore, Nove25 si differenzia da qualsiasi altra proposta della gioielleria tradizionale per l’uso esclusivo di argento e pietre dure, la creatività legata alla cultura urban e la personalizzazione. Un concept che favorisce la proposta di pezzi esclusivi a un prezzo corretto per un target eterogeneo di appassionati.

Nove25 campaign
La nuova campagna Never. Stop. Shining. di Nove25

Oggi il brand lancia il suo manifesto Never. Stop. Shining attraverso una campagna ad hoc, che descrive i valori e la mission che ne rendono autentico e unico il messaggio. Una consapevolezza nata in diciassette anni di lavoro ed ha preso forza nell’ultimo biennio di investimenti, anche emotivi, in termini di fiducia, lealtà, intuizioni e nuova energia.
Il marchio milanese ci invita a non smettere mai di brillare. Ci sprona a tenere accesa la nostra scintilla, a restare vivi nell’ascolto, nell’espressione della propria unicità e creatività. Ci indica una via luminosa, della speranza e della giovinezza, della solidarietà comune e di un’umanità che non intende restare nell’ombra.

Manintown intervista Roberto Dibenedetto, fondatore e Ceo di Nove25

Nove25 ha dimostrato di essere una realtà consolidata tra i suoi appassionati, come si resiste alle mode?

Come abbiamo sempre fatto, ossia cercando di sviluppare prodotti e collezioni sempre più ricercate e curate in ogni dettaglio. Proposte che mixano presente e passato, nate con l’obiettivo di durare nel tempo e resistere alle mode.

Nove25 jewellery

Il brand è antesignano del mondo della personalizzazione, è stato tra i primi a fornire un servizio di alto livello sul custom online. Quali sono, su questo fronte, le prossime frontiere?

Il nostro configuratore è sempre in fase di evoluzione, nei prossimi mesi presenteremo nuovi modelli di anelli, bracciali e collane che vedranno abbinati argento e zirconi. Entro la fine dell’anno, poi, sarà la volta della nuova linea custom di gioielli in oro 18k e diamanti, un progetto molto importante, a cui stiamo lavorando da diversi mesi.

Nove25 bracciali uomo
Nove25 anelli argento

Avete abituato il vostro pubblico a collaborazioni altisonanti, ci può dare un’anteprima delle prossime?

A giugno usciranno due collaborazioni, una con un grande sportivo italiano, Marvin Vettori, che combatte per la federazione UFC nella categoria dei pesi medi; l’altra è una capsule con l’artista italiano Mace, in concomitanza con l’uscita del suo nuovo disco.

Tra le ultime collaborazioni spicca quella con Levante, la ritiene un’esperienza di successo? Dobbiamo aspettarci un bis?

La collaborazione con Claudia è stata in assoluto una delle più riuscite per Nove25, sia dal punto di vista del prodotto sia per gli ottimi risultati nelle vendite.
È stato davvero stimolante cercare di interpretare la sua sensibilità artistica e la sua passione per la letteratura epica, riuscendo a creare una collezione elegante e delicata. La partnership si concluderà a dicembre, ma in futuro potrebbero esserci delle bellissime sorprese…

Nove25 anelli

Ci può descrivere la nuova collezione?

La nuova collezione, Opulence, si diversifica da quelle proposte in questi anni, ed è un perfetto incastro di gioielli brillanti e componibili. Gli anelli e le fedine si incastrano tra loro come tessere di un mosaico luccicante, sempre diverso. Insieme agli orecchini e agli earcuff, tutti i gioielli si compongono per fondersi in forme personali e varie. Le numerose combinazioni lasciano ogni volta la libertà di raccontarsi e reinventarsi, giocando sul sottile confine tra discrezione e prorompente eleganza, in pieno stile Nove25.

Alessandro Piavani, l’artigianalità della recitazione

Alessandro Piavani serie
Total look MSGM (ph. Gianmarco Chieregato)

Gli spettatori che, dal 20 maggio, seguono su Sky e Now Blocco 181, avranno imparato a riconoscere Ludo, biondino di ottima famiglia che, con i sodali (e amanti) Bea e Mahdi, tenta di scalare le gerarchie dello spaccio di Milano, muovendosi in un contesto dicotomico: di qua lo scintillio della metropoli lombarda, i grattacieli di Citylife, locali esclusivi, palazzi nobiliari, di là il degrado, la violenza delle gang, l’atmosfera livida che grava sul complesso edilizio (immaginario) cui si rifà il titolo. A dare corpo e voce al personaggio, che dietro la spavalderia, il vitalismo profuso in feste, eccessi e giri loschi cela la fragilità di un ragazzo profondamente solo, bisognoso di crearsi da sé i legami che la sua famiglia non ha mai saputo garantirgli, è Alessandro Piavani.

28 anni, bergamasco, è un interprete dal robusto curriculum attoriale: diplomato alla Royal Central School of Speech and Drama di Londra, dal 2015 ha accumulato ruoli in numerosi spettacoli, serie e film, italiani (Saremo giovani e bellissimi, La mafia uccide solo d’estate, La porta rossa, Blanca) e internazionali (I Medici, I due papi, The Little Drummer Girl). Ora ha l’opportunità, nei panni di uno dei protagonisti della prima produzione in-house Sky Studios Italia, di esplorare le tante sfaccettature di un personaggio che, a suo parere, è dotato di una «ricca, complessa interiorità», sviluppata ricorrendo alla «cassetta degli attrezzi» di cui ha imparato a servirsi nell’accademia londinese, fondamentali in quanto «la bellezza della recitazione risiede nel poter prendere ciò che serve dai vari metodi, aggiungendoci qualcosa di tuo».

Alessandro Piavani film
Total look MSGM (ph. Gianmarco Chieregato)

Partiamo da Ludo, al centro del triangolo amoroso (e criminale) di Blocco 181 insieme a Bea e Mahdi. Senza svelare troppo della trama, cos’altro vuoi condividere su di lui con chi ci legge?

A differenza degli altri personaggi di Blocco 181 (una costellazione di realtà agli antipodi), viene dall’alta borghesia milanese, ha un background del tutto diverso da quello degli amici. La sua vita agiata, tuttavia, non l’ha facilitato nella ricerca del proprio posto nel mondo, anzi, fondamentalmente è solo. Nell’incontro e relazione con Bea, che coinvolgerà anche il suo migliore amico Mahdi, riesce in qualche modo a trovare la famiglia che ha cercato a lungo, visto che la sua è assente, non compare mai.
Ludo appare vivace, allegro, molto fluido, sa muoversi in ogni ambiente della città, ma dietro la facciata di spensieratezza nasconde forti inquietudini, un senso di profonda solitudine; proverà a colmarlo insistendo sulla relazione complicata che è il cuore della serie.

Quali sono state le difficoltà maggiori nell’interpretarlo e quali, invece, gli aspetti che hai trovato più interessanti?

Penso che gli aspetti difficili e quelli piacevoli, in parte, si siano sovrapposti, nel senso che per me era importante non insistere eccessivamente sul lato “sgamato” di Ludo. Ho avuto spesso la tentazione di indugiare nella sua tendenza a gigioneggiare, col suo modo di fare da cazzone, se mi si passa il termine. Non volevo soffermarmici troppo, per non perdere di vista la sua ricca, complessa interiorità. La difficoltà maggiore è stata probabilmente questa, trovare – e bilanciare – i differenti livelli del personaggio, che pure in tante scene si diverte come un matto, e io con lui.

Blocco 181 protagonisti
Alessandro Piavani (a destra) con Laura Osma e Andrea Dodero sul set di Blocco 181 (ph. Gabriele Micalizzi)

È ormai consistente il numero dei titoli italiani che, negli anni, hanno mostrato “dall’interno” le dinamiche della criminalità, penso a Gomorra, Romanzo criminale, Suburra… Secondo te in cosa si differenzia la serie rispetto ad altre del filone?

In primis, banalmente, nel fatto che si concentra su un cosmo più ristretto, non segue la malavita organizzata che gestisce traffici da milioni di euro.
Ritengo inoltre che la cornice del crime sia, per l’appunto, una cornice, una parte del racconto, dominato dall’amore che unisce i protagonisti. È un po’ un Romeo e Giulietta con due Romei, in fondo anche la tragedia shakespeariana, con le sue lotte familiari, si può considerare crime. Il punto di forza di Blocco 181, forse, sta proprio nel rapporto tra Ludo, Mahdi e Bea, che credo sia una novità; una storia d’amore tra due uomini e una donna mostrata per come è, senza etichette, giudizi o riflessioni da costruirci su, accade e basta. Trovo significativo inserirla nel quadro del genere criminale, che finora ha dato poco spazio alle infinite sfumature dell’animo umano, privilegiandone gli elementi di violenza, machisti.

Ti sei diplomato alla Royal Central School of Speech and Drama, un’istituzione, basta vedere l’elenco di alcuni ex alunni, da Judi Dench ad Andrew Garfield. Cosa ti è rimasto di quell’esperienza?

Per frequentare la scuola mi sono trasferito a Londra, avvertivo la necessità di mettermi in discussione e approfondire la parte artigianale della recitazione. In questo, il master alla Royal Central School si è rivelato una ricchezza incredibile, mi sono potuto concentrare ogni giorno sulle tecniche, i trucchi, i giochi, in una parola sull’essenza del mestiere, cercando di farne tesoro e impiegarli nelle produzioni successive.
La scuola anglosassone, secondo me, ti spinge ad essere chiaro su quello che cerchi, sulle specificità del proprio modo di recitare su cui concentrarsi; avevo bisogno di crearmi una cassetta degli attrezzi con gli strumenti che mi sarebbero potuti tornare utili, la Central me li ha messi a disposizione.
La bellezza del nostro lavoro, in fondo, risiede nel poter prendere ciò che serve dai vari metodi, aggiungendoci qualcosa di tuo.

Blocco 181 serie Sky
Alessandro Piavani e Andrea Dodero (Mahdi) in una foto di scena della serie (ph. Gabriele Micalizzi)

Hai studiato e lavorato nel Regno Unito, avendo occasione di confrontarti con due scuole diverse, britannica e italiana, quali pensi siano i rispettivi tratti peculiari?

Budget a parte, non mi sembra ci siano grosse differenze di approccio. Sicuramente sui set inglesi, e internazionali in genere, mi son sentito da subito benvoluto. In The Little Drummer Girl, ad esempio, pur avendo un ruolo piccolo ed essendo uno sconosciuto appena sbarcato a Londra, circondato da attori incredibili, ho percepito nettamente questa predisposizione ad accogliere, mi ha colpito.

Non hai neppure trent’anni ma la tua filmografia è già nutrita. A quale ruolo, tra quelli interpretati finora, sei più legato, e perché?

A Bruno di Saremo giovani e bellissimi, arrivato tra l’altro nel momento in cui ero appena stato ammesso alla Royal Central School, ho dovuto rinunciare perché la storia mi piaceva da impazzire, e alla fine mi sono trovato benissimo sia con Barbara Bobulova (la protagonista) che con la regista, Letizia Lamartire. Poi si trattava del mio primo film, con un ruolo centrale che mi caricava di responsabilità, ho dovuto imparare a cantare, a suonare la chitarra; in breve, un’esperienza fantastica, non posso non ricordarla con enorme piacere. Inoltre la troupe era composta quasi esclusivamente da neodiplomati del Centro sperimentale, avevo la sensazione di girare con dei compagni di scuola, è stato entusiasmante.

Blocco 181 trama
Ludo e Bea (Laura Osma) nel primo episodio di Blocco 181 (ph. Gabriele Micalizzi)

In un’intervista del 2018 confessavi il sogno di lavorare, un giorno, con Xavier Dolan. Altri registi da inserire in un’ipotetica lista dei desideri?

Ero giovane, i miti cambiano spesso. Sono troppi i registi che ammiro per sceglierne solo due o tre. Penso che gli autori più bravi siano quelli che riescono a tirare fuori, dagli attori, elementi che loro stessi non sapevano di avere. Certamente mi piacerebbe lavorare con un regista che mi trasformi, facendomi ricredere su tutto ciò che so di me e della recitazione.

A cosa stai lavorando attualmente?

Ci sono un paio di progetti all’orizzonte dei quali sono molto soddisfatto, non posso anticipare altro. Poi cerco di tenermi impegnato in tutti i modi, cercando anche di scrivere e collaborare con alcuni amici.

Blocco 181 serie tv cast
Ludo, Bea, Mahdi di Blocco 181 (ph. Gabriele Micalizzi)

Talent Alessandro Piavani

Nell’immagine in apertura, Alessandro Piavani indossa total look MSGM (ph. Gianmarco Chieregato)

Alle radici del talent factor: il successo globale di Luca Tommassini

«Ho sempre creduto nei sogni, e ho sempre creduto che per raggiungerli bisogna coltivarli costantemente, pensarci quasi in modo ossessivo»: è questo il mantra di sempre di Luca Tommassini. Ballerino e coreografo, attore, regista e direttore artistico, un artista a 360 gradi. Sopra le righe, dalla personalità travolgente, ha saputo conquistarsi uno spazio di primo piano attraverso creatività e grandissimo talento.

Il debutto avviene da giovanissimo nel 1987 in Festival di Pippo Baudo, poi il lavoro in moltissimi spettacoli, ballando con Lorella CuccariniHeather Parisi. Nel 1993 decide di trasferirsi in America, e la sua carriera ha una svolta clamorosa. Madonna lo sceglie come primo ballerino per il suo tour mondiale The Girlie Show, partecipa anche al video di Human Nature e al musical Evita. Da quel momento, tutte le star statunitensi lo cercano per i loro spettacoli. Balla con Diana Ross, PrinceWhitney Houston, Kylie Minogue e Janet Jackson. E riesce a realizzare un altro suo grande sogno: quello di ballare con colui che, sin da bambino, è stato il suo mito, il suo idolo, Michael Jackson, che nel 1997 lo chiama a ballare nel video di Blood on the Dance Floor.  Come coreografo ha collaborato inoltre con Geri Halliwell nel celebre video It’s Raining Men e in quello di Mi Chico Latino, curando poi la regia del videoclip di Ride it.

Nei primi anni Duemila rientra in Italia e lavora con Paola e Chiara, con Giorgia (della quale cura il restyling dell’immagine), torna a lavorare con l’amica Lorella Cuccarini e con Ambra Angiolini, Elisa, Marco Mengoni, Anna Tatangelo. Per dieci anni è coreografo dell’edizione italiana di X Factor, e nel 2018 è direttore artistico del serale di Amici.
La fine del 2020 segna l’inizio della collaborazione di Luca con Tim per la realizzazione del mega spot istituzionale, il più lungo della storia, in onda il 31 dicembre con l’inconfondibile voce di Mina, realizzando così uno dei sogni di sempre di Luca, collaborare con la più grande artista italiana di tutti i tempi.

A maggio 2021, cura la direzione artistica della performance della rappresentante di San Marino, Senhit, con il brano Adrenalina all’Eurovision Song Contest, di cui ha firmato anche la regia del video featuring Flo Rida, uno dei più grandi rapper americani. A giugno Luca firma la collezione We Are Dreamers in collaborazione con Dream Project Spa, con un progetto speciale a favore di Pangea ONLUS per supportare i sogni di mamme e bambini con la creazione di un laboratorio ludico pedagogico.

Manintown intervista Luca Tommassini

Nella tua lunga carriera hai lavorato con i pesi massimi dello star system internazionale (tra gli altri Michael Jackson, Prince, Madonna, Diana Ross) e nostrano, dalla Carrà a Claudio Baglioni, fra tutte c’è un’esperienza che ritieni particolarmente significativa, cui sei più legato perché ha rappresentato un punto di svolta?

Difficile dire quale esperienza sia stata la più significativa, ho avuto tanti punti di svolta: iniziare a lavorare in America, diventare il primo ballerino di Madonna, e ancora quando mi chiamò Michael Jackson. Se parliamo di danza, ognuno di questi eventi ha dato una spinta al mio successo e, nel tempo, il mio lavoro si è evoluto. Sono stato regista della pubblicità di Coca-Cola, ho lavorato in televisione dietro le quinte, come giudice in programmi televisivi italiani e stranieri. Tanti punti di svolta in diversi ambiti della mia carriera.

Si diceva delle numerose star con cui hai avuto occasione di collaborare, guardando invece al panorama odierno, chi pensi abbia le potenzialità per affermarsi ai massimi livelli, in Italia e non?

In ambito musicale certamente i Måneskin hanno aperto ancora di più la scena italiana al mercato internazionale, rendendola più interessante. Ancora, Mahmood, Madame, Blanco. Penso che in Italia si tende a essere critici verso i nuovi artisti, quelli che conquistano subito il successo ci rendono meno “stronzi” nel giudicarli.
In ambito cinema invece siamo sempre stati conosciuti e apprezzati e ora sempre di più, anche con le nuove generazioni di attori. Mi piace molto Luca Marinelli che sta avendo un grande successo mentre, tra i giovanissimi, Filippo Scotti nel film di Sorrentino.

Nel 2015 usciva per Mondadori il tuo libro – in parte autobiografico – Fattore T, in cui partivi dalla domanda su cosa sia il talento; la riproponiamo, cos’è secondo te il talento?

Il talento è un valore molto sfaccettato e ha diverse chiavi di lettura. C’è un talento naturale, innato, che riguarda l’arte (un dono di natura), però c’è anche un talento “imprenditoriale” che può compensare quello artistico. Essere famosi, quindi, non significa avere talento, oggi spesso è sufficiente vendersi bene per avere successo e costruire un personaggio su altre basi. I social, in particolare, contribuiscono a questo processo. Il talento è arte, diversamente sei solo una persona famosa.

Quali qualità deve possedere oggi un ballerino/a  e, in generale, un new talent della scena artistica musicale per emergere e affermarsi, professionalmente parlando?

Quando sono stato in America non c’erano ballerini italiani, oggi Los Angeles ne è piena. Questo significa che il livello tecnico si è globalizzato ed è diventato molto più alto, e anche che gli italiani hanno una marcia in più, pensiamo tra gli altri alle nostre eccellenze come Jacopo Tisci, che è stato primo ballerino del Bol’šoj di Mosca.
Se parliamo di un ballerino commerciale, invece, è importante che questo tipo di profilo conosca tantissimi stili e abbia alla base tanti anni di studio. Certo, non basta solo la tecnica, personalmente scelgo persone che si sentano libere mentre ballano, sappiano giocare, essere buffe senza paura di risultare ridicole. Bisogna essere un po’ attori a livello di struttura, non mi interessa il ballerino perfetto. Devi essere sveglio e calarti nella parte, altrimenti diventi poco interessante per il pubblico ma anche per te stesso.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

Al momento i progetti più recenti sono lo show di Enrico Papi in cui ho il ruolo di direttore artistico, poi ho in corso anche la serie Le fate ignoranti di cui ho curato le coreografie. Ho appena finito di girare con i Manetti Bros. Diabolik 2, inoltre sto lavorando a tanti video musicali e numerosi progetti, al momento top secret. Saranno mesi intensi!

Nell’immagine in apertura, Luca Tommassini tra Álvaro Soler e Fedez

Dai film alla musica, un nuovo debutto per Sergio Ruggeri

Sergio Ruggeri testate
Pants Versace Jeans Couture, knit MRZ, sneakers Antonio Marras, earring Nove25

Sergio Ruggeri, romano, segni particolari: bellissimo, artista a 360 gradi. Lo abbiamo potuto apprezzare come attore in diverse serie tv (come Baby) e al cinema, ma ora siamo qui per conoscere il nuovo lato di Sergio, il più introspettivo, quello del cantautore. La passione per la musica c’è sempre stata, ora però ce la sta regalando canzone dopo canzone. La prima è stata Testate, poi Farmacie ed in ultima battuta Patatrac; fanno tutte parte di un EP che completerà il quadro, che ci presenterà in estate.

La sua attenzione e cura di livello cinematografico, invece, la possiamo vedere soprattutto nei video che accompagnano i tre brani, nei quali ci racconta tutto ciò che prova e ha provato, andando a scavare nel profondo delle relazioni tossiche, narrandole e mettendole a fuoco a modo suo.

Sergio Ruggeri farmacie
Shirt and leather pants Desa 1972, boots Bruno Bordese, jewelry Nove25

Un giorno di qualche mese fa, aprendo il tuo Instagram, si era azzerato tutto, come mai?

Avevo voglia di mettere in primo piano, e di far capire alla gente, che stavo lavorando a un progetto nuovo, qualcosa cui tengo tantissimo, ovvero le mie canzoni. Ho voluto concentrare l’attenzione delle persone che mi seguivano sul fatto che mi sto dedicando anima e cuore alla scrittura e alla musica.
Bisogna sempre azzerare per ripartire, il che non vuol dire che nella vita reale faccio solo questo, continuo a studiare e fare provini, però non ti nascondo che sto impiegando tantissimo tempo ed energie per completare l’album. Era un po’ come dire “Sergio è anche questo, ve lo sbatto in faccia, fatemi sapere cosa ne pensate”.

Da dove parte il tuo progetto musicale?

La verità è che ho sempre avuto dei pezzi che curavo da solo in camera, senza sapere come, però scrivevo e mi facevo le mie cose da solo. Poi due anni fa ho avuto la fortuna di conoscere il mio socio, Matteo Gasparini, che adesso è anche il mio produttore, da lì ho iniziato ad andare in studio e lavorarci seriamente. Comunque scrivo da sempre, non è una novità per me, anzi, io quando sono fermo a un semaforo prendo lo smartphone e segno qualcosa sulle note. Solitamente di notte sviluppo quello che ho pensato, elaboro una canzone. Di solito non ci impiego tantissimo, se sento che ci sto mettendo troppo vuol dire che c’è qualcosa che non va e lascio perdere.

Sergio Ruggeri Baby
Total look Antonio Marras, earring Nove25

Come ti sei avvicinato alla scrittura?

Le prime volte che andavo dallo psicologo, non avevo questa capacità di raccontarmi, quindi – tra virgolette – perdevo tempo, e lui allora mi aveva consigliato di scrivere tutto ciò che mi faceva stare bene o male, come fosse un compito in classe, e quando andavo da lui potevo leggerglielo a voce alta.

Cosa vuoi raccontare di te con la musica?

Racconto davvero tanto, soprattutto per chi non mi conosce, nel senso che son cose che trapelano quando sono in giro nella mia vita quotidiana. Da febbraio sono usciti tre brani, ora ne usciranno altrettanti.
Mi concentro soprattutto su quello che provo all’interno di un rapporto tossico, cioè quel tipo di amore che, anche quando arrivi alla consapevolezza che non ti fa stare bene, fai di tutto per non vedere, continui a sbatterci la testa e soffrire; a quel punto, vuol dire che si sono davvero innescate dinamiche tossiche. Due persone che sanno di non farsi bene non dovrebbero starsi vicino.

Parlami dei video che sono usciti insieme ai brani, piuttosto grafici e forti.

Se abbassi il volume sono tre cortometraggi, abbiamo puntato tantissimo sull’unire le due mie passioni, quella cinematografica e la musica. Nel terzo video hanno lavorato per me due attori bravissimi, Francesco Gheghi e Giulia Maenza, li ringrazio molto.
Nel video di Patatrac racconto proprio questo, il suicidio d’amore, si tratta però di due persone che, prima di uccidersi, fanno l’amore, consapevoli di non essere divisi anche se alla fine dovrebbero.

Mi avevi detto che volevi raccontare del tuo essere introverso...

Raccontare cose che non vengono raccontate: mi fa davvero piacere, credo sia questa la mia chiave di trasposizione. Ad esempio nel secondo video, Farmacie, abbiamo narrato un momento molto, molto intimo ed introverso di Sergio, nonché dell’uomo in generale; penso che la cosa peggiore che possa succedere a chi soffre per una relazione finita sia proprio masturbarsi sulla sua ex. Ditemi tutto insomma, ma non che sono banale.

Quindi scrivere è terapeutico?

Per me vedere un foglio pieno è un segno di riuscita, riesco a dirmi che ce l’ho fatta.

Sergio Ruggeri musica
Total look Iceberg X Kailand O. Morris
Sergio Ruggeri artista musica
Vest Di Liborio, cargo pants Antonio Marras, earring Nove25, leather bracelet stylist’s archive

Credits

Talent Sergio Ruggeri

Editor in Chief Federico Poletti

Text Fabrizio Imas

Photographer Davide Musto

Stylist Alfredo Fabrizio

Photographer assistant Valentina Ciampaglia

Stylist assistant Federica Mele

Hair & make-up Laura Casato @simonebelliagency

Hair & make-up assistant Chiara Crescenzi @simonebelliagency

Location Novotel Roma Eur

Nell’immagine in apertura, Sergio Ruggeri indossa maglia MRZ, orecchino Nove25

Aka 7even, l’astro emergente dell’urban-pop italiano

Sette è un numero dai molteplici significati, particolarmente importante per il 21enne Luca Marzano alias Aka 7even, tra gli astri nascenti della scena urban-pop nostrana. Rimanda, infatti, a un episodio doloroso del suo passato, la settimana trascorsa all’ospedale in coma per un’encefalite, quando aveva sette anni, tramutato però in un elemento di forza e speranza: non a caso la sua autobiografia, uscita l’anno scorso, si intitola 7 vite. Un artista poliedrico insomma, che ha saputo convogliare la voglia di riscatto nella musica: ammesso nel 2020 alla fase finale di Amici, durante il talent show firma la prima hit, Mi manchi. Uscito dal programma, pubblica l’album che porta il suo nome d’arte e contiene il brano Loca, tormentone certificato triplo disco platino (vanta anche una versione in spagnolo).
Il 2021, d’altra parte, è un annus mirabilis per il cantautore: vince il premio “Best Italian Act” agli MTV Ema e viene selezionato per il Festival di Sanremo 2022, cui partecipa con Perfetta così.

Aka7even Mi manchi
Tank and trousers Yezael by Angelo Cruciani, jacket Christopher Raxxy, shoes Acupuncture

Tra le influenze che hanno inciso maggiormente sulla propria cifra musicale, Luca cita Bruno Mars, Justin Bieber, The Weeknd, ma in realtà la sua è una sigla personalissima, che concretizza in una musica definita «versatile, con forti influenze di sound americano a livello di topline e produzioni»), risultato dello «spaziare tra generi e stili diversi».

Tra pochi giorni, Aka 7even inaugurerà il tour estivo che lo porterà in varie città d’Italia e, dopo le tappe iniziali di Roma (3 giugno) Napoli (5-6) e Milano (9), proseguirà con quelle – tra le altre – di Gallipoli, Civitanova Marche, Santa Marinella, per concludersi il 23 agosto in Costa Smeralda, a Porto Cervo. Con l’occasione, presenterà dal vivo la nuova canzone Come la prima volta.

Loca Aka 7even
Total look Ferrari, shoes Lanvin

Cos’è per te il talento, come lo definiresti?

Penso sia un dono, una benedizione da mettere a frutto.

Com’è nata la passione per la musica? Quali sono le tue principali influenze, in questo senso?

La mia passione per la musica è nata da piccolo, all’età di 5 anni, quando ho iniziato a suonare la batteria, per passare poi a pianoforte, clarinetto e altri strumenti.
Le mie principali influenze sono Bruno Mars, Justin Bieber e The Weeknd.

Aka 7even tour 2022
Tank and trousers Yezael by Angelo Cruciani, necklace Radà

Il brano cui, per un motivo o per l’altro, sei più legato.

La distanza di un amore e Cambiare di Alex Baroni, sono i due brani con cui ho iniziato a cantare.

Come descriveresti la tua musica a chi non l’ha mai ascoltata?

Versatile, con forti influenze di sound americano a livello di topline e produzioni. Amo spaziare tra generi e stili diversi, senza fossilizzarmi sulle categorie.

Dove ti vedi tra qualche anno?

Mi vedo o meglio, aspiro a vedermi in giro per il mondo, a portare ovunque la mia musica. Il sogno è riempire gli stadi, duettando con artisti internazionali.

Aka7even Amici 2022
Total look Versace Jeans Couture, necklace Radà

Credits

Talent Aka 7even

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Filippo Thiella

Stylist Simone Folli

Photographer assistant Andrea Lenzi

Stylist assistant Nadia Mistri

Grooming Cecilia Olmedi

Nell’immagine in apertura, Aka 7even indossa giacca Moschino

Chiamamifaro, il nuovo progetto musicale di Angelica Gori

Voce calda e avvolgente, sorriso dolce, un timbro unico: Angelica Gori, 21 anni ancora da compiere, figlia di Cristina Parodi e Giorgio Gori, ha ampiamente dimostrato di avere tutte le carte in regola per diventare un’artista, scrollandosi così di dosso la fastidiosa etichetta del “figlio di”. Studentessa al CPM Music Institute di Milano, sui social (dov’è seguitissima, in particolare su Instagram) è conosciuta anche come Gispia, nomignolo affibbiatole in famiglia, cui è rimasta molto legata. Proprio celandosi dietro questo nickname, nel 2018 Angelica incide le prime tracce in inglese, per dare poi vita al duo chiamamifaro, col chitarrista ed ex compagno di liceo Alessandro Belotti. Il debutto avviene nel luglio 2020 con Pasta Rossa, che supera rapidamente il mezzo milione di stream, seguito da brani quali Domenica, Bistrot, Limiti, Londra, riuniti l’anno seguente nell’EP Macchie. I suoi due ultimi singoli sono Addio sul serio e Pioggia di CBD, uscito alla fine di febbraio.

Nel 2021 la cantautrice bergamasca nell’orbita di Sony (il suo produttore è il frontman della band Pinguini Tattici Nucleari, Riccardo Zanotti) è stata una dei new talent italiani supportati da Spotify Radar, oltre a girare il Paese con un tour promozionale che l’ha portata a condividere il palco con artisti come Sangiovanni, Ariete e i rovere, con la sua musica «da post-nostalgia – come la descrive lei – che parla sostanzialmente di addii (a persone, situazioni, abitudini) e di un tentativo un po’ disilluso di accettazione».

Angelica Gori cantante
Dress Beatrice .B, earring and bracelet Barbara Biffoli, choker and rings Invaerso, necklace Ami Mops

Cos’è per te il talento? Come lo definiresti?

Ho paura a dare una definizione di talento, perché più passa il tempo e più imparo a riconoscerlo nelle cose minime, e ogni volta si presenta in modo diverso.
Scrivendo canzoni, comunque, mi rendo conto che ci sono sostanzialmente due step: il momento dell’intuizione, dell’idea, e quello del lavoro da metterle intorno per fornirle una base. Un tempo avrei detto che il talento andava ricollegato al momento dell’intuizione, ora invece lo individuo nel lavoro con cui, razionalmente, si plasma il contesto e il supporto più consono a quell’idea. Sembra strano a dirsi, ma si può costruire negli anni e con la fatica, oltre che con quel guizzo di genialità che, se anche esiste, va coltivato e incanalato ogni giorno.

Com’è nata la passione per la musica? Quali sono le tue principali influenze, in questo senso?

La musica per me è sempre stata legata alla sfera familiare. Ho tanti ricordi di mia madre che davanti al camino suonava canzoni di Bob Dylan, o di mio padre che – con la stessa chitarra che oggi è mia, dalla quale non mi separo mai – strimpellava le canzoni di Fabrizio De André. Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia in cui alla fine di ogni cena si cantava tutti insieme, innamorandomi della magia che si creava in quei momenti, dell’atmosfera quasi tangibile in cui sembra che anche il tempo si fermi. Così a quattordici anni ho cominciato a suonare la chitarra di papà, da lì è venuto tutto il resto.

Angelica Gori album
Jacket Nolita, dress Gianluca Capannolo, necklaces Ami Mops, sandals Kallisté

Il brano a cui, per un motivo o l’altro, sei più legata.

Questa è una domanda difficilissima. C’è una categoria di brani cui sono particolarmente affezionata perché, anche dopo anni, riescono sempre a emozionarmi; uno di questi è ad esempio Mama, You Been on My Mind nella versione di Jeff Buckley. Tuttavia, anche se come risposta è scontatissima, i pezzi cui sono più legata in assoluto sono alcuni di quelli che ho scritto; in un modo o nell’altro, rappresentano il mio cercare di aprirmi timidamente al mondo, un qualcosa di delicato, speciale e goffo allo stesso tempo.
Ora che ci penso molte delle mie canzoni del cuore non sono state ancora pubblicate, lo saranno presto, se tutto va secondo i piani.

Pasta rossa canzone
Choker Absidem, necklace Barbara Biffoli, top and pants Silvian Heach, shirt Martino Midali, sandals Bruno Bordese

Come descriveresti la tua musica a chi non l’ha mai ascoltata?

È musica da post-nostalgia, canzoni che parlano sostanzialmente di addii (a persone, situazioni, abitudini) e di un tentativo un po’ disilluso di accettazione

Dove ti vedi tra qualche anno?

Vorrei vedermi in un ideale Roxy Bar con tutte le persone che ho intorno e, ciascuna in maniera diversa, mi stanno accompagnando in questo percorso. Mi piacerebbe ripensare col sorriso a quanto fossi ingenua in ciò che facevo, ma sarebbe ugualmente bello realizzare che, tutto sommato, fosse quella la strada giusta. L’unica, forse.

Credits

Talent Chiamamifaro

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Marco D’Amico

Fashion editor Valentina Serra

Make-up Giorgia Palvarini @simonebelliagency

Hair stylist Giacomo Marazzi

Location Giuliano Cairoli Garden (Socco di Fino Mornasco, CO)

Nell’immagine in apertura, Angelica Gori indossa dress Oblique Creations, choker Absidem, earring Barbara Biffoli

Giuseppe Futia, nuovo volto (internazionale) del cinema italiano

Occhi verdissimi e il physique du rôle del modello, l’attore 25enne Giuseppe Futia, dopo essersi affermato nel fashion world (con campagne per nomi del peso di Pepe Jeans, Kappa e Zalando), si è dedicato anche alla recitazione, volando a Los Angeles per frequentare la prestigiosa Stella Adler Academy.

L’occasione giusta («per certi versi è stato un miracolo», ricorda), il ruolo di Tommaso in Ancora più bello (2021), è arrivata proprio mentre era negli Usa.
Lo vedremo presto in Backstage – Dietro le quinte, pellicola su nove (aspiranti) partecipanti a uno spettacolo teatrale che, per guadagnarsi l’ingaggio, dovranno dar prova di notevoli abilità; la descrive come «un’esperienza intensa», che ha richiesto «due mesi passati a provare, ballando e cantando; una sorta di accademia lampo».

Tommaso Ancora più bello
Total look Federico Cina, shoes Bally

In Backstage – Dietro le quinte sei uno dei nove ragazzi che aspirano a partecipare allo show del Sistina, e per dimostrare di meritarsi uno dei posti disponibili dovranno sfoderare le proprie capacità nella danza, nel canto e nella recitazione. Come ti sei trovato rispetto a tali “perfomance”?

Sotto il profilo attoriale è stato un sogno e ho fatto subito gruppo con gli altri, anche perché abbiamo passato oltre due mesi a provare tutti i giorni, ballando e cantando, insieme al team del Sistina; una sorta di accademia lampo per prepararci alla riprese. Pensavo di cavarmela meglio col ballo, invece… Di sicuro, ne ho ricavato molto sudore e dolore, ma penso e spero di esser riuscito a tirare fuori qualcosa di buono. Sono felice, come pure il resto del cast, eravamo in ottime mani. Siamo fiduciosi, ansiosi di vedere il risultato finale.

Eri anche nel cast di Ancora più bello (ora su Netflix), cosa ricordi del tuo esordio cinematografico?

Per certi versi è stato un miracolo, al momento del provino mi trovavo in America, ho lasciato tutto per sostenerlo. Non scorderò mai il momento in cui mi hanno comunicato che ero stato scelto, ho pianto per una ventina di minuti.
Ricordavo, del primo film (Sul più bello, ndr), che non sembrava neppure italiano, era una teen comedy ma nient’affatto scontata; era un bel progetto insomma, per questo ero così emozionato. Sul set, alla fine, c’era un’atmosfera più che positiva, il gruppo era già affiatato e ho avvertito la voglia di stare insieme, divertendosi. Girare a Torino è stato bellissimo e ho conosciuto Loredana Bertè, cosa volere di più?

Tommaso ancora più bello attore
Total look Dsquared2

Nel 2017 ti sei trasferito oltreoceano per frequentare la Stella Adler Academy of Acting, a Los Angeles. Qual è stato il primo impatto con la capitale mondiale del cinema?

Sembrerà scontato, ma a colpirmi è stato innanzitutto il caldo. Vengo dalla Calabria, perciò con quel clima, i parchi enormi, Venice Beach, mi sono sentito a casa. Uomini, donne, tutti sono bellissimi e sognano di sfondare nel cinema, c’è un fermento palpabile.
Mi è rimasta impressa, su tutto, la convinzione generale che si può – e si deve – sempre migliorare, lo pensano pure i grandi attori, i professionisti affermati che insegnano all’accademia. Ho toccato con mano un tipo di umiltà, di voglia di fare che è espressione di una cultura diversa.

Qualche aneddoto o episodio da ricordare del periodo a L.A.? Qual è per te l’aspetto migliore e quello, se non peggiore, più problematico della metropoli californiana?

Un aneddoto riguarda l’incontro con Jon Voight, non so per quale motivo, fermandolo per una foto, l’ho chiamato “Antoine”. Lui è rimasto interdetto, ma per pietà ha acconsentito. Un addetto alla sorveglianza, assistendo alla scena, mi ha squadrato per poi dirmi “bella figura di m…”.
La parte migliore si ricollega a quanto dicevo prima, ci sono infinite opportunità, i ritmi sono forsennati ma le possibilità non mancano. Il rovescio della medaglia sta nel fatto che a Los Angeles è davvero facile sentirsi soli, per non parlare della competizione, esasperante. Le folle di senzatetto ricordano costantemente quanto possa essere duro e spietato, come ambiente.

Sei cresciuto con la compagnia LocriTeatro, hai sostenuto il provino per la scuola Paolo Grassi, recitato in parecchi spettacoli… Il teatro è sempre stato nelle tue corde? Cosa lo differenzia maggiormente dal cinema, a tuo parere?

LocriTeatro è stata una salvezza, venendo da un paesino rappresentava l’unica realtà dove, se volevi recitare, potevi combinare qualcosa. All’inizio ero scettico, però mi sono completamente ricreduto. La vicinanza del pubblico, la necessità di andare avanti qualsiasi cosa accada fanno del teatro una scuola impareggiabile.
La differenza principale rispetto a cinema e tv penso sia l’esigenza di seguire un ritmo preciso, di proseguire a ogni costo; ti dà un’adrenalina che, davanti la macchina da presa, devi invece costruirti da solo, trovandoti magari a rigirare quaranta volte la scena. Sul set bisogna impostare i propri tempi, il teatro al contrario ti forza alla coralità, e l’esperienza umana risulta più coinvolgente.

Da modello, hai sicuramente dimestichezza con outfit, dress code, tips e simili, come descriveresti il tuo stile? Opti per una specie di uniforme o preferisci variare?

Minimal chic, trovo mi si addica; prediligo il total black, la mia uniforme è quella, non vado pazzo per le cose stravaganti, sebbene ultimamente stia provando a osare un filo di più con gli accessori. Resto fedele, comunque, al look pulito.

Progetti per il futuro? Cosa ti auguri, come attore e persona?

Per il momento nulla di definito, in futuro mi piacerebbe lavorare il più possibile come attore, e mettermi alla prova, costantemente. Questo lavoro del resto è così, ti costringe a cambiare, sfidandoti, è proprio questo il bello.

Giuseppe Futia film
Total look Dsquared2
Ancora più bello film cast
Total look Dsquared2

Credits

Talent Giuseppe Futia

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Davide Musto

Stylist Alfredo Fabrizio

Photographer assistants Valentina Ciampaglia, Riccardo Albanese

Stylist assistant Chiara Polci

Grooming Eleonora Mantovani @simonebelliagency

Location Hotel American Palace Eur

Nell’immagine in apertura, Giuseppe Futia indossa maglia Federico Cina, pantaloni stylist’s archive

Models to follow: Demba Mbaye

La vitalità di Demba, modello 23enne di origine senegalese, è prorompente. Non si può non restarne colpiti, sentendolo parlare, con un misto di stupore, entusiasmo e (legittimo) orgoglio, dei tanti brand per cui ha sfilato o posato (e che brand: Emporio Armani, Armani Exchange, Marni, Diesel), di quanto si goda la passerella («fosse per me – confessa – farei avanti e indietro cinquanta volte»), dell’emozione che lo pervade al pensiero del prossimo lavoro, in California.
Viso pulito, sguardo penetrante, treccine celate spesso dal cappellino, statura imponente (190 cm), fisico longilineo cesellato dallo sport, praticato a lungo prima di gettarsi a capofitto nel tourbillon frenetico di défilé, presentazioni, editoriali, fitting & Co., il ragazzo ambisce a farsi strada nella fashion industry, conscio delle proprie possibilità perché «detto con la massima umiltà, so quanto valgo».

Demba Mbaye model
Total look Antonio Marras (ph. Manuel Scrima)

Le agenzie di model management ingaggiano sempre più ragazzi di colore che, finalmente, ampliano un po’ lo spettro delle personalità associate alla nostra società. Cosa pensi al riguardo, trovi che le cose, nella moda italiana (e non solo), stiano effettivamente cambiando?

In effetti sì, da circa tre anni a questa parte veniamo presi molto in considerazione, come saprai non è stato sempre così, nell’ambiente italiano. È una rivoluzione, tra ragazzi di colore poi ci troviamo bene, facciamo squadra sostenendoci a vicenda. Speriamo si possa proseguire su questa strada.

Mi diceva il tuo agente che sei un po’ “pazzo”, cosa credi intendesse?

(Ride, ndr) Penso si riferisse al fatto che sono un po’ “complicato”, non in senso negativo, però ho quasi sempre la testa fra le nuvole e, a volte, ci si mette anche la sfortuna, che sul piano professionale non aiuta. Tuttavia non perdo mai la fiducia e, specie sul lavoro, sono concentrato, consapevole di ciò che faccio e di dove voglio arrivare.

Ti va di raccontarci la tua storia? Da dove arrivi, come e quando hai iniziato a fare il modello…?

Sono nato e cresciuto in Senegal, fino all’età di otto anni, per poi trasferirmi in Italia, a Cilavegna, in provincia di Pavia. Fin da piccolo ho giocato a calcio, smettendo nel 2019 quando mi sono capitati i primi lavori da modello. In verità, ho cominciato approfittando di una casualità, perché camminavo a Porta Genova, a Milano, e un modello mi ha chiesto se stessi andando al casting di Armani. Gli ho risposto di sì (non era vero, ovviamente) e l’ho seguito; terminate le prove, il casting director del brand mi ha chiesto i contatti, gli ho dato il biglietto da visita di una signora che, tempo prima, mi aveva fermato per strada, ma non avevo mai richiamato né ero andato alla sua agenzia. Alla fine, per fortuna, è andata bene, sono stato preso per la sfilata.

So che anche tuo fratello Imam è nel settore, vi confrontate e scambiate pareri sul modeling?

Certo, lui è più piccolo, l’anno scorso sono riuscito a introdurlo in questo mondo e adesso sta ottenendo ottimi risultati, ne sono contentissimo. Adoro mio fratello, parliamo sempre dei nostri lavori, mi chiede dei consigli che, avendo maggiore esperienza, sono lieti di dargli. È sveglio e intelligente, ci capiamo al volo.

Antonio Marras abiti uomo
Total look Antonio Marras (ph. Manuel Scrima)

Moda a parte, quali sono le tue passioni, di cosa ti interessi?

Sono pieno di idee, in generale mi piace giocare a calcio e praticare qualsiasi sport, lo styling, divertirmi, anche. Mi piace la vita, in ogni sua sfumatura.

Eri nella line-up di recenti show di marchi come Emporio Armani, Marni, Philipp Plein, Diesel. Qual è stata la sfilata più emozionante, che, per un motivo o per l’altro, ricordi con maggior piacere?

Sono due in realtà, ossia la prima, quella cioè di Emporio Armani di cui dicevamo (Autunno/Inverno 2019-20, ndr), in cui mi sono trovato di fronte al signor Giorgio, ti lascio immaginare l’emozione; e poi Philipp Plein, che si è tenuta il giorno precedente alla chiusura totale per la pandemia. Mi sono goduto tutto, la location, l’atmosfera, l’energia che si respirava.

Hai preso parte anche a degli shooting per testate importanti, Vanity Fair, Icon, Esquire, Nss Magazine… Secondo te, quali sono le differenze principali tra editoriali e catwalk?

Dello shooting apprezzo che sia “concentrato”, mi sono sempre trovato bene sui set, il numero di persone è ridotto e si viene a creare un bel legame, ti senti più a tuo agio, inoltre puoi scambiare quattro chiacchiere, confrontarti, imparare da chi ne sa più di te. Nel backstage degli show, invece, c’è un tale caos e frenesia che nessuno ha del tempo da dedicarti, risulta un po’ dispersivo come contesto, però lo amo ugualmente, fosse per me farei avanti e indietro cinquanta volte. Da Philipp Plein, infatti, mi sono gasato quando, prima di iniziare, ci hanno detto che la passerella era lunga 350 metri.

A giudicare dal profilo Instagram, il tuo è uno stile di marca street, che prevede sneakers Jordan o Yeezy, baseball cap, jeans a vita bassa, pantaloni cargo, bomber dalle tonalità piene.Tu come lo descriveresti?

Con un aggettivo, street futuristico.

Antonio Marras modello
Total look Antonio Marras (ph. Manuel Scrima)

Un capo/accessorio che compare sempre nei tuoi look?

Ho due must: l’underwear Armani e le calze colorate Missoni.

Designer o griffe con cui sarebbe un sogno lavorare?

Sono tante, ne cito tre: sarebbe bellissimo sfilare per Versace, Louis Vuitton Men e Burberry.

Sei piuttosto richiesto negli Stati Uniti, a breve ti recherai lì per lavoro, cosa ti aspetti da questo viaggio e, in generale, dal futuro?

Per il futuro mi auguro il meglio, tutto il bene possibile, perché mi amo e, detto con la massima umiltà, so quanto valgo. Le aspettative sono alte anche per il viaggio negli Usa, vedremo quel che succederà, non appena avrà sistemato tutto con i vari permessi partirò per Los Angeles, non sto nella pelle…

Antonio Marras look
Total look Antonio Marras (ph. Manuel Scrima)
Antonio Marras moda uomo
Total look Antonio Marras (ph. Manuel Scrima)
Antonio Marras moda
Total look Antonio Marras (ph. Manuel Scrima)

Credits

In tutto il servizio, Demba indossa abiti e accessori Antonio Marras

Talent Demba Mbaye @D’ManagementTwo Management

Photographer Manuel Scrima

Casting by Models Milano Scouting

Location Nonostante Marras Milano

Special thanks to Leonardo ed Efisio Marras

Guardare in faccia la realtà: la musica secondo Bresh

Non ha eroi e nemmeno li vuole, perché il mondo reale non è quello che gli ha raccontato la Disney da bambino. Il disincanto che porta nei suoi testi forse parte proprio da lì: gli Articolo 31 cantavano che la vita non è un film, e Bresh torna a dirci che non è tempo per miti e leggende, che non si può più credere neanche agli antichi greci.

A renderlo chi è oggi, piuttosto, sono state tre persone nella sua vita: i suoi genitori e De André. «Io vedo la virilità in un uomo come lui, nella sua consapevolezza» mi confida parlando di modelli sociali, del suo ultimo album Oro Blu, e di chi l’ha cresciuto e ispirato. Per riferirsi a lui la gente parla di “cantautorap”, termine che gli garba poco e non ha tutti i torti. Ma che Andrea Brasi in arte Bresh riesca a portare nella sua produzione grandi picchi di riflessione, analisi sociale e schemi coraggiosi di mascolinità, è un dato di fatto. Ed è uno degli aspetti più potenti della sua musica.

Bresh rapper
Total look Hermès

Molte persone stanno ascoltando il tuo ultimo album in questi giorni, Oro Blu. Come lo vivi questo limbo, il primo periodo in cui le nuove canzoni iniziano a girare e sai di essere sotto una lente d’ingrandimento? È un bel periodo. Personalmente mi dà tanta carica, anche inconscia. Non è poco per una persona come me, che invece cerca di rimanere sempre con i piedi per terra. Devo dire la verità, questo momento qui serve per tutto.

Non hai neanche un po’ d’ansia?

Come dico sempre, cerco di delegare le ansie. Credo di essere ansioso per natura e quindi cerco di combatterlo. E di vincere la battaglia.

Clementino ha scritto pubblicamente che è in loop con un brano in particolare del tuo disco, Andrea.

È vero, che grande. Mi ha fatto piacere di brutto, lui lo conosco da un po’, ci siamo incontrati a Milano e poi grazie al calcio, quando giocava il Napoli. C’è feeling.

Bresh Oro blu intervista
Varsity jacket Philipp Plein

È interessante che uno dei pezzi più amati dell’album sia anche uno dei più intimi, perché in Andrea racconti del tuo passato, di quando cantavi ma senza lezioni, senza chitarra e senza tour. Eppure credo ci siano degli aspetti molto universali qui dentro, sei d’accordo?

Sono d’accordo, sicuramente l’universalità sta in quel concetto di provare a conoscersi. Sono certi passaggi di poesia che magari può sembrare anche ariosa, e invece è molto concreta come idea. Soprattutto in tempi come questi, dove è difficile trovare il proprio gusto perché si pensa tanto al gusto degli altri e si prova ad omologarsi. Quell’aspetto lì della canzone credo funzioni, credo crei empatia. Pensa che le prime parole sono state proprio «Andrea cantava, cantava, cantava». Sono uscite mentre ero in macchina da solo e alla fine mi è sembrato giusto tenerle. Ci ho costruito un testo intorno ed è come se fosse venuta fuori una canzone che doveva venir fuori da sola, anche senza che la cercassi. Quando è uscito il pezzo mi sono preso un po’ male, le prime ore…

Perché è uno di quei pezzi intimi che hai bisogno di buttar giù, ma poi speri quasi che non lo ascolti nessuno?

(Ride) Esatto, brava, è veramente quella roba lì! Doveva rimanere nel disco, ma era troppo bella e l’ho fatta uscire come singolo. Avevo quasi dimenticato che parlava di me, che mi ero spogliato.

I tuoi testi sono anche pieni di riflessioni e pulsioni sociali, mi piace l’idea che tu scelga di portarle in campo.

Sì, la ricerca del punto di vista è fondamentale per me. Perché è anche la ricerca della convivenza: provi a combattere gli altri e a non scottarti, ma alla fine devi comprendere e convivere.

Bresh Angelina Jolie
Total look Dolce & Gabbana

Pensi che il tuo pubblico sia legato a questo aspetto della tua musica?

Ti dico che lo spero. Io non ci penso quando scrivo, è una roba mia, ma in effetti credo che mi abbia anche un po’ distinto.

Toglimi una curiosità: se fosse dipeso da te quale canzone avresti reso il tuo tormentone al posto di Angelina Jolie?

Sai che non ci ho mai pensato? Se ne scelgo una mi sembra di far torto alle altre.

Allora te ne concedo tre.

Se me ne dai tre, allora ti dico: Svuotatasche, poi La Presa B e La Presa Male, perché racconta proprio uno stato di alterazione delle emozioni, gli alti e bassi, gli sbalzi di umore. E poi dai, sì, Angelina piace anche a me.

«Non ho eroi / e non li vuoi nemmeno», ma anche «Per essere una leggenda non è un gran momento storico». Nella tua produzione è molto forte questa visione: parli di un disincanto verso il mito, che siano gli antichi greci o i supereroi Marvel. Quando hai iniziato a vederla così?

Sai, io sono una vittima della Disney. Quel meccanismo un po’ sognante è difficile poi da applicare alla realtà della società di oggi. Succede che a un certo punto, come hai detto tu, ti disilludi e subentra il disincanto. Credo sia questo… la voglia di sognare ma lo scontro con la realtà.

E quando l’hai capito che questo mondo non era Disneyland?

(Ride) Forse l’ho capito da subito, è per quello che sono stato rapito. Il punto è sempre la ricerca della verità: quando ti scotti devi anche fare un passo indietro, capire la tua infanzia. Quali sono stati i passaggi per arrivare alla personalità che hai oggi? Io ricordo che fin da piccolo guardavo quella roba, fa parte della mia educazione e non nascondo niente. Forse la vera novità di questi tempi è provare a non nascondere più niente, no?

Direi di sì. Se non possiamo parlare di eroi, possiamo forse parlare di ispirazioni? Ci sono state persone che ti hanno ispirato, ma intendo ispirato davvero?

Sicuramente per me l’educatore maggiore, al di là dei miei genitori, è stato Faber. Questa mia parte apparentemente meno virile, che mi porta anche a raccontare aspetti poco machi, è un’ispirazione che arriva da chi mi ha insegnato a non nascondere niente. Io vedo la virilità in un uomo come De André, in quel suo modo di fare, nella sua consapevolezza.

Siamo ovviamente d’accordo sul fatto che il rap rientri nel cantautorato, ma secondo te perché in Italia non ha ancora questo diritto di nascita rispetto al pop, all’indie e via dicendo?

Il gap sta forse nelle generazioni che non lo accettano ancora. Le nuove generazioni invece l’hanno capito, per chi ha un po’ di visione è tutto chiaro. Il cantautore era uno che cantava quello che aveva scritto, e nel rap è uguale. Cambia la forma ma il modello è quello. Considera che l’ambiente che vivo io non è ostile, non la vede proprio questa distinzione. Vai a vedere Marra o Guè Pequeno, è gente che ha studiato, che ha letto libri. Gente che sa scrivere e che conosce il senso delle parole e della comunicazione. La meritocrazia della curiosità è importante in questo mestiere.

Bresh musica disco
Total look Zegna

Sto leggendo il terzo libro di Sally Rooney, giovanissima autrice di bestseller. Lei come te mette in discussione il binomio fama-vita privilegiata, perché sennò poi di cosa scrivi?

Io forse un po’ la faccio la vita privilegiata, però (ride).

Anche lei. Però tu hai detto spesso di voler schivare i vizi di fama, o sbaglio?

Non sbagli, soprattutto certi vizi sociali. Perché come dico in Come stai, «sono una scena, pure la parte, sono la curiosità». Se io devo immedesimarmi in qualcosa per scrivere, mi immedesimo anche nel contesto. Se però resto in casa, tranquillo nella mia fortezza, come posso immedesimarmi?

Hai paura di contaminarti?

Sì, ma so che lo farò. So che in qualche modo succederà. La sfida sarà quella di contaminarmi mantenendo sempre la mia matrice.

Da ragazzino ti chiamavano Bresh e non ti piaceva, poi è diventato il tuo nome d’arte. Mi racconti una volta in cui quel soprannome ti ha fatto arrabbiare e il momento in cui, invece, hai iniziato a riconoscerti in Bresh?

Come parola ci ho messo un po’ a sentirla mia, ha un suono inglesizzato. Mi sarei dato un nome più italiano che cosmopolita. Una volta mia zia Marina mi ha chiamato Bresh e son rimasto un po’ così, le ho detto «non ti permettere zia, almeno tu chiamami Andrea» (ride). Ma credo di essermi riconosciuto nel nome d’arte solo durante i primi concerti, mi sono reso conto che c’era ciccia, c’era qualcuno che stava ascoltando davvero e si ritrovava nella mia musica… Allora anche Bresh ha preso un valore diverso.

Bresh cantante Instagram
Print bomber jacket and shorts Roberto Cavalli

Quando dici «nome d’arte» te la ridi. Ti imbarazza definirti un artista?

È molto imbarazzante. Perché è una definizione grossa, quindi autoriferirsela è una responsabilità. Sono quelle cose che è giusto che ti dicano gli altri.

Concordo. L’ultima domanda te la faccio al contrario: come definiresti tu la tua produzione fin qui? E che scenari prospetti?

C’è il discorso del cantautorato e del rap, e c’è anche una parola che unisce il tutto ma che per me suona malissimo: cantautorap. Tremenda, no? Quindi cercherò di non pensarci, come faccio sempre, e lascerò che a guidarmi sia l’istinto. Farò quello che mi piace di più. E in fondo penso che se uno ascolta il mio disco, capirà da sé per cosa sono portato.

Credits

Talent Bresh

Editor in Chief Federico Poletti

Text Chiara Del Zanno

Photographer Davide Musto

Ph. assistant Riccardo Albanese

Stylist Simone Folli

Stylist assistant Nadia Mistri

Grooming Giorgia Palvarini @simonebelliagency

Nell’immagine in apertura, Bresh indossa total look Antonio Marras

Art direction e non solo: il talento rivoluzionario di Laccio

Giovane, eclettico, poliedrico, Emanuele Cristofoli (in arte Laccio) rappresenta un talento non convenzionale e rivoluzionario nel mondo della danza e non solo.
La sua carriera intraprende diverse direzioni: prima ballerino, poi coreografo e direttore artistico. Oggi grazie all’esperienza, Laccio è in grado di curare, coordinare ed organizzare un evento, che sia di natura teatrale, musicale o televisiva, definendolo in ogni suo dettaglio. La sua direzione artistica si avvale di un’impronta cangiante ed innovativa, è evidente il suo stampo nella realtà del Modulo Project, la compagnia di danza urbana più attiva ed originale nel panorama nazionale, e della Modulo Academy, la prima accademia ad avviamento professionale dedicata a ballerini specializzati nell’ambito delle danze urbane.

Laccio art director
Laccio (ph. Umberto Nicoletti)

Il tuo è un percorso sui generis: hai studiato Interior Design allo IED, quindi la moda, con collezioni vendute in prestigiose boutique e department store, e progetti nei quali hai spaziato tra programmi come X Factor, cinema (Loro di Sorrentino, Muccino), teatro, show per brand del calibro di Calzedonia, Alberta Ferretti, Benetton. Ritieni che questo mix di versatilità ed eclettismo sia decisivo per affermarsi nel mondo dello spettacolo odierno? Cerchi di trasmetterlo anche ai tuoi allievi e ai giovani con cui hai a che fare?

Oggi il mondo dell’intrattenimento è sempre più ricco di contaminazioni. Si parla spesso di “performance” perché si mescolano linguaggi e forme di comunicazione. La danza, La musica, l’arte visiva ma anche  grafica e styling sono ingredienti necessari, ognuno necessita dell’altro per completare un racconto. Lo studio dell’ interior e l’esperienza nella moda mi permettono di parlare il linguaggio dei professionisti che lavorano con me, così da capire cosa è fattibile e cosa no. È fondamentale conoscere le risorse e saperle sfruttare.
I giovani dovrebbero sapere che oggi il settore dello spettacolo è fatto di commistione tra i reparti (costumi, luci, scenografia, musica e coreografia), la conoscenza è fondamentale per far si che l’unione di questi elementi crei qualcosa di armonico.

Laccio coreografia x factor
Courtesy Sky Press Office, ph. Bianca Burgo

Cos’è secondo te il talento?

Difficile descriverlo, oggi bisogna avere la capacità di raccontarsi e di sapersi raccontare. Il “genio” è colui che ha delle idee, delle cose da dire e che sa farlo usando i mezzi che la società offre. Non ci può essere spazio per la “sregolatezza”, ma c’è bisogno di organizzazione e pianificazione.

Puoi parlarci nel dettaglio del tuo lavoro da Modulo Academy (accademia che forma e avvia al lavoro ballerini specializzati nella danza urban)? Quali sono le caratteristiche irrinunciabili per un emergente che intenda farsi strada in questo settore?

L’Academy è un luogo in cui i ragazzi lavorano su loro stessi e su come trovare il proprio linguaggio passando attraverso quello degli insegnanti. Si trova a Milano e questo ci permette di portare al suo interno diversi professionisti che lavorano nel mondo dello spettacolo, artisti che riportano le proprie esperienze. Cerco di coinvolgerli nei progetti, dandogli la possibilità di completare la loro formazione vivendo direttamente delle esperienze straordinarie. Non ultima, la finale di X Factor al Forum di Assago.
Oggi per distinguersi come danzatori bisogna avere una forte base tecnica, ma anche cura di stessi e della propria immagine come artisti, con la A maiuscola. Conoscere ciò che ci circonda, vedere il lavoro degli altri per poi lasciarsi ispirare da qualsiasi forma d’arte.

Laccio x factor
Courtesy Sky Press Office, ph. Bianca Burgo

Quali tra i nuovi nomi e talenti in ascesa ritieni abbiano la possibilità di diventare volti di spicco dello showbiz?

Sicuramente Blanco ha portato una ventata di energia che ha “spettinato” la scena musicale. In generale credo ci siano molti artisti della scena underground con grande talento e voglia di raccontarsi. Come in ogni cosa però, bisogna avere l’occasione di mostrare le proprie capacità, quell’occasione che ci permetta di far vedere, provare a molti ciò che spesso rimane chiuso in una cameretta, in un cassetto o in un mp3 dentro il nostro laptop.
Con X Factor diamo la possibilità di “urlare” ad un pubblico selezionato le proprie canzoni. In particolare le ultime due edizioni hanno dato la possibilità ai ragazzi di portare i propri pezzi e abbiamo lavorato molto sulle loro personalità. Devo dire che è stato uno spettacolo nuovo!

I tuoi progetti futuri?

Al momento sto seguendo Laura Pausini, un’artista che stimo molto per la sua sensibilità e per la capacità di farsi ispirare da tutto ciò che la circonda.
Inoltre è in arrivo l’Eurovision Song Contest, forse l’evento nella mia carriera più esposto mediaticamente! Oltre a seguire Laura per le sue performance, curerò le coreografie di tutta la parte show, sarà un lavoro faticoso ma sicuramente indimenticabile.

Per l’immagine in apertura, courtesy Sky Press Office, photographer Bianca Burgo

‘AB Infinite 1’, l’opera in divenire di Andrea Bonaceto con DART Milano alla Permanente

È l’ultima installazione che porta la firma di Andrea Bonaceto, da pochi giorni esposta al Museo della Permanente di Milano. Il titolo AB Infinite 1 – oltre a richiamare le iniziali dell’artista – fa riferimento all’NFT reportage della vita dell’artista, un viaggio immersivo che va ab infinito, all’origine (simboleggiato dal numero 1), in cui il pubblico diventa parte integrante dell’opera, attraverso le sue interazioni operate registrando il proprio account sul sito web www.abinfinite1.com e includendo sui propri canali social Instagram e Twitter l’hashtag #abinfinite1. Un approccio interattivo rivoluzionario che fonde le esperienze quotidiane degli utenti con l’opera d’arte di Bonaceto, grazie al sistema della blockchain Algorand.

AB Infinite 1, Andrea Bonaceto

L’opera, presentata per la prima volta a Londra il 16 maggio in un’installazione interattiva che ha avvolto interamente l‘esterno dell’edificio del flagship store di Flannels a Oxford Street, si trova adesso in esclusiva in Italia, grazie al supporto di DART, per poi continuare il suo tour in giro per il mondo ed infine essere battuta all’asta. AB Infinite 1 rappresenta in maniera esplicita e concreta la filosofia dell’artista, nella sua visione democratica e inclusiva in cui tutti proveniamo dalla stessa fonte e nel valore dell’opera d’arte come espressione di un ciclo vitale in continuo mutamento, alimentato dall’ideatore quanto dal suo fruitore.

Gli abbiamo posto qualche domanda, per conoscere più da vicino il suo punto di vista su una società in rapida evoluzione.

Andrea Bonaceto (ph. Alice Ambrogio)

Intervista all’artista Andrea Bonaceto

Come e perché sei arrivato a realizzare opere NFT?

È stato un processo molto organico e naturale. Ho cominciando lavorando su carta da stampante con matite e pennarelli. Successivamente, sono passato a colori acrilici su tela e cartoncino. Dopo essermi reso conto che i colori acrilici hanno una forte uniformità cromatica, ho pensato che il medium digitale potesse rendere giustizia alle mie idee. Ed è successo nel 2019 e 2020, i primi anni in cui gli NFT cominciavano ad affacciarsi sul mondo dell’arte. Ho subito compreso la portata del cambiamento apportata da questa nuova tecnologia, è stato allora che ho realizzato le mie prime opere NFT.

Ci racconti il tuo rapporto tra arte fisica e digitale? ti servi di entrambe e le fai convivere o preferisci lavorare direttamente in digitale?

Lavoro sia nell’ambito dell’arte fisica che di quella digitale. Le mie prime opere acriliche sono state una serie di paesaggi astratti e 33 ritratti di amici e familiari. Tuttora alterno opere digitali ad opere fisiche. Mi piace la dimensione plastica della creazione dell’opera fisica, in cui il colore si può toccare con mano ed ha uno spessore. L’opera fisica però non permette una rappresentazione su larga scala e non ha quella dinamicità che può avere il corrispettivo digitale. Interpreto l’NFT come un altro strumento creativo che mi permette di rendere l’opera digitale ancora più unica, potendo farla influenzare da ogni tipo di input a mia discrezione.
In sintesi, sia il mondo fisico che digitale sono interessanti per me. Entrambi hanno le loro peculiarità e caratteristiche. Ma è molto importante per me spaziare fra questi due mondi. Lavorando su una dinamicità che offre continuamente nuovi spunti creativi. 

AB Infinite 1, Andrea Bonaceto

In che modo è cambiato il rapporto col mercato e le gallerie?

Le gallerie hanno sempre un ruolo importante ma quello che è cambiato è il rapporto di forza fra la galleria e l’artista. Nell’ambito digitale NFT gli artisti hanno la possibilità di avere un contatto diretto con i loro collezionisti. La galleria in questo caso non è più la sola garante delle interazioni con i collezionisti, ma è l’artista stesso a costruire il suo rapporto diretto con il suo pubblico. Il ruolo della galleria, quindi, diventa quello di ampliare questo gruppo di interesse che già l’artista ha, ed elevare il suo profilo sia da un punto di vista di visibilità che concettuale.

Quali sono i metaversi con cui preferisci lavorare e per quale motivo?

Il metaverso io lo definisco come un mondo digitale basato sul database decentralizzato della blockchain, in cui è possibile interagire con tutto ciò che ci circonda, come facciamo nella vita di tutti i giorni nel modo reale. Fra i metaversi di prima generazione menzionerei Somnium Space, che permette anche un’esperienza di realtà virtuale, ma anche Decentraland e Cryptovoxels. Non ho lavorato direttamente con loro, ma diverse mie opere sono costantemente esposte in questi ambiti. 
Qualche mese fa, ho avuto la possibilità di collaborare con un piccolo metaverso focalizzato principalmente sul settore dell’arte che si chiama Arium: lì ho creato la mia galleria personale sotto forma di una piramide bianca, con la punta dorata, e ho invitato alcuni miei collezionisti a visitarla per vedere le mie opere. Da un punto di vista grafico è un’esperienza ancora embrionale, però è stato interessante sperimentare.
Un metaverso di seconda generazione che prova a migliorare molto il lato grafico è ad esempio Mona Gallery. Dobbiamo anche osservare da vicino grandi società come Epic Games, Meta e altre che stanno lavorando al loro metaverso. La mia speranza è che queste esperienze, che hanno sicuramente un grande valore da un punto di vista grafico e di facile utilizzo, mantengano l’ethos di decentralizzazione e trasparenza proprio della tecnologia blockchain.

L’opera di Bonaceto alla mostra DART 2121. NFT ART OF THE FUTURE, al Museo della Permanente

Come immagini un futuro nell’arte in evoluzione, visto dove siamo arrivati in questo momento?

Gli NFT e la blockchain costituiscono il cambio di paradigma più importante della nostra generazione. L’arte è solo la punta dell’iceberg di questo cambiamento, verrà sublimata verso una dimensione più politica e sociale. In un mondo in cui automazione, robotica ed intelligenza artificiale stanno crescendo in maniera esponenziale, dobbiamo strutturare una società in cui gli individui esistono per quello che veramente sono, in maniera autentica. 
Questo è il compito dell’arte – liberare l’individuo dalle sovrastrutture imposte dalla società in un modello preistorico, che vuole ognuno di noi vivere in una dimensione puramente operativa, unidimensionale e non autentica, con l’unico scopo di ricoprire una certa mansione all’interno della società. Già oggi, e sempre di più in futuro, queste mansioni verranno prese in carico dall’automazione che robotica ed intelligenza artificiale porteranno. Questa non è una mia opinione ma un dato di fatto. 
Quindi voglio immaginare un futuro in cui l’arte è un mezzo e non un fine. Viviamo già una fase in cui interpretare l’arte solo come un fine è anacronistico. Arte vuol dire essere coerenti con se stessi – è lo strumento attraverso il quale gli individui possono ottenere gradi sempre maggiori di libertà, che io credo sia il fine più alto dell’essere umano. NFT e blockchain sono solo un mezzo per velocizzare questo cambiamento già in atto.

Musica con un twist artistico: Gemello

Il primo dei romantici, non l’ultimo. Gemello ci ha abituati alla nostalgia e alla malinconia già in epoca non sospetta. Le infilava entrambe tra le maglie hardcore dei pezzi che hanno fatto storia insieme al TruceKlan e In The Panchine. Le ha dipinte su tela, aggrovigliate tra i dettagli fittissimi dei suoi quadri.

Perché la sua è una lunga storia d’amore tra due arti diverse, rap e pittura, ovvero tra Gemello e Andrea Ambrogio. E allora capita che a New York o a Miami, chi compra un quadro di Andrea non sappia neanche che dietro al pittore ci sia il rapper. Senza gabbie e senza rinnegare niente, Gemello si racconta. L’ultimo disco, La Quiete, i tempi del Ministero dell’Inferno, la scena rap che forse invecchia meglio di quella pop, l’etichetta di genio incompreso che gli hanno messo addosso. Probabilmente l’unica a piacergli e l’unica possibile, per uno che fa arte in disparte da vent’anni:

«Non sarò mai un McDonald’s che fattura col sorriso – mi dice – Io sono il ristorantino piccolo, che se lo conosci ci vai da una vita e te lo tieni stretto». E non avremmo potuto dirlo meglio di lui.

Gemello Andrea Ambrogio
Shirt Ardusse

Esci da un ritorno forte, La Quiete è un album che ha soddisfatto aspettative trasversali. È qualcosa su cui avevi ragionato, quella di allargare il target anche nelle scelte che hai fatto in fase di produzione?

Ti devo dire la verità, il disco è venuto un po’ da sé, perché io non sono ‘sto grande stratega. Ho fatto un sacco di album, di recente c’è stato anche Verano Zombie con Noyze, quindi diciamo che la mia parte hardcore era già abbastanza soddisfatta. Delle canzoni che mi hanno proposto sia gli amici che le nuove conoscenze ho scelto quelle che mi piacevano davvero. Quindi in realtà è nato così, non ho ponderato molto perché non sono bravo a farlo. Ma sperimentare è stato divertente, provare nuove cose mettendoci il mio. Le cose belle alla fine vengono quando non le decidi a tavolino, no?

Per molti fan della prima ora hanno funzionato anche le nuove contaminazioni. Sai che non era scontato?

Vero. Anche perché in questo momento storico la gente percepisce la musica in modo strano, ascolta prima una canzone, poi magari un’altra, e si ferma lì. Come per i film e le serie tv: è più facile andare avanti a episodi quando c’hai mezz’ora, e poi metti in pausa. È difficile che uno ascolti tutto l’album di fila, il concetto di lavorare a un disco compiuto infatti è un po’ finito. Ma io essendo della vecchia scuola ho sempre l’idea di seguire un iter, dalla uno alla undici, in modo che abbia un senso anche pipparsi undici tracce sentendosi appagato.

Gemello rapper quadri
Shirt Ardusse

Non credo che lo sforzo ripaghi solo in gloria, sai? Quando un disco è progettato come un iter, ti invoglia ancora a «pipparti undici tracce di fila».

Sì, hai ragione. È un po’ come con i quadri. Puoi passare e guardare di sfuggita, ma se ti fermi ad osservare ci puoi perdere un sacco di tempo per assorbirli. È la mia arma a doppio taglio, io sono così e non ci posso fare niente.

Questo è stato anche definito un disco importante. Che ne pensi? Secondo te quand’è che un album si impone come importante sulla scena?

Quando cambia un po’ le regole o almeno i canoni delle aspettative. Quando uno si rimette in gioco, per esempio. Ci sono stati vari dischi che personalmente mi hanno segnato tanto, come Kid A dei Radiohead. Lì l’approccio magari è stato usare l’808, hanno fatto una cosa nuova mantenendo la loro identità. Chi ha sentito La Quiete all’inizio avrà pensato: «Che è ‘sta canzone di Gemello?», e poi riascoltandolo avrà scoperto un equilibrio. È come vestirsi eleganti ma con le Jordan sotto.

Tu sei stato spesso un apripista prima del tempo: adesso se ti guardi intorno cosa vedi? Recentemente per te ci sono stati dischi importanti di altri artisti?

Beh sì, credo siano quelli dei nomi storici. Marracash. Gué, Noyz, Coez. Ci stanno troppi più contenuti e troppa più roba da dire in dischi come i loro. C’è maestria nel raccontare ma anche nel flow. Per quanto possano diventare famosi i pischelli nuovi con milioni di follower, che a me piacciono tutti pure loro, alla fine i lavori che rimangono sono degli artisti storici. Hanno un sacco da dire, sperimentano, spaccano davvero e non si smentiscono mai.

Gemello rapper disco
T-shirt Bally

Di te dicono che sei un genio incompreso.

(Ride, ndr) Esatto. Incompreso mi fa ridere e mi si avvicina anche. Non è che mi fanno schifo i numeri, però per farli c’è da crepare. E soprattutto in questo momento, tra pandemie e guerre, la nostra è una musica più di contorno. Il mondo va di fretta e la gente cerca di prenderlo per come viene.

Incompreso ti ci sei mai sentito, in questi anni?

Io sono incompreso dalla massa. Non ci riesco a essere un McDonald’s che fattura col sorriso. Io sono il ristorantino piccolo, che se lo conosci ci vai da vent’anni e te lo tieni stretto. E mi piace come cosa, è tipo una spiaggia segreta. Va detto anche che è un compromesso che non ho mai accettato, sia perché non sono in grado di fare cose troppo regalate, sia perché sono molto geloso di tutto. Dei miei quadri, della mia musica.

Invece sul fronte quadri ti sei aperto di più alla massa. Ci siamo abituati alla complessità delle tue opere, che tecnicamente sono sature di elementi da decifrare. L’hai trovata subito questa cifra stilistica o hai dovuto sbatterci la testa?

È come per la musica, non riesco a mettermi a tavolino. Sapevo fare quello, in quel modo. Però ho cercato di migliorare e di ammorbidirmi un po’. Evitare di mettere centomila parole in un testo e anche di saturare troppo i quadri. È un andare a togliere verso l’eleganza, rispetto al mappazzone da cui ero partito. Che comunque era bòno, però un po’ pesante.

I quadri inediti delle prime sperimentazioni noi non li vedremo mai: me lo dici com’erano?

Erano ancora peggio, un inferno. Tipo un film di quattr’ore coi sottotitoli in polacco.

Gemello rap disco
Total look Salvatore Ferragamo

Penso a Roma 2015, dopo anni ancora scopro dettagli. Sarò banale, ma da romana è tanta roba.

Oddio, qual era? Sai, a me piace proprio l’idea di andare a Milano, Roma e New York e pensare che dei collezionisti o dei privati abbiano i miei quadri. Passo sotto le case, vedo una luce accesa e immagino che là dentro, magari, c’è un pezzo di me. Come fosse un figlio mio. È un po’ come con le canzoni, no?
Ad alcuni ricordano un periodo della loro vita, altri ancora devono scoprirle. Mi piace tanto l’idea di camparci quanto quella di sapere che girano tra le case degli altri.

C’è ancora gente che compra un quadro di Andrea senza sapere che dietro c’è anche Gemello, e viceversa?

Alcuni sì, soprattutto all’estero. Spesso comprano il quadro ma poi ci conosciamo, mi portano a casa loro, mi presentano i figli, mi chiedono di me. È un mood che mi ricorda la New York degli anni Settanta, con l’artista che non è che vende e basta, ma gira e crea contatti.

La solita domanda sulla convivenza tra rap e pittura, invece, te la lascio aperta.

Allora ti dico che io di base non è che c’ho un rapporto poligamo con questi due aspetti della mia vita. Faccio ping pong tra le due arti. A volte mi rompo di scrivere musica, altre vado a vedere una mostra e allora voglio correre a casa a dipingere, come un bambino.

Il vantaggio però si vede nella tua produzione: non sei mai costretto a far uscire un singolo nuovo solo per riempire a caso dei vuoti.

Il vantaggio è anche che non sento di stare mai veramente in panchina. Non sto fermo un attimo.

Gemello dipinti
Total look Federico Cina

Parafrasandoti: c’è stato un tempo per essere ‘truce’ e un tempo per diventare più ‘intimo’. Te li riascolti mai i pezzi che facevi con il Klan?

Certo. Quello sono sempre io, non rinnego niente. Quando capita di tornare a cantare vecchi pezzi o fare uno spin off mi prende troppo a bene. Sento come se c’avessi ancora sedici anni, per me quello è un periodo indimenticabile. Insomma, è sempre il mio cuore, ho sempre fatto convivere la mia vena più malinconica con un’attitudine hardcore, così come i brani con In The Panchine hanno sempre avuto una nota nostalgica.

Ministero dell’Inferno ha fatto storia per chi ha vissuto quel periodo. Pensi che i ragazzini di oggi ce l’abbiano ancora come riferimento di un tessuto underground?

I ragazzini di oggi sicuramente hanno tutti i mezzi per scoprirlo. Se uno dice: «A me piace il Noyz», io gli risponderei: «Allora, ciccio, sentiti il Ministero dell’Inferno». Con Internet non rischiano di perdersi niente, magari hanno giusto bisogno di una sorella maggiore che li indirizzi.

Dai tempi di Vecchia Scuola (2006): «La cura è che guarirò da tutte queste malattie», fino all’ultimo album: «Ma non ti viene voglia di tuffarti? Di scordare? Di lasciarti andare via?». La nostalgia è una costante nella tua produzione, anche se spesso è stato posto l’accento su altro. Oggi che effetto fa, se provi a tirare le somme?

Niente, me viene sempre da piagne. Non è cambiato un cazzo. Scrivere e non riuscire troppo a entrarci dentro, fare un quadro e venderlo senza goderselo a pieno… Ecco, quando risento pezzi di mie vecchie canzoni, rileggo una scritta su un muro o rivedo un quadro mio, mi sembra che l’abbia fatto un altro Andrea. E non solo mi viene da piangere di felicità o di tristezza, ma c’è un po’ tutto in quell’emozione. E forse questa è la mia forza.

Credits

Talent Gemello

Editor in Chief Federico Poletti

Text Chiara Del Zanno

Photographer Davide Musto

Stylist Davide Pizzotti

Photographer assistant Valentina Ciampaglia

Grooming Alessandro Joubert @simonebelliagency

Nell’immagine in apertura, Gemello indossa total look Zegna

Mr. Rain, una forte fragilità

Trent’anni compiuti a novembre, età cruciale. Nato nel ‘91 a Desenzano del Garda, provincia di Brescia, quando ha iniziato a far musica nel 2011 Mattia Balardi ha scelto un nome d’arte che racconta già molto di lui: Mr. Rain. Noi due però ci sentiamo al telefono in un giorno di sole, e la prima cosa che mi dice è che sta vivendo un periodo luminoso, ancora scorre l’emozione per l’uscita dell’ultimo album, Fragile. Poi osserva anche che mentre parliamo c’è un tempo pazzesco: «Sembra il primo giorno d’estate». Ma come gli ricordano sempre tutti, lui è l’uomo della pioggia. «Esatto, e infatti oggi scapperò».

Nonostante l’aura cinematografica che aleggia sull’elemento “pioggia” e su di lui, dietro lo spettacolo non c’è retorica: «Davvero io scrivo bene solo quando piove – mi racconta – e questa cosa non cambia. Non sono mai riuscito a capire il perché. Mi sento più malinconico e allo stesso tempo più cosciente della persona che sono e di quello che ho vissuto. Se non ci credi, sappi che quando ho provato a scrivere con il sole poi ho sempre buttato tutto».

Fragile è il suo quarto album in studio, arriva dopo lavori già amati dal pubblico e promossi dalla critica, Memories (2015), Butterfly Effect (2018), Petrichor (2021). Questo però è un progetto diverso, prodotto in modo insolito rispetto agli altri. Nato letteralmente tutto d’un fiato. E nei famosi due giorni in cui ha scritto di fila otto dei dieci brani presenti nel disco, me lo giura: pioveva.

Mr Rain rapper
Total Look Ferrari

Fragile è uscito da qualche settimana: come va il primo bilancio?

Ti confesso che inizialmente ero un po’ teso, perché sono uscito molto dalla mia zona di comfort. Questo è un disco vario, meno omogeneo degli altri, è un insieme di mondi. Ma sentire la gente contenta mi stimola. Ho deciso di sperimentare, e dai feedback che mi arrivano forse ho fatto bene.

Lo hanno raccontato anche come «un album che dispensa forza all’umanità». Una definizione importante. Senti di meritarla?

Sicuramente è una cosa gigantesca, quindi mi mette un po’ di ansia. Se però dovessi guardarla dall’esterno, considerando quello che mi scrivono le persone, in effetti ogni canzone le ha colpite in modo particolare. Parlo di argomenti molto privati, cosa che non ho mai fatto in passato. Ho cercato di cambiare il mio approccio alla musica, è stata una liberazione. Ho riscoperto la sensazione che provavo ai tempi in cui scrivevo le primissime canzoni.

Anche il ritmo produttivo è stato insolito per te. Sei passato da periodi di blocco al produrre otto brani in due giorni: tutto vero? Come è successo?

Tutto verissimo. In genere per fare un disco, essendo sia il produttore che quello che scrive i brani e i videoclip, ci metto circa due anni. A questo giro invece è partito tutto da Crisalidi e Neve su Marte (feat. Annalisa), ma dopo un mesetto ho scelto di fare una session in studio di un paio di giorni. Volevo ritrovare quel senso di divertimento e spensieratezza nel fare musica. E lì mi sono uscite otto canzoni, una cosa che ha spaventato anche me. Ovviamente nei mesi successivi ho fatto un gran lavoro di produzione, ma l’anima dei pezzi è nata così, tutta insieme.

Mr Rain Sanremo 2022
Total look Ferrari, shoes JordanLuca

Penso a frasi come: «Poco importa se entrambi saremo lontani / Finché avremo i pensieri intrecciati», oppure «i ricordi fanno male quando il presente non è all’altezza del passato». Nel disco c’è il tipico mal di pancia da fine di una grande storia d’amore, possibile?

Tutto l’album raccoglie piccoli pezzi di puzzle di varie esperienze. Più storie, più persone. In quei due giorni ho concentrato tutti questi ricordi, e quando ripenso a qualcosa che mi ha segnato ho la fortuna di saper rivivere esattamente quell’istante. C’è un bagaglio di esperienze che ho tirato fuori, in questo disco.

Racconti spesso che il nome Mr. Rain nasce dal fatto che riesci a scrivere solo durante i giorni di pioggia. Molto cinematografico, ma è sempre così? O negli anni è cambiato qualcosa?

È esattamente lo stesso. Anzi, io ti dico che veramente scrivo solo quando piove. E non sono mai riuscito a capire fino in fondo il perché.

Quindi pioveva, in quei famosi due giorni di session?

Pioveva, giuro. Per le basi è diverso, riesco a produrne tutto l’anno. Sole, pioggia, è indifferente. Ma la scrittura è una cosa molto intima, e credo che la pioggia mi aiuti a scavare meglio dentro di me. Mi sento più malinconico e allo stesso tempo più cosciente della persona che sono, di quello che ho vissuto. Ho provato a scrivere anche nelle giornate di sole, ma poi ho sempre buttato tutto.

Non è che espatri a Londra?

(Ride, nda) È possibile che prenderò una seconda casa lì.

Mr Rain cantante
Total look Lanvin

In realtà la tua musica ha un legame costante anche con altri elementi atmosferici, direi con la natura nella sua versione più prorompente. Da dove arriva?

Io amo la natura, i viaggi più belli che ho fatto mi hanno portato da lei, come quello in Islanda. Amo i paesaggi fuori dal mondo perché mi sembrano un mondo che non è la Terra. Anche nei videoclip cerco spesso di inserire posti che mi trasmettono queste sensazioni, sono andato sull’Etna per girare Meteoriti. In Crisalidi invece ho girato quasi tutto in interni, ed è stata un’eccezione.

A proposito di cinema, so che ti piacerebbe comporre colonne sonore, ma tu scrivi e dirigi anche molti dei tuoi videoclip. A un esordio alla regia ci hai pensato?

Prima di fare musica ero un grandissimo appassionato, fino a I Grandi Non Piangono Mai ho girato e montato tutti i miei video. La regia è qualcosa che mi piacerebbe fare in futuro, magari partendo da un cortometraggio, perché un film sarebbe un sogno. Mi incuriosisce come la musica.

Rap con archi, orchestre e chitarre elettriche. Sicuramente una scelta produttiva dettata dal gusto, ma è anche una presa di posizione?

Guarda, io non ho mai seguito il trend. Andava la trap? Mai fatto trap. Andava un mood? Facevo il contrario. In questo disco ho cercato di dare priorità ai musicisti, agli strumenti e ai suoni veri. Ho preso batteristi, chitarristi, un quartetto d’archi, un’orchestra intera solo per Crisalidi. Credo sia un valore aggiunto che incide molto sul risultato complessivo. Si sente se c’è un musicista vero, perché arricchisce tutto. Fragile è un album suonato al 99%, pensa che ai pianoforti ci siamo io e un mio amico. Quello di circondarmi di strumentisti era un mio grande sogno e penso che continuerò a farlo.

Mr Rain Fragile album
Total look Ind Fashion Project, shoes Acne Studios

Tra i tuoi colleghi che come te si autoproducono, c’è qualcuno che stimi particolarmente?

Che io sappia, un pazzo come me non c’è. Intendo un altro che suona tutto, che si produce, si scrive i testi e si gira pure i videoclip, non credo ci sia. Ma forse meglio così, eh, perché io faccio una brutta vita. Amo la musica, amo il mio lavoro, ma sono schiavo di me stesso. Perennemente in sfida.

Dormi poco?

Pochissimo. E mentre dormo sogno quello che devo fare il giorno dopo. Tutto questo perché sono sempre stato convinto che nessuno possa rappresentarmi meglio o realizzare esattamente quello che ho in testa. Perciò anche se ci metto il doppio degli altri, non mi interessa. Io stesso, quando cerco di collaborare con qualcun altro, mi sento sempre distante nell’approccio, nei gusti, nel metodo.

Alcuni trovano punti in comune tra te, Coez e anche Fedez, parlando di timbro. Ti infastidisce essere associato ad altri?

Non mi fa impazzire. Io sono molto obiettivo e non vedo reali somiglianze tra quello che faccio io e altri artisti. Ognuno è libero di pensare e dire ciò che vuole, ma trovo che non sia così. Sono molto easy nel risponderti. Se uno invece dovesse dirmi: «Mi ricordi molto lo stile di Macklemore» gli darei completamente ragione. Sono un fan, cerco di fare quella roba lì e sono molto in linea con il suo percorso.

Siamo sempre noi giornalisti a decretare i testi migliori di un disco. Proviamo a scambiarci il ruolo?

A me ovviamente piacciono tutti, ma credo che Crisalidi sia scritta davvero molto bene. Ogni volta cerco di superarmi, ci sbatto la testa per ore di fila, ma forse è quella più accurata dell’album, con più tecnicismi e frasi anche molto pesanti.

Mr Rain canzoni
Suit Vìen, long sleeve shirt Çanaku

Sei andato al Liceo De André di Brescia per confrontarti con gli studenti sul tema della fragilità. Due cose: credi che le loro paure siano anche quelle di noi adulti? E soprattutto, un artista sovraesposto (nel tuo caso oltre 300k tra Instagram e TikTok) può ancora spogliarsi di fronte a una platea di fan e azzerare le differenze per parlare tra esseri umani?

Io credo proprio che sia una questione di dovere morale, per le persone nella mia posizione. Avendo così tanta potenza mediatica anche tra i giovanissimi, bisogna provare a dare un buon esempio o quantomeno a non darne uno sbagliato. Sensibilizzare è fondamentale. Quella al De André è stata una delle più belle esperienze dell’ultimo periodo, era la prima volta per me. Abbiamo parlato dei nostri punti fragili, loro all’inizio erano un po’ spaventati. Ma lo ero anch’io, perché non è mai facile raccontare quello che ci fa paura: cioè le stesse cose. Le abbiamo segnate su un cartellone, e in quella classe tutti avevano le mie stesse debolezze, a prescindere dall’età. L’unica cosa che cambia è che crescendo capisci che parlandone puoi esorcizzarle, conviverci e accettarle per vivere meglio.

Curiosità personale sul mio pezzo preferito: Carillon in versione acustica. Che rapporto hai oggi con quella canzone?

È quella a cui sono più legato. L’ho scritta in un momento particolare, e lei ha scelto il mio cammino. Mi ha fatto capire che genere dovevo fare, cosa scrivere e raccontare, il modo di produrre. È stata la mia prima canzone orchestrale, e da lì si è aperto tutto il mio mondo cinematic-pop. E poi è il pezzo che mi ha fatto esplodere ovunque, il mio primo disco d’oro da indipendente. La canto sempre, ad ogni live, perché anche i miei fan sono legatissimi a Carillon. E io le devo tanto.

Mr Rain Mattia Instagram
Total look Kids Of Broken Future, shoes JordanLuca

Ti emoziona ancora cantarla?

Molto. È una di quelle che, nonostante siano passati anni, continua a farmi sentire i brividi quando la canto.

Cos’è che oggi rende fragile Mattia, e cosa invece rende fragile Mr. Rain?

Eh, bella domanda. Credo che la cosa che rende fragile Mattia sia proprio Mr. Rain. Per tutto quello che ti ho raccontato prima: soffro molto il non sapermi vivere il presente, essere sempre proiettato nel futuro. Ossessionato da questa sfida che ho con me stesso e dal tentativo di superarmi. Purtroppo il più delle volte trascuro le persone che ho intorno e la mia vita privata per il mio vero grande amore, che è la musica.

Credits

Talent Mr. Rain 

Editor in Chief Federico Poletti

Text Chiara Del Zanno

Photographer Filippo Thiella

Stylist Caterina Michi, Davide Turcati

Photographer assistant Bryan Durante

Grooming Francesco Avolio @W-MManagement

Nell’immagine in apertura, Mr. Rain indossa total look Ferrari

Motta, la disciplina del talento

La bravura di Motta, riflesso di un talento coltivato e perfezionato metodicamente fin dai tempi dei Criminal Jokers, è ormai conclamata. Numeri, riconoscimenti, i semplici dati della carriera da solista del cantautore pisano, avviata nel 2006, stanno lì a dimostrarlo: stabilmente ai vertici delle classifiche nazionali, due album – La fine dei vent’anni, del 2016, e Vivere o morire, del 2018 – premiati entrambi con la Targa Tenco (un unicum), rispettivamente nella categoria miglior opera prima e miglior disco in assoluto, un terzo (Semplice, uscito l’anno scorso) concepito come racconto del suo percorso di maturazione creativa e umana, che ne certifica la statura di chansonnier con pochi eguali nel panorama musicale italiano.

L’impressione che dà, parlandoci, è quella di un artista maturo, appunto, profondamente consapevole. Dosa con attenzione le parole, sempre puntuali, ponendo l’accento sulla positività che sembra permeare oggi il suo lavoro, sulla gioia («un’esperienza meravigliosa», dice) di ritrovarsi sul palco attorniato da una folla festante, sulla conquista della libertà, fondamentale (lui la mette in termini di «non sentirmi schiavo di me stesso, artisticamente parlando»), sulle parentesi – felici – che esulano dal suo ambito in senso stretto (la colonna sonora de La terra dei figli, il libro Vivere la musica), sul «godermi le cose semplici», sulla volontà, pensando soprattutto agli anni che verranno, di «essere in pace con me stesso», come rivela alla fine dell’intervista.

Motta cantautore talento
Shirt and pants Di Liborio, bracelets Nove25, rings and necklace stylist’s archive

L’intervista con Motta, tra i protagonisti dell’issue Hot child in the City di Manintown

Si è appena concluso un tour che ti ha portato in varie città italiane. Com’è stato l’impatto col palco, esibirsi nuovamente dal vivo dopo la pausa forzata del Covid?

Pazzesco, assolutamente. Il palco in realtà l’avevamo riguadagnato già la scorsa estate, si era trattato però di stringere i denti davanti alla stranezza del live col pubblico seduto. C’era nell’aria un senso come di solitudine, perché il fatto di non potersi abbracciare, ballare o semplicemente alzarsi toglieva all’evento l’idea di comunità, che ho invece ritrovato, fortissima, in questi ultimi concerti.
Condividere uno stanzone con tanta gente che la pensa come te ti fa sentire meno solo. Un’esperienza meravigliosa, per me come per i musicisti della band.

Hai detto che la semplicità cui rimanda il titolo dell’ultimo album è una conquista. Quali altri conquiste, artistiche e non, senti di aver raggiunto nel periodo che ha preceduto, accompagnato e seguito l’uscita del disco?

La più importante, forse, consiste nell’aver ottenuto, con grande fatica, una libertà che mi consente di fare ciò che voglio. Può suonare come una banalità, ma prendere scelte drastiche, rispetto ai lavori precedenti, mi ha permesso di aprire un sacco di porte; ora posso decidere se passare per quelle già spalancate o aprirne di nuove (a livello di costruzione della canzone, intendo). La conquista principale, quindi, sta nel non sentirmi schiavo di me stesso, artisticamente parlando, a costo di provare – per paradosso – quelle vertigini date dal poter immaginare un album in maniera totalmente libera, per quanto possa esserlo chiunque fa musica.

Motta Carolina Crescentini
Shirt Di Liborio

Ricorre, in Semplice, il concetto di normalità, cui si rifà esplicitamente il brano cantato con tua sorella, Alice. Cos’è la normalità per Motta?

Sembrerà assurdo ma quella canzone è stata composta prima della pandemia, durante un periodo in cui provavo felicità nel passare le giornate senza girare come un trottola per l’Italia; una situazione davvero piacevole, sebbene durata pure troppo, visto quanto è successo dopo! Comunque sia, ho capito che godermi le cose semplici, che in passato mi erano mancate, mi faceva stare bene.
Scrivere e poi cantare il brano con mia sorella è stato un po’ come passare l’evidenziatore su questo tipo di normalità, guadagnando dal processo nuovi spunti, un punto di vista differente.

A proposito del duetto, la scelta di coinvolgere Alice è stata influenzata da un big della musica italiana, vuoi raccontarcelo?

Ho sognato De Gregori, telefonava per avvertire mio padre che sarebbe venuto a casa nostra, effettivamente è arrivato e ha ascoltato Qualcosa di normale. Una volta sveglio, ho chiamato Caterina Caselli per raccontarglielo; mi ha spinto a scrivergli, per cercare di rendere un minimo concreta quella “visione”. Perciò ho inviato una mail a De Gregori, motivata anche dal debito nei suoi confronti che, nella canzone, si percepisce chiaramente. Mi ha risposto, dicendomi che il brano l’aveva colpito positivamente, e suggerendomi di cantarlo con una donna. Alla fine, ho pensato ad Alice.

Motta concerti
Shirt and pants Di Liborio, bracelets Nove25, rings and boots stylist’s archive

Hai firmato la soundtrack del film La terra dei figli. Un ritorno alle origini, per certi versi, al corso di composizione del Centro sperimentale di cinematografia, frequentato nel 2013. Come ti sei trovato? È un’esperienza che vorresti ripetere?

Lavorare nel cinema mi piace molto, da sempre, tra l’altro non la percepisco come un’attività secondaria rispetto alla mia, anzi, credo ci siano dei parallelismi tra le due. Si potrebbe paragonare la realizzazione di una colonna sonora all’arrangiamento di un testo già scritto, che dunque va rispettato.
Altro elemento che apprezzo, del settore, è l’idea di un gruppo di persone che operano come una comunità per lo stesso risultato, ciascuna curandone una parte. Inoltre mi sono trovato benissimo sia con il regista (Claudio Cupellini, ndr) sia col montatore, Giuseppe Trepiccione, mi ha fornito parecchi consigli perché aveva ben chiara, persino più di me, la musica che poteva corrispondere a una determinata scena.
Finora, insomma, mi è andata particolarmente bene con i film, conto di replicare.

Nel 2020 hai pubblicato per Il Saggiatore Vivere la musica, come valuti a posteriori il tuo debutto nella scrittura?

Innanzitutto devo ringraziare l’editor che mi ha seguito nella stesura del libro, Damiano Scaramella, senza contare che la serietà della casa editrice mi ha responsabilizzato, da subito. Tutto è partito dall’esigenza non di raccontare una storia, né tantomeno da quella di buttar giù un’autobiografia (avevo 32 anni, troppo presto, decisamente), piuttosto dalla voglia di condividere con i lettori i miei trascorsi musicali, le esperienze con gli insegnanti, spesso tragiche, qualche (rara) volta magnifiche. Era un modo per affrontare l’aspetto didattico di quest’arte, che può avere risvolti oserei dire drammatici.

Motta Semplice album
Turtleneck and trousers Angelos Frentzos

In un’intervista del 2017 sostenevi che a cambiarti la vita fossero stati i giganti del cantautorato, Dalla, lo stesso De Gregori. Tra i colleghi emergenti di oggi, ce n’è qualcuno che per te ha ottime potenzialità, cui guardi – e ascolti, magari – con piacere?

Negli ultimi mesi, da produttore, mi è capitato di lavorare con una cantautrice 21enne, Emma Nolde. Mi ha trasmesso un’energia strepitosa, è stato come se avessi visto un me non solo più giovane, ma anche assai più bravo, io a quell’età non avevo idee tanto chiare. Emma, a mio parere, riesce a tirare fuori un’energia bellissima.

Vesti frequentemente Gucci, hai anche assistito ad alcune sfilate del marchio, cosa ti lega al brand disegnato da Alessandro Michele? Quanto conta, secondo te, l’abito e più in generale il look, per chi fa il tuo mestiere?

Mi sono avvicinato a quel mondo con divertimento, finendo per conoscere Alessandro Michele, Lorenzo D’Elia e altre persone del team Gucci. Ogni tanto dico a Carolina (Crescentini, sua moglie, ndr) che si può considerare la moda come un gioco estremamente serio. Sono convinto, infatti, che alla base vi sia una componente ludica, e per quanto il mio lavoro sia “indossare” le canzoni che scrivo, non gli abiti, averci a che fare è stato senz’altro divertente. Non so, sinceramente, quanto il look sia importante, penso però che, nel momento in cui ci si sforza di trovare se stessi, di capire chi siamo, cosa – e come – vogliamo comunicare, certi aspetti ci aiutino a sottolineare tutto ciò, a volte persino a scoprirlo.

Prendo in prestito il titolo del tuo primo, grande successo: come ti vedi alla fine dei prossimi vent’anni?

Mi vedo – o almeno lo spero – in sintonia con l’età che avrò, preso a godermi quanto costruito nei vent’anni precedenti per essere in pace con me stesso e, seppure sia difficilissimo, felice. Sto lavorando per questo, mettiamola così.

Motta cantautore stile
Suit John Richmond, rings and necklace stylist’s archive

Credits

Talent Motta

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Davide Musto

Stylist Alfredo Fabrizio

Photographer assistant Valentina Ciampaglia

Stylist assistant Federica Mele

Hair & make-up Fulvia Tellone @simonebelliagency

Hair & make-up assistant Asia Brandi @simonebelliagency

Location Industrie Fluviali

Nell’immagine in apertura, Motta indossa total look Gucci

Baltimora, un talento in ascesa

Nello studio in cui si trova mentre facciamo l’intervista c’è una tastiera alle sue spalle. Edoardo si volta e improvvisa il riff di Baltimora per farmelo ascoltare: ha ventun anni, ma quel «riffetto», come lo chiama lui, ha già una lunga storia iniziata ai tempi del liceo e culminata sul palco del talent che l’ha lanciato. Come è andata lo sappiamo bene.

Prima scelta sorprendente: dopo la vittoria Edoardo ha preferito prendersi una piccola pausa, non di riflessione ma di produzione concentrata e intelligente, che ha portato all’uscita del suo primo EP: Marecittà. 7 brani autoprodotti, una serie di esperimenti coraggiosi che fanno già da manifesto. Il suo è quello di un sound sempre sperimentale e di un gusto internazionale per certi groove, tenendosi però saldo alle radici intime del cantautorato italiano.

Dai primi cd che gli regalava suo zio da bambino alle nottate passate a scrivere per sconfiggere il malessere e l’insonnia, poi quel boato al secondo live di X Factor («quando ho capito che forse dovevo smetterla di fustigarmi così tanto e pensare di non essere all’altezza»). Oggi Edoardo è un fiume in piena. Mi racconta il suo EP d’esordio e pensa già al prossimo che verrà, beata adrenalina in piena fase creativa:

«Devo togliermi la prospettiva che io sia un vincitore: ora devo far sapere al pubblico cos’è quello che faccio fino in fondo. Questa è la mia musica».

Baltimora artista
Total look Salvatore Ferragamo, earrings Radà

Marecittà è appena uscito, è il tuo vero debutto discografico. Sei in cortocircuito o tieni sotto controllo le emozioni?

Sai che per me l’uscita è la parte più semplice? Posso perfino fomentarmi di più, perché ormai è fatta. Il disco è finito, vai, facciamone altri! Però sto imparando a rallentare e a godermi il momento, questo sì.

Com’è convivere con un esordio discografico e insieme con le aspettative che ci sono dopo la vittoria a un talent come X Factor?

L’aspettativa del talent è proprio quello che ho cercato di evitare, ed è anche il motivo per cui siamo usciti così tardi con l’EP. Ovviamente a livello discografico sarebbe stato molto più giusto uscire subito e cercare di cavalcare l’onda della finale. Io però ho insistito per aspettare, perché credo che ogni cosa abbia bisogno del proprio tempo. X Factor è un programma che c’è sempre, l’anno prossimo ci sarà un nuovo vincitore. Quindi non è una cosa di cui si può campare tutta la vita, anzi, dura veramente poco. Ho cercato di non basarmi su questa grande cosa che mi è successa.

Qualcuno ti ha biasimato per esserti preso del tempo prima di lanciare l’EP, io invece ho apprezzato molto questo tuo non essere frettoloso bulimico in termini produttivi. Non era scontato, ma è stato difficile portare avanti questa idea?

È stata difficile come scelta personale, perché sapevo che sarebbe stata una grande occasione quella di pubblicare subito. Ma una volta espresso questo desiderio, avevo paura che comunque non contasse. E invece ho scoperto che la volontà dell’artista a volte conta, non ho dovuto insistere con nessuno.

Baltimora produttore
Sweater Alexander McQueen, trousers Maison Laponte, earring Radà, shoes Marsèll

Hai parlato di una produzione «senza pensieri». Cosa ha significato per te autoprodurti a vent’anni senza troppe regole né schemi?

Per me entrare in studio significa sempre sorprendermi, cercando di fare qualcosa di divertente e nuovo che neanche io mi aspetto. Io faccio musica perché mi diverte, non perché devo liberarmi da grandi macigni o perché è l’unico modo che ho per esorcizzare cose. Semplicemente mi fa sentire vivo, mi fa sentire a mio agio. Quando capita che sto al pianoforte, faccio un giro e mi sembra che abbia già una sua direzione, allora cerco sempre di aiutare la canzone a raggiungere il suo massimo obiettivo.

Autoprodursi e rimanere obiettivi sul proprio lavoro: quanto è difficile?

Credo che all’inizio sia stato limitante lavorare da solo da qui dentro, dove mi vedi adesso, nello studio che ho in casa. Non cercavo ancora un pubblico, facevo musica per me e basta, quindi diventava anche frustrante. Adesso invece lo reputo un vantaggio, riuscire a fare tutto da solo ed avere una visione unica e precisa.

Baltimora cantante
Total Look Prada, necklace Maison Laponte

A me vengono in mente delle scelte che puoi aver fatto, ad esempio in McDonald’s, in Marecittà ma anche in Fumo… Mi racconti alcune libertà vincenti che ti sei preso?

Le tre che hai citato sono sicuramente le scelte più forti. Marecittà perché è un singolo con una struttura coraggiosa, fuori dagli schemi. Ha questa strofa che si ripete due volte e un ritornello che non esplode, eccetto una parte che non definirei drop ma un vero sfogo strumentale.
Cerco di non essere mai egocentrico con la mia voce, ci sono parti bellissime di canzoni senza voce. È una teoria che porto avanti e che cerco di rendere dominante: per me la voce non è lo strumento principale. In McDonald’s l’utilizzo dell’autotune in maniera forzata ed esagerata è frutto dello stesso pensiero, e ovviamente sono arrivati commenti tipo «ma no, tu non sei un tipo da autotune! Devi cantare con la tua voce.

E invece se sperimenti sei un tipo da tutto, anche da autotune. La paura di osare troppo e di mettere troppa carne al fuoco c’è stata?

Il punto è che io volevo presentarmi anche a chi non mi conosce, essendo il mio primo progetto discografico ufficiale. Ad esempio McDonald’s all’inizio non doveva essere nell’EP, perché forse era un po’ troppo arrivando da X Factor. Anche qui ho insistito per questo: appunto perché vengo da X Factor devo togliermi la prospettiva che io sia un vincitore. Ora devo far sapere al pubblico cos’è quello che faccio fino in fondo.

Baltimora canzone
Cape and pants Davii

Del brano Baltimora hai raccontato che il riff è nato anni fa e che per te è stato complicato poi scriverci sopra, perché eri troppo legato a quel giro lì. Qual è la storia?

È stato estremamente difficile perché ero davvero piccolo quando ho creato questo riffetto qua (Edoardo si gira, alle sue spalle ha una tastiera su cui attacca il famoso riff di Baltimora, nda). Avevo giusto quindici anni, prima liceo. Ero con un mio amico con cui ho sempre fatto musica, Leonardo, una persona incredibile a cui devo tantissimo. Mi ha sempre ispirato e stimolato molto, così all’epoca siamo impazziti insieme per questo giro. Avevo un pianoforte con una timbrica strana, ho registrato il riff con due microfoni appena comprati. Nella canzone è rimasto poi quel piano lì, quello di sei anni fa. Era una produzione che mi tenevo da anni, non riuscivo a scriverci niente sopra, è stata una bella evoluzione vederla crescere.

Quand’è che hai capito che bisognava e che si poteva farlo diventare un pezzo? O meglio, il pezzo…

Semplicemente l’ho sempre pensato. All’inizio mi piaceva troppo e mi sembrava che qualsiasi cosa provassi a scriverci andasse a peggiorarla. Poi crescendo ho capito che il fatto che fosse difficile avrebbe valorizzato ancora di più il risultato. Un giorno ho scritto questo testo e casualmente è nata la canzone che conosciamo oggi. È stato merito di una frase: «Vedo il cielo per aria e vaneggiano nuvole», mi piace moltissimo perché può voler dire un sacco di cose. Mi evocava l’immagine giusta.

Da una parte la tua visione produttiva ha un forte sguardo internazionale, dall’altra c’è sempre il racconto intimo di una realtà localizzata, e qui penso all’omaggio che fai ad Ancona e ai testi in cui ti metti a nudo. Credi che il contrasto tra sound e tematiche possa essere l’anima del tuo stile?

C’è tutta la volontà di ritrovarmi in un suono che mi appartenga. Sperimentare a livello di sound in maniera anche internazionale è parte della mia identità, ma d’altra parte sono legato a un cantautorato più intimo e romantico, appunto, più italiano. Diciamo che la mia è un’anima da produttore e amante del suono, ma anche da amante delle parole e delle melodie più semplici.

Baltimora disco
Total look Dolce & Gabbana, earrings Radà

Ti descrivono sempre con l’immagine retorica del personaggio «cresciuto a pane e musica». Ma qual era il pane e qual era la musica? Cosa ascoltavi da piccolo?

Da piccolo, quando non avevo un mio gusto personale ma assorbivo quello che ascoltava mio padre in macchina, ricordo su tutti Safari di Jovanotti. Un disco che è stato consumato nel nostro lettore cd. L’altro era Ali e radici, di Eros Ramazzotti. Questo finché mio zio non iniziò a regalarmi alcuni cd, era il rito di Babbo Pasquale, perché me li regalava sempre a Natale. Erano perlopiù raccolte di canzoni che lui masterizzava per me… in modo totalmente legale (ride, nda). Quindi magari c’era quest’unico cd che io ascoltavo per un anno intero, fino al Natale seguente. È stato il momento in cui ho scoperto i Beatles, Jannacci, Conte, Celentano, ma anche i Black Eyed Peas. Subito dopo ho avuto la fase Ed Sheeran e quella Fedez, fino ad espandermi e ascoltare di tutto.

Dalle contaminazioni a un’identità musicale personale, che si trasforma poi in proposta discografica: è un passaggio cruciale. Com’è stato il tuo?

Io credo che un ruolo fondamentale l’abbia giocato questo mio amico di cui ti ho parlato prima, Leonardo in arte Atarde, musicista e cantautore pazzesco. Ci siamo sempre stimolati molto, ma quando eravamo più piccoli lui era davvero più avanti di me. Viene da una famiglia di musicisti, ha sempre vissuto con strumenti in casa, suona un po’ di tutto. Ero così affascinato dalla sua musica, per me era qualcosa di nuovo che non avevo mai sentito. Osservandolo ho imparato come lui prendeva ispirazione da Khalid o magari dagli Alt-J, e li faceva suoi in una maniera totalmente originale. In effetti all’inizio l’ho proprio copiato (ride, nda), poi ho capito come fare mio tutto questo.

Sembra sempre facile parlare di malinconia che si trasforma in arte, ma non è che sia un sentimento semplice da gestire. Tu hai dovuto farci pace prima di metterla in musica?

Diciamo che associo la malinconia a quella botta allo stomaco che mi fa dire: adesso mi metto al pianoforte e faccio un pezzo. In questo senso è un sentimento positivo, ed è la sensazione più elaborata che possa esistere. Perché la tristezza, la felicità o l’allegria hanno una direzione precisa, ma la malinconia ha diversi strati. Lascia spazio a tanta immaginazione…

Baltimora X Factor
Total look Moschino, earrings Maison Laponte

Te lo ricordi quand’è che hai capito che poteva diventare produttiva?

Al liceo era un periodo in cui non seguivo molto la scuola, la notte non dormivo, era abbastanza difficile. Potevo solo scrivere testi. Quindi quella sensazione negativa del pensare al giorno dopo mi ha portato a dire: se devi star sveglio e fare lo stupido, almeno scrivi. Era un modo per cullarmi, e poi anche per riuscire ad addormentarmi. Scrivere, rileggere, sentirmi soddisfatto di quello che avevo creato mi dava un senso di completezza. Credo proprio di averlo capito così…

Sulla vittoria a X Factor ti hanno chiesto di tutto, ma tra vent’anni cosa pensi che ricorderai davvero di quel periodo?

Penso che ricorderò con emozione il secondo live. Ho cantato Parole di burro e il pubblico si è alzato in piedi. Ha applaudito per un minuto una performance che forse per me non era così incredibile.

Lo definiresti il tuo momento topico? La prima volta in cui hai capito di piacere alle persone?

Sì, è sicuramente quello. Lì ho capito che forse dovevo smetterla di fustigarmi così tanto e pensare di non essere all’altezza, perché se per così tante persone quello era stato un bel momento, forse potevo iniziare a godermelo di più anche io.

Il tuo primo EP lo chiudi cantando: «La vetta a cui punto qui dalla mia stanza / la mia età che avanza / Volevo solo parlarti un po’ di me». Ci pensi già al futuro o domandartelo così presto è una follia?

Di progetti ne ho mille, in questo momento sono un vulcano di idee. Forse troppe. Devo cercare di ridimensionarmi e restare concentrato sugli obiettivi imminenti: il tour, la preparazione dei live, scoprire cose nuove e collaborare con altri artisti. La verità? Io faccio musica dalla mattina alla sera, ho tantissime canzoni e non vedo l’ora di fare il prossimo disco. Per me potremmo pubblicarlo anche domani.

Credits

Talent Baltimora

Editor in Chief Federico Poletti

Text Chiara Del Zanno

Photographer Davide Musto

Stylist Simone Folli

Photographer assistant Valentina Ciampaglia

Stylist assistant Nadia Mistri

Grooming Alessandro Joubert @simonebelliagency

Location TH Roma Carpegna Palace Hotel

Nell’immagine in apertura, Baltimora indossa total look Dolce & Gabbana, orecchini Radà

Il filo (in)visibile di Francesco Gheghi

Nato a Roma il 19 agosto 2002, Francesco Gheghi è una giovane promessa del cinema italiano che, in pochi anni, ha già lavorato con alcuni dei più famosi attori italiani, sempre in ruoli da protagonista.

Ha terminato le riprese del film di prossima uscita Piove e su Netflix è uscito Il filo invisibile dove interpreta Leone, figlio adolescente di due papà. A maggio sarà trasmessa sulla Rai la fiction A muso duro, la storia della prima paralimpiade disputata a Roma nel 1960, dove Francesco ha dovuto recitare nel ruolo di un atleta paraplegico. Ama lo sport: pratica nuoto, calcio, sci, ciclismo e arrampicata.

Mentre converso con lui, mi tornano in mente le parole di una vecchia canzone di Jovanotti, “sono un ragazzo fortunato perché mi hanno regalato un sogno…”. È Francesco Gheghi, giovane professionista con tanta voglia di crescere, imparare dai colleghi più grandi e più bravi, un ragazzo che ringrazia per il suo sogno che si sta avverando: «stare in tutte le scene».

Francesco Gheghi film
Jacket Antonio Marras, shirt Comeforbreakfast, rings stylist’s archive

«Ho iniziato a fare teatro alle elementari – racconta durante l’intervista – Il mio primo ruolo è stato San Francesco: non per meritocrazia, ma perché mi chiamavo Francesco. Lì ho scoperto che mi piaceva recitare. Mi sono diplomato lo scorso anno. È stata una soddisfazione. Avevo saltato tantissimi giorni di scuola perché ero sul set di due film, Il filo invisibile e Piove. Era una cosa alla quale mia madre teneva tanto. Per fortuna, grazie al Covid, l’esame si è svolto senza la prova scritta. Ho avuto un percorso scolastico travagliato. Ho iniziato con il liceo linguistico, ma non mi piaceva. Poi ho fatto il liceo scientifico sportivo, perché lo sport è un’altra passione. Non mi piaceva neanche quello. Mi sono iscritto al liceo delle scienze umane e le materie mi interessavano. Andavo anche bene».

Pensi di iscriverti all’Accademia di arte drammatica o di continuare con corsi singoli?

Mi piacerebbe, ma le accademie non ti permettono di lavorare. Me lo hanno sconsigliato. Continuerò la mia formazione con corsi di recitazione. E poi non voglio levare il posto a qualcuno che magari se lo merita e non ho avuto le opportunità che ho avuto io.

Il ruolo che ti ha impegnato di più?

Ogni ruolo che ho interpretato in questi anni pensavo fosse il ruolo più difficile, perché era un progetto nuovo. All’inizio pensavo fosse Mio fratello rincorre i dinosauri, perché è stato il mio primo film da protagonista. Avevo sedici anni. Poi, quando ho lavorato con Favino in PadreNostro. O con Francesco Scianna e Filippo Timi ne Il filo invisibile. Adesso ti dico Piove perché è un horror, un genere difficile che non si fa spesso. Un film impegnativo anche a livello fisico e mentale. Sono stati tutti ruoli difficili anche se per motivi diversi, ma grazie ai quali ho imparato tanto.

Quello più lontano da te?

A muso duro. Uscirà a maggio su Rai1 ed è la storia dei primi atleti paralimpici. Interpreto un ragazzo paraplegico che perde le gambe al lavoro. È stata una sfida perché, non essendo paraplegico, sono dovuto entrare in un mondo che mi era sconosciuto.

L’attore che ti preoccupava di più?

Forse Favino… temevo di deludere le aspettative. Ma con me sono stati tutti pazienti e generosi.

Francesco Gheghi Padre Nostro
Jacket Edmund Ooi, pants Ramzen, ankle boots and rings stylist’s archive

Inizi a studiare recitazione nel 2013 e dopo cinque anni, nel 2018, esce Io sono tempesta. Sempre protagonista, senza essere figlio d’arte. Hai un genio della lampada?

No, c’ho un culo clamoroso. Elio Germano, Marco Giallini, Marcello Fonte, Isabella Ragonese, Eleonora Danco, Francesco Scianna, Pierfrancesco Favino, Barbara Ronchi… Non capita a tutti.
Questo è un lavoro di fortuna. È inutile che ci raccontiamo altro. Devi essere bravo, ma anche fortunato. Devi trovarti al posto giusto al momento giusto e, quando l’occasione si presenta, devi anche essere il più forte. Allora trasformi quel momento in un’opportunità. Io ho giocato dieci anni a pallone. A quindici anni erano tutti alti 1 m 80 e io la metà. Salivano tutti di categoria, andavano nelle squadre forti, e io non avevo quelle possibilità perché ero più piccolo fisicamente. Nella recitazione questo problema non mi ha ostacolato. Lo stesso fisico, che era piccolo nel calcio, a scuola, nelle amicizie, con le ragazze, che era sempre non funzionale, nella recitazione è stato perfetto perché magari interpretavo un personaggio di tre anni più piccolo di me.

Con le ragazze hai recuperato… Ora hai la fila?

Sì ho la fila, ma c’è la numero uno che è la mia ragazza e quindi la fila si è smaterializzata, non c’è più.

Francesco Gheghi età
Jumpsuit Comeforbreakfast, rings stylist’s archive

Sempre alle prese con ruoli impegnativi. Cosa hai imparato?

Sono cresciuto prima del tempo. Entrare nel mondo del lavoro a quattordici anni, mi ha costretto a relazionarmi con un mondo di adulti. Il senso del lavoro, la dedizione e la professionalità sono tutte cose che ho appreso sul set e che mi hanno agevolato anche in altri ambiti della vita. Ma non ci sono solo le responsabilità, c’è anche il divertimento. Come mi diverto sul set non mi diverto da nessun’altra parte. È quello che amo fare. Amo la mia vita, la mia famiglia, gli amici, ma il set è tutto un altro mondo.

Così giovane, hai scartato in fretta le strade che non erano adatte a te e hai trovato subito quella in cui ti senti a tuo agio?

Sì, a quattordici anni, quando girai Io sono tempesta. Mi convocarono sul set la mattina presto. Elio Germano era già lì. Lo fissavo. Stavo con mamma, in disparte, e lo guardavo lavorare. Aspettavo, volevo entrare in campo. “Ora tocca me”. Niente. Arriva la pausa pranzo. Ricominciamo e ancora non toccava a me. Aspettavo e guardavo Elio. Era sempre sul set. Allora mi volto verso mia madre e faccio “ma’ io voglio fare come fa Elio. Voglio stare in tutte le scene”. Li ho davvero capito che era quello che volevo fare. Mi scalpitano le gambe quando sto là. Sul set mi sento a casa.

Non ho visto TikTok, ma…

Non lo guardare, è meglio… (ride, ndr)

Francesco Gheghi Mio fratello rincorre i dinosauri
Jacket Roberto Cavalli, rings stylist’s archive

Su Instagram posti poche foto e per lavoro. Non sei molto social?

No zero. TikTok è il mio lato più oscuro. Instagram lo uso per condividere le mie esperienze lavorative, foto di scena. TikTok era nato come un gioco durante la quarantena, con gli amici. Faccio un video e, se è divertente, lo posto.

La tua vita è stata stravolta dal lavoro di attore o riesci ancora a frequentare gli amici di sempre?

Riesco a fare tutte e due le cose, anche perché mia madre ha fatto in modo che il cinema non occupasse tutta la mia vita. Voleva che mi diplomassi. La definisco una tedesca. Giustamente voleva che andassi bene a scuola e lo faceva per il mio bene. Quando sei piccolo non lo capisci. Te ne rendi conto quando cresci.

La tua serata tipo?

Amici, fidanzata, cena, cinema. Feste se ci sono. Preferisco le feste in casa tra amici, mi piace giocare a carte o fare giochi di società. Non sono particolarmente festaiolo.

Francesco Gheghi fiction
Jacket Edmund Ooi, rings stylist’s archive

Per Netflix è appena uscito Il filo invisibile, dove sei figlio di due padri. Qual è la famiglia tipo tra i tuoi amici? È qualcosa che per la vostra generazione fa la differenza?

No. Per la mia generazione no, ma magari non è così per tutti. Comunque le cose stanno cambiando, nessuno si fa più problemi se uno ha due papà, due mamme o tre zii.
Basta che stai bene e sei amato: quella è la cosa più importante.

Si discute di diritti LGBTQ, identità di genere, gender fluid. Appartieni alla Gen Z. Vivete queste battaglie come un diritto da conquistare o la fluidità di genere per voi è un dato di fatto?

Noi partecipiamo a queste lotte proprio perché ci sia un cambiamento in quelle persone che non lo ritengono normale e che sono cresciute con altri tipi di valori.

In Parlamento si discute lo Ius scholae. Appartieni a una generazione cresciuta in una scuola multirazziale. Trovi normale che tuoi coetanei, cresciuti nel tuo quartiere, non siano cittadini italiani?

Io trovo anormale che ancora non lo siano. Trovo assurdo che ci siano persone che si fanno questi problemi. Se dici che siamo tutti fratelli e sorelle, perché poi ti fai un problema se diventano cittadini italiani? Trovo anormale che ancora se ne debba discutere.

I tuoi come vivono il tuo lavoro?

Sono sempre stati miei sostenitori. Se non fosse per mia madre e per mio padre non sarei quello che sono e non farei questo lavoro. Sono le persone più felici e più fiere di me. È grazie ai loro insegnamenti se cerco di fare sempre di più e sempre meglio.

Francesco Gheghi Favino
Blouse Comeforbreakfast, arnes and rings stylist’s archive

Credits

Talent Francesco Gheghi

Editor in Chief Federico Poletti

Text Alessia de Antoniis

Stylist Alfredo Fabrizio

Photographer assistant Valentina Ciampaglia

Stylist assistant Federica Mele

Grooming Eleonora Mantovani @simonebelliagency

Location NH Collection Roma Palazzo Cinquecento

Hu, artista sui generis dalle molteplici sfaccettature

Hu (all’anagrafe Federica Ferracuti, marchigiana di Fermo) nasce nel 1994. Artista poliedrica – cantautrice, polistrumentista e tecnico del suono – si appassiona alla musica fin da giovane, conseguendo poi una laurea al Conservatorio Rossini di Pesaro. Con uno stile personale fluido e libero da schemi o confini, il suo nome d’arte si ispira a una divinità egizia, né uomo né donna. Attraverso la sua voce melodiosa, arricchisce i suoi brani urban di contaminazioni elettroniche e pop.

È salita alla ribalta per la prima volta nel 2020 partecipando ad AmaSanremo, dove si è esibita – e distinta – con Occhi Niagara. Dopo aver intrapreso una direzione artistica sempre più sperimentale, ha pubblicato i singoli End e Millemila.
Ha partecipato, in tandem con Highsnob, all’edizione 2022 del Festival di Sanremo col brano Abbi cura di te, che fonde sonorità rock, electro e musica ambient. Il suo primo album – per cui ha collaborato col rapper spezzino e Francesca Michielin – Numeri primi è uscito a marzo.

Hu Sanremo 2022
Jacket and pants Fendi, sunglasses Tom Ford, brogues Marsèll, shirt and tie vintage

A Manintown, Hu confida: «Ho perso il conto di tutte le volte che ho camminato per le strade di Milano. Mi sono trasferita qui nel 2017, non so quanto tempo ci abbia messo a capire come funzionassero le direzioni della metropolitana. Ora viaggio spesso e, ogni volta che leggo i cartelloni delle fermate, sorrido e ripenso a come mi sentivo: senza direzione né una ragione. È nelle strade di questa città che ho cominciato a raccogliere i frammenti, per poi rimetterli tutti insieme nella mia anima. Non ho mai capito quale fosse la strada giusta, ma sapevo dove volevo arrivare. Ho scoperto chi sono e, di me, ho amato anche le paure».

Hu cantante capelli
Jacket and pants Alexander McQueen, shirt and tie vintage
Hu cantante foto
Jacket, dress and pants Thom Browne, rings Nove25

Credits

Talent Hu

Editor in Chief Federico Poletti

Photographer Antonino Cafiero

Stylist Sabrina Mellace

Photographer assistant Filippo Ragone

Stylist assistant Elisabetta Catalano

Make-up Greta Agazzi

Special thanks to Patrizia Ferro

Nell’immagine in apertura, Hu indossa giacca e pantaloni Emporio Armani, camicia e cravatta vintage

Fulminacci, sognando il cantautorato

Su un pezzo di carta, un articolo o un muro. Potrei scriverlo ovunque: menomale che sei arrivato, caro il nostro Fulminacci. Con le sembianze di un fumetto e per certi versi anche la missione: quella di rendere l’ordinario almeno un po’ straordinario. Menomale che sei arrivato quando gli altri rischiavano di venirci a noia, quando dal cantautorato indie-pop emergevano perlopiù tentativi pigri e forse un po’ demoralizzati di replicare uno stile preciso, ma già sentito.

Poi ecco qualcosa di nuovo, di fresco e assolutamente versatile. Una rivelazione con il primo album, La Vita Veramente, e una conferma ancora più sorprendente con il secondo, Tante care cose. Mentre scrive e canta semplicemente di quel che conosce (il traffico, l’amore, i dubbi di chi è nato negli anni Novanta), lui la fa sembrare una grande festa. Introspettivo un attimo prima, piano e voce, e poi irresistibilmente dance, tra batterie e ritmica serrata. Mai pigro, mai prevedibile, sempre attento a non ripetersi troppo (lui questa la chiama «paranoia», e ben venga).

Filippo Uttinacci è qui da poco (nato nel 1997 ed esordiente nel 2019), ma potrei scriverlo su un muro, un articolo o un pezzo di carta: Fulminacci resterà.

Fulminacci indie
Total look Maison Laponte

Voglio leggerti i numeri del mio Spotify Wrapped 2021: io ho ascoltato musica più del 95% degli ascoltatori in Italia, 105 generi musicali e 1407 artisti diversi. Insomma, c’è di tutto. Ma indovina chi è l’artista che ho ascoltato di più?

Oddio, se me lo chiedi così mi viene da pensare a me, ma questo sarebbe un onore. Soprattutto considerando la consistenza dei tuoi ascolti!

Questo era, sì, per confessarti che sono una tua fan, ma anche per dirti che credo tu stia rappresentando davvero qualcosa di diverso, di cui si sentiva il bisogno. Oggi dove ti vedi posizionato nella scena musicale italiana?

Io ho sempre avuto difficoltà a decifrarlo e comprenderlo, però penso di fare quello che mi passa per la testa. Fondamentalmente nelle canzoni ci metto quello che mi capita nella vita, niente di più.

Ma per te rappresenta un obiettivo, quello di distinguerti?

In realtà l’obiettivo di distinguermi non c’era all’inizio, io non avevo neanche capito che sarei riuscito a fare questo lavoro. La verità è questa: ho scritto il primo disco senza sapere che poi l’avrei pubblicato, senza nessun tipo di pressione, di logica di mercato o di paragone artistico. Solo dopo aver scritto un po’ di canzoni mi sono reso conto di qualcosa: «Lo faccio ascoltare alla mia fidanzata e ai miei genitori, così mi dicono cosa ne pensano». Ed è andata bene perché loro ne pensavano bene.

Fulminacci canzoni
Shirt and trousers Paul Smith

A un certo punto però la vita da cantautore te la sei immaginata?

L’ho sempre sognata. Per me è una di quelle cose reali che si avvicinano di più all’essere un supereroe. Anche il fatto di avere un nome d’arte è un po’ come il costume di Spider-Man, l’ho presa in questo modo. Non a caso il mio nome, Fulminacci, è abbastanza fumettoso. Non è certo un gioco la fatica che si fa per scrivere o per fare le prove di un tour, ma quello che deve arrivare al pubblico è che ci stiamo divertendo. Quindi ho capito che di mestiere faccio quello che fa divertire la gente, e che non deve far trapelare quanto si sta impegnando.

Funziona, io mi diverto di brutto. Ma Filippo che musica ascoltava prima di diventare Fulminacci?

Come molti di noi, sono cresciuto con i viaggi in macchina e i miei genitori che mi facevano ascoltare la musica che piaceva a loro. Sono partito dai Beatles, che per me rimangono tipo la farina della musica pop contemporanea. Poi i cantautori italiani degli anni Settanta, e questa è una risposta tanto banale quanto vera. Battisti, De Gregori, Dalla, Venditti, fino alla scuola più moderna con Silvestri, Fabi e Gazzè. Ho sempre ascoltato artisti diversi, sono anche un fan di Fibra. Sul decennio Settanta però devo dire che sono ferratissimo, Supertramp, Electric Light Orchestra, Elton John…

Fulminacci cantante
Shirt and trousers Paul Smith

Una volta ti ho definito così: «Fulminacci ti piace perché ti ricorda tutto quello che ti piaceva già, ma torni ad ascoltarlo perché in fondo non ti ricorda nessuno». Ti ci ritrovi?
Che bello, è bellissimo. E lo prendo come un enorme complimento. Per risponderti, in effetti ho avuto modo di notare come la mia fan base sia piuttosto varia, forse dipende da quello che dici tu? Ai concerti le prime file sono piene di sedicenni, le seconde di ventisettenni, e poi si arriva fino all’età dei miei genitori che sono nati negli anni Sessanta.

La Vita Veramente, 2019: un album d’esordio da cui emergevano le influenze felici di Fabi o Silvestri (vedi Borghese in Borghese), ma allo stesso tempo il tuo tocco si sentiva subito forte in brani come Davanti a te Resistenza. Come trovi l’equilibrio tra gli elementi che ti ispirano e quelli che ti rendono unico?

Io credo che bisogna stare in un equilibrio dinamico, cercando di esplorare senza definirsi mai, per evitare di cadere da una parte o dall’altra. Penso che ognuno voglia essere riconosciuto per la propria identità, ma questa non è altro che il frutto di una serie di influenze che continuano ad arrivarti addosso. Vivere in questo settore significa cercare di stare in equilibrio, rischiare, ogni tanto fare anche qualcosa di comodo.

Fulminacci Santa Marinella
Shirt Paul Smith, shoes Marsèll

Dietro alla complessità dei tuoi brani individuo due punti forti: non sei mai pigro, ma fai sembrare semplice questa ricerca costante. In realtà quanto ci rifletti? Quanto stai lì a chiederti: «Qui rischio di sembrare un po’ troppo Silvestri, qui potrei sperimentare ancora di più»?

Tantissimo. Questo tipo di paranoia è all’ordine del giorno per me, su ogni fronte. Banalmente anche sui testi, ho paura sempre di farmi inserire all’interno di una categoria. Cosa che non riesco ad accettare. Le persone completamente decise mi affascinano molto, ho sempre voluto essere come loro da bambino. Ma poi mi sono chiesto: ma perché? Quelli che ti dicono: «No tranquillo, adesso non piove», che fanno poi quando in realtà piove? Allora io sono il re delle paranoie.

E per fortuna, aggiungo io. Con il secondo disco, Tante care cose, per me è successo qualcosa di grosso: dieci tracce una più forte dell’altra, una sorpresa continua che non si esaurisce dopo la novità del lancio del disco. Come hai fatto a infilarne una giusta dietro l’altra?

È stupendo sentirlo da te, perché io ti risponderei che ho semplicemente messo quello che piaceva a me tra tutte le canzoni che ho scritto. Per spiegarti, io ragiono così: se sono il primo a voler ascoltare un mio pezzo, allora va bene, perché esisterà per forza qualcun altro come me che vorrà ascoltarlo.

Ogni brano dell’album potrebbe essere anche un singolo, ma allo stesso tempo l’insieme è un viaggio perfetto. Il tuo management che ruolo gioca qui?

Su questo tema sono completamente grato e affidato alla mia etichetta. Il primo ascolto professionale esterno è sempre il loro. Io non lo so capire se un pezzo potrebbe essere un singolo, non sono un giudice lucido di quello che faccio.

Fulminacci stavo pensando a te
Shirt Alexander McQueen

Vediamo se la pensiamo allo stesso modo: ci sono dei pezzi tuoi che per me resteranno negli anni…

Io credo che a rimanere nel tempo sia quello che non segue le tendenze. Quindi ti direi, forse, i brani meno elettronici. Potrebbero rimanere Giovane da un po’ Le Biciclette, perché è una canzone nuda.

Le Biciclette credo sia una delle cose più belle che tu abbia scritto. Uno di quei brani che non fanno rimpiangere i vecchi repertori, per me su un podio insieme a Maledetto tempo di Franco 126.

Caspita se sono d’accordo su Maledetto tempo! Lo considero anche io un pezzo senza tempo, mi piace tanto che tu lo abbia accostato a Le Biciclette, che è il brano a cui forse sono più legato emotivamente insieme a Sembra quasi. Sono due canzoni che parlano della stessa persona ma in due momenti completamente diversi. Sono quelle in cui metto a nudo i miei sentimenti, e mi viene pure da piangere al concerto. Non so come fare mentre le faccio. È talmente una cosa mia che forse può diventare universale proprio per questo.

Che storia c’è dietro? Perché sono sicura che una bella storia c’è.

È il racconto di più fasi della stessa relazione, fin dal primo giorno in cui è iniziata. Con i suoi momenti di assenza, i periodi in cui sentivo la mancanza, e poi quelli di ricongiungimento con pizzichi di speranza. C’è dentro un po’ tutto quello che riguarda una storia d’amore. Pensa che ho iniziato a scriverla anni fa e l’ho finita poco prima di pubblicare il disco, è stata anche la prima canzone che ho scritto al pianoforte, che non è il mio strumento perché io suono la chitarra.

Fulminacci canzoni famose
T-shirt and sweatshirt Roberto Cavalli

Vedi che una bella storia c’era? Veniamo a pezzi come Tattica Canguro: il tuo gusto del ritmo crea dipendenza, te lo dico, dentro c’è un sound che ricorda la disco anni Novanta e poi diventa solo tuo. Non è che segretamente sei pure un ballerino?!

(Ride, ndr) In effetti quella di Tattica è una batteria disco, intesa alla vecchia maniera. È semi-vera, ma suona un groove che potrebbe essere completamente elettronico. L’aspetto ritmico per me è fondamentale, spesso penso prima al groove o alla metrica della canzone, e poi al testo. Credo fermamente nel fatto che le consonanti della nostra lingua siano utili come fossero delle percussioni, perché ci permettono di enfatizzare e accentare nel modo che vogliamo… Lettere come le T, le Z…

«Del fat-to che ti-amo / di brut-to”»…
(Gliela canto e giustamente ride, ndr) Esatto! E credo che questo sia il risvolto positivo di essere uno che pensa prima alle copertine e poi al libro che scrive. A scuola era vista come superficialità, ora per me significa decidere prima di tutto l’effetto che una canzone deve fare. Nel caso di Tattica avevo l’esigenza di scrivere un testo che esprimesse ritmicamente quello che mi serviva per il pezzo, quindi mi sono soffermato sul suono e ho iniziato a canticchiarci qualcosa, a partire dall’argomento del traffico. Da romano che vive in periferia per me è il quotidiano, io passo la vita in macchina e lì mi sfogo. La vita veramente è nata tutta in macchina durante uno sfogo nel traffico. È forse l’unico caso della mia vita in cui mi è venuta fuori tutta insieme una canzone, testo e musica in una volta sola. Ho iniziato a cantarla come fosse la canzone di qualcuno che conoscevo, è una magia che capita raramente.

Fulminacci brani
Shirt, gilet and trousers Maison Laponte, shoes Marsèll

Tu sai scrivere, ma sul serio. Che rapporto hai con la scrittura e quando hai capito di saper mettere in parole dei pensieri e delle emozioni?

È molto difficile rispondere perché nella vita, quando succedono le cose, non ti accorgi che stavano per succedere. Vieni travolto e ti scordi perché sei arrivato dove sei. Io fondamentalmente ho iniziato da bambino, hai presente quelle cose che scopri solo con l’ipnosi regressiva? (ride). Ricordo che effettivamente a dieci, dodici anni, scrivevo cose su dei fogli ma non sapevo cosa farci, però sentivo l’istinto di cantare quello che scrivevo. Una mattina avevo dedicato persino una canzone improvvisata al mio cane, che stava in giardino e mi fissava. È stata una delle mie prime esibizioni.

Finché non è arrivata anche la chitarra.

Sì, e mi sono concentrato su quello. Ma cantare era una cosa che mi bloccava ancora, mi vergognavo tantissimo. Ho acquistato fiducia canticchiando nella mia cameretta, sempre quando casa era vuota. Una delle prime canzoni che ho fatto e registrato è stata Una sera, mi aveva convinto e ho avuto l’esigenza di farla ascoltare. Poi è successo lo stesso con Resistenza.

«Tu che sei una e mi circondi»«C’è una specie di senso di vuoto, l’ho riempito coi film e le foto»«Anche se sembra di cadere, la parola di Dio e l’infinito ci basterà»: che effetto ti fanno le frasi che emozionano il tuo pubblico?

Domanda bellissima. Io non lo so, perché non riesco davvero a percepirmi. C’è un nesso tra le frasi che emozionano il pubblico e quelle che soddisfano me? Forse sono quelle facilissime da dire, poche parole ma che racchiudono più concetti. «Tu che sei una e mi circondi» è una frase di cui sono molto contento, perché è innanzi tutto vera, io lo penso. E poi esprime un senso di avvolgimento però usando il verbo «circondare», che potrebbe quasi far pensare ad un accerchiamento, se ci pensi lo leghiamo alla polizia. Quindi c’è una doppia situazione: sei in ostaggio di un sentimento bello. E che bello essere vittima di un sentimento.

Fulminacci canzoni famose
Shirt, gilet and trousers Maison Laponte, shoes Marsèll

Riesci a riascoltarle, le tue canzoni?

Ogni tanto sì. Mi emoziono quando sto su Spotify, ascolto le nuove uscite e poi di botto penso: «Vabbè, però pure io so’ uno di questi».

In Giovane da un po’ canti: «E grazie se avete lottato / Mi spiace se non ero nato». Sei nato negli anni Novanta, ma il disincanto non ti ha annichilito. Ci hanno sempre detto che non c’era più niente di nuovo da dire o fare, soprattutto nella musica. Invece?

È vero, la nostra generazione è stata martellata da questo concetto, ce lo hanno sempre detto. In realtà, tirando le somme, si vedrà che alla fine è capitato qualcosa di forte anche a noi. Il Covid, la crisi, assistere alla guerra in Europa. Noi siamo solo una delle tante generazioni, niente di più e niente di meno. Ma di certo nessuno può più dirci che siamo fortunati. Poi vabbè, se dovessi esprimere una preferenza, io avrei voluto vivere altri anni. Essere come De Gregori e Venditti, andare a sentire i Beatles in concerto da adolescente, fare gli anni Settanta a bomba…

Anche io, ma per fortuna te ne vai in giro in questi anni qua. Ci servivi.

Credits

Talent Fulminacci

Editor in Chief Federico Poletti

Text Chiara Del Zanno

Photographer Milli Madeleine

Stylist Simone Folli

Photographer assistant Giacomo Gianfelici

Stylist assistant Nadia Mistri

Grooming Alessandro Joubert @simonebelliagency

Nell’immagine in apertura, Fulminacci indossa total look Maison Laponte

Claudia Gusmano, dagli astri di Netflix a nuove sfide attoriali

La sua carriera inizia all’età di diciannove anni, dopo aver studiato tantissimo, quando è stata scritturata per il suo primo spettacolo teatrale, inconsapevole del successo che avrebbe ottenuto in futuro in fiction note al pubblico, come L’allieva su Rai1. Oggi Claudia Gusmano è reduce dal successo di Guida astrologica per cuori infranti, in cui racconta il dramma dei trent’anni e cosa significa rimettersi in discussione a livello personale e professionale, sotto la protezione dell’astrologia. Nel 2022 sarà protagonista nel film di Marta Savina Shotgun, nei panni di Lia, una ragazza che subisce un’orribile violenza e che, con il suo coraggio, darà inizio a una ribellione che permetterà l’avvio della lotta per i diritti delle donne. Il talento per lei «è quella luce che ti contraddistingue da tutti gli altri, che puoi decidere di far brillare riempendo i tuoi occhi di cose bellissime oppure far affievolire per paura di non essere mai abbastanza».

Claudia Gusmano serie Netflix
Shoulder accessories and collar Amen, shirt Gianluca Saitto, earrings Nove25

Come ti appassioni alla recitazione?

Comincia tutto al liceo, quando dopo aver visto uno spettacolo di Anna Mazzamauro a teatro mi innamoro all’improvviso di questo luogo. Poco dopo decido di iscrivermi ad alcuni corsi di recitazione e da lì non mi sono più fermata. Dopo la scuola ho lavorato in teatro per otto anni e, mentre stavo debuttando in Alice nel paese delle meraviglie nel ruolo della regina, un agente mi chiese di entrare nella sua agenzia, da lì è partita anche la carriera legata al mondo della televisione.

A quale produzione sei più legata?

Sono molto legata a tutti i miei lavori, uno in particolare è il cortometraggio su Franca Viola che ha segnato uno spartiacque fra teatro e quello che faccio ora. È stato molto stimolante. Quando sono entrata in questo progetto mi sono sentita totalmente a mio agio, ho modificato il mio percorso e la rotta è cambiata. Il teatro ha comunque un posto speciale nel mio cuore, infatti sto lavorando anche ad un monologo che andrà in scena nelle prossime settimane…

Di cosa si tratta?

Il monologo si chiama Mozza, è un grande metafora della vita e racconta la storia di quando ci troviamo a percorrere dei cammini già disegnati da qualcun altro per noi. Sarò all’Officina Pasolini a Roma dal 13 maggio. Il teatro è casa, il posto in cui amo tornare.

Guida astrologica per cuori infranti Claudia Gusmano
Total look Judy Zhang, rings Bronzallure, sandals stylist’s archive

Quali sono le tue fonti di ispirazione?

In primo luogo la vita di tutti i giorni, è proprio vivere che ci aiuta a raccontare qualcosa. Pensando invece ad un personaggio posso dirti Olivia Colman in particolare ne La favorita. È una persona che mi sa di normalità sotto vari punti di vista, la sua interpretazione in questo film è straordinaria. Sulla scena italiana invece senza dubbio Vanessa Scalera, il suo percorso mi piace molto.

È difficile interpretare un personaggio lontano dalla tua età anagrafica?

Significa uscire dalla tua zona di comfort, quando torni indietro nel tempo ad esempio ti rendi conto di quanti schemi ti sei messo addosso. Allo stesso modo capisci l’importanza del qui e ora, perché l’unica cosa che hai in fondo è il presente. Tornare indietro e ristrutturare è difficile ma molto bello.

Che rapporto hai con la musica?

Avrei amato cantare e prima o poi inizierò a prende lezioni di canto. Pensa che Tosca è la persona che mi ha dato la possibilità di fare il monologo di cui parlavo prima, ascoltavo le sue canzoni sin da piccola. Sono grata al mondo della musica, mi aiuta nei periodi più tristi o in cui sono a disagio. Ogni momento della mia vita ha un sottofondo musicale che mi ricorda cosa è accaduto.

Claudia Gusmano Netflix
Dress Vivetta, jewelry Nove25

Ora che è possibile ricomincerai a viaggiare?

Sono appena stata a Madrid e Barcellona. Voglio scoprire tutto quello che è possibile vedere. È il momento giusto per farlo e rimettere in moto l’economia in modo sano.
Ho la necessità di staccare dalle piattaforme digitali. Viaggiare ti riporta con i piedi per terra e ti fa vedere chi sei. Misurarti con il mondo apre la mente e aiuta molto nel nostro lavoro, che consiste nel raccontare la vita di tutti i giorni.

Desideri per il futuro?

Spero che Shotgun, film in uscita per il cinema,  abbia il giusto successo e mi auguro di raccogliere i frutti del lavoro impostato negli ultimi anni. Per il futuro in generale vorrei continuare a fare l’attrice finché sarò vecchia (ride, ndr), ed essere una donna fiera e orgogliosa.

Claudia Gusmano Instagram
Total look Delfrance, sunglasses stylist’s archive

Credits

Talent Claudia Gusmano

Editor in Chief Federico Poletti

Text Massimiliano Benetazzo

Photographer Davide Musto

Stylist Alfredo Fabrizio

Photographer assistant Valentina Ciampaglia

Stylist assistant Federica Mele

Hair & make-up Eleonora Mantovani @simonebelliagency

Nell’immagine in apertura, Claudia Gusmano indossa colletto e accessori Amen, camicia Gianluca Saitto e orecchini Nove25

Musica, arte e cultura: il talento incredibile di Ema Stokholma

Alta, esile, jeans e camicia, un paio di Converse nere. Arriva come una studentessa che torna a casa dall’università. Penso che il suo nome, Morwenn, le doni: ha il sapore delle antiche leggende celtiche e delle storie elfiche. Per tutti è Ema Stokholma, artista italo-francese ormai romana.
Si prende il suo spazio: una sigaretta nel giardino privato dell’agenzia che la segue, tra i vecchi edifici di Trastevere, in una giornata di aprile dove una timida primavera ancora non riesce a mandar via un inverno che sembra non voler finire.

Ha pubblicato lo scorso anno il suo primo libro Per il mio bene, edito da HarperCollins, dove ha raccontato la sua infanzia difficile e che le è valso il Premio Bancarella 2021. Lo ha scritto per aiutare altri giovani in difficoltà, per accendere una luce in quel tunnel che lei ha già attraversato. Vittoriosa.

Ema Stokholma libro
Dress Antonio Marras, jewelry Marco De Luca Gioielli, rhinestone net stylist’s archive

Quando illuminiamo la strada per un’altra persona, illuminiamo anche la nostra. Cosa hai visto di te scrivendolo?

Che devo lavorare sugli episodi raccontati nella parte finale del libro, come la morte di mia madre. Cerco sempre di tenere le emozioni lontane da me, soprattutto quelle troppo forti. Mentre scrivevo, ho cercato di mettere distanza tra me e alcuni episodi dolorosi. Non volevo un racconto drammatico: già la storia lo è. Ma ho visto i sentimenti non ancora elaborati.

Ema Stokholma musica
Dress Antonio Marras, jewelry Marco De Luca Gioielli, rhinestone net stylist’s archive

Per il mio bene. Siamo abituati a dire: “lo faccio per il tuo bene”. I soggetti maltrattanti dicono frasi come “non sono io che ti picchio, sei tu che me le levi dalle mani”. Addossano la colpa alla vittima mentre si dipingono caritatevoli…

Mia madre mi picchiava e diceva “lo faccio perché me lo stai chiedendo tu, hai bisogno di questo, io lo so perché sono tua madre e lo faccio per il tuo bene”. Ma quella cosa non ti fa bene. C’è un distacco tra il bene che vorresti avere e quello che ricevi. E quando sei bambino, non capisci più cosa è per il tuo bene. Da adolescente, poi, quando affronti un rapporto sentimentale, pensi che nel tuo bene ci debba essere anche la violenza, perché l’amore te lo hanno insegnato così. Se mi picchi per il mio bene, vuol dire che poi io devo andare a cercare questo tipo di rapporto. È difficile capire che quello non era per il tuo bene.
Sono scappata senza pensarci, per istinto di sopravvivenza. Se ci pensi non lo fai, perché subentra la razionalità, il senso di colpa, la paura di non farcela. E poi ti dicono sempre che nella vita devi affrontare le situazioni, che non devi scappare davanti alle difficoltà. Non è sempre vero: a volte, per affrontare le situazioni, devi vederle da lontano. Ho provato a scappare tante volte, dall’età di cinque anni, ma mi riportavano sempre lì, senza neanche chiedermi “perché sei scappata?”. Ci sono riuscita a quindici anni, quando ero in grado di nascondermi, di confondermi, e nessuno mi ha riportato a casa. A trent’anni sono entrata in analisi: era ora di mettere le mani nel mio passato.

Ora non ti troveresti coinvolta in una relazione tossica?

Sono io la persona tossica. Non cerco relazioni tossiche, non cerco un uomo, una donna, una persona, un’amicizia, che riproduca quello che ho già vissuto e che rifuggo. Sono io che devo gestire la mia violenza, i miei sentimenti, le mie mancanze, i miei vuoti. Per questo sono andata in analisi, perché ho capito che il problema non era che cercavo le persone sbagliate. Ho sempre avuto delle persone fantastiche al mio fianco, ma sono io la persona problematica della coppia. Lo ammetto.

C’è una grande amicizia nella tua vita, Andrea Delogu. Come vi siete incontrate?

Era il 2009. Io facevo la cubista e lei la vocalist. Un giorno ho detto: non voglio più fare la cubista. Guadagnavo bene, ma non vedevo un futuro. Ho cominciato a fare la dj, dal nulla, ma era quello che volevo. Così ho conosciuto Andrea. Insieme, abbiamo cominciato a lavorare nelle discoteche più sperdute delle province italiane. Non è stato un colpo di fulmine. Prima un incontro, poi lentamente ci siamo aperte e abbiamo capito di avere bisogno l’una dell’altra.
Io sono cresciuta nella violenza e nella solitudine, solo con mia madre e mio fratello. Lei in un ambiente violento, ma con tantissime persone, in una comunità dove erano tutti zii, fratelli, dove i bambini erano di tutti. Questo ci rende completamente diverse. Però è l’unica persona che davvero mi capisce e io capisco lei. C’è una forte empatia tra noi e ci siamo compensate.

Ema Stokholma Andrea Delogu
Lace dress Antonio Marras, jewelry Pomellato, shoes Giuseppe Zanotti

Cosa cerchi in un rapporto di coppia?

Una persona tranquilla. Ho una personalità conflittuale. C’è una parte di me che va sempre verso la luce e un’altra che deve ancora superare vecchi meccanismi. Dico sempre: “vado in analisi e non voglio far fare a te questo lavoro. Ma, se mi ami, devi prendere il pacchetto completo. Sappi però che io faccio di tutto per migliorarmi”. Lo faccio per stare bene con me stessa. Non è l’altra persona che mi deve salvare e non do la colpa dei miei problemi agli altri.

Sei riuscita a evitare disturbi alimentari e dipendenze?

Non posso dire di non esserci cascata. L’alimentazione era un problema già quando vivevo con mia madre. A scuola mangiavo dai piatti di tutti perché avevo fame, ma a casa non ci riuscivo. L’inappetenza è rimasta, ma mi impongo di mangiare cose sane per il mio bene.

Il tuo Instagram è un’esposizione permanente dei tuoi quadri. Come ti sei avvicinata alla pittura?

Sono fiera del mio Instagram. Fin da bambina mia madre mi ci trascinava per musei e di questo le sono grata. Mi è rimasta la passione.

Riproduci fedelmente le foto, tranne i tatuaggi…

Non mi piacciono più neanche su di me. Alcuni li sto cancellando e vorrei toglierli tutti. Il problema dei tatuaggi è che quel disegno dopo dieci anni o venti non ti rappresenta più.

Ema Stokholma madre
Feather detail dress Antonio Grimaldi

Il legame con tuo padre?

Avevamo rapporti sporadici. Passavano mesi o anni tra una visita e l’altra. Diceva “torno tra tre mesi” e poi non tornava mai. C’era già una distanza fisica, ma sono stata costretta a mettere una distanza affettiva, anche se con difficoltà. Non puoi vivere sempre in attesa. L’assenza la gestisci, ma quando una persona torna, va via e ti promette di tornare e poi sparisce di nuovo, è una tortura.
Credo sia sommerso dai sensi di colpa, ma non cambia. Il senso di colpa è come una palude: ogni giorno ci affondi sempre più. Invece dovresti dire “da adesso in poi cambio”. Per questo è difficile recuperare il rapporto.

Non sei schiava del perdono…

Non lo concepisco. Se sbaglio lo ammetto. Non ha senso chiedere perdono: io non sono inferiore per aver sbagliato e tu non sei superiore perché mi perdoni. Mia madre non mi ha mai chiesto scusa. Non posso perdonare una madre che fa del male ai suoi figli, ma posso comprenderla, capire le sue mancanze, la solitudine, la follia.
Quando si soffre troppo si rischia di impazzire. Se non sei circondata da persone che ti vogliono bene, che ti aiutano, che sono positive, è difficile. Mia madre era sola. Non voglio perdonarla, ma posso comprenderla. Se continui ad odiare per quello che ti hanno fatto, non vai avanti.
Ricordo benissimo il giorno che mi sono liberata dal rancore e ho provato empatia per mia madre: mi sono sentita in pace con il mondo.

Ema Stokholma modella
Dress and shoes Antonio Marras

“Non si è mai al sicuro in nessun posto”. Il libro inizia così. Ora che hai una casa tua, c’è un posto dove ti senti al sicuro?

Ora sì! Fin da piccola non mi sentivo sicura da nessuna parte. Quando andavo dagli assistenti sociali, non raccontavo cosa succedeva: facevo scena muta perché non ero sicura, non mi fidavo. Sapevo che mi avrebbero riportata a casa e, se avessero detto a mia madre che avevo parlato, per me sarebbe stata la fine. Nessuno mi ha mai detto “siamo qui per aiutarti, dimmi cosa succede”. Nessuno mi ha fatto sentire al sicuro, per raccontare, per aiutare me, mia madre e mio fratello. Già quando ho preso quel treno per l’Italia mi sentivo meglio. Ora mi sento al sicuro dove sto perché mi sento al sicuro con le persone che ho accanto.

Com’è la tua famiglia?

È figa. L’ho scelta io. Mio fratello è un’estensione di me e poi c’è Andrea (Delogu), ci sono altri amici, le persone che mi aiutano a fare il mio lavoro, che condividono con me le cose belle. Sono contenta.
Sono stata brava a scegliermi le persone che fanno parte della mia vita, sono loro la mia famiglia.

Ema Stokholma canzone
Dress Di Liborio, ring Marco De Luca Gioielli, sandals Giuseppe Zanotti

Giorni fa eri sul palco a Bologna per il concerto di Save the children per l’Ucraina. La musica non ferma la guerra, ma avete lanciato un messaggio, anche a chi questa guerra la sta negando.

È stato potente vedere tutte quelle persone cantare insieme e abbracciarsi.
La gente nega tutto. Ce ne siamo accorti in questi anni. Sai perché ho scritto il libro? Perché un giorno, su Facebook, ho letto un post su un bambino morto in casa sul divano, con il collo spezzato dal compagno della madre. Se è successo, è perché i vicini hanno sentito urla per mesi e non hanno fatto nulla. Neanche le maestre a scuola. Le persone negano perché non vogliono capire cosa succede.
Quando sono arrivata in Italia, mi chiedevano “perché non parli più con tua madre?”. Io dicevo “perché mia madre mi picchiava”. E mi rispondevano “però la mamma è sempre la mamma”. Sì, ma se la mamma è Hitler, perché devo chiamarla e dirle ti voglio bene? Le persone non vogliono vedere le tragedie che accadono dall’altra parte del mondo, come nella casa accanto. Ma se non vedi, non puoi agire e non aiuti nessuno. E allora qui che ci stai a fare?

Ema Stokholma dj set
Suit Gianluca Saitto, jewelry Marco De Luca Gioielli, sandals Giuseppe Zanotti
Ema Stokholma artist
Jacket and earrings Krizia

Credits

Talent Ema Stokholma

Editor in Chief Federico Poletti

Text Alessia de Antoniis

Photographer Davide Musto

Stylist Alfredo Fabrizio

Photographer assistant Michele Vitale

Stylist assistant Federica Mele

Hair Alessandro Rocchi @simonebelliagency

Make-up Giulia Luciani @simonebelliagency

Location TH Roma – Carpegna Palace Hotel

Nell’immagine in apertura, Ema Stokholma indossa un abito Antonio Marras

Carisma e talento: l’ascesa di Giacomo Ferrara

Classe 1990, origini abruzzesi, Giacomo Ferrara è tra gli attori più talentuosi e carismatici della sua generazione. Si è fatto conoscere – e amare – dal pubblico nei panni del malavitoso Alberto “Spadino” Anacleti, tra i protagonisti del film Suburra e, soprattutto, dell’omonimo serial; un personaggio che, afferma, «porterò sempre con me, è entrato nella cultura pop italiana, lo vedo da ciò che mi scrivono le persone, riversando su di me l’affetto provato per lui». Prima della popolarità con la serie Netflix («una parentesi bellissima del mio percorso, iniziata nel 2015 e terminata l’anno scorso»), aveva già avuto modo di mostrare le proprie capacità col ruolo di Angelo de Il permesso – 48 ore fuori, valsogli il premio Guglielmo Biraghi ai Nastri d’argento del 2017.

Giacomo Ferrara Instagram
Total look 424

Ha preso parte inoltre alla pellicola dal côté fiabesco Guarda in alto (dove il suo Teco vive avventure surreali sui tetti di Roma), al fantasy Non mi uccidere, alla miniserie Sky Alfredino – Una storia italiana e, da ultimo, a Ghiaccio, esordio cinematografico del cantautore Fabrizio Moro (in tandem con Alessio De Leonardis), in cui è un giovane che, nel pugilato, cerca il riscatto da una vita a dir poco travagliata; nelle sue parole, «una storia d’amore in cui interpreto Giorgio, un ragazzo estremamente introverso, che finisce per cacciarsi in situazioni difficili. Entra così in gioco l’allenatore Massimo (Vinicio Marchioni, straordinario compagno d’avventura), che prova a riportarlo, attraverso lo sport, su una strada migliore». Per prepararsi alla parte, ad ogni modo, ha dovuto affrontare un duro training in quanto «la sfida era far risultare credibili le scene di boxe, perciò ci siamo sottoposti a sessioni davvero impegnative; mi allenavo nove volte a settimana, ho dovuto mettere su massa muscolare, seguire una dieta ferrea»

Opere e generi diversi, nei quali spiccano le sue interpretazioni spesso “estreme”, viscerali, dal citato Spadino (criminale borderline, lacerato da sentimenti contrastanti, diviso tra una quotidianità di violenza e sopraffazione, una sessualità repressa e l’ossessione di rivalersi su una famiglia che lo considera una testa calda, da tenere ai margini) allo stravagante Ago, il tossicodipendente dalla chioma rosa amico del protagonista di Non mi uccidere.
A Giacomo, del resto, «piace lavorare in toto su un ruolo, immedesimarmici completamente», nonostante tenga a precisare che «a prescindere da quanto sia carismatico, appariscente o “strano” il personaggio, è fondamentale trovare storie che abbiano un motivo per essere raccontate, che arrivino dritte al cuore, proprio come Ghiaccio».

Giacomo Ferrara filmografia
Total look Dior

La nostra intervista con Giacomo Ferrara

Parlaci del tuo ultimo film, Ghiaccio.

Più che un film sul pugilato è una storia d’amore in cui interpreto Giorgio, un ragazzo estremamente introverso, che finisce per cacciarsi in situazioni difficili. Entra così in gioco l’allenatore Massimo (Vinicio Marchioni, uno straordinario compagno d’avventura), che prova a riportarlo, attraverso lo sport, su una strada migliore.
La parte più difficile è stata la preparazione fisica, la sfida era far risultare credibili le scene di boxe, perciò ci siamo sottoposti a sessioni davvero impegnative; con Giovanni De Carolis, ex campione del mondo, mi allenavo nove volte a settimana, ho dovuto mettere su massa muscolare, seguire una dieta ferrea. In tutto ciò, tra me e Vinicio si è creato un rapporto molto bello, lo stesso che c’è sullo schermo. Un lavoro intenso, complesso, duro, costellato di sfide, come quelli che piacciono a me insomma.

Giacomo Ferrara Ghiaccio
Shirt Gucci

Com’è stato impersonare un personaggio come Spadino, penetrato in profondità nell’immaginario del pubblico?

Suburra è stata una parentesi significativa del mio percorso, iniziata nel 2015 con il film di Stefano Sollima e terminata l’anno scorso. Porterò sempre nel cuore Spadino, è entrato nella cultura pop italiana, come la serie d’altra parte, lo vedo da ciò che mi scrivono le persone, da come riversano su di me l’affetto provato per lui. Doveva finire però, com’è naturale, subito dopo ho lavorato a un progetto dopo l’altro, sono felice della piega che sta prendendo la mia carriera.

Giacomo Ferrara film pugile
Suit Çanaku

Che rapporto si è creato col resto del cast di Suburra?

Spesso sui set si creano dinamiche destinate a finire una volta conclusa la produzione, ci sono invece dei casi, com’è stato per Ghiaccio o, appunto, con il cast di Suburra, nei quali si instaurano rapporti che vanno talmente oltre il lavoro in senso stretto, da restare poi per sempre. Con Alessandro (Borghi, ndr) Eduardo (Valdarnini), Filippo (Nigro) e gli altri, per quanto non ci si senta tutti i giorni, ogni volta che ci rivediamo è come se non ci fossimo mai persi di vista.

Giacomo Ferrara e Vinicio Marchioni
Total look Valentino

Hai interpretato spesso personaggi dall’aspetto e modi appariscenti (Spadino, appunto, Teco di Guarda in alto, Ago di Non mi uccidere…), preferisci i ruoli molto “fisici”, che richiedano (anche) trasformazioni radicali?

Mi piace lavorare in toto su un ruolo, immedesimarmici completamente; a prescindere da quanto sia carismatico, appariscente o “strano” il personaggio, comunque, è fondamentale trovare storie che abbiano un motivo per essere raccontate, proprio come quella di Ghiaccio. È un film semplice che però arriva dritto al cuore, perché si fa portatore di sentimenti e messaggi se vogliamo popolari, eppure importantissimi in quest’epoca post-pandemica, segnata da tecnologie che ci spingono ad alienarci sempre di più, mentre l’arte nasce con tutt’altri scopi, per ispirarci e farci sognare.

Immagina di doverti raccontare a qualcuno che non ti abbia mai sentito nominare: chi è Giacomo Ferrara, professionalmente e umanamente?

Sicuramente partirei dalle mie origini, dai valori che la mia famiglia ha cercato di trasmettermi (lavoro, sacrificio, sudarsi le conquiste), spingendomi a diventare cocciuto, determinato. Ci tengo a dare il meglio, provo costantemente a superare i miei limiti, nella vita come sul set.
In fondo, credo che Giacomo sia semplicemente un ragazzo che ha sempre sognato in grande e, pian piano, sta riuscendo a realizzare ciò che sognava.

Giacomo Ferrara Instagram
Total look Andrea Pompilio
Giacomo Ferrara intervista
Shirt Magliano, shoes Giuseppe Zanotti, pants stylist’s archive

Credits

Talent Giacomo Ferrara

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Davide Musto

Stylist Alfredo Fabrizio

Photographer assistant Valentina Ciampaglia

Stylist assistant Chiara Polci

Hair Alessandro Rocchi @simonebelliagency

Make-up Charlotte Hardy @simonebelliagency

Location Coho Loft Roma

Nell’immagine in apertura, Giacomo Ferrara indossa total look 424

Beatrice Grannò, la mia storia tra recitazione e passione per la musica

Beatrice Grannò foto
Dress Antonio Grimaldi

Classe 1993, Beatrice Grannò comincia il suo percorso televisivo in Italia nel 2013, dopo essersi formata nella scuola di recitazione East 15 Acting School. Il debutto arriva nel ruolo di Valentina, sul set della fortunata serie Rai Don Matteo 9, con Terence Hill.

Oggi cavalca l’onda di una rinnovata popolarità dovuta alla serie Doc – Nelle tue Mani, dove indossa i panni di Carolina Fanti. Un personaggio a cui tutti noi siamo molto legati e abbiamo imparato ad apprezzare moltissimo nell’ultima stagione. Il lavoro di attrice va di pari passo anche con la sua passione per la musica, ambito in cui la vedremo sempre più protagonista nei prossimi mesi…

Beatrice Grannò Doc
Dress Sylvio Giardina, sandals Giuseppe Zanotti, earrings Cristallonero

Com’è nata la passione per la recitazione?

Il mondo dello spettacolo mi ha affascinato fin da quando ero piccola. Ho sempre sentito la necessità di raccontare qualcosa e la recitazione è un mezzo per esprimere parole e narrare storie che nella vita di tutti i giorni non potresti raccontare.
L’ho sempre visto come un modo per essere capita, e poi la cosa particolare che c’è dietro a questo lavoro è che puoi trasformare in chiave positiva storie difficili, nella realtà invece non è sempre così.

Cos’è per te il talento, come lo definiresti?

Il talento è come un fuoco che arde e ti spinge ad avere l’attitudine a realizzare qualcosa di bello. Proprio come il fuoco, però, va sempre alimentato perché per sua natura è fluttuante. Deve essere sempre accompagnato dallo studio, dalla preparazione giorno per giorno, altrimenti se manca questo tipo di spinta tenderà ad esaurirsi.

Beatrice Grannò film
Total look Valentino

A quale personaggio tra quelli interpretati fino ad oggi sei più legata?

Sono molto legata al primo film in cui ho lavorato, Mi chiedo quando ti mancherò, dove interpretavo il personaggio di Amanda. È stata la prima grande responsabilità da protagonista e la storia era quella di una forza femminile non stereotipata, che riesce ad ottenere ciò che vuole senza essere aggressiva.
È stata una produzione piccola ma con un grande cuore, un set faticoso (soprattutto per le condizioni meteorologiche) a cui lego bellissimi ricordi.

Il tuo rapporto con la musica…

Ho sempre fatto musica e nel mio modo di farlo c’è lo stesso intento che ho con la recitazione. Come attrice ho un approccio razionale, con la musica sono impulsiva. Mi piace raccontare in maniera dolce un segreto, cantare cose difficili con le parole. Da quando sono piccola suono il pianoforte, poi crescendo mi sono avvicinata anche ad altri strumenti perché avevo voglia di sperimentare. L’esperienza a Londra è stata fondamentale per questo ambito, quando studiavo recitazione lì mi sono occupata anche di realizzare la parte musicale in alcuni spettacoli.
Negli ultimi due anni ho individuato nel cantautorato con sonorità folk americane il mio genere musicale preferito e ora sto lavorando anche ad un album.

Beatrice Grannò Carolina
Jacket and skirt Desa 1972, earrings Bronzallure

Dove ti vedi tra qualche anno?

Spero di aver fatto uscire il mio album e continuare la carriera da attrice, una doppia dimensione che potrebbe andare di pari passo. Mi piacerebbe anche realizzare un videoclip in cui recito o ricoprire un ruolo attinente al mondo musicale.

Progetti imminenti?

Al momento sto girando The White Lotus. Sono una grande fan della prima stagione e adoro il regista. Questo progetto è una tragicommedia entusiasmante e rapportarsi con attori americani è un grande privilegio. Poi nell’aria c’è la possibilità di girare anche la terza stagione di Doc – Nelle tue mani, vorrei inoltre ritagliarmi del tempo per andare in studio di registrazione o fare qualche concerto.

In tutto questo ti prenderai anche una vacanza?

Ormai ho una filosofia: prenoto solo quando so di non avere lavori imminenti, altrimenti finisce che non parto (ride, ndr). Per il resto adoro la montagna, ma sto bene anche nella mia casa al mare che è sempre un porto sicuro.

Beatrice Grannò serie tv
Shirt TPN, errings Bronzallure

Credits

Talent Beatrice Grannò

Editor in Chief Federico Poletti

Text Massimiliano Benetazzo

Photographer Davide Musto

Stylist Alfredo Fabrizio

Photographer assistants Valentina Ciampaglia

Stylist assistant Chiara Polci

Hair Lucia Cirino @simonebelliagency

Make-up Charlotte Hardy @simonebelliagency

Location: Coho Loft Roma

Nell’immagine in apertura, Beatrice Grannò indossa un abito Antonio Grimaldi

Tananai, il fenomeno musicale della new generation

Dopo la partecipazione a Sanremo, Tananai, nome d’arte di Alberto Cotta Ramusino, ha conquistato il pubblico diventando uno degli artisti più di tendenza e seguito dai giovani. Dopo il Festival, il suo singolo Sesso occasionale è stato certificato disco di platino.

Tananai Instagram
Total look Alexander McQueen

Nato nel 1995 a Milano, Alberto è stato sempre appassionato, fin da adolescente, di musica elettronica, e si è dedicato da subito alla produzione musicale, pubblicando nel 2017 il primo album intitolato To Discover and Forget, utilizzando lo pseudonimo Not For Us. Presto inizia a esplorare vari generi musicali e a scrivere anche in italiano, pur occupandosi ancora principalmente di produzione.
Nel 2019 emerge come vero e proprio cantautore con il nuovo nome d’arte Tananai, e nel 2020 fa uscire il suo primo EP intitolato Piccoli Boati. Ci racconta lo stesso Alberto: “Il primo EP è nato dalla voglia di raccontare quello che mi succedeva nella vita, perché reputo che la quotidianità sia particolarissima a modo suo per chiunque. Quindi ho cercato di trasporre le mie giornate e storie d’amore, le mie delusioni e momenti in cui ero preso bene all’interno della musica che facevo. Venendo da un passato di produttore per la musica elettronica, dovevo imparare a scrivere e disimparare a produrre. Ho parlato di quello che conoscevo: la mia quotidianità”.

Nel 2021 la sua carriera prende una nuova piega con il singolo BABY GODDAMN, che arriva anche ad essere certificato disco di platino, con cui è ora in vetta alla classifica Top50 di Spotify Italia. Nello stesso anno arriva a collaborare con artisti come Fedez e Jovanotti, partecipando a Sanremo Giovani con la canzone Esagerata, grazie alla quale rientra nel podio dei vincitori.

Il 2022 si apre con la partecipazione al 72° Festival di Sanremo in cui presenta Sesso occasionale, un brano carico di ironia e positività. La partecipazione al Festival – nonostante le diverse critiche – gli restituisce grande visibilità, tanto che pochi giorni dopo la fine della competizione il singolo entra nella Top 10 tra i brani più ascoltati di Spotify Italia e anche BABY GODDAMN scala le classifiche, fino alle primissime posizioni della Top 50. Ci confessa Alberto: “‘Sesso occasionale’ è nata in maniera molto naturale durante una sessione in studio. È saltata fuori come continuazione di ‘Esagerata’- il pezzo di Sanremo Giovani, ci ha coinvolti da subito e abbiamo lavorato fino alla scadenza per mandarla. Non sapevo cosa aspettarmi dopo Sanremo. Sono andato a ruota libera perché pensavo solo a dare energie positive e al fatto di tornare a cantare sul palco davanti a un vero pubblico”.

Un successo che continua anche nel suo primo tour italiano che in poco tempo è finito sold out in molte date. “Il mio sogno nel cassetto lo sto realizzando, ovvero suonare dal vivo davanti a più persone possibili. E finalmente dopo tanti momenti di stop vedo che sta per succedere… Questo mi riempie di entusiasmo”.

Tananai social
Total look Gucci
Tananai Alberto
Total look Valentino, sunglasses Versace, shoes GCDS

Scoprite qui la videointervista completa a Tananai, realizzata in esclusiva per Manintown durante lo shooting per una delle sei cover dell’issue Hot child in the city.

Credits

Talent Tananai

Editor in Chief Federico Poletti

Text Federico Poletti

Photographer Leandro Manuel Emede

Stylist Nick Cerioni

Stylist assistants Michele Potenza, Salvatore Pezzella, Noemi Managò

Make-up & hair Mara De Marco

Nell’immagine in apertura, per Tananai total look Alexander McQueen

L’empowerment femminile del nuovo cinema italiano: Maria Chiara Giannetta e Matilde Gioli

Dresses Giorgio Armani

Maria Chiara Giannetta e Matilde Gioli, due attrici al massimo splendore della loro carriera che, nella stagione 2021/2022, si sono fatte notare come super protagoniste.
La prima nelle vesti di Blanca, serie che ha sbancato lo share targata Rai1, e a ruota con la sua co-conduzione nella serata del venerdì del Festival di Sanremo, al fianco di Amadeus, dove ha brillato per eleganza e simpatia. Al momento è impegnata nelle riprese di Don Matteo, dove ha rincontrato il suo partner in Doc – Nelle tue mani, Luca Argentero. La seconda, anche lei protagonista del medical drama in onda su Rai1 (per il quale parliamo di numeri record di ascolto, oltre il 30% di media), è ora al cinema con la nuova commedia di Fausto Brizzi Bla Bla Baby; d’altronde, che fosse bellissima e con la battuta sempre pronta, lo sapevamo già.

Due donne forti che si raccontano, Nord e Sud, l’Italia nelle sue mille sfumature, sempre con l’ironia giusta, accomunate da una grande passione per la natura e in particolare l’equitazione. Ad avvicinarle a questo sport, infatti, è stato proprio il loro mestiere.

Maria Chiara Giannetta attrice
Headpiece The Beatriz, dress Philosophy di Lorenzo Serafini

Cosa avete pensato la prima volta che vi siete viste? (Il primo incontro live è stato proprio sul set di ManInTown per lo shooting che vedete qui, con un grande fil rouge, ovvero il loro ufficio stampa, Valentina Palumbo, nda)

Maria Chiara: All’inizio sono sempre parecchio timida, ma proprio per la stima professionale che provo nei suoi confronti ritrovarci lì è stato un momento molto forte.

Matilde: Gli shooting fotografici per come siamo fatte entrambe sono dei momenti decisamente intimi, ti sono tutti intorno per giudicarti, e il braccio è troppo grosso, il vestito cade male, insomma ti senti sola; invece vivere quel momento tipo “carciofo messo li” con Maria Chiara è stato un bonding moment, ci ha unite.
Devo dire che mi ha davvero colpita quando l’ho vista sul palco di Sanremo: a parte l’eleganza, che non sempre si riesce a esprimere in quella manifestazione, ha dimostrato di avere una grande forza, qualità che io non ho in certi momenti.

Matilde Gioli bellissima
Maria Chiara: jacket, shirt and skirt Dior, boots Bruno Bordese; Matilde: shirt, dress and rings Dior, boots Bruno Bordese

Nonostante siate due ragazze con idee ben chiare e la testa sulle spalle (ce lo diranno dopo), vi abbiamo sempre viste in serie di successo in ruoli molto forti, che hanno spinto gli spettatori a seguirvi nelle rispettive avventure e noi del magazine a scegliervi per la copertina di questo numero. Come ci si sente a essere le donne del momento?

MC: Restiamo con i piedi per terra, senza forzature. Amiamo il nostro lavoro, poi nella vita privata ho la necessità di scrivere, leggere e vedere il mio film quotidiano, ci viviamo il momento mentre lavoriamo e poi siamo solamente Matilde e Maria Chiara.
Sono cosciente, però, del fatto che il riconoscimento non ce lo diamo da sole, spetta ovviamente al pubblico.

M: Su questo noi siamo simili, non vuol dire che ci sia un carattere giusto o sbagliato, però c’è chi fa questo mestiere e cerca di essere acclamato e desiderato in ogni momento, perché ovviamente gli fa piacere, sente il bisogno un certo tipo di adrenalina. Io e lei magari ci gasiamo per altre cose, ma non per il sentirci dire che siamo le donne del momento.

Matilde Gioli film
Headpiece Pasquale Bonfilio Hats, top and shorts Givenchy, rings and bracelet Etrusca Gioielli, rings (left hand) Givenchy

Che cosa vi ha stupite di più di questa stagione 2021/22?

MC: Personalmente è arrivato tutto insieme, come una valanga, mi ha proprio stupito il modo consequenziale con cui si sono succeduti gli eventi e la loro velocità, prima Blanca e a ruota Sanremo 2022.

M: Mantengo sempre un forte distacco dal mio lavoro, e nel lungo termine mi rendo conto che sto crescendo, di aver ricevuto numerose soddisfazioni in questi due anni così difficili, in cui tanti colleghi di enorme talento hanno invece faticato.
Voglio essere sempre pronta all’eventualità che un giorno magari non interesserò più; potrebbe succedere, prima di fare l’attrice svolgevo un lavoro diverso, quindi potrei tornare indietro senza sentirmi sbagliata.

Matilde Gioli stile
Matilde: hat STM Hats, maxi gilet COS; Maria Chiara: dress GRK

C’è un ruolo che non avete ancora interpretato e vorreste fare?

MC: Personalmente vorrei interpretare un personaggio negativo. Quello che voglio dire è che di solito le donne sono cattive oppure stronze (o, aggiunge la Gioli, tr**e, nda), invece il racconto del lato oscuro di un personaggio femminile è più raro. Bisogna sempre chiedersi quale sia il fine che giustifica i mezzi, dunque nel caso sia una stronza: perché? Insomma, avere la possibilità di esplorare tutte le sfumature.

M: Ci sono tantissimi ruoli in cui potrebbe spaziare la tv italiana, Maria Chiara ha avuto la fortuna di essere protagonista assoluta di una serie crime con un personaggio non vedente, abbastanza unico, raro da vedere. È stato bello vedere la costruzione di un personaggio come Blanca.

Maria Chiara Giannetta Sanremo abiti
Maria Chiara: dress Gianluca Saitto; Matilde: dress Amen, shoes Le Silla

C’è mai stato un momento o una situazione in cui vi siete chieste “chi me l’ha fatto fare?”

M: In realtà questa sensazione può esserci stata, ogni set è però una situazione diversa; quindi, anche l’armonia con tutte le persone che ti circondano cambia.
A me è sempre andata piuttosto bene, poi mi è capitato di confrontarmi con colleghi più grandi; pendi dalle loro labbra perché vuoi e sai di poter imparare e, invece, viene fuori un divismo totalmente fuori luogo, e ti deludono.

MC: Però allo stesso tempo situazioni del genere ti motivano, perché capisci che non vuoi essere così e ti viene da dirlo agli amici: “se vedi che mi comporto così dimmelo eh!”. Bisogna rimanere se stessi, consapevolmente, perché davanti a noi c’è sempre un essere umano da rispettare.
All’inizio del mio lavoro, quando per ovvie ragioni non potevo padroneggiare nulla, mi è capitato eccome di chiedermi chi me lo avesse fatto fare. La cosa più difficile è resistere, sono una fan del crederci, e più ci credi, ne sei consapevole, più si avvicina l’obiettivo. Nel nostro mestiere il precariato è il nuovo posto fisso.

Matilde Gioli modella
Maria Chiara: headpiece Ilariusss, top and pants Etro, choker Casa Bruni Bossio, necklaces Barbara Biffoli, shoes Le Silla; Matilde: headpiece The Beatriz, bra Wolford, skirt and belt Michael Kors, ring Casa Bruni Bossio, shoes Mario Valentino

Siete anche accomunate dal “girl power”, come si diceva negli anni ‘90, cosa mi dite a proposito?

MC: Siamo entrambe fan di altre colleghe, abbiamo superato il periodo delle dive dove dovevi avvelenare la protagonista per avere il ruolo, in quanto eri solo una sostituta.
Noi parliamo dei lavori, ci confrontiamo, ci diamo consigli e poi sappiamo che se ci scelgono, come dice Matilde, dipende dai gusti altrui. Senza contare che siamo tutte uniche.
Nella nostra generazione c’è realmente voglia di cambiare, di farlo anche sulla carta, come dimostrano le nuove associazioni nate per dare un po’ più di dignità a questo mestiere.

M: Quando un ufficio stampa condivide due talent per lo stesso progetto è regola che non si parli davanti all’altro di dettagli lavorativi, per una questione di riservatezza e rispetto. Nel caso di questo shooting era talmente tanta la serenità che ci accomunava, che si saltava da un discorso all’altro, senza filtri, è stato bellissimo proprio perché raro. Te lo dico senza retorica né dietrologie.

Matilde Gioli Maria Chiara Giannetta
Matilde: headpiece Ilariusss, dress Max Mara; Maria Chiara: headpiece Pasquale Bonfilio Hats, dress Max Mara

Chi dice più parolacce? (Rispondono all’unisono: tutte e due!, nda)

M: Arrivo da un’educazione borghese, quando ero piccola anche la parola casino era bandita. Così, andata via di casa, sono stata avvolta da un delirio e mi sono liberata, mangiando anche tutte le merendine che mi erano state proibite.

MC: Per me vale la stessa cosa, i miei genitori sono stati bravissimi, però a casa non si parlava dialetto (pugliese) né si dicevano parolacce. Soprattutto mio padre, da amante della buona cucina sana, non mi aveva mai fatto avvicinare a un cordon bleu.
Finale della storia: quando sono andata a vivere da sola ho riempito il freezer di schifezze e ho iniziato a dire parolacce come se non ci fosse un domani, o quasi. È tipico della “castrazione al contrario” fare poi quello che ti pare.

Matilde Gioli serie tv
Hat Pasquale Bonfilio Hats, dress Atelier Angela Bellomo
Maria Chiara Giannetta Blanca
Hat Pasquale Bonfilio Hats, bodysuit Amina Muaddi x Wolford, necklace Etrusca Gioielli

Credits

Talent Maria Chiara Giannetta & Matilde Gioli

Photographer Davide Musto

Fashion editor Valentina Serra

Text Fabrizio Imas

Ph. assistants Valentina Ciampaglia, Giacomo Gianfelici

Fashion editor assistant Federica Picciau

Hair stylist Alessandro Rocchi @simonebelliagency

Make-up Giulia Luciani @simonebelliagency

Nell’immagine in apertura, per Maria Chiara Giannetta e Matilde Gioli: total look Giorgio Armani

Greg Tarzan Davis e il suo momento magico con ‘Top Gun: Maverick’

Greg Tarzan Davis sta vivendo quello che solitamente viene definito il momento d’oro, tutto ciò che aveva sognato e non sapeva potesse realizzarsi, ecco sta succedendo proprio adesso.
Dal 25 maggio potremo vedere l’attore al cinema, coprotagonista con Tom Cruise nel sequel più atteso di sempre, Top Gun: Maverick, che dopo tanti rinvii a causa della pandemia finalmente sarà visibile al pubblico sul grande schermo.
Ma non basta, sarà infatti anche in Mission: Impossible 7 nel 2023, nel frattempo è entrato a far parte di una delle più serie tv più amate, Grey’s Anatomy, giunta alla sua diciottesima stagione.

Greg Tarzan Davis age
Ph. by Kelly Balch

Come prima cosa devi dirmi come hai scelto il tuo soprannome, Tarzan.

Quando ero piccolo avevo i capelli lunghi, ero veramente terribile e mi arrampicavo ovunque; quindi, la mia famiglia ha iniziato a chiamarmi così, poi quando ho iniziato a lavorare e utilizzare i social, ho pensato che Greg sarebbe stato davvero troppo noioso, nessuno se lo sarebbe ricordato. Allora ho detto a mia madre che lo avrei cambiato e, siccome lei non era per niente felice, ho pensato di utilizzarlo come secondo nome. Ora sto procedendo legalmente per essere Greg Tarzan Davis.

Come hai iniziato a recitare?

La verità è che qualcosa che ho sempre voluto fare, guardavo Will Smith e Tom Cruise e mi dicevo “caspita, questo è quello che vorrei fare da grande”.
All’inizio però, quando provavo a fare magari una scuola di recitazione o inserirmi in una compagnia teatrale, la risposta era sempre negativa, quindi ero piuttosto scoraggiato; ho pensato perciò di focalizzarmi sullo sport, che invece andava benissimo. All’ultimo anno di college mi son sentito dire di seguire il mio sogno, del resto se non lo fai quando sei giovane quando ti ricapita?
Mi sono detto che, se fosse andata male, sarei potuto tornare a insegnare o fare qualsiasi altra cosa. Per fortuna a quanto pare non ho fallito, qualcosa di veramente buono sta succedendo nella mia vita.

Come ci si sente ad essere coprotagonista in un film come Top Gun: Maverick?

È assolutamente incredibile, mi sono trasferito a Los Angeles nel 2017 e dopo dieci mesi, nel 2018, ho iniziato a girare, e prima di questo non avevo mai fatto più di due giorni consecutivi sul set.
Posso dire che è tutto ciò che avevo immaginato pensando di lavorare a una super produzione come questa, e anche di più.

Quanto tempo avete impiegato a girarlo?

In tutto credo abbiamo lavorato dieci mesi, inclusi training e scene che abbiamo dovuto girare due volte perché alla prima c’era qualcosa che non andava; poi non ho mai utilizzato stunt, proprio come ci ha insegnato Tom Cruise, spingendoci anche dove non avremmo creduto di arrivare.

Greg Tarzan Davis Grey's Anatomy
Ph. by Kelly Balch

Dimmi la verità, quante volte è stata rimandata l’uscita del film?

Oh, mio Dio! Dunque, doveva uscire nel 2019, poi hanno scelto di posticipare, non so se realmente si possa considerare la prima volta, l’inizio è stato quello. Quindi è arrivata la pandemia e avevano pensato a giugno 2020, poi dicembre, insomma alla fine è stato rimandato ben cinque volte, ora ci siamo quasi, il 25 maggio è dietro l’angolo.
Credo che possa essere anche il film giusto per riportare il pubblico al cinema, per far capire che le sale di proiezione non sono morte. La raccomandazione di Tarzan è: “alzatevi dalla poltrona e uscite per andare al cinema!”.
I blockbuster usciti nell’ultimo periodo sono tutti basati su supereroi, invece il nostro riprende la vita reale, con personaggi a cui tutti possono relazionarsi.

Com’è stato lavorare con Mr. Tom Cruise?

È stato meraviglioso, meglio di qualsiasi masterclass, non c’è niente e nessuno che possa insegnarti tutto ciò che ho imparato da Tom Cruise. La sua generosità e disponibilità ci hanno portato quasi a saper guidare un jet da soli per davvero, non male direi.

Greg Tarzan Davis Top Gun
Ph. by Kelly Balch
Greg Tarzan Davis Instagram
Ph. by Kelly Balch

Credits

Talent Greg Tarzan Davis

Photographer Kelly Balch

Press office Portrait PR in collaboration with MPunto Comunicazione

Moda street e musica, la ricetta social di Riccardo Gori aka Ghost Rich

In occasione dell’evento organizzato dal marchio Ten Minutes To Moon a Roma, Manintown ha avuto l’occasione di scambiare due chiacchiere con Riccardo Gori, creator dallo stile decisamente bold, con un debole per colori e grafismi audaci. Un’attitude che si sposa alla perfezione con le proposte dell’ultima capsule collection del brand street italiano, che ruota intorno alla rilettura in chiave ricercata, tesa a valorizzare l’unicità di ciascuno, dei capisaldi del workwear, tra print d’ispirazione futurista, accento sulle geometrie e cromie intense declinate, però, in tonalità misurate, dal crema all’arancio, alle nuance ricorrenti del nero e verde.


Giovane, appassionato di moda e musica, è conosciuto sui social come Ghost Rich; in poco tempo è riuscito a costruirsi una propria fanbase molto attiva, con la quale condivide le proprie emozioni e ideali attraverso scatti unici.

Che rapporto hai con la musica?

La passione per la musica mi è stata tramandata da mio padre, fin da piccolo; lui viaggiava tantissimo per vedere i suoi cantanti preferiti.
Sono stato influenzato dalla sua passione: non ho un genere preferito, mi piace la cultura musicale a 360 gradi. A seconda del momento che vivo, la musica mi aiuta molto. Mi ha davvero salvato dal tipico periodo che viviamo nel pieno dell’adolescenza, tra i 14 e i 18 anni, spronandomi, facendomi capire come inseguire i miei sogni ed essere sempre me stesso. Mi ha dato una bella spinta!

Riccardo Gori anni

Come e quando hai iniziato queste attività sui social? Cosa pensi di Instagram e TikTok: riesci a lavorare grazie a queste piattaforme? Con quale ti identifichi di più?

Instagram lo uso volentieri, gli sono più affezionato rispetto a TikTok perché sono partito da lì. Oggettivamente non so quanto durerà TikTok, ma sicuramente è di forte aiuto per diventare virale.
Da un anno a questa parte IG mi ha aiutato tanto a prendere ispirazione. Durante il giorno lavoravo in un negozio normalissimo, la sera invece mi prendevo una rivincita, potevo postare ed esprimermi liberamente. Ero al lavoro tutto il giorno tutti i giorni, dalle 8 di mattina alle 8 di sera, potermi svagare sui social e mostrarmi per quello che ero davvero era una sorta di vendetta, in positivo…
Sono riuscito a dimostrare che ce la potevo fare da solo, anche a livello familiare; i social mi hanno aiutato a capire ciò che non volevo fare e quella che non poteva essere la mia strada.

Riccardo Gori modello

Sei molto giovane: a cosa pensi sia dovuto il tuo successo? Cosa credi piaccia di più a chi ti segue?

Ho sempre attribuito il mio successo non a un qualcosa in più, bensì al fatto di non avere niente più degli altri. Il segreto è essere umile: rivelarmi spontaneo mi ha portato lontano.
A volte la chiave non sta nell’avere chissà quale talento, ma nell’essere semplici e genuini: in tanti si possono ritrovare in me. Sono sempre vicino a chi mi segue, non voglio farmi percepire inarrivabile, come cantanti o attori.

Rccardo Gori influencer

Che rapporto hai con la moda? Vorresti creare un tuo brand?

Un rapporto molto intimo, inoltre la studio, sto per laurearmi all’Accademia di belle arti a Firenze. Se la musica mi ha spinto a darmi da fare, la moda mi ha costruito, formato, mi ha anche protetto. Penso siano due ambiti assai connessi.
La moda aiuta a stare bene con se stessi, la vivo in maniera sia mentale che corporea.
Al momento non so se vorrei creare un mio brand, l’idea sicuramente mi affascina, anche dal punto di vista del marketing e della comunicazione. Se mi avessi fatto questa domanda due anni fa la risposta sarebbe stata affermativa, ora però tutti vogliono creare tutto, con poca creatività, e l’entusiasmo è un po’ calato… Ormai si fa moda solo perché va di moda.

Riccardo Gori influencer

Francesco di Raimondo, prendere la recitazione con filosofia

Il ruolo dell’artista estroverso che, nella seconda stagione di Volevo fare la rockstar, vive una liaison con l’Eros di Riccardo Maria Manera, ha permesso a Francesco di Raimondo di imporsi all’attenzione del grande pubblico. Nello specifico, quello televisivo di un serial riuscito nell’impresa di portare nel prime time italiano (certamente non uso a narrazioni amorose che si discostino da quelle “canoniche”, per così dire) una relazione omosessuale raccontata senza manierismi o infingimenti, anzi, col tono leggero, fresco che le appartiene.

Prima degli schermi Rai, l’attore romano (29 anni, parlantina sciolta, una laurea in filosofia utile, sostiene, anche sul set) si era fatto le ossa a teatro, partecipando poi a film (Belli di papà, Tutti i soldi del mondo) e serie come Romanzo famigliare, Provaci ancora Prof! 5, Made in Italy, oltre alla mega-produzione internazionale I Medici. Adesso, dopo gli ottimi riscontri ottenuti dal suo Fabio, arriveranno con ogni probabilità nuove parti, che lui spera siano di quelle che «si allontanano dalle mie corde, dal mio carattere. Pongono sfide interessanti».

Francesco Di Raimondo serie tv
Suit MSGM

Si è da poco conclusa Volevo fare la rockstar 2, dove il tuo personaggio intreccia una relazione col protagonista Eros. Le storie d’amore omosessuale, purtroppo, sono ancora una rarità nella tv italiana, qual è stata la sfida maggiore nell’impersonare Fabio?

Conferire credibilità alla storia, senz’altro. Mi è stato spiegato subito che, se nella prima stagione Eros aveva problemi nell’accettare la propria sessualità, con la seconda si voleva restituire la normalità, la verità di una storia tra due ragazzi, e la sfida stava appunto in questo.
Con Riccardo (Maria Manera, ndr) ora siamo ottimi amici, ma prima di girare non ci conoscevamo, perciò il difficile era far sì che risultassero credibili non tanto (o non solo) le scene d’amore tra loro, quanto il rapporto in generale. Per fortuna ha funzionato, in tanti si sono chiesti perfino se stessimo insieme anche nella vita reale, domanda che ci ha fatto capire di essere andati nella direzione giusta.

Sembra che gli spettatori siano rimasti favorevolmente colpiti dalla tua interpretazione, è così? E perché, secondo te?

È andata così in effetti, con mia grande sorpresa, perché ritrovarsi in un progetto avviato è complicato per definizione. Essere una new entry comporta sempre una responsabilità.
In questo caso, il riscontro è stato più che positivo e Fabio, lo noto – ripeto – con un certo stupore e felicità, è diventato uno dei personaggi più apprezzati. Il motivo credo sia il modo in cui si è scelto di raccontare il legame con Eros, riconducibile a un punto di forza di Volevo fare la rockstar nel suo complesso, al di là dell’omosessualità.
Concordo sul fatto che, come dicevi, in televisione sfortunatamente i temi Lgbtq+ faticano a emergere, sono spesso stereotipati, ridotti a macchiette, tutte cose che nella serie si è cercato di evitare, sia sul piano della scrittura che su quello dell’interpretazione. Volevamo fosse una storia d’amore, senza etichette o specificazioni, e penso che gli spettatori l’abbiano recepito, accogliendo positivamente la sincerità con cui vengono mostrati i personaggi, senza filtri, come persone che chiunque potrebbe incontrare nella quotidianità. Questo contribuisce a far appassionare chi guarda, l’ho constatato pure nei feedback ricevuti nei mesi scorsi; la spontaneità è tra gli elementi che più sono piaciuti, da parte mia sono contento di essere riuscito a farla arrivare.

Francesco di Raimondo Volevo fare la rockstar
Total look Sandro Paris
Francesco di Raimondo Fabio
Total look Salvatore Ferragamo

Hai rivisto gli episodi quando sono andati in onda? Tornando indietro, faresti qualcosa diversamente?

Li ho rivisti, mi piace vedere in compagnia film o serie fatte, quasi dimenticandomi dell’esperienza sul set, come fossi un semplice spettatore.
Non so se cambierei qualcosa, magari andando nel dettaglio delle scene qualche battuta o sguardo, nell’insieme, però, mi sembra che il ruolo abbia funzionato. Mi sono affidato a Matteo Oleotto, persona squisita oltre che ottimo regista; se è venuto fuori un buon lavoro è merito anche suo e del resto del team, il nostro è un lavoro di squadra.

Passando a un titolo completamente differente, eri il cardinale Riario ne I Medici, impressioni e ricordi di una serie kolossal come quella?

Ho dovuto dire una messa in latino, tra l’altro avendo studiato al classico e con una madre insegnante di greco e latino, la responsabilità era doppia! Ricordo che ripetevo di continuo le preghiere con un amico, è stata una prova infinita, sicuramente tra le più divertenti.
Ad impressionarmi, de I Medici, sono stati soprattutto gli abiti che ho avuto la fortuna di indossare; i costumisti hanno fatto un lavoro fantastico, giravo con indosso vesti magnifiche, pesanti e preziosissime.
Essere proiettati indietro di secoli, poi, è stato incredibile, film e spettacoli in costume hanno un fascino ineguagliabile, ti danno l’opportunità di vivere contesti che, per quanto di finzione, sono lontanissimi da ciò cui sei abituato.

Francesco di Raimondo film
Total look Dsquared2

Hai studiato teatro a Roma e Parigi, recitando in tante pièce, cosa ti porti dietro della tua formazione teatrale?

Ha rappresentato la miglior formazione possibile, a 360 gradi; la considero una palestra per la recitazione, fermo restando che ci sono differenze fra cinema e teatro, le emozioni vanno veicolate in maniera diversa. Di sicuro il palco ha una magia del tutto peculiare, non ne faccio una questione di migliore o peggiore, sono due mondi al tempo stesso simili (si tratta comunque di recitare) e distanti, l’ho esperito nettamente nelle prime esperienze sul set, ritrovandomi un po’ spaesato. Capire quale sia la chiave per gestire entrambi è essenziale.

Francesco di Raimondo Instagram
Total look Salvatore Ferragamo
Francesco di Raimondo filmografia
Suit MSGM

Sei laureato in filosofia, stai anche conseguendo un dottorato in materia, trovi sia utile nel tuo lavoro?

Direi di sì, per come l’ho vissuta io la filosofia consiste, tra le altre cose, nell’imparare a pensare come pensava qualcun altro prima di te, un’attitudine estremamente utile per chi, come me, ha una sua rigidità mentale. Può aiutare parecchio, quindi, nel capire come vive, cosa prova un’altra persona; forzando un po’ il meccanismo è lo stesso: nella filosofia lo si utilizza sotto il profilo intellettivo, nella recitazione coinvolgendo anche l’emotività.

Nella tua bio su Instagram compare la celebre “provocazione” di Magritte, Ceci n’est pas une pipe

Ne Il tradimento delle immagini lui, com’è noto, disegna una pipa, negandone contemporaneamente l’entità con la scritta riportata sotto, un’azione paradossale. Sul mio profilo ho voluto fare un’operazione simile, in modo un po’ “piacione”, lo ammetto, segnalando come le foto non rappresentino necessariamente Francesco, è una parte di me che non per forza mi corrisponde appieno.

Francesco di Raimondo serie
Pull Dsquared2

Ci sono ruoli o generi con cui sogni di cimentarti?

Forse un grande cattivo, i villain sono sempre divertenti, in linea di massima, però, i ruoli cui aspiro sono quelli che si allontanano dalle mie corde, dal mio carattere. Pongono sfide interessanti, alla fine con i personaggi simili al proprio io l’interpretazione può arrivare fino a un certo punto.

Su quali progetti stai lavorando al momento? Puoi anticiparci qualcosa di quelli futuri?

Sarò in scena da questa settimana con uno spettacolo cui tengo molto, Scomodi e sconvenienti, sulla storia dell’attore Ermanno Randi, vittima negli anni ‘50 di un tragico caso di cronaca, collegato alle difficoltà di vivere col suo compagno una relazione segreta, in un contesto che non permetteva agli omosessuali di vivere serenamente, alla luce del sole, le loro relazioni. Una vicenda che non conoscevo, il testo è inedito, scritto da Emiliano Metalli. Dei progetti futuri, invece, posso anticipare solo che si parla di film.

Francesco di Raimondo wikipedia
Total look Missoni
Francesco di Raimondo intervista
Jacket Valentino

Credits

Talent Francesco di Raimondo

Photographer Davide Musto

Ph. Assistant Valentina Ciampaglia

Stylist Andrea Mennella

Grooming Alessandro Joubert @simonebellimakeup

Location Villa Spalletti Trivelli

In apertura, Francesco indossa total look Valentino

Cruna: il nuovo standard del menswear italiano

Il brand di menswear Cruna nasce a Vicenza nel 2013 da Alessandro Fasolo e Tommaso Pinotti, giovani imprenditori che fondano una realtà il cui Dna è composto da valori chiari, che le consentono una crescita rapida e virtuosa. I pilastri alla base del suo successo sono estremamente attuali: la filiera, corta e rigorosamente made in Italy, imperniata sulla collaborazione con laboratori manifatturieri veneti; i design, innovativi ma rispettosi dei codici stilistici italiani; l’utilizzo esclusivo di materiali pregevoli.

Cruna inizia il suo percorso come label specializzata nei pantaloni da uomo. Nelle sue proposte il racconto scorre tra artigianalità, tessuti performanti di eccelsa qualità, cura maniacale dei dettagli, una ricerca continua su modellistica e fit. L’obiettivo, compreso presto dal mercato italiano e internazionale, è stato creare un range di pants autentico, “definitivo”. L’innovazione tecnica e stilistica del brand, unitamente ai suoi valori, gli hanno consentito di emergere come uno dei migliori specialisti della categoria. Tra i principali fattori di fidelizzazione della clientela, le vestibilità impeccabili e la capacità di precorrere i trend.

Quello di Cruna è un progetto “from bottom to up”, che parte dal pantalone, cardine del menswear, e si sviluppa su una collezione total look che ruota intorno a capispalla e maglieria, per comporre l’anima di una griffe dalla fortissima identità, che ha il raro pregio di rompere gli schemi e guardare al futuro senza frenesia, come racconta Tommaso Pinotti, Co-Founder & Commercial Director.

Intervista con Tommaso Pinotti di Cruna

Il vostro brand nasce inizialmente con un focus sul pantalone, come mai?

È dal desiderio di rinnovamento del classico guardaroba maschile che nasce Cruna nel 2013, quando io e Alessandro abbiamo deciso di produrre il primo pantalone. Unendo infatti le diverse estrazioni professionali – io ero appena rientrato dall’America, lui era attivo in una società di consulenza, abbiamo percepito la necessità di un modello che mediasse tra stile classico e casual, per rispondere alle esigenze dell’uomo dinamico e contemporaneo.
Prende vita così l’Elevated Casual del marchio, un look contemporaneo, sofisticato, di qualità, che può rispondere alle esigenze dei consumatori che desiderano un look aggiornato e ricercato, senza scendere a compromessi con stile e qualità dei capi indossati.

Quale punto di forza vi differenzia dai vostri competitor?

La capacità di unire l’alta qualità delle proposte a un gusto fresco e contemporaneo. La produzione, con una filiera corta italiana, dall’idea alla realizzazione del singolo pezzo, ci consente un vantaggio competitivo rispetto ai brand che producono in made-out.
La partnership stretta con Marzotto per sviluppare insieme tessuti esclusivi, certifica il nostro continuo impegno nell’innovazione, nell’attivazione e valorizzazione di sinergie tra eccellenze del Veneto.

Quali sono i pezzi chiave del guardaroba maschile per questa S/S 22?

Per la collezione ci siamo ispirati al design e alla contaminazione tra materiali, reinterpretando modelli di ispirazione Heritage secondo codici contemporanei, elevandone lo spirito casual. Proposte decostruite e raffinate danno vita a un gioco di contrasti: tra queste il set-up che vede protagoniste la giacca Soho e l’iconico pantalone Mitte. La prima è la nostra giacca a due bottoni dal fit urbano, senza spacchi, interamente decostruita; la linea fluida e il singolo bottone sulla manica le donano un look contemporaneo e rilassato. Per il Mitte abbiamo invece reinterpretato un classico fit carotato con una pince, inserendo elementi activewear come l’elastico sulla cintura e la coulisse a scomparsa.
La declinazione del modello in un’ampia selezione di tessuti ne eleva il valore intrinseco, rendendolo un passe-partout da portare in ogni occasione. Dai cotoni versatili ai blend lana-cashmere o seta-lino, passando per i migliori filati tecnici, il Mitte si riconferma ad ogni stagione la proposta più apprezzata.

Tra le new entry la giacca Operà, ispirata alle Chore Jacket francese, ne eleva i tipici elementi workwear attraverso tessuti ricercati e una confezione artigianale. La proposta primavera/estate 2022 si completa con una selezione di t-shirt realizzate in maglieria 18 gauge e set-up di morbido cotone bouclé. La Nizza è realizzata in crêpe di cotone Pima organico, tinto filo, di altissima qualità, mentre le maglie Bandol e Downtown, insieme al bermuda Saint-Tropez, sono declinate in freschissimo tessuto bouclé effetto spugna.

Avete già una distribuzione presso retailer di lusso, quali sono le prospettive per il futuro?

Lo sviluppo dell’estero è tra i principali obiettivi, il focus è ora su Danimarca, Olanda e Scandinavia, per incrementare gli oltre 250 multimarca dove siamo presenti.
Per il futuro abbiamo grandi ambizioni: diventare un marchio di riferimento nel settore, rappresentando l’Elevated Casual tipicamente italiano all’estero. Questo significherà continuare il nostro percorso nello sviluppo di prodotto e dei nostri codici stilistici, oltre alla diversificazione dei canali distributivi.
Tra i progetti in stadio di sviluppo avanzato c’è il lancio della prima collezione donna, con la Primavera/Estate 2023. Infine, lo sviluppo della nostra rete di flagship store che prevede, per l’estate, l’apertura del primo negozio Cruna a San Pantaleo, in Sardegna.

La prima volta alla regia di Channing Tatum con ‘Io e Lulù’

Abbiamo visto e apprezzato Channing Tatum in numerosi film, ma sicuramente nessuno di noi ha dimenticato Magic Mike, che nel 2012 l’ha trasformato da attore esordiente in uno dei più desiderati divi di Hollywood.

Nato in Alabama, è stato modello, ballerino, produttore cinematografico e ora, per la prima volta, lo vediamo alla regia della nuova pellicola Io e Lulù (Dog, nell’originale), di cui è anche il principale interprete. Una produzione che ha scelto e a cui si è avvicinato perché, nella sua vita, ha sempre avuto un forte legame con i cani, e proprio nel momento in cui è venuto a mancare il suo gli è stato offerto il progetto. Era insomma praticamente impossibile che la direzione del film non diventasse un suo obiettivo.

Channing Tatum con Lulù in una scena del film

Cosa pensi del rapporto che si instaura tra umani e cani?

I cani sono molto presenti, ti danno tutto ciò che hanno, incondizionatamente, rimanendoti sempre vicini. Probabilmente non sapremo mai se hanno un’idea del futuro o quanto e se pensino al passato, però ogni volta che il padrone torna a casa, è come se fosse la prima. Sembra che non abbia la minima importanza, potrei uscire per trenta minuti e poi Cutie, la mia nuova “figlia”, è come se dicesse “oh mio Dio, sei tornato, sei tornato”.
Penso che un cane ci ricordi che la gioia è sempre accessibile; in quanto umani, ci concentriamo fin troppo sul passato e il futuro, ma si può sperimentare davvero la gioia solo nel presente. Credo che gli uomini, in qualche modo, li amino per questo motivo.

Parlaci della storia del tuo road movie Io e Lulù.

Tutto ciò di cui ha bisogno il mio personaggio, Briggs, è fondamentalmente una raccomandazione, per fare in modo che il suo capitano chiami la compagnia di sicurezza diplomatica e garantisca per lui, dicendo che è un buon soldato. Per ottenere questo, porta con sé Lulù in un viaggio in auto dalla costa nord-ovest del Pacifico al confine messicano. Un’operazione che non sarà semplicissima, se pensiamo che basti mettere un cane in macchina e partire, ecco non è esattamente così; per animali di questo tipo ci vuole un trattamento a dir poco speciale, perciò li vedremo litigare e scontrarsi tutto il tempo. Se però Briggs riuscirà a compiere la “missione”, portando Lulù a un funerale senza che nulla vada storto, allora otterrà la raccomandazione.

Quali sono le similitudini tra il tuo personaggio e Lulù?

Sono entrambi abbastanza “folli”, infatti andranno sicuramente d’accordo, procedendo insieme finché non potranno fare altrimenti. Trovo che ritrovarsi due “cocciuti” del genere, sempre pronti a chiudersi in sé e scontrarsi, è un po’ come avere delle micce pronte a esplodere; una vera e propria polveriera, che può scoppiare in qualsiasi istante. C’è un momento in cui Briggs e Lulù afferrano questa sorta di unicorno di peluche, che non potrebbe restare intatto se uno dei due non lo lasciasse, e tutto potrebbe accadere in un attimo. È molto divertente, sono uguali, l’unica differenza sta ovviamente nel fatto che uno è un cane, l’altro un uomo.

Qual è la vera sfida nel recitare con un cane?

In una scena in auto vado davvero veloce e Lulù praticamente impazzisce, perciò apro la portiera, la sgrido, divento quasi aggressivo, e quel povero animale mi guarda come per chiedersi cos’abbia combinato per farsi urlare contro, tirando indietro le orecchie. Ecco, questa cosa mi ha spezzato il cuore, perché siamo amici per la pelle, sul serio. Ognuno di noi, sul set, doveva quindi andare da lei per rassicurarla, per confermarle che le volevamo bene. La vera sfida sta nel far capire al cane che è tutto un gioco.

Il trailer di Io e Lulù

Anna Ferzetti, «recitare è un po’ come andare in analisi»

Il suo cognome richiama un pezzo di storia cinematografica e teatrale italiana, idem quello del compagno: Anna Ferzetti, attrice romana, figlia di Gabriele (scomparso nel 2015, un interprete di razza della stagione migliore dello spettacolo nostrano, al servizio di autori con la A maiuscola quali Antonioni, Visconti, Leone, Petri…), legata sentimentalmente a Pierfrancesco Favino, a 39 anni (di cui una ventina trascorsi su set e palcoscenici di rilievo), fa parlare di sé, ben più che per le (illustri) parentele, per i ruoli cui ha dato vita tra grande – e piccolo – schermo e teatro. La notorietà gliel’ha regalata Una mamma imperfetta, ma l’elenco è corposo, comprende fra i tanti Terapia di coppia per amanti, Il colore nascosto delle cose, Rocco Schiavone, fino alla doppia candidatura (David di Donatello e Nastro d’argento) come miglior attrice non protagonista per Domani è un altro giorno.
Dal 13 aprile la vedremo ne Le fate ignoranti, trasposizione seriale del capolavoro di Ferzan Özpetek, e a maggio su Sky in (Im)perfetti criminali; la nostra conversazione parte da qui.

Dress stylist’s archive, shoes Roger Vivier

Arriva su Disney+ Le fate ignoranti, cosa possiamo aspettarci dall’adattamento televisivo della pellicola che consacrò Özpetek tra i massimi autori del nostro cinema?

Secondo me bisognerebbe slegarsi un po’ dal film, la storia rimane la stessa ma ci sono sviluppi inediti, affidati ad altri interpreti, altre facce, altre umanità insomma, e il valore aggiunto consiste proprio in questo.
A causa dei parallelismi è spesso difficile lavorare ai remake, invece ci si dovrebbe concedere la libertà di avvicinarsi a una cosa diversa e, anche nel caso dei personaggi già esistenti, vederli con altri occhi.

Quali pensi siano le differenze principali tra l’originale e la serie?

Nei rifacimenti, come detto, ognuno porta con sé determinate caratteristiche, il suo personale modo di vedere il personaggio. Io sono stata fortunata perché, non avendo termini di paragone per Roberta, una new entry, mi sono potuta sbizzarrire, seppur nel contesto della “casa” di Le fate ignoranti.
Per quanto riguarda i protagonisti “originali”, essendoci un solo Stefano e una sola Margherita (Accorsi e Buy, rispettivamente Michele e Antonia nel film, nda), esattamente come un solo Eduardo (Scarpetta, nda) e una sola Cristiana (Capotondi, nda), è normale che ciascuno ne dia la propria lettura.

Shirt and rings Valentino

Sei nel cast di (Im)perfetti criminali, commedia su quattro guardie giurate che si improvvisano rapinatori. Cosa puoi anticiparci del film e della tua parte?

Sono un’insegnante alla costante ricerca di supplenze, con Filippo Scicchitano formiamo una coppia di sposi che fatica ad arrivare a fine mese.
La trovo una storia deliziosa, capace di far riflettere pur essendo sostanzialmente una commedia su quattro persone semplici, metronotte che sbarcano il lunario e si troveranno ad aiutare un collega in difficoltà. Si sorride e allo stesso tempo ci si interroga, pensando a questioni complesse, concrete, alle difficoltà della vita quotidiana, tipo affitto e bollette.

È in onda su Rai2 la seconda stagione di Volevo fare la rockstar, tu però non sei nuova al mondo della tv: eri tra le protagoniste di Una mamma imperfetta, poi sono venuti Skam Italia, Rocco Schiavone, Il tredicesimo apostolo… Cosa ti stimola di più delle serie?

Non c’è un elemento specifico, ad attirarmi sono senz’altro ruolo e storia, di Volevo fare la rockstar, per dire, mi affascinavano gli argomenti trattati, l’amore, la famiglia, i tradimenti, la provincia anche, protagonista al pari del cast, perché la cittadina immaginaria di Caselonghe rappresenta uno spaccato del Friuli; come atmosfera è agli antipodi rispetto, ad esempio, a Le fate ignoranti, dove Roma viene restituita in modo pazzesco, con luci bellissime.
Finora sono stata fortunata, mi sono capitati ruoli diversissimi l’uno dall’altro.

Jacket dress Valentino, boots Giuseppe Zanotti, rings Chiara BCN
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Nel 2020 hai preso parte a Curon, che sviluppava in chiave mystery il tema del doppio, come immagini un ipotetico alter ego di Anna Ferzetti?

Come un mio opposto, ognuno ha i suoi punti deboli e credo gli toglierei quelli, le paranoie varie che mi porto dietro.
Si tende a raffigurare il doppio come la parte oscura dell’io, mi piacerebbe al contrario trasmettergli quei lati caratteriali che non mi appartengono, anche in Curon ho provato a individuare le sfaccettature positive del personaggio, quelle non pienamente sviluppate.

Qualche serial che apprezzi – o hai apprezzato – particolarmente? In fondo hai dichiarato di guardare sempre Netflix con le tue figlie…

Ce ne sono davvero tanti, mi viene in mente Fleabag, per citarne solo uno; amo andare al cinema, comunque, quindi cerco di tenere insieme le due dimensioni, ritagliandomi il tempo necessario a godersi un film in sala.

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Confidavi nel 2021 al Corriere della Sera di fare come tuo padre che «amava trasformarsi, imbruttirsi», cioè?

Gli attori hanno l’immensa fortuna di vivere le vite degli altri, allontanarmi da me stessa anche fisicamente, oltre a divertirmi, in questo senso mi aiuta. Se il copione prevede una determinata postura o “difetti” fisici, perché non accentuarli?
L’attenzione ad aspetti simili, probabilmente, dipende dall’essere cresciuta a teatro, che concede maggiore libertà artistica rispetto al cinema, dove il discorso è diverso, più complesso a livello tecnico; di contro, è ancora più stimolante provare a trasformarsi per un film o la tv, risultando altrettanto credibile sullo schermo.

Due anni fa eri al fianco di Pierfrancesco Favino in Tutti per 1 – 1 per tutti, come ti sei trovata a condividere il set con lui?

Non era una novità assoluta, abbiamo fatto spettacoli insieme per anni, era però la prima volta sul set e, trattandosi di una commedia, la difficoltà principale era non ridere, una vera sfida date le situazioni esilaranti che si venivano a creare, non di rado improvvisate, per giunta.
Io e Pierfrancesco ci divertiamo molto a lavorare insieme, sicuramente l’alchimia che c’è tra noi aiuta, per quanto non manchino scontri e dubbi.

Dress Alessandro Vigilante
Dress Alessandro Vigilante

Hai vissuto il teatro fin da piccola, lavorando anche dietro le quinte, e recentemente l’hai definito una comfort zone. Cosa rappresenta per te il palco?

È come una seconda casa, quando si accendono le luci e il sipario si alza, scatta qualcosa che le parole non possono spiegare appieno, a partire dal rapporto col pubblico, lo percepisci distintamente, avverti che è lì, vive nella storia con te.
Ora con Vanessa Scalera, Daniela Marra e Pier Giorgio Bellocchio riprenderemo Ovvi destini alla Sala Umberto, tornare in scena dopo un periodo del genere e sentire le persone in platea partecipi, che commentano, ridono o si commuovono, è davvero emozionante, riempie di gioia vederle felici alla fine dello spettacolo.
Il teatro ha l’enorme privilegio della simbiosi con il pubblico, per questo ci torno appena posso e, ogni volta, la sensazione è di essere a casa. I ritmi cinematografici e televisivi sono diversi, semplicemente, sto ancora prendendoci le misure; il nostro è un mestiere in cui, per fortuna, la ricerca per tenere vivo quel fuoco che ne la base è continua, non si smette mai di imparare, anche solamente osservando i colleghi che, magari, a sessanta o settant’anni si spingono ancora oltre, senza dare nulla per scontato.

Un ruolo o genere con cui finora non hai avuto la possibilità di confrontarti e che, invece, ti piacerebbe sperimentare?

Fondamentalmente ho sempre lasciato che fosse il personaggio di turno a “travolgermi” e vorrei proseguire su questa linea, sorprendendo gli altri – e me stessa – con parti che mi diano stimoli inediti. Insistendo sulle stesse cose, d’altronde, si finisce per annoiarsi e annoiare gli spettatori, i primi con cui bisogna entrare in sintonia, spingendoli a immedesimarsi con ciò che vedono.
Mi chiedo spesso come sia possibile non avere ruoli che mi piacerebbe da matti interpretare, e non so rispondere, del resto ci sono così talmente tanti lati della personalità da esplorare e raccontare, senza parlare dei temi da affrontare… Recitare è un po’ come andare in analisi, ti fai molte domande e arrivi a sfidarti, a metterti in discussione, come attore e persona in generale.

Dress stylist’s archive, shoes Roger Vivier
Dress stylist’s archive, shoes Roger Vivier

Credits

Talent Anna Ferzetti

Photographer Davide Musto

Ph. assistant Valentina Ciampaglia

Stylist Nick Cerioni

Fashion assistants Michele Potenza, Salvatore Pezzella, Noemi Managò

Make-up Michele Mancaniello for #SimoneBelliAgency

Hair Simona Imperioli

La bellezza “ibrida” delle fotografie artistiche di Tania & Lazlo

Tania Brassesco e Lazlo Passi Norberto lavorano insieme dal 2008 nel campo dell’arte visiva e hanno esposto in Europa, Asia e Stati Uniti. Le loro immagini, che prendono vita grazie allo strumento fotografico, trasportano lo spettatore fuori dal tempo, in una dimensione ibrida fatta di una bellezza delicata e malinconica. Fuoriclasse della staged photography, realizzano autonomamente le proprie opere, dalla creazione dei set fino alla post-produzione.

Un ritratto dei due autori

Come siete arrivati al mondo dell’arte, come vi siete conosciuti e perché avete deciso di lavorare insieme?

L’arte ha sempre fatto parte delle nostre vite, sia come fruitori che come sperimentatori. Ci siamo conosciuti a Venezia durante gli studi universitari che stavamo seguendo, rispettivamente all’Accademia di Belle Arti e ad Arti Visive allo IUAV, dove avevamo intrapreso dei percorsi artistici differenti (Tania nella pittura e nel set design e Lazlo nel video e nella fotografia, ndr).
Avevamo già allora un immaginario affine, ci nutrivamo di passioni comuni nelle varie discipline artistiche e abbiamo visto come valore aggiunto il fatto di aver sperimentato media differenti nei nostri percorsi. Abbiamo deciso così di fondere gli approcci e sfruttare le potenzialità delle diverse tecniche acquisite, unendole e creando dei lavori che fossero la sintesi delle nostre esperienze, che contenessero all’interno stratificazioni di linguaggi che agissero in sintonia.

Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, Embrace of the Dark, dalla serie Behind the Visible
Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, Lost River, dalla serie Behind the Visible

Come nascono le vostre opere?

La nostra ricerca si interessa di identità, di inconscio e di sogno, di sviluppo e comprensione della memoria e dell’immagine, non a caso le idee per i nostri lavori iniziano spesso da pensieri sfuggenti, visioni momentanee, sogni non ben definiti e spunti che derivano da molteplici aspetti della società, che cerchiamo di annotare e poi approfondire in maniera più metodica.
Le nostre opere sono il frutto della fusione di vari media differenti che adoperiamo nel processo creativo: disegno, fotografia, video, performance e installazione, che trovano nel mezzo fotografico lo strumento conclusivo ideale. Un approccio fluido che usiamo per andare a creare dei set in scala reale, ricostruendo interamente delle scene o facendo interventi specifici in paesaggi esistenti.
Amiamo esplorare quel confine che concerne la realtà e la finzione, usando il la fotografia in modo alterato per modificarne la caratteristica intrinseca di rappresentazione del vero, sviluppando un paradosso nella percezione dell’immagine stessa.

Vivete e lavorate tra l’Italia e gli Usa. Come mai avete fatto questa scelta?

In realtà senza troppi ragionamenti, è stata una di quelle decisioni impulsive che si fanno nella vita. Avevamo diversi collezionisti che credevano fortemente nel nostro lavoro nell’area di New York ed eravamo stati invitati per una residenza d’artista. Pensavamo di fare un’esperienza di un anno mai poi ci siamo stabiliti lì per più di cinque anni, travolti dall’energia della città.
Abbiamo recentemente sentito il desiderio di riportare il nostro studio in Italia, proseguendo però a dividere i progetti tra Europa e Stati Uniti, in modo da poter continuare ad assorbire le energie positive di entrambe le culture, nella bellezza della loro diversità.

Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, Call of the Wild, dalla serie Behind the Visible

Il vostro progetto Behind the Visible mostra allo spettatore una serie di immagini sospese tra realtà e finzione. Qual è il senso profondo di questo lavoro, cosa vi ha ispirati e come lo avete realizzato?

Questi lavori cercano un contatto con il lato irrisolto del nostro vissuto, le memorie, le visioni e le pulsioni che riemergono dal nostro subconscio sotto diverse sembianze, che abbiamo cercato di trasporre in immagini creando scenari che appaiono riconoscibili ma allo stesso tempo disorientanti.
Ogni opera della serie ha una propria narrazione, ma sono tutte attraversate da un senso di equilibrio precario tra familiarità ed elemento di sorpresa, intrise di ambiguità temporale e formale. Una sensazione che può assomigliare al senso di smarrimento momentaneo che si ha quando ci si sveglia da un sogno particolarmente lucido.
Per questi lavori, oltre che agli immaginari che volevamo ricreare, ci siamo ispirati alle ambientazioni notturne di una natura vasta e dominante che abbiamo incontrato nel nostro periodo negli Stati Uniti. Abbiamo usato gli elementi naturali come parte integrante della narrazione, per far emergere simbolicamente l’interiorità dei soggetti rappresentati.

Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, I Can Feel the Universe, dalla serie Behind the Visible 
Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, The Wind of Absence, dalla serie Behind the Visible

The Essence of Decadence è uno dei vostri primi grandi successi e propone una serie di immagini fotografiche che riproducono con incredibile accuratezza alcuni quadri di grandi maestri del passato, tra cui Gustav Klimt e Egon Schiele. Ci raccontate la genesi di questo lavoro?

È stato il primo progetto realizzato assieme più di dieci anni fa e non è un caso che sia frutto di una delle nostre comuni passioni, ovvero l’arte di fine ‘800 e primi ‘900, figlie di un periodo di crisi sociali e interiori, di cambiamenti epocali che gettavano le fondamenta della società moderna, con l’introduzione dell’elettricità, la diffusione dei mass media e la nascita della psicoanalisi.
Sentivamo una forte connessione emotiva con quelle opere e abbiamo voluto creare un parallelismo storico tra quell’epoca e la nostra, reinterpretando alcuni lavori pittorici attraverso un mezzo differente e aggiungendo così un altro livello di lettura, cercando di insinuare il dubbio nell’esperienza percettiva dell’osservatore, coinvolto in una sorta di continuo déjà-vu. Ci interessava anche interpretare in prima persona i soggetti raffigurati per entrare in empatia con le donne dipinte, ribaltare in qualche modo la loro funzione originale di muse e far diventare la donna sia interprete che autrice dei lavori.

Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, Pot Pourri (after Herbert James Draper), dalla serie The Essence of Decadence
Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, Young Decadent (after Ramon Casas), dalla serie The Essence of Decadence

Infatti spesso in passato siete stati i protagonisti (soprattutto Tania) delle vostre opere. Come mai? Ultimamente avete ritratto anche altre persone, a cosa è dovuto il cambio di rotta?

Inizialmente è stata un’esigenza, nata in modo spontaneo, di dover comunicare anche attraverso il proprio corpo, mettendoci sia davanti che dietro l’obbiettivo. Negli anni abbiamo voluto ampliare questa visione includendo persone di diverse età e caratteristiche che potessero rappresentare i soggetti che avevamo in mente per le specifiche scene immaginate, continuando ad usare anche noi stessi quando ne sentiamo la necessità.

Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, Daydream (after Dante Gabriel Rossetti), dalla serie The Essence of Decadence

Quale sarà il vostro prossimo progetto?

È un periodo particolarmente fertile in cui abbiamo diversi progetti avviati che non vediamo l’ora di sviluppare. Al momento stiamo ultimando delle opere realizzate recentemente in una residenza d’artista presso The Society of the Four Arts a Palm Beach in Florida, che presenteremo a breve. Stiamo anche lavorando alla fase ideativa e di pre-produzione di una nuova serie che svilupperemo nel corso del 2022. Abbiamo inoltre iniziato a ragionare e sperimentare attorno a progetti video, utilizzando questo mezzo come estensione della nostra ricerca artistica.

Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, Nuda Veritas (after Gustav Klimt), dalla serie The Essence of Decadence
Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, Lure of the Night, dalla serie Behind the Visible 
Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, Premonition, dalla serie Behind the Visible 

www.tanialazlo.com

Instagram Tania & Lazlo

Immagine in apertura: Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, Under the Surface, dalla serie Behind the Visible

Giacomo Giorgio, il sopravvissuto

A Giacomo Giorgio è andata bene perché non ha dovuto traumatizzare la famiglia, come avviene nella maggior parte dei casi dicendo di voler fare l’attore: la settima arte scorreva già nel suo Dna. Si definisce “finto” napoletano, in quanto si è trasferito a Milano all’età di otto anni.
Protagonista della serie Mare fuori con il cattivissimo Ciro, sta per tornare in tv con la nuova ed attesissima serie Sopravvissuti, produzione internazionale e grande scommessa di Rai1, in uscita in autunno, per la regia di Carmine Elia.

Trench Tombolini, T-shirt Emporio Armani, trousers Gutteridge

Come nasce la tua passione per la recitazione?

Diciamo che per me è una tradizione famigliare, in quanto ho avuto la bisnonna e la trisnonna che erano attrici di teatro; quindi ho sempre avuto la passione per lo spettacolo, fin da piccolo.
In realtà quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande rispondevo di voler fare il supereroe, poi ho capito che esisteva un lavoro che racchiudeva tutto ciò che sognavo ed era l’attore.

Sei napoletano, secondo te voi siete più bravi perché avete nel sangue l’arte del racconto?

Allora in realtà sono un finto napoletano, in quanto ho vissuto a Napoli fino all’età di otto anni, poi per undici a Milano e, da quando le cose hanno iniziato ad andare bene nella recitazione, mi sono trasferito a Roma, però la verità è che a Napoli anche il pescivendolo potrebbe fare l’attore per quanta fantasia e passione ci mette per farlo.

Sei reduce dalla seconda stagione della serie Mare fuori, la più vista su RaiPlay, secondo te perché questo successo?

Credo che sia proprio per il fatto che non abbiamo preso in giro nessuno sia nella prima che nella seconda serie, abbiamo cercato di fare qualcosa di più, che andasse al di là del racconto di una storia malavitosa, anche perché era già stato fatto.
Ad esempio, la rappresentazione del male, cioè io con il mio personaggio Ciro: abbiamo cercato di raccontarlo non solamente come un boss malavitoso, ma in primis come un ragazzo che ha sbagliato, e che perciò reagisce e agisce come tale.
Quello che emerge è che non sono il più cattivo, forse sono semplicemente una vittima. Il nostro è il racconto della prigionia mentale e culturale.
La cosa che mi ha più colpito è stata quanto possa essere trasversale tutto ciò nelle generazioni, perché mi capita spesso di incontrare persone adulte, anche sui settant’anni, che mi fanno i complimenti ed hanno visto Mare fuori.

So che è stata confermata la terza stagione, come ti sei avvicinato al tuo personaggio?

C’è stato parecchio lavoro attoriale e registico dietro le quinte con tanti scambi di idee, poi personalmente utilizzo il metodo Stanislavskij, quindi immaginare e sapere tutto quello che era successo prima al personaggio è fondamentale, così da poterlo fare mio.
E poi ho lavorato su un animale (un esercizio classico del metodo, che mi è mi è servito moltissimo),la pantera nera, proprio per le sue movenze.

Cap Borsalino, T-shirt Emporio Armani, trousers Gutteridge

Uscirà prossimamente l’attesissima Sopravvissuti, un po’ di ansia?

Sto letteralmente morendo, spero in una buona risposta del pubblico, anche perché questa volta stiamo parlando di Rai1, di un pubblico sicuramente più vasto, però Sopravvissuti non è esattamente una serie tranquilla.
È una grande scommessa, perché è una produzione italiana, francese e tedesca frutto di un’iniziativa della Rai, complessa nel titolo come nella realizzazione.

Dove avete girato?

La storia ha luogo a Genova, dove abbiamo girato sulla barca vera per appena un giorno, poi lo scafo è stato ricostruito in uno studio cinematografico e, per i restanti due mesi, abbiamo girato tutte le scene con green screen.
Insomma, è stata un’operazione complicatissima, l’imbarcazione aveva dei movimenti meccanici assolutamente realistici, e anche la pendenza era reale, come ovviamente la pioggia battente sopra di noi, per non parlare dei cannoni che sparavano acqua, è stata molto tosta, sia fisicamente che mentalmente.

Dimmi una curiosità sul tuo personaggio.

Devo ringraziare Carmine Elia che mi ha scelto in quanto anche regista di Mare fuori, ha avuto il coraggio di volermi per un personaggio che in realtà ha trentacinque anni, io invece ne ho ventitré.

A quanto pare lavori sempre, quando non sei sul set cosa ti piace fare?

Quando posso vado a teatro e guardo tanti film, ma fondamentalmente preparo i personaggi dei miei prossimi progetti.

Trench Gabriele Pasini, sweater and shorts Zegna
Jacket and trousers Gabriele Pasini, polo shirt L.B.M. 1911

Credits

Talent Giacomo Giorgio

Photographer Davide Musto

Ph. assistants Valentina Ciampaglia, Dario Tucci

Post-production Riccardo Albanese

Stylist Alfredo Fabrizio 

Stylist assistant Federica Mele 

Hair & make-up Eleonora Mantovani @simonebelliagency

Location The Hoxton Rome

Anthony Pomes, il ritratto come medium per far emergere emozioni e unicità del soggetto

Anthony Pomes inizia il suo percorso nella fotografia nel 2011, sfruttando la luce naturale per ritrarre amici e paesaggi. Di stanza a Parigi ma originario del sud della Francia, muove i primi passi nel mondo della cultura e dell’arte al liceo, dove studia teatro e letteratura. Queste discipline sono state, e sono ancora oggi, fonte di ispirazione per le sue foto, così come la danza, che pratica attualmente. Con i suoi lavori, Pomes vuole percepire e catturare le emozioni dei soggetti, proprio come fanno il teatro, la danza e la letteratura. In particolare, lo sguardo e il movimento del corpo sono per lui gli aspetti più importanti da ritrarre, per mezzo dei quali riesce a far emergere le emozioni che sta ricercando.

Un autoritratto di Anthony Pomes

Quando hai scoperto la passione per la fotografia? Come è iniziato tutto?

A 12 anni ho iniziato a studiare teatro e ho continuato con la letteratura e la recitazione al liceo. Andavo in scena, interpretando e dando vita a personaggi e apprezzando la creatività che mi circondava. Ho intrapreso anche una breve carriera di modello che mi ha introdotto al mondo dell’immagine.
L’arte della fotografia è arrivata poi in maniera naturale. Nell’estate del 2011 ho comprato la mia prima macchina fotografica e ho cominciato ad allenarmi scattando foto ad amici e paesaggi. La letteratura e la recitazione erano, e continuano ad essere, le mie principali fonti di ispirazione. I miei scatti erano una sorta di editoriale che ricordavano personaggi letterari o di teatro. Quando mi sono trasferito a Bordeaux, ho iniziato a fotografare per la prima volta modelli professionisti provenienti da agenzie di moda, il che mi ha spinto verso un altro livello. I ritratti e la luce naturale erano i miei terreni di lavoro preferiti. Oggi tengo sempre in mente le mie origini artistiche ricercando la sensibilità e l’unicità nei ritratti che realizzo.

Chi sono i professionisti o gli artisti che ti hanno maggiormente ispirato?

Sicuramente i grandi drammaturghi come Shakespeare o Beckett, ma anche fotografi contemporanei che mi hanno permesso di elevarmi agli inizi. Ricordo che sognavo le foto di Théo Gosselin e ammiravo le luci degli studi di Florian Saez e Malc Stone.

Come scegli i modelli per le tue foto? Cosa deve catturare la tua attenzione?

Come le muse ispirano gli artisti, io devo essere ispirato da un modello. Viso, sguardo, forme del corpo, atteggiamenti ed emozioni. Ma per rispondere alla domanda, dirò che è tutta una questione di sguardo. Tutto sta negli occhi, che sono lo specchio dell’anima, come diceva Cicerone.

Chi sono i modelli o le persone che hanno per te un talento speciale e perché?

Questa è l’occasione per omaggiare volti nuovi con cui ho avuto l’opportunità di collaborare. Prima di tutto devo parlare della mia talentuosa amica e musa Céline, che è stata la mia modella fin dall’inizio e con la quale siamo molto compatibili per quanto riguarda i gusti letterari. In secondo luogo, il più famoso e desiderato ballerino francese, Andreas Giesen, un grande talento da seguire per i suoi movimenti, colori e outfit.
La danza è anche il punto di forza di Jean-Baptiste Plumeau, che unisce il ballo contemporaneo e l’improvvisazione. Il comico Philippe Touzel ha quello sguardo che non si dimentica: un artista da tenere d’occhio. Amaury Bent, modello francese emergente, è un nuovo volto che ho avuto la possibilità di scattare più volte.
Infine, una menzione speciale per il mio amato amico e talentuoso fotografo Sébastien Marchand. Ha la capacità di creare e ricreare all’infinito: la sua immaginazione non conosce limiti.

Progetti e sogni per il futuro?

Al momento ho intenzione solo di praticare e sperimentare la fotografia. Nel prossimo futuro mi piacerebbe realizzare editoriali e ritrarre più ballerini e comici, i migliori quando si tratta di espressioni facciali.
Per il futuro sogno di viaggiare in luoghi mozzafiato lontano da Parigi e fare delle foto in giro per il mondo: editoriali, immagini per i brand, ritratti dei miei volti preferiti o scatti da aggiungere al portfolio. Le mostre sono sempre nella mia mente ma al momento non ho il tempo di dedicarmici.

Per tutte le fotografie, credits Anthony Pomes

Gli universi di stile di Silvia Ortombina (Tiny Idols), dal Super Bowl a Blanco

Stylist e Costume Director, Silvia Ortombina è la fondatrice della factory creativa Tiny Idols. Da sempre al fianco di artisti musicali, è proprio lei ad aver creato gli outfit (indimenticabili!) che ha indossato Blanco durante l’ultimo Festival di Sanremo.

Un ritratto di Silvia Ortombina

Quando e come la moda è entrata nella tua vita? Il tuo desiderio era quello di diventare una stylist o avevi altri progetti?

Sicuramente per me la moda è una questione “di famiglia”. Mia madre e sua sorella avevano un’azienda di tessuti tecnici sul lago di Garda, un distretto piccolo, ma molto riconosciuto. Spesso mamma mi portava a lavorare con sé e io adoravo stare in mezzo alle bobine di tessuti colorati, enormi. Quando tornavo a casa mia nonna mi cuciva gli abiti a mano e molto spesso la sera trascorrevo il tempo osservandola lavorare a maglia o ricamare. Ricordo anche mio zio, stilista per la Puma a Monaco, che quando passava a casa nostra portava i suoi bozzetti… Tutti in qualche modo hanno contribuito ad avvicinarmi alla moda, anche se all’inizio non pensavo che questa potesse essere la mia strada. Poi ho iniziato a studiare comunicazione e cinema, sono entrata nel mondo dei costumi attraverso una serie di collaborazioni con fotografi e registi… E sì, anche grazie ad un archivio di famiglia molto fornito.

Collabori da sempre con molti artisti del panorama musicale, come hai iniziato a lavorare in questo settore?

La mia prima esperienza è stata proprio un internship in una casa di produzione. Progetto dopo progetto sono riuscita a sviluppare un mio metodo nella ricerca e nello sviluppo del guardaroba. Era il 2006, anche se mi sembra ieri. Sono sempre stata legata alla musica anche nella vita personale, sono una musicista e tra i venti e i venticinque anni ho lavorato come art director in un club. Mi interessano moltissimo le interazioni tra mondi differenti e in generale la costruzione dell’immagine dei personaggi. Il mio cuore batte per la musica ma anche per il cinema e la fotografia: Fellini e LaChapelle sono i miei miti, le mie fonti d’ispirazione.

Silvia Ortombina e Blanco (ph. CHILL DAYS)

Cos’è Tiny Idols e quando è nato?

Tiny Idols è nato una decina d’anni fa come collettivo, un gruppo aperto in cui coesistono e collaborano figure diverse. Nella mia professione, mettere insieme “la squadra giusta” rappresenta un punto di partenza importante per la buona riuscita di ogni progetto e se all’inizio della mia carriera ero più autonoma, quando la mole di lavoro è aumentata ho ritenuto giusto dare un nome all’attività e alle persone che le ruotano attorno. Tiny Idols sono io in quanto stylist, ma anche in quanto coordinator di progetti molto articolati legati alla costume direction. A ottobre scorso, ad esempio, ho avuto il grande onore di lavorare con Floria Sigismondi grazie a un collega con cui collaboro spesso, Pablo Patanè.
Insieme a lui e a Fabiana Vardaro Melchiorri abbiamo creato una squadra per lo spot per il Super Bowl 2022 di Criteo. È stata un’esperienza molto forte e sicuramente la traduzione esatta dello spirito con cui ho dato vita a Tiny Idols.

Tra i tanti look che portano la tua firma, ci sono quelli di Blanco durante l’ultimo Festival di Sanremo. Come li hai costruiti?

Ogni progetto ha necessità di essere trattato in modo unico e ha bisogno di un metodo che si plasmi sulla sua natura. Per me il primo step è sempre il confronto con l’artista, devo capire chi sia, come si immagini, ma soprattutto devo “sentire” il suo rapporto col palco, visualizzarlo. Lavoro con Blanco da qualche anno, siamo davvero in sintonia. Per Sanremo, dopo aver delineato la strategia di branding ho presentato ai team di Valentino e The Attico alcune ispirazioni legate agli statement e all’immaginario dei rispettivi brand. Collaborare con la Maison Valentino è veramente un grande onore e un piacere immenso: Pierpaolo Piccioli è uno dei più grandi artisti della moda contemporanea e il suo gruppo di lavoro è davvero unico. Il completo azzurro di The Attico che Blanco ha indossato per la serata delle cover di Sanremo è stato una sfida; solitamente il brand realizza abiti femminili e per la prima volta è stato creato un outfit da uomo, è stata una grandissima soddisfazione.

Blanco e Mahmood (ph. CHILL DAYS)

Per lavoro crei outfit di ogni tipo, mood, veri e propri universi di stile che raccontano di volta in volta differenti immaginari… Ma quando si tratta di vestire te stessa come ti comporti? Adotti un “abbigliamento tipo” o segui la corrente? Insomma, a te cosa piace?

Il mio rapporto con l’abbigliamento è totalmente legato al mio stato d’animo, al periodo. Provo un grande rispetto per la moda, ma allo stesso tempo non riesco ad avere un approccio lineare. Probabilmente la verità è che se potessi non mi vestirei proprio. Sono rare le occasioni in cui seguo un trend, se lo faccio è perché mi piace davvero e lo rendo mio. La maggior parte delle foto che ho su set mi ritraggono vestita di nero, mi piace l’idea di dissolvermi e rendermi invisibile, soprattutto quando lavoro. Amo anche il bianco, colore della luce. Quando sono in casa spesso mi vesto di chiaro, mi fa sentire in pace con me stessa e con il mondo.

Nell’immagine in apertura, Silvia Ortombina con Blanco, ph. by CHILL DAYS

Models to follow: Chiara Veronese

22 anni ancora da compiere, sarda (con i primi ingaggi, ancora adolescente, si è però trasferita a Londra, quindi a Milano), piglio sbarazzino, un sense of humour evidente dando anche solo una scorsa al suo Instagram, Chiara Veronese trasmette un’energia palpabile, che le deriva dal forte bisogno, un’urgenza quasi, di esprimersi creativamente; nulla di cui sorprendersi, poiché ama «essere creativa, sapere che a volte le idee non sono infattibili, che c’è sempre una soluzione».
Appassionata di musica, ha collaborato con il rapper Sgribaz al brano Dovrei, uscito nel 2021, fa parte del collettivo PECORANERA e, sul modeling, ha le idee chiare: «Non è questione di essere la migliore, piuttosto di tirar fuori il proprio carattere e le proprie idee, dimostrando di non essere solo un’indossatrice».

Jacket Red September

Campagne per varie griffe (Golden Goose, Superga, Pull&Bear…) ed e-tailer come Yoox, la passerella Fall/Winter 2021 di Dolce&Gabbana: tra questi e altri lavori che non ho citato, a quale sei maggiormente legata e ritieni sia stato più importante per la tua carriera?

Sono lavori completamente differenti, in ognuno ho imparato qualcosa, ad esempio dalla campagna Golden Goose a ballare e coordinarmi con persone più grandi, andando oltre moda e abiti in senso stretto. Mi ha insegnato molto anche lo show Dolce&Gabbana, in termini di autocontrollo, per un debutto in sfilata devi avere nervi tesi ma allo stesso tempo gestibili, se così si può dire.
Alla fine di ogni esperienza ciò che apprendi lo applichi ad altre sfere, considero questo mestiere un primo step per dedicarsi ad attività più “complesse”.

Sul tuo profilo Instagram campeggia una frase della rapper Dej Loaf, se dovessi presentarti brevemente a chi non ti conosce cosa diresti, “ciao sono Chiara e…”?

E la mia specialità è essere multitasking, per istinto proprio. È come quando da piccoli si dice che bisogna prendere i treni che ci passano davanti, secondo me bisogna prenderli tutti, il bello sta nel buttarsi in qualsiasi cosa, provare le esperienze più diverse.
Quella frase («Come from skatin’ now we skatin’ escalates», ndr) è una metafora, arrivo da un paesino della Sardegna e resto sempre fedele alla mia semplicità, uno strumento chiave per scalare le montagne che inevitabilmente ci si parano di fronte.
Tutto ciò mi ha dato, come dicevo, un’attitudine multitasking, la voglia di sperimentare qualunque situazione; non dico di farlo bene, anzi, ho solo 21 anni, sto ancora cercando di capire. Sicuramente l’obiettivo è quello di diventare, prima o poi, una talent creator.

Top and skirt Red September
Dress Judy Zhang, earrings Gala Rotelli, socks Wolford, Mary-Janes Jeffrey Campbell

In alcuni scatti social sei sulla tavola o calzi Vans customizzate, sei un’appassionata di skate e lo stile legato a quel mondo (sneakers basse, pantaloni baggy, stampe…) è parte integrante del tuo modo di vestire?

Assolutamente sì, adoro la cultura urban. Ho avuto la fortuna di iniziare a lavorare come modella a 15 anni nel Regno Unito, facendo avanti e indietro tra Cagliari e Londra, dove ho conosciuto una realtà totalmente diversa, metropolitana, indie e un po’ gipsy, che mi ha conquistata. Forse è stata quell’atmosfera a darmi una certa visione, non devo neanche sforzarmi, è qualcosa che sento mio.
Vale lo stesso per lo skate, una sorta di cultura a sé, a Londra si muovono tutti così e dietro c’è un modo di comportarsi e relazionarsi agli altri, per cui si va in giro e si stringono amicizie con persone mai viste.

Altra tua passione è la musica, sempre su IG scrivi: «In completa connessione con lei, trascorro il tempo ad avvolgerla, capirla e raccontarle chi sono», inoltre hai collaborato al brano Dovrei di Sgribaz; parlaci del tuo rapporto con la musica, a 360 gradi.

Ho iniziato a suonare il pianoforte alle medie, poi non potevo pagarmi lezioni private e perciò ho portato avanti altri studi, integrando però sempre una parte canora, in modo del tutto naturale, finché una volta arrivata a Milano, nel 2018, mi sono ritrovata in studio a registrare delle tracce.
Stimo immensamente chi riesce a buttarsi con la propria musica, io la sento troppo dentro, tirarla fuori mi causa delle difficoltà, vivo una fase in cui devo ancora assimilare certi passaggi. Se non fosse stato per il mio amico Sgribaz e altri che mi coinvolgono in progetti musicali, con ogni probabilità non avrei neppure cominciato né sarei riuscita a lasciarmi andare, almeno un po’.
Sento una connessione continua con la musica , ora ad esempio frequento l’università e studio ore tutti i giorni, ma la bellezza di tornare a casa e mettersi al pianoforte… Non ha eguali, è la mia terapia, meglio di uno psicologo perché, suonando, mi sembra di risolvere tutti i problemi.

Jacket Red September, culotte Pomandère, socks Wolford

Tre parole che definiscono il tuo stile?

Tre aggettivi, comfy, colorful (amo i colori, non mi presentare nulla di nero!) e versatile, cambia di continuo, un giorno vesto elegante, quello dopo street.

Hai un account su Depop dove vendi collanine, bracciali & Co., deduco tu abbia un penchant per bijoux e vintage in generale, è cosi?

In Sardegna abbiamo una cultura specifica in materia, tutta una serie di tradizioni e tecniche di realizzazione; sotto questo aspetto devo tutto a mia nonna, è stato anche un modo per distrarmi nel periodo della quarantena.
In realtà non sono un’amante del vintage, ho usato Depop perché non avevo la possibilità di fare un mio sito, per fortuna grazie a quell’account sono riuscita a entrare in contatto con dei carissimi amici; insieme abbiamo creato un collettivo, PECORANERA, con cui a breve rilasceremo un sacco di novità, concentrandoci per metà sulla maglieria, per l’altra sui gioielli.

Jumpsuit Weili Zheng, top Judy Zhang, earrings Gala Rotelli

Quali designer/brand ti piacciono di più, da “consumatrice”?

Sono molto legata all’immaginario di Gucci, sebbene non c’entri niente col mio modo di vestire mi piace da morire, penso racchiuda l’essenza stessa della moda, che si declina in svariati ambiti, dalla comunicazione ai messaggi in sé.
Un altro brand che apprezzo davvero tanto è Ryder Studios, non troppo conosciuto ma fighissimo, uno stile tra rap e trap, “coatto” quanto basta.

In ottica professionale, invece, con quale marchio sarebbe un sogno poter collaborare?

Gucci, sarebbe il massimo.

Top Giuseppe Buccinnà, trousers Valentino vintage, earrings Gala Rotelli, loafers Vic Matiè

Cosa speri ti riservi il futuro, a livello personale e lavorativo?

Umanamente parlando, spero di avere l’opportunità di affacciarmi a nuove realtà e modi di vivere, spostandomi all’estero, non perché non mi piaccia stare a Milano, ma sento che c’è così tanto da sapere, avverto il bisogno di cercare l’essenza ultima delle cose altrove.
A livello professionale non so, dovrei innanzitutto capire di quale professione si parla, il modeling è ormai un mercato così saturo che non è più questione di essere la migliore, piuttosto di tirar fuori il proprio carattere e le proprie idee, dimostrando di non essere solo un’indossatrice.
Nel lavoro, in generale, mi auguro di crescere, poi il settore in cui potrà concretizzarsi questa crescita lo scoprirò solo in futuro, magari sarà la musica o la politica, chissà.

Credits

Model Chiara @WW MGMT

Photographer Riccardo Albanese 

Stylist Adele Baracco  

Stylist assistant Amelia Mihalca

Make-up artist and hair stylist Marco Roscino

Nell’immagine in apertura, Chiara indossa Top Giuseppe Buccinnà, pantaloni Valentino vintage, orecchini Gala Rotelli, mocassini Vic Matiè

Tess Masazza: ironica, introversa e insopportabilmente donna

Tess Masazza è davvero una figlia del mondo, ha vissuto praticamente ovunque, per poi scegliere l’Italia come luogo di appartenenza.
Si è fatta conoscere appassionandosi di web e sperimentandovi tutte quelle capacità artistiche per cui aveva anche studiato, ma non sapeva come mettere in pratica. La soluzione è arrivata con la creazione del personaggio di Insopportabilmente donna, che dagli sketch iniziali è poi diventato uno spettacolo teatrale e ora un romanzo, disponibile in tutte le librerie ed online.

Hai un bellissimo percorso, sei nata a Los Angeles, poi Tunisia, Francia e Italia, spiegami tutto.

Sono figlia di vagabondi praticamente, super appassionati di viaggi tutti e due. Sono nata per il lavoro di mio papà a Los Angeles, a Tarzana, ne vado orgogliosa perché è un quartiere di Beverly Hills che conoscono in pochi, si chiama così proprio perché ci avevano girato Tarzan.
Poi ci siamo trasferiti in Tunisia, dove ho trascorso la mia infanzia, la considero il mio paese del cuore, mi sento davvero fortunata ad essere cresciuta in questo piccolo villaggio sulla collina, con un paesaggio sul mare incredibile.
Alla fine, siamo andati in Francia, in quanto io sono francese, e dopo il liceo mi sono detta che volevo andare lontano, e così mi son ritrovata in Australia, quindi, dopo svariate esperienze, mi sono trasferita in Italia.

Ti sei fatta notare come youtuber?

Sì, come youtuber e facebooker (non so nemmeno se si possa dire in realtà). I primi anni a Milano facevo la giornalista, avevo trovato lavoro in una piccola web tv, e scrivendo articoli mi sono automaticamente appassionata alla lingua italiana, e allo stesso tempo (stiamo parlando di dieci anni fa) ho capito la potenza del web, lasciandomi affascinare da tutte le sue diramazioni.

E il tuo personaggio di Insopportabilmente donna com’è nato?

Direi per caso, nel senso che avevo studiato recitazione, lavoravo nel web e quindi mi sono ritagliata il mio spazio creando video divertenti da mettere online.
La vera artefice è stata mia madre, mi ha detto che ero talmente insopportabile che avrebbe iniziato a filmarmi (abbiamo lo stesso carattere), l’ho trovata un’idea geniale; il primo video si chiamava infatti “quello che dicono le rompiscatole”, una ripicca nei confronti di mia madre.

Hai sempre saputo di essere ironica? Sai in genere è una dote che o ce l’hai o non ce l’hai

Credo di essere sempre stata molto autoironica, l’ho capito studiando danza classica: ho sempre saputo di non essere la più brava, ed ogni volta che perdevo un concorso non me la prendevo, anzi, ridevo proprio degli errori che avevo fatto.
Negli anni a venire ho capito di avere un carattere non abbastanza forte per questo tipo di disciplina.

Sono otto anni che lavori sul personaggio di Insopportabilmente donna, tra web series e teatro, come si è evoluto nel tempo?

Da secchiona quale sono all’inizio mi ero scritta tutti gli argomenti che volevo trattare per le puntate del web, diciamo che il teatro è una cosa molto più recente; infatti, quando mi è stato proposto di portarlo in scena, sono stata entusiasta. Allo stesso momento mi sono detta però “e ora cosa mi invento?”; da lì l’idea di fare una commedia romantica, insomma non più sketch ma una vera storia, così sono entrata in contatto con altri personaggi/attori, la stessa cosa per il romanzo.

L’8 marzo è uscito infatti il tuo romanzo, quale messaggio vuoi dare con questa tua nuova avventura?

Vuole essere una lettura leggera, di intrattenimento, con una storia romantica su una protagonista di trent’anni che si sente ancora una bambina, non riesce a diventare un’adulta responsabile ed è molto ansiosa.
Più che messaggio, la mia è una ricerca dell’empatia del lettore, mi piacerebbe che le donne ci si riconoscessero come racconto, anche solo nell’aver paura di aprire una raccomandata per scoprire cosa c’è dentro, a me succede spesso.

Giriamo il dito nella piaga, secondo te perché gli attacchi sui social per la tua partecipazione a LOL?

LOL è stata un’esperienza incredibile, quando me l’hanno proposta ero super contenta ma allo stesso tempo terrorizzata, anche perché vedendo la prima edizione mi ero resa conto che era molto lontano dal mio modo di essere, io sono molto più riflessiva e introversa; però era un’occasione, non potevo dire di no.
Sicuramente sono stata presa dal panico, magari anche per la mia inesperienza in questo genere di trasmissioni, che mi ha fatto gestire le emozioni in modo diverso da come avrei voluto.
Tra le cose che vorrei saper fare da grande al primo posto metterei proprio avere la battuta pronta, come due mostri sacri con cui mi sono scontrata come Virginia Raffaele e il Mago Forrest, che adoro da sempre.
Diciamo che l’essere presa dall’ansia da prestazione è la cosa che mi ha bloccato di più in assoluto. Capisco tutte le critiche e le accetto, sono stata la prima a vedermi e criticarmi, solo che, come noto a tutti, sui social sono tutti parecchio aggressivi purtroppo.

Per tutte le foto, credits Roberta Krasnig

L’America vista da Ian Bohen, il Ryan di ‘Yellowstone’

Incontro telefonicamente Ian Bohen proprio mentre si sta prendendo qualche giorno di tranquillità nella sua Carmel, la bellissima località sul mare nel nord della California, e dice di godersi ogni momento in quanto, fino a poco tempo fa, era a girare una serie tv in Canada dove il tempo, ovviamente, non era soleggiato e caldo come nella sua città.
Possiamo apprezzare Ian nel ruolo di Ryan in Yellowstone, serie di altissimo successo negli Stati Uniti, fruibile su Sky nel nostro paese.

Raccontami di Yellowstone, quattro stagioni ed ora state per girare la quinta, secondo te da cosa è dato il successo della serie?

Forse dal fatto che parla di situazioni famigliari molto semplici a cui la gente, in America, può correlarsi facilmente. In più la sceneggiatura è spettacolare e insieme a me ci sono attori incredibili come Kevin Costner, ed ogni cosa che dice e fa è talmente realistica che non puoi far altro che credergli davvero nella maniera più sincera. La stessa fotografia, con i cavalli e la natura infinita, lascia lo spettatore col fiato sospeso.
Posso aggiungere che è davvero apolitico come tv show, racconta una storia che è quella di chi ha abitato la nostra terra prima di noi, e stagione dopo stagione cresce sempre di più la voglia di scoprire cosa succederà dopo.
Inoltre non lo apprezzano solo gli spettatori delle zone rurali; a New York, San Francisco e Los Angeles lo amano e lo capiscono, perché ha la capacità di unire tutti.

Dimmi qualcosa del tuo personaggio

Ci sono una serie di cowboy che vivono nel ranch, ed io sono Ryan, un ufficiale di polizia dello stato del Montana, è un ruolo molto complesso e divertente perché ho sempre mille cose da fare, e soprattutto nuove missioni per mantenere l’ordine nel posto. Posso dire che è anche divertente e ha sempre la battuta pronta, mi diverto ad interpretarlo.

Quanto tempo ti prende girare una serie come questa?

Normalmente ci troviamo un paio di settimane prima di girare le scene, giusto per riabituarci ad andare a cavallo e a vivere una vita campestre, insomma bisogna riprendere il ritmo in modo che sia tutto perfetto, anche perché non si può fingere davanti alla telecamera, deve essere vero e basta.
A volte stiamo li per più di quattro mesi all’anno, sono diventato un residente del Montana praticamente.

Siete stati nominati dallo Screen Actors Guild, cosa mi dici a proposito?

È davvero un grandissimo onore per noi essere nominati dai nostri colleghi della Screen Actors Guild come miglior ensemble cast, ed è la prima volta che ci succede.
A differenza dagli altri premi non è una academy o dei giornalisti a scegliere e votare, ma è davvero la gente, il popolo, quindi vi è un valore aggiunto.

Come funziona adesso negli Stati Uniti, avete ancora delle restrizioni per la pandemia?

Assolutamente sì, e questo dipende da stato a stato, Yellowstone è stata una delle prime produzioni a riprendere dopo il primo lockdown, potrei dire quindi che a giugno 2020 eravamo già sul set; il motivo per cui abbiamo potuto farlo è perché era tutto totalmente isolato, come in una “bolla” nel Montana Perciò abbiamo ripreso e senza interruzioni perché non vedevamo altre persone al di fuori di quelli del cast, cosa molto differente per chi aveva riprese a New York o Los Angeles dove un positivo che fermava la produzione era all’ordine del giorno.
Ora sto lavorando a Superman & Lois ed è molto differente, facciamo test tutti i giorni e ogni tanto abbiamo un caso tra di noi, ma è normale, la gente si muove e si sposta, il virus c’è ancora.

Da voi il pubblico è tornato in sala per vedere i film al cinema?

Lo spirito americano è libero e vuole ovviamente tornare a fare tutto ciò che faceva prima, ci sono degli stati, come la California, che hanno avuto tante restrizioni ed ora hanno tolto la mascherina anche al chiuso. Ma la cosa strana è che, per il momento, i bambini a scuola devono tenerla, ovviamente l’opinione pubblica è divisa su questo tema.

Credits

Talent Ian Bohen

Photographer Jenna Berman

Ph. assistant Tahlia Atter

Grooming Min-Jee Mowat

Thanks to Platform PR Team & MPunto Comunicazione

Davide Calgaro, l’arte dell’ironia per spaziare tra stand up comedy e recitazione

Monologhista con all’attivo partecipazioni a baluardi della comicità catodica (vedi alle voci Zelig o Colorado), attore duttile che, alle parti in commedie quali Odio l’estate e Sotto il sole di Riccione, ha affiancato interpretazioni di diverso tenore in Doc – Nelle tue mani e Blanca, nonché – eccezionalmente per Manintown – modello per il collega e amico Matteo Oscar Giuggioli. Davide Calgaro è un talento istrionico, ancora in cerca della propria dimensione “definitiva” che però, considerata la capacità di coltivare precocemente un’innata vena ironica (i 22 anni da compiere ne fanno lo stand up comedian italiano più giovane) per metterla a frutto sul palco come sui set, passerà con ogni probabilità da quella simbiosi tra humour e recitazione perfezionata dai suoi autori di riferimento, da Louis C.K. all’indimenticato Robin Williams.

Matteo Oscar Giuggioli ti ha scattato le foto che vediamo qui, com’è stato collaborare con lui in veste di fotografo?

È stata una bella esperienza, tra l’altro siamo amici, essere fotografato da una persona con cui sei in confidenza e puoi permetterti di fare il cretino è diverso dal lavorare con un professionista. Matteo secondo me è molto bravo, pur essendo alle prime armi, lo sono anch’io come “modello”, direi che è stato figo.

Ph. by Matteo Oscar Giuggioli

In quanto stand up comedian poco più che ventenne, hai bruciato le tappe: a 15 anni scrivevi e provavi i tuoi testi nei laboratori di Zelig, nel 2017 l’esordio televisivo su Comedy Central, due anni dopo Colorado… Vuoi ricapitolare il tuo percorso professionale, spiegandoci come, dove, quando e perché ti sei avvicinato al mondo della comicità?

Ho iniziato 13enne studiando recitazione alla scuola milanese Quelli di Grock, circa due anni dopo ho scritto i primi monologhi e pezzi comici su vari aspetti della mia quotidianità, provandoli tra laboratori e serate; nel 2017 ho avuto la possibilità di esibirmi nella trasmissione Stand Up Comedy, da lì sono arrivati Colorado e da ultimo Zelig, a un certo punto, poi, si è “infilato” il cinema.

Il teatro sembra sia un tuo pallino fin da adolescente, cosa rappresenta per te?

Ha rappresentato la prima spinta verso questo settore, è una grandissima passione che mi ha aiutato tanto nella stand up in termini di padronanza del palco e serenità nello stare in scena. Mi ci dedico tuttora, a febbraio ho fatto il mio primo spettacolo vero e proprio, non strettamente comico dunque.

Ph. by Matteo Oscar Giuggioli

Chi sono i tuoi modelli di riferimento?

Ne ho diversi, in Italia – essendo cresciuto con Zelig – i miei modelli di riferimento erano i monologhisti alla Paolo Migone o Giuseppe Giacobazzi, tra quelli della vecchia scuola Claudio Bisio e Antonio Albanese sono stati tra i più influenti. Guardando oltreoceano, invece, il mio preferito è al momento Louis C.K. ma devo citare per forza Robin Williams, in generale mi hanno sempre affascinato gli autori che spaziavano tra comicità e recitazione.

L’anno scorso eri nella line-up di Zelig, com’è stato essere coinvolto nel rilancio di un’istituzione della comicità televisiva, al fianco di Bisio, Vanessa Incontrada e altri colleghi illustri? Qualche episodio o ricordo che vuoi condividere con i lettori?

È stato incredibile, per certi versi surreale, prendere parte a uno show che guardavo ammirato fin da piccolo, non avrei mai immaginato di centrare un obiettivo del genere così presto.
Una cosa che si è notata anche in tv è il mio stato al termine del pezzo, sono scoppiato in lacrime, non si è visto completamente perché ho cercato di mettere la testa vicino alla spalla di Bisio, coprendomi, poi mi son ripreso. Il momento più bello è stato quello in cui sono sceso dal palco, tra baci e abbracci con gli autori e le persone con cui ho condiviso quest’esperienza.

Ph. by Matteo Oscar Giuggioli

L’hai detto anche tu, a un certo punto sono arrivati cinema e serial, nello specifico un ruolo in Odio l’estate di Aldo, Giovanni e Giacomo, quindi la grande ribalta di Sotto il sole di Riccione, commedia Netflix tra le più viste un paio d’anni fa; belle soddisfazioni immagino, tu inizialmente volevi fare l’attore, appunto…

In effetti volevo il cinema da parecchio tempo, sono ancora giovane e ho il desiderio di capire in quali ambiti posso lavorare. Blanca e Doc – Nelle tue mani, per esempio, mi hanno dato la possibilità di misurarmi con ruoli non prettamente comici, come quelli di Odio l’estate o Sotto il sole di Riccione. Considero film e serie un’opportunità per sperimentare e mettermi alla prova, a posteriori sono contento del risultato ed è un’altra strada su cui vorrei proseguire.

Alcuni sostengono che, data la sempre maggiore sensibilità e consapevolezza del pubblico, e con i social perennemente in agguato, chi fa il tuo mestiere corra il rischio di doversi frenare per non urtare la suscettibilità altrui, evitando il polverone di casi tipo The Closer di Dave Chappelle o, rimanendo in Italia, il famigerato predicozzo di Pio e Amedeo, oppure l’ironia di Zalone sui transessuali a Sanremo, qual è la tua opinione in merito?

Parto dall’assunto che, se si considera la comicità una forma di espressione artistica, allora debba vigere una libertà totale; i limiti variano da comico a comico, ciascuno ha la propria sensibilità e, assumendosene piena responsabilità, può scherzare su ciò che vuole.
Adesso si tende a sentirsi offesi ed è come se non potessimo – o volessimo – più sentirci così, si crea un cortocircuito perché la comicità, per definizione, a qualcuno deve dare un “dispiacere”, che siano i carabinieri o il tizio che scivola sulla buccia di banana, dev’esserci per forza chi ci resta male. Noto a volte un po’ di ipocrisia, ci si scandalizza quando ad essere toccato è il nostro orticello, lasciandosi scivolare addosso l’ironia su argomenti che non ci interessano.
Comunque sia, se un comico prestasse troppa attenzione alle rimostranze e fastidi delle persone, non riuscirebbe a scherzare più su nulla, poi certo è giusto confrontarsi ed essere aperti alle critiche, lo scopo finale però, bisogna ricordarlo, è far ridere; se lo trovi divertente allora fallo, io la vedo così.

Ph. by Matteo Oscar Giuggioli

Social e comicità, pro e contro.

Il pro penso sia la possibilità di farsi notare, offrono a chiunque un terreno neutrale in cui esprimersi. Il contro è lo stesso, nel senso che quanto appena detto può risultare problematico nel momento in cui i social diventano l’unico spazio a disposizione, col rischio che se non sei forte lì, è complicato portare le persone a uno spettacolo.
I social sono utilissimi ma non possono essere l’unico mezzo per scoprire nuovi talenti, il palco deve conservare la propria centralità.

Restando su YouTube, Instagram e simili, c’è qualche comico o canale digitale che apprezzi particolarmente?

Credo non facciano più video, ma per un periodo guardavo spessissimo quelli dei The Pills.

In un’intervista del 2020 sostenevi che la tristezza è di maggior ispirazione rispetto alla felicità, puoi spiegarcelo?

Intendevo che quando scrivo cerco di partire da elementi che mi infastidiscano o risultino problematici, così da superarli facendoci su dell’ironia. Precisando ulteriormente il concetto, non penso che in generale si possa trarre maggiore ispirazione dalla tristezza, ma personalmente trovo più stimolante lavorare su spunti che di per sé non suscitano ilarità, anzi; apprezzo quei comici che riescono a farmi ridere di cose su cui faticherei a scherzare, portandomi oltre il “limite” di cui parlavo prima.

Ph. by Matteo Oscar Giuggioli

In quali progetti sei impegnato attualmente? Cosa ti auguri per il futuro a livello professionale?

Sto portando in giro per l’Italia Venti freschi, monologo di stand-up comedy, inoltre usciranno a breve su Netflix due film girati nei mesi scorsi, per il resto scrivo e faccio provini, è una fase di passaggio, di attesa diciamo.
Per il futuro auspico di portare avanti in parallelo più attività possibili, esplorando settori diversi per capire quali siano le mie potenzialità e i miei limiti, ho l’età credo giusta per farlo.

Credits

Talent Davide Calgaro

Photographer Matteo Oscar Giuggioli

Riccardo Maria Manera, «tutti dovremmo sentirci delle rockstar»

Riccardo Maria Manera, genovese, ha iniziato questo mestiere da piccolissimo, infatti lo vediamo passare da un progetto all’altro senza tregua.
Dal 23 marzo sarà nella seconda stagione della fortunata serie tv Volevo fare la rockstar, successivamente lo vedremo al cinema nel suo primo film da protagonista Prima di andare via, nel frattempo ho dovuto rincorrerlo per intervistarlo in quanto sta girando Black Out, che per il momento rimane top secret.

Siamo travolti da un’ondata di attori genovesi e liguri, secondo te perché?

Non saprei, però nella mia personale esperienza di lavoro, che riguarda gli ultimi sei anni, posso dire che gli attori più bravi e preparati incontrati mio percorso arrivano tutti dal Teatro Stabile di Genova, che io non ho fatto, oppure da quello di Torino.
La mia speranza è che la mia terra, come è stata la culla del cantautorato ai tempi d’oro, lo possa essere magari per la recitazione oggi. Comunque anche come destinazione per le riprese devo ammettere che, ultimamente, si stanno girando parecchie serie tv e film, qualcosa sta cambiando.

Total look Valentino

Il successo della prima stagione di Volevo fare la rockstar ti ha portato alla seconda, per te come mai piace così tanto?

Avendola fatta, sono ovviamente di parte, ma secondo me perché è molto vera, potrebbe essere ambientata in un paesino tipo Gorizia come in Calabria, ci si riconoscerebbe comunque, anche perché è la storia di una ragazza madre e di tutte le problematiche di una famiglia.
Mi piace, citando Drusilla Foer dopo Sanremo, dire unicità anziché diversità, credo che il punto di forza sia stato proprio questo.
Abbiamo girato nella zona vicino Cormòns, profondo Nord-Est d’Italia, famoso per il suo nettare degli dei, anche se non sono un grande bevitore.

L’ultima volta che ti sei ubriacato?

Forse dieci anni fa, se parliamo di essere brillo diciamo il mese scorso, sono uno che aspetta che ci sia l’occasione per brindare, di norma non mi viene spontaneo.

T-shirt MSGM

Ti senti una rockstar?

Sì certo, dovremmo sentirci tutti delle rockstar, ci viene praticamente richiesto dalla società con tutte le vicissitudini che ci stanno capitando in questi ultimi anni, a ruota libera.

La situazione più “rock” che hai vissuto qual è?

Indubbiamente quando finite le riprese della prima stagione di Volevo fare la rockstar, ho preso uno zaino e sono andato in Thailandia per un mese, lì si è trattato di andare all’avventura e allo sbaraglio, completamente.

Total look Valentino

Diciamo che non puoi lamentarti, stai lavorando a mille progetti e al cinema stai per uscire con Prima di andare via, cosa mi vuoi dire a riguardo?

È la mia prima esperienza da protagonista in un film, quindi mi sento molto responsabilizzato da questa cosa, è un po’ anche un aut aut per me, per capire quello di cui sono capace.
La mia compagna nel film è stata Jenny De Nucci, devo dire che ci siamo divertiti tantissimo a lavorare insieme; si tratta di un dramedy basato sulla riscoperta di sé stessi attraverso un evento.

Hai questo viso da bravo ragazzo, lo sei veramente?

In realtà penso di sì purtroppo, nel senso che vorrei essere più stronzo ma non ci riesco proprio, e poi hanno fatto tutto i miei genitori per questa faccia, giuro che non ho fatto nulla io, anzi mi son mantenuto, non ho preso pugni, insomma tutto bene.

A seguire, il video backstage dello shooting.

Credits

Talent Riccardo Maria Manera

Photographer and art director Davide Musto

Ph. assistant Valentina Ciampaglia

Stylist Alfredo Fabrizio

Stylist assistant Federica Mele

Grooming Alessandro Joubert @simonebelliagency

Location Hotel American Palace Eur – Roma 

Il ritorno di Martins Imhangbe con Bridgerton 2

Martins Imhangbe, meglio conosciuto come Will Mondrich, il bellissimo pugile di Bridgerton, sta per tornare su Netflix con la seconda stagione della serie, in uscita il 25 marzo.
Tante le novità sia per lui che per tutto il resto dell’amatissimo cast che, lo scorso anno, è stato anche nominato per la categoria miglior ensemble dalla Screen Actors Guild.
Lui, attore preparatissimo, arriva dal teatro classico, luogo dove si è forgiato professionalmente, sempre coltivando la sua passione per il pugilato.

Raccontami la tua storia, arrivi dalla Nigeria, sei stato per un periodo in Grecia ed ora sei a Londra...

Sono emigrato dalla Nigeria con mio padre, appena arrivati in Europa siamo stati due anni in Grecia per poi arrivare in Inghilterra, dove ci siamo stabiliti a Londra, ora però lui ha fatto il giro completo ed è tornato a vivere in Africa.

Hai sempre saputo di voler fare l’attore?

Assolutamente no, a me è sempre piaciuto disegnare in realtà, e mi considero tutt’oggi un artista, quando andavo a scuola tornavo a casa e mi mettevo a dipingere e colorare, mi piaceva tantissimo.
La recitazione è venuta molto dopo, solo per il fatto che percepivo che, guardando uno spettacolo a teatro, sentivo l’energia di quelle persone in movimento sul palco. Così ho iniziato a studiare ma più che altro per divertimento, poi diventando grande ho capito che poteva diventare veramente un lavoro.
Devo ringraziare tutte le persone che mi hanno orbitato intorno, facendomi capire che avevo delle qualità da sfruttare, da solo non mi sarei mai applicato.

Sta per arrivare la seconda stagione di Bridgerton, secondo te come mai è stato un successo di Netflix in tutto il mondo?

Il motivo principale credo sia il tema dell’inclusione che ha accomunato tante persone di tanti paesi diversi, in più la prima stagione era arrivata in un momento particolare, ovvero quello del post lockdown di Natale 2020.
È un po’ come se tutti avessero avuto la loro occasione di sfuggire dal proprio mondo con la serie.

È divertente girare in costume?

Oddio, certamente lo è, l’unica cosa è che quegli abiti non sono esattamente comodi come una tuta, e quando sei sul set per dodici ore, diventa un po’ difficile. Però mentre sei lì ti rendi conto di quanto siano spettacolari i costumi e, ancor più, di quante volte possa capitarti di indossarli, quindi ti senti privilegiato.

Lo scorso anno siete anche stati nominati dalla Screen Actors Guild per il premio miglior ensemble, cosa mi dici a proposito?

Dico che è successo davvero tutto talmente in fretta che non ce ne siamo quasi resi conto, la serie è uscito a dicembre e a febbraio eravamo nominati, è stato incredibile.
Eravamo tutti davvero molto orgogliosi, l’unico dispiacere è stato che a causa della pandemia non abbiamo potuto essere a Los Angeles in presenza, ma solo tramite Zoom da casa, insomma speriamo in una seconda volta live!

Sei un attore super serio, sei anche stato nominato come miglior interprete per il tuo Riccardo II a teatro.

Ho sempre fatto tantissimo teatro, anche perché alla fine è proprio il modo in cui mi sono formato, e sono pienamente convinto che non ce ne sia uno migliore, perché quando hai gli spettatori davanti a te, non gli puoi mentire.

Cosa ci possiamo aspettare dal tuo personaggio, Will Mondrich, nella nuova stagione?

Posso anticipare che vedremo un lato molto più imprenditoriale, insomma una vera crescita in una nuova esperienza di vita.

Sei sempre stato appassionato di boxe?

Si, quello amo della boxe al di sopra di tutto è la disciplina e il dover mantenere sempre davanti a te l’obiettivo, trovo che sia uno sport meraviglioso, anche se non sono mai stato sul ring per un combattimento, almeno non ancora.
Poterlo fare ovviamente richiederebbe un training incredibile, e per ora non ho tempo.

Per tutte le foto, credits Klara Waldberg

Lucrezia Guidone: «La mia fedeltà la rinnovo tutti i giorni»

Lucrezia Guidone è un’attrice dalla formazione ineccepibile, svoltasi tra la Silvio d’Amico a Roma e il celeberrimo The Lee Strasberg Theatre and Film Institute di New York. Dopo tanto teatro l’abbiamo vista lavorare con registi come Francesca Comencini e Donato Carrisi.
Ora senza rendersene conto si è ritrovata nella top ten di 42 paesi con la serie Fedeltà, mega successo di Netflix, una produzione italiana ambientata a Milano.

Dress Valentino (ph. by Leandro Manuel Emede)

Di dove sei Lucrezia?

Sono di Pescara, ho origini pugliesi però sono nata e cresciuta in Abruzzo e, a parte qualche piccola breve pausa, in Puglia.

A quanto pare sei un’attrice serissima, hai fatto la Silvio d’Amico e poi tanto teatro

Oddio serissima non saprei, però sicuramente ho scelto di avere una giusta formazione, e fare una scuola di buon livello mi è sembrato un punto di partenza per iniziare a costruire qualcosa.
Ho avuto la fortuna di debuttare a teatro con Luca Ronconi, poi ho voluto proseguire la mia formazione andando a New York e iscrivendomi all’Istituto Strasberg, anche perché avendo una passione per il cinema americano mi sembrava giusto chiudere il cerchio in questo modo.

Ph. by Stefano Montesi/Netflix© 2021

Quindi sei una ”method actor”?

No, ma penso che da ogni metodo e scuola ognuno prenda ciò di cui ha bisogno per poi utilizzarlo a seconda di quello che serve nell’interpretazione del personaggio, a volte ci sono delle zone che non riesci a raggiungere ed il metodo può decisamente tornare utile.
Lo vedo più che altro come una delle armi che mi possono venire in aiuto quando mi trovo in difficoltà.

Dress Valentino (ph. by Leandro Manuel Emede)

Però hai già avuto occasioni di lavorare con grandi registi come Francesca Comencini e Donato Carrisi, quale tra le discipline artistiche che pratichi ha un posto speciale nel tuo cuore?

Direi che teatro, cinema e televisione appartengono tutte alla matrice che mi interessa, ovvero la recitazione, raccontare delle storie, incontrare degli immaginari.
Hai citato due registi che mi hanno permesso di affacciarmi a dei generi, perché con Francesca abbiamo fatto una sorta di fantasy storico come Luna nera per Netflix, con Donato, invece, mi sono messa alla prova con il thriller, sono state due esperienze molto potenti che mi hanno insegnato tantissimo.
Nel mio cuore, quindi, c’è tutto questo, non potrei rinunciare a nulla.

Ora sei protagonista di Fedeltà su Netflix, hai riscontrato una risposta diversa dal pubblico con una serie di estremo successo come questa?

Devo dire che questo è il mio terzo progetto con Netflix, ed una delle cose più impressionanti di una serie in streaming è la possibilità di essere visti in tutto il mondo.
Noi in questo momento abbiamo l’opportunità di essere in contatto tramite social con il pubblico, ed è un’ondata molto calorosa, ad esempio uso di più Instagram, e ho ricevuto un abbraccio incredibile, da paesi, poi, da cui non mi sarei mai aspettata di ricevere messaggi.
A volte si aprono con me tipo posta del cuore con richieste di consigli per le coppie, a cui non so davvero come rispondere.

Ph. by Sara Petraglia/Netflix© 2021

Quando avete girato vi sareste aspettati un successo planetario come questo?

Ovviamente speravo andasse bene, però certo non di essere nella top ten di 42 paesi. Anche perché quando giri e sei sul set, non ti rendi conto, in quanto non puoi avere la percezione girando un giorno una scena della terza puntata e subito dopo l’ultima, insomma è davvero difficile.

Devo farti la domanda di rito: sei fedele nella vita?

Direi di si, sono fedele verso le cose che amo e non mi riferisco solo alla coppia, ma parlo di tutto ciò che mi fa stare bene; la mia fedeltà la rinnovo quotidianamente, in quanto sono molto irrequieta interiormente, quindi ho sempre bisogno di andarla a confermare.
Mi piace pensarla come non statica, non un monolite che se ne sta lì insomma, piuttosto come un qualcosa che cambia forma e così non mi fa sentire in gabbia.

Ph. by Sara Petraglia/Netflix© 2021

Che cosa ti fa arrabbiare di più nella vita?

Sicuramente non mi piace essere manipolata, l’ipocrisia mi fa arrabbiare tanto quanto le disparità di genere.

E cosa ti rende più felice?

Mi piace nutrire le mie passioni ed esplorare le direzioni dei nostri desideri più profondi, questo lo auguro a tutti perché fa bene a chiunque.

Dress Valentino (ph. by Leandro Manuel Emede)

Per l’immagine in apertura, credits Sara Petraglia/Netflix© 2021

Press: laPalumbo Comunicazione

Aurora Ruffino, sognando Raffaella (Carrà)

In Noi, versione italiana del pluripremiato dramma americano This Is Us (in onda dal 6 marzo su Rai1) è Rebecca Peirò, ma quello dell’attrice Aurora Ruffino è un volto familiare: il pubblico ha avuto modo di conoscerla – e apprezzarne le interpretazioni, puntuali e intense – in serie di largo seguito quali Braccialetti rossi, Questo nostro amore, I Medici, Un passo dal cielo, senza contare l’esordio ne La solitudine dei numeri primi, trasposizione cinematografica del romanzo eponimo, vincitore del premio Strega, il triangolo amoroso al centro di Bianca come il latte, rossa come il sangue, le conseguenze e i pericoli del consumo di droga che scandiscono la storia (vera) di La mia seconda volta.
Ai ruoli appena menzionati vanno aggiunte varie altre apparizioni fra cinema, tv, videoclip e progetti restii alle classificazioni come Ningyo, corto di Gabriele Mainetti presentato alla 73esima edizione della Mostra di Venezia, che consentiva allo spettatore di interagire, cambiando l’ordine dei “moduli” narrativi.
In attesa di un fantasy – genere per cui ha da sempre un pallino – o un biopic su una delle (tante) donne che hanno contribuito a scrivere pagine fondamentali della nostra storia, ci ha raccontato dei momenti più coinvolgenti vissuti sul set di Noi, dell’orgoglio di aver preso parte a Braccialetti rossi, serial dall’impatto enorme, delle serate al karaoke dopo I Medici, per finire col rapporto non proprio felice con abiti, shopping, outfit e simili.

A proposito di Rebecca Peirò hai dichiarato, in conferenza stampa, che impersonarla significava realizzare un sogno, perché guardavi la serie ancora prima di sostenere il provino, ma di aver avvertito anche una sensazione di panico all’idea di confrontarti con un personaggio così conosciuto e amato. Ora, passati mesi dalle riprese e con i primi episodi trasmessi da Rai1, come pensi di essertela cavata?
Sono molto soddisfatta del risultato finale, credo che abbiamo raggiunto l’obiettivo di italianizzare la storia di una famiglia amata da tutti nell’originale. Per quanto mi riguarda, nonostante avessi già visto This Is Us, sono riuscita a farmi coinvolgere da ogni passaggio della trama, mi sento davvero fiera e orgogliosa del lavoro svolto da cast, troupe, regia, tutti insomma.

Noi è un’epopea famigliare, il racconto a tutto tondo di una famiglia che passa attraverso argomenti piuttosto delicati (la perdita di un figlio, l’adozione, l’integrazione razziale…), ribadendo però l’importanza dei legami tra consanguinei, e il cui filo conduttore, stando al regista Luca Ribuoli, è l’amore. Quali sono stati i momenti emotivamente più complessi da girare e, al contrario, i più gradevoli, felici – se vogliamo metterla in questi termini?

Di passaggi emotivamente forti ce ne sono stati a iosa, tra i più complessi ricordo senz’altro quello in cui Pietro dice a Rebecca che uno dei loro figli non ce l’ha fatta, una situazione decisamente forte da vivere. Tra i più belli, invece, il momento in cui Daniele si attacca per la prima volta al suo seno, dopo che lei per settimane non è riuscita a instaurare un legame col bambino; quell’istante lì, con Napule è di Pino Daniele in sottofondo, è stato stupendo.

Hai rivelato recentemente di esser riuscita a interpretare Rebecca quarantenne «soprattutto grazie al look», pensi che trucco e parrucco possano rappresentare la chiave di volta nell’approccio al ruolo?

Ti aiutano a trovare l’approccio fisico, quella postura che può darti solo il costume ed è estremamente importante, adesso per esempio sto girando un film in cui sarò un carabiniere, già indossare la divisa ti trasmette il “tono” del personaggio.
Quando in Noi impersonavo Rebecca a sessant’anni, make-up e acconciatura mi aiutavano a individuare la giusta dimensione fisica; sono fondamentali, infatti è nelle prove costume che riesco a capire come mi sento con determinate cose addosso, in che modo posso cambiare fisicamente ricorrendo anche solo a un trucco, una parrucca, un piercing, elementi che mi danno subito l’idea di chi interpreterò, permettendomi di trasformarmi.

La serie si dipana su piani temporali differenti, il tuo personaggio invecchia e, di conseguenza, ti sei dovuta sottoporre ad apposite sessioni di make-up, ricorrendo anche alla prostetica. Da attrice, che rapporto hai con lo scorrere del tempo, col modo in cui incide sull’aspetto fisico?

Sono tranquilla, anzi, soffro piuttosto il fatto di sembrare ancora parecchio giovane, una ragazzina quasi, nonostante abbia 32 anni; non dimostrare la mia età si è rivelato un’arma a doppio taglio perché per come appaio, magari, non vengo presa in considerazione per determinati ruoli.
Avverto il desiderio non di invecchiare, piuttosto di assumere la fisicità di una donna, sono contenta anche delle piccole rughe che comincio a notare nelle foto, fanno parte di me, raccontano la mia storia, il mio vissuto, non ho problemi sotto questo punto di vista, mi aiutano ad accettare e accogliere gli anni che passano.

Noi si svolge parzialmente nell’Italia di circa quaranta anni fa, eri già tornata all’atmosfera dei decenni passati in Questo nostro amore, le cui stagioni erano ambientate negli anni ‘60, ‘70 e ‘80. Cosa ruberesti, potendo, a ciascuna delle tre decadi? E, limitandoti alla moda, cosa apprezzi maggiormente dello stile Sixties, Seventies ed Eighties?

Credo che ad accomunare quei decenni fosse l’energia generale, il senso di far parte di una società determinata a costruire un futuro migliore, con la ripresa economica del dopoguerra, l’idea diffusa di uno stato ricco, pieno di sogni e opportunità; ricordo mio nonno parlarne come di un periodo in cui era possibile fare qualunque cosa, a patto di avere la voglia e determinazione necessarie, e poi i colori, l’arte, la musica, tutto concorreva a un fermento, una spinta al progresso che ha attraversato quell’arco temporale.
Riguardo lo stile specifico delle decadi, apprezzo la caratterizzazione estetica di allora, dalle minigonne ed eyeliner definiti dei ‘60s ai pantaloni a zampa dei ‘70s, al boom del jeans negli ‘80s.

Tre anni fa, intervistata da Vanity Fair, confessavi di vivere lo shopping come una tortura, di avere l’orticaria – testuale – a stare nei negozi. Negli ultimi tempi il tuo rapporto con la moda, considerati anche i red carpet richiesti dalla professione, è cambiato?

Purtroppo no, è ancora una tortura! Adesso ho una stylist bravissima, Marvi De Angelis, che insieme al mio ufficio stampa mi aiuta a curare l’immagine. Di mio sono però decisamente semplice, per come la vedo io i vestiti, finché non si rovinano, vanno bene, idem scarpe o accessori.
Non ho l’ossessione del vestiario, dell’apparire in un certo modo, a dire la verità non l’ho mai avuta, sarà che sono cresciuta in una famiglia umile, dove ci si vestiva con ciò che c’era, certamente non si andava a fare shopping ogni settimana, un atteggiamento che mi è rimasto, non avverto mai l’urgenza della novità; compro abiti per necessità, ecco.

Hai raggiunto la notorietà grazie a Cris di Braccialetti rossi, una ragazza in lotta con l’anoressia, per interpretarla tra l’altro hai dovuto perdere peso, incontrare persone che soffrivano di disturbi alimentari… Una parte sicuramente impegnativa all’interno di un autentico fenomeno mediatico. Cosa ti è rimasto più impresso di quell’esperienza?

L’impatto che ha avuto sulle persone, a distanza di anni ancora mi fermano per parlare di Braccialetti rossi, di cosa quella fiction abbia rappresentato e portato nelle case italiane, era diventata un evento che metteva davanti al televisore tutti, i figli come i genitori o i nonni. Ha unito il pubblico e fatto un gran bene, ho incontrato moltissimi ragazzi, bambini anche, che in quegli episodi hanno trovato un motivo in più per lottare e farsi forza.

Hai vestito i panni di Bianca de’ Medici nel period drama sull’omonima famiglia toscana, venduto in oltre cento nazioni, incoronato nel 2019 serial italiano più popolare all’estero, forte del resto di un cast stellare, da Dustin Hoffman a Richard Madden. Com’è stato lavorare in una produzione del genere?

L’ho vissuta come un sogno, all’inizio mi sembrava impossibile persino recitare in inglese, visto che prima di trasferirmi a Londra e studiarlo per bene, non parlavo una parola. Soprattutto è stato divertente, ci ritrovavamo ogni settimana al karaoke, un gruppo di giovani attori di nazionalità diverse che, di giorno, mettevano in scene le vicende di una famiglia conosciuta ovunque nel mondo, e di sera uscivano insieme, divertendosi come pazzi.

Un genere o ruolo per te inedito con cui ti piacerebbe metterti alla prova?

Amo i fantasy, sogno fin da bambina di fare un’eroina alla Marvel, una Black Widow per intenderci. Mi piace, da spettatrice innanzitutto, l’intrattenimento nel senso più ampio e nobile del termine, devo dire che finalmente anche da noi, grazie al fantastico Gabriele Mainetti, si stanno aprendo nuove opportunità.

Cosa ci sarà dopo Noi? Hai sogni nel cassetto da condividere con i lettori o preferisci tenerli per te?

Attualmente sto girando Black Out, mistery con protagonista Alessandro Preziosi.
Un sogno che ho già rivelato, da amante delle pellicole Rai in cui venivano raccontate le grandi donne d’Italia, figure eccezionali, iconiche (penso al biopic su Carla Fracci o a quello su Rita Levi-Montalcini), sarebbe quello di portare sullo schermo, omaggiandola in qualche modo, la storia di Raffaella Carrà; sono cresciuta con quest’artista immensa, per me è sempre stata un punto di riferimento assoluto.

In tutto il servizio, Aurora Ruffini indossa total look Philosophy di Lorenzo Serafini e gioielli Crivelli

Credits

Fotografo Maddalena Petrosino

Coordinamento styling Marver

Assistant Giacomo Gianfelici 

Make-up Charlotte Hardy

Hair Alessandro Rocchi @Simone Belli Agency

Press office Lorella Di Carlo

Location Hotel Valadier Roma

Carolina Crescentini: talento, eleganza e (tanta) ironia

Lo sguardo, che ricorda quello di Lauren Bacall. La femminilità elegante. L’ironia, sempre.
Non si può non avere un debole per Carolina Crescentini, attrice versatile e donna di grande stile, in tutti i sensi. In questi giorni sta promuovendo la commedia C’era una volta il crimine di Massimiliano Bruno, in sala dal 10 marzo. Terza “puntata” della serie iniziata con Non ci resta che il crimine, anche questo film è il racconto di un viaggio indietro nel tempo. Questa volta, Marco Giallini e Gianmarco Tognazzi si ritrovano nell’Italia del 1943. Carolina interpreta una donna sola, con il marito al fronte, pronta a imbracciare il fucile anche lei. A ottobre, invece, la ritroveremo nei panni di Corinna, l’attrice di soap raccomandata e sempre definita “cagna maledetta” della scatenata serie Boris che torna a furor di popolo su Disney+ con una quarta stagione di sei episodi, quindici anni dopo la prima.

Scusi, ma sono fan di Boris: che cosa mi può anticipare?

Non posso dire niente! Se non che sono felicissima di questo ritorno di Corinna. Voglio un gran bene a quella cretina, è la mia amica scema.

Non vedo l’ora. Forse in questo momento tutti abbiamo bisogno di ridere.

Guardi, in questi giorni ci ho pensato tanto. Sono in giro a dare interviste su C’era una volta il crimine, un film che racconta la guerra in toni comici e fuori c’è una guerra vera verso la quale non si può certo essere indifferenti. Però è anche vero che, proprio per questo, abbiamo tutti bisogno di qualche momento di leggerezza e il ruolo sociale degli attori è, da sempre, anche quello dei clown. Se strappiamo un sorriso, facciamo la nostra parte.

Come ha scelto i look per questa promozione, visto il momento poco propizio a frizzi e lazzi?

Ho puntato su capi semplici ed eleganti e sono andata da Armani: tute, vestiti, completi. Oggi in televisione ho indossato un tailleur pantalone bianco con i pantaloni larghi. Mi piacciono le cose un po’ ampie, in generale, e non importa se è pensiero comune che in televisione ingoffino. A me non interessa sagomarmi, sottolineare il corpo, preferisco sentirmi a mio agio”.

Quando sceglie come vestirsi è un’indecisa che fa mille prove?

Al contrario, vivo di colpi di fulmine. Tra mille modelli, vedo subito quello che mi interessa. Ricordo un anno, quando ero in giuria a Venezia, da una selezione di Gucci scelsi in un attimo un abito con maniche a chimono e una cintura con una stella in vita. Per un’altra serata mi innamorai all’istante di un abito di Alberta Ferretti, con frange di metallo argentate. Un abito abbastanza difficile da portare perché anche molto pesante ma era scenico, irresistibile.

È vero che è stata sua mamma Paola a trasmetterle la passione per la moda?

Sì, fin da piccola. La accompagnavo nelle boutique delle sue amiche, mi provavo dei maglioni extralarge di Krizia o di Iceberg con gli animali, sembravo Pisolo (ride, ndr). Mia madre mi ha insegnato il potere salvifico dei bei vestiti e della cura di sé. Ogni volta che nella vita sono stata male, lei mi ha incoraggiato a pettinarmi, mettermi la crema, una camicetta carina. Se ti senti bella non sarai giù di morale, dice sempre. E lei è la prima testimonial di questa filosofia. Anche adesso, che non è più una ragazzina, si diverte con la moda, indossa ancora pantaloni di pelle alla sua età.

Quanti anni ha?

L’età vera non posso dirla pubblicamente: mia madre se ne sente sempre 39.

Lei scrive racconti, anni fa aveva una rubrica di critica cinematografica su Rolling Stone, ha mai pensato di pubblicare un libro?

Mi piacerebbe ma al tempo stesso non vorrei insinuarmi e dare fastidio ai libri veri, quelli per i quali ho enorme rispetto. Considero la scrittura un appuntamento con me stessa, anche se non scrivo direttamente di me. Vedremo.

Ha sposato un cantante. Lei canta?

Ho studiato canto al Centro Sperimentale. Nella mia famiglia per hobby cantano tutti. Mio padre davanti a un microfono non resiste e canta My Way tutta intera senza sbagliare una nota. Mia sorella, che è più grande di me, quando ero piccola mi trascinava con lei nelle sale prove dove cantava con una band. Mia madre, nei nostri viaggi in macchina, intonava tutto il repertorio di Dalla, De Gregori, Baglioni e Califano”.

Serata al karaoke. Carolina sale sul palco e che cosa canta?

È successo davvero. Eravamo in Grecia io e Francesco (Motta, il cantautore, suo marito ndr) e lui ha voluto a tutti i costi che partecipassimo a un karaoke per battere dei turisti olandesi. Io ero titubante, pensavo “ma se ci sono degli italiani tra il pubblico, che figura facciamo?”. Invece poi l’ho seguito: abbiamo cantato una pessima versione di My Way, in onore di mio padre e qualcosa di Bob Dylan.

È appena passato l’8 marzo. Mi cascano le braccia all’idea che si debba ancora parlare di parità.

Anche a me. Ma dobbiamo farlo! Le differenze di trattamento tra uomini e donne sono ancora enormi, a cominciare da quella salariale. E poi: le donne che, come me, non hanno figli, sono guardate con sospetto. Invece, quelle che i figli li hanno, si sono trovate, con la pandemia, a dover fare passi indietro sul lavoro perché l’impegno della gestione di casa e famiglia è caduto tutto sulle loro spalle. Del resto, quanti uomini conosce lei che abbiano goduto dei permessi di paternità? Io pochissimi.

In tutto il servizio, total look Giorgio Armani, gioielli Giuliana Mancinelli Bonafaccia

Credits
Photographer & art director Davide Musto
Ph. assistant Valentina Ciampaglia
Stylist Alfredo Fabrizio
Hair e make-up Fulvia Tellone @simonebellimakeup
Location TH Hotel Roma Carpegna Palace

Niko Giovanni Coniglio racconta il suo rapporto con la fotografia, “bugiarda inconsapevole”

Toscano, classe ’87, musicista mancato, Niko Giovanni Coniglio è uno dei fotografi più promettenti e apprezzati del panorama contemporaneo. I suoi ritratti, dal forte impatto emotivo, raggiungono il climax nel progetto Daniela, portrait of my mother che vede protagonista la madre del fotografo stesso, una donna che ha vissuto una vita fatta di decisioni e scelte complesse, che si è vista costretta a dare Coniglio in affido da bambino, per poi ritrovarlo in età adulta. Anche attraverso la fotografia, madre e figlio hanno avuto modo di riprendere il proprio legame e approfondirlo.


Self-portrait, 2021


Come e quando la fotografia è entrata nella tua vita? 

Ho iniziato a fotografare nel 2009. Stavo frequentando il mio ultimo anno di Scienze della Comunicazione, alcuni amici del mio gruppo avevano una reflex digitale. Divenni curioso, iniziai a fare domande su come funzionasse, più acquisivo conoscenze sul mezzo fotografico e più desideravo averne uno mio per sperimentare. Così comprai la mia prima reflex digitale e iniziai a scattare.
Dopo la laurea avrei dovuto scegliere un corso di specializzazione. A quel tempo avrei voluto intraprendere la carriera di musicista e volevo spostarmi su Milano per frequentare una scuola. Così decisi di iscrivermi al corso di specializzazione in fotografia presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, in modo da poter concludere il mio percorso di studi universitario e contemporaneamente dedicarmi alla musica.


Immagine dalla serie Foto musicisti 2013>2019

Immagine dalla serie Foto musicisti 2013>2019


Il ritratto rappresenta gran parte della tua produzione fotografica. Come ti rapporti ai tuoi soggetti? Cosa ti colpisce maggiormente di un volto?

Premetto che quando scatto una foto ho bisogno di un’idea che mi guidi. Non mi sono mai dedicato troppo al reportage o alla street photography, preferisco un tipo di fotografia più riflessivo. Mi piace pensare l’immagine, trovare un modo visivamente efficace per trasmettere un concetto.
Quando ho un’idea ne parlo con la persona che fotograferò, cerco di farle capire cosa voglio ottenere in modo che una volta sul set sappia già cosa deve fare. Non amo parlare troppo mentre scatto foto, le mie indicazioni sono ridotte al minimo indispensabile. La maggior parte del lavoro deve essere fatta prima dello scatto e, se hai lavorato bene, il risultato lo conferma.
Non ci sono aspetti particolari che mi colpiscono in un volto. Per essere chiaro, non sono uno di quei fotografi convinti che la fotografia possa cogliere l’essenza di una persona né tantomeno mostrarne l’anima. È una visione romantica che non mi si addice.
La fotografia è un mezzo meccanico che di per sé è incapace di registrare qualsiasi tipo di informazione che non sia la luce. Siamo noi che dobbiamo riempirla di contenuto. È qui che entra in gioco la visione individuale del fotografo. Le persone possono essere rappresentate come buone o cattive, inquietanti, pericolose, gioiose o euforiche a prescindere dal loro reale carattere o dalla loro reale “essenza”.
La fotografia è una bugiarda inconsapevole. Dal momento che viene registrata un’immagine, quella è già finzione, è già un’interpretazione della realtà.
Quindi dal mio punto di vista risulta veramente impossibile rappresentare la vera essenza o cogliere l’anima di una persona. Sono concetti così mutevoli e sfuggenti che nemmeno la persona stessa riesce a conoscersi veramente e profondamente nell’arco di una vita.


This is not a parking

This is not a parking


Daniela, portrait of my mother è il progetto fotografico pluripremiato che ti ha reso famoso nel mondo. Come è nato e qual è il significato di questo lavoro?

In questo progetto confluiscono tutte le mie esperienze di vita, il mio passato, quello della mia famiglia, ma anche storie di fantasia. Ho cercato di tradurre in immagine il mondo che avevo in testa.
Ho iniziato a fotografare mia madre per imparare ad usare la macchina fotografica. Ho continuato a fotografarla per passare del tempo con lei. Sto continuando a fotografarla per poter testimoniare e raccontare la nostra storia. Il nostro rapporto passa attraverso la fotografia e in un certo senso mi aiuta a conoscerla.
Non intendo dire che la fotografia riesca a colmare le lacune comunicative che ci sono fra noi. Passando più tempo con mia madre, mi rendo conto che il nostro rapporto si sta caricando delle difficoltà e delle contraddizioni della vita. Intendo dire che la fotografia è uno dei pochi punti di contatto e discussione fra me e lei, che negli ultimi anni è diventato il principale.
Il progetto si chiama Daniela, portrait of my mother, ma non è solo il ritratto di mia madre. In questo lavoro parlo di eventi o fatti che riguardano la sua storia, ma anche me e le esperienze legate alla mia famiglia. Altre volte cerco semplicemente di mettere in scena situazioni che, nel momento in cui le fotografo, diventano reali, diventano un ricordo e un’esperienza esse stesse. Per questo dico che è un progetto fluido, perché in esso confluiscono vari aspetti.
“Certo, si sono create discrepanze dolorose anche nella mia anima e sono vissuta fuori dalla realtà per chissà quanto tempo”: questa è una delle frasi che mia madre ha scritto nel suo diario, che offre un importante punto di riferimento per questo lavoro.


Daniela, portrait of my mother

Daniela, portrait of my mother


La fotografia secondo te è più una questione di tecnica o di sentimento?

Se devo essere sincero, nessuna delle due. Direi che si tratta più di una questione di pensiero. Ovviamente la tecnica è fondamentale. E ovviamente lo è anche il sentimento, la passione, l’impegno e l’amore che uno mette nel fare ciò che ama fare.
Ma direi che la fotografia, la buona fotografia, sia più una questione di pensiero, di avere una visione propria e ben delineata, di avere un’opinione.


Daniela, portrait of my mother

Daniela, portrait of my mother

Hai fotografato moltissimi artisti del panorama musicale e uno dei tuoi sogni era proprio quello di diventare un musicista… Che rapporto hai oggi con la musica?

So cosa significa studiare uno strumento, so cosa significa provare insieme ad altri musicisti, so cosa significa fare il musicista come professione. Quindi quando mi trovo a fotografare artisti che hanno a che fare con la musica, posso capire meglio come muovermi.
Per quanto riguarda il mio rapporto con la musica, è di odio e amore, come tutte le cose a cui dedichi gran parte del tuo tempo e delle tue energie credo.
Ascolto di tutto, dal jazz alla trap. Dipende come mi sento. Ascolto musica tutti i giorni. Ma se si tratta di suonare lo strumento, le cose cambiano. Non riesco più a godermi appieno il fatto di suonare.


Daniela, portrait of my mother

Untitled

Cosa significa essere un fotografo in Italia nel 2022? Il tuo è un settore in cui è possibile fare carriera?

È possibile fare carriera in qualsiasi settore se per fare carriera si intende vivere dignitosamente con ciò che uno ama fare. Se una persona è motivata e ha la giusta preparazione può avere grandi soddisfazioni a prescindere dal settore specifico.
Direi che ora come ora, un giovane che si affaccia al mondo del lavoro non si trova in una situazione semplice a prescindere da cosa decida di fare.
Vedo contratti di apprendistato senza prospettiva di assunzione, tirocini non pagati, contratti a tempo determinato dalla durata imbarazzante. “Aiutiamo i giovani” è lo slogan preferito dai politici a quanto pare, ma è semplicemente uno slogan.
Basterebbe una sola cosa per risolvere i problemi nel mondo: il rispetto, il rispetto in tutte le sue forme. Il rispetto per il lavoro, per l’ambiente, per la persona, per le diversità, il rispetto per la vita umana.


Untitled

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Per tutte le foto, credits Niko Giovanni Coniglio

Leonardo Pazzagli in ‘Fedeltà’ (che lui, nella vita, non pratica)

Leonardo Pazzagli, trentenne, ha vissuto in giro per il mondo per poi trovare quella che lui chiama casa nella città eterna. Diplomato al Centro Sperimentale, lo abbiamo già visto in diverse serie tv, tra cui il grande successo di Rai1 Pezzi unici, ora lo possiamo vedere in streaming su Netflix in Fedeltà, dove interpreta un enigmatico fisioterapista.


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Raccontami di tutti i posti dove hai vissuto, mi sembra interessante...

In realtà i posti dove ho vissuto sono stati tre, ovvero da piccolo in Brasile e in Canada, diciamo un anno e mezzo tutti e due, e poi dopo il liceo un anno sabbatico a Londra, tutto questo per mia madre che faceva la lettrice di italiano all’estero e quindi abbiamo fatto un po’ di pellegrinaggio in giro per il mondo.
È successo tutto in un’età molto particolare, in quanto proprio quando stai piantando le radici, te le espiantano per andare a vivere in un luogo diverso.
Diciamo che mi sento un abitante di Roma, non dico romano sennò i romani mi si rivoltano contro.



Hai sempre saputo di voler fare l’attore?

Assolutamente no, ho avuto tante idee di lavoro, poi l’ultimo anno di liceo facevo un corso di recitazione e, proprio con il maestro di allora, ho capito che anche recitare poteva essere un lavoro, e piano piano ho coltivato questo pensiero.
Non rientro nella categoria di persone che sin dalla prima recita alle elementari hanno capito il loro destino, anzi, qualche anno fa mia madre ha ritrovato un video della mia prima volta sul palco a 3/4 anni, dove ci sono io che non voglio entrare in scena e si vedono le mani di qualcuno che mi trascina ed io che non voglio. Ora a trent’anni appena compiuti non ho più remore.


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Parlami del tuo personaggio in Fedeltà, che possiamo vedere su Netflix.

Andrea è un fisioterapista con una vita parallela notturna, che normalmente non si accosta con il lavoro diurno, non dico cosa fa di preciso così chi deve ancora vederla può sorprendersi.
Posso dire però che è un grande osservatore ed è essenziale, parla più con gli occhi che con le parole, ma quando dice una cosa è chirurgicamente precisa, ed è molto istintivo.
Sono tutte qualità che la mia partner di scena, Lucrezia Guidone, trova affascinanti, proprio perché sono l’opposto di suo marito.



Parlando di fedeltà, vuota il sacco: tu sei fedele?

La verità è che non ho l’obbligo di fedeltà, infatti la serie non mi ha turbato.


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Sei oggettivamente un bel ragazzo, in quale categoria ti schieri, ti ha aiutato nel tuo lavoro o hai dovuto dimostrare di più?

È una domanda spigolosa, il cinema gioca sull’incisività in camera dove ovviamente il criterio estetico gioca la sua parte; credo quindi che da un punto di vista lavorativo mi abbia aiutato.
Non posso negare che a volte a un’estetica gradevole si associ una certa superficialità e su quello alcune volte ho dovuto lottare. Come pure sul fatto di essere giovane, in ogni progetto sono il giovane esordiente, nonostante faccia questo mestiere da quando avevo diciott’anni, forse il fatto dell’età a volte potrebbe avermi infastidito. Adesso, forse perché in Fedeltà ho la barba, il problema non si è presentato.



Sei uno che va al cinema e teatro, o preferisci guardare serie a casa?

Di norma vado molto al cinema, a teatro o conosco un attore o un regista, oppure aspetto che qualcuno mi consigli uno spettacolo, forse perché dal cinema so che me ne posso andare tranquillamente, a teatro invece diventa una scelta più radicale.
Posso dire che non sono uno che accende la tv e vede quale serie vedere, se non ho nulla che desidero davvero guardare preferisco leggere un libro.


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La fotografia del mondo degli ultimi anni non è bellissima, pandemia finita e ora una guerra vicino a noi, per un ragazzo di trent’anni quanto può essere difficile guardare al futuro?

Credo che sia sempre difficile guardare al futuro stando nel presente, soprattutto ora; l’invasione della Russia in Ucraina mi colpisce, anche perché sono laureato in storia e sono argomenti che ho studiato e mi interessano, infatti ho ripreso in mano Il secolo breve di Hobsbawm, per ritrovare un po’ di confidenza con quello che sta succedendo.




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Credits

Art Director & Photographer: Davide Musto

Ph. Assistant Valentina Ciampaglia 

Styling Other Agency

Grooming: Alessandro Joubert @simonebellimakeup

Location Coho Loft

Stefano Cocco: l’uomo delle stelle

In dialogo con Stefano Cocco, l’editore e imprenditore romano con un passato nella ristorazione che oggi si divide tra il lavoro come critico enogastronomico e un nuova serie tv che sarà on air dalla prossima settimana. Il suo è un orizzonte vocato all’apertura costante: il mondo è la sua casa mentre il viaggio è una continua fonte di ispirazione. La buona cucina e il buon vino sono una passione che vive e contempla con dedizione e ogni esperienza a tavola diventa, nelle pagine del suo giornale, un racconto vivido e intenso di ogni particolare. 



Nella nuova serie Uomo delle stelle, in onda dal 7 Marzo su Sky e Now, Stefano aka l’uomo delle stelle è protagonista delle vicende comiche e divertenti che ruotano attorno al ristorante in cui è ambientata, tra chef e camerieri un po’ inesperti che regalano pillole e consigli sul mondo food and beverage. 

Come è andata questa prima esperienza da attore?

Quello della recitazione non è il mio campo, nella vita sono un critico enogastronomico quindi all’inizio c’è stato un po’ di imbarazzo. I miei colleghi però sono stati molto disponibili, il regista mi ha messo subito a mio agio facendomi esprimere normalmente, come farei nella vita quotidiana.

Quindi il tuo personaggio ha molte similitudini con il tuo ruolo nella vita di tutti i giorni?

Certo, gli episodi riflettono la mia attività nelle giornate normali. Mi confronto quotidianamente con realtà in difficoltà o con aree da migliorare. Sono stato anche io ristoratore per molto tempo e oggi riesco ad essere un supporto in molte situazioni, proprio come nella serie.


Stefano Cocco, si racconta mentre presenta il suo nuovo progetto come attore nella serie "Uomo delle Stelle"

Quali sono le qualità fondamentali nel tuo lavoro di critico?

Per prima cosa devi essere un buon osservatore, guardare bene quello che accade nel ristorante, come si muove il personale e capire come raggiungere gli obiettivi. A seguire, una grande empatia.

Cosa ne pensi del ruolo degli influencer nel tuo ambito?

Credo che l’influencer puro non abbia ragione di esistere, ci sono dei personaggi molto giovani che a volte si permettono di giudicare lavori di esperti con anni di lavoro alla spalle in 4 parole riassumendo tutto. Questo non mi piace. Anche alcune famose community food sono troppo democratiche. Per dare un giudizio onesto devi conoscere bene cosa ci sia dietro ad un piatto, da questo punto di vista i social hanno dato troppo potere e alcuni se ne approfittano.

Io sono di Milano e tu di Roma, dove mi consiglieresti di mangiare in queste due città?

A Roma sicuramente non da uno stellato. Se vuoi entrare nelle dinamiche della città ti consiglierei una tipica osteria romana, un posto non turistico magari nel quartiere giudaico. Su Milano ti direi sempre di provare posti che si rifanno alla tradizione, magari con ossobuco e risotto. Quelli che ti fanno capire i veri sapori della cucina di una volta.

Quale viaggio ti ha lasciato di più dal punto di vista gastronomico?

Decisamente la Corea del Sud, è il viaggio che mi ha lasciato più ispirazioni. Lì ho visitato molti ristoranti da quelli tradizonali a quelli più in voga. Ho capito che il coreano medio mangia molto bene: poche calorie, dinamicità nei piatti, diversità e ricerca. Il Kimchi ad esempio è una ricetta molto divertente.

La tua cucina preferita invece?

Amo la cucina francese, fatta di rigore e tecnica. Sono due elementi fondamentali e un grande valore aggiunto. 

Una tua passione fuori dal lavoro?

Sono un grande appassionato di padel, un gioco nuovo, moderno e divertente. Poi il calcio, da sempre. Ho girato il mondo per vedere partite.



A quali progetti stai lavorando oltre alla serie? 

Stiamo già preparando la seconda, per dare ciclicità e le idee nuove non mancano. Poi un desiderio più che un progetto: mi piacerebbe molto partecipare come giudice al programma 4 matrimoni, amo questo format.

Lato rivista invece (il magazine So Wine So Food) uscirà la nostra guida, composta da persone e non da luoghi fisici. Racconteremo una serie di personalità del mondo hotellerie e  ristorazione, l’uscita è prevista per la prossima estate.

Ph Credits – Simone Proietti Marcellini

Iaia Forte, chiacchierata con la protagonista dell’adattamento teatrale di ‘Mine vaganti’

Iaia Forte e Francesco Pannofino saranno a Milano al teatro Manzoni dall’8 al 20 marzo con Mine vaganti. Ferzan Özpetek firma infatti la sua prima regia teatrale, mettendo in scena l’adattamento di uno dei suoi pluripremiati capolavori cinematografici e registrando un soldout dopo l’altro.


Ph. Davide Musto

Nel ruolo della madre, che fu di Lunetta Savino, Iaia Forte. Attrice di teatro con registi come Toni Servillo e Emma Dante, diretta al cinema da maestri come Pappi Corsicato, Luigi Magni, Paolo Sorrentino, Francesca Comencini, vincitrice di due Nastri d’Argento, Iaia Forte era anche in Qui rido io di Mario Martone in concorso a Venezia 78.
In teatro siamo più abituati a vederla in ruoli drammatici e Mine vaganti è una sfida che l’ha elettrizzata.

Chi viene in teatro a vedere Mine vaganti attratto dalla popolarità del film, del regista e di voi attori, cosa trova?

Uno spettacolo che non è solo una bellissima commedia, ma un lavoro che fa riflettere su come uscire dai disagi provocati dalle diverse scelte di vita. Soprattutto dalle scelte diverse dei figli rispetto alle aspettative dei genitori. Io, nel ruolo della madre, e Pannofino, che interpreta il padre, rimaniamo spiazzati davanti alla notizia di un figlio omosessuale e dell’altro che vuole fare lo scrittore, omosessuale anche lui.
Il pubblico, attraverso l’analisi delle nostre prospettive, compie un percorso. Il risultato è uno spettacolo dove il pubblico ride e si diverte. Ovviamente è una riscrittura, ma alcune scene iconiche Ferzan le ha conservate, come lo spettacolo delle drag queen.
Mine vaganti è andato soldout ovunque, con applausi a scena aperta e un successo incredibile.


Ph. Davide Musto

Ferzan Özpetek firma sia la sceneggiatura che la regia. Lei ha fatto molto teatro, si è cimentata anche con la regia teatrale. Com’è stato essere diretta da un un uomo di cinema alla sua prima esperienza teatrale?

È stata una bellissima esperienza. Ferzan è uno che conosce i meccanismi della comicità e della direzione degli attori. Non ha avuto disagi con i meccanismi teatrali. In teatro il vero lavoro si fa con gli attori e lui, essendo uno che ama gli attori, si è appassionato soprattutto a questa dimensione.
È stata un’esperienza fresca e divertente. Ho recitato in molti ruoli drammatici, come Medea. La commedia è un genere che ho affrontato raramente, ma fare questo spettacolo per me è stata una festa.

Ogni ruolo è una porta nella psiche dell’attore. Questa volta cosa ha scoperto di Iaia?

La grande gioia che c’è nel recitare in una commedia, soprattutto quando è scritta così bene. In un momento come questo, in cui si torna a fare teatro dopo la pandemia, poter celebrare questo ritorno alla vita con un pubblico così numeroso, con gioia e risate, è un gran piacere.


Ph. Davide Musto

Nel suo passato ci sono trasmissioni come La TV delle ragazze, Avanzi. Rai 3 era di cultura e di rottura. Oggi abbiamo anche paura di parlare. È cambiata la satira, la televisione, il pubblico?

Purtroppo c’è una deriva. Allora la Rai manteneva ancora una grande vocazione di televisione pubblica. Si faceva satira, ma con grande intelligenza. Non dimentichiamoci che al tempo della TV delle ragazze si è permesso di fare satira in televisione con una squadra di sole donne. Una satira di costume, intelligente.
L’equivoco assurdo nel quale una televisione pubblica non dovrebbe cadere, è quello di sottovalutare il pubblico pensando di solleticarlo con un gusto più superficiale. Allora, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, c’era ancora la voglia di contenuti. Contenuti non significa escludere la possibilità di far ridere il pubblico incontrando il suo gusto. Significa farlo in modo intelligente. Questa è satira.

Se allora avessimo avuto tutti gli strumenti di oggi? La tecnologia ha preso il posto della creatività, ma la prima senza la seconda resta una scatola vuota…

Già negli anni Settanta, Elsa Morante parlava del falso concetto di civiltà. Diceva: pensiamo che civiltà sia progresso tecnologico, invece ci stiamo involvendo, perché stiamo perdendo la relazione con la nostra coscienza, con la nostra immaginazione. È quello che penso anch’io. Penso che l’immaginazione sia lo strumento determinante per la felicità dell’uomo, quello che ci consente di superare le difficoltà, di allargare i nostri orizzonti. Questo iper uso della virtualità, pur con i suoi vantaggi, riduce la nostra capacità di immaginare, la nostra capacità di contemplare. Stiamo perdendo anche l’intimità con noi stessi, perché siamo sempre connessi, sempre accompagnati da qualcos’altro.


Ph. Davide Musto

Da Napoli è arrivata a Roma al Centro Sperimentale di Cinecittà. Era la Roma degli anni Ottanta. Cosa e chi ricorda di quegli inizi?

In quegli anni ricordo che Roma era stupenda. Io sono arrivata nel 1989. C’era un’energia che, secondo me, ancora attingeva agli anni Settanta e Ottanta.
Ricordo la vitalità, le prospettive di un futuro migliore, la voglia di collettività, di non individualismo. Tutto questo si è perso. Ricordo gli anni del Centro Sperimentale che feci con Paolo Virzì, con Francesca Neri, Roberto De Francesco. Li ricordo come anni bellissimi di studio, di grande divertimento e di utopia.


All’Ansa Marco Balsamo, produttore di Mine vaganti, ha detto che si dovrebbe pensare a una tax credit anche per il teatro. Non un finanziamento a pioggia, ma per chi investe, crea posti di lavoro e fa più repliche. La tax credit ha salvato il cinema, ma non la sala. Ne beneficiano le grandi società come Sky, Netflix e Amazon che investono in produzioni, ma vincolano fortemente perché obbligano a produrre quello che serve alle loro piattaforme. In termini di occupazione ha un senso, in termini di qualità dell’offerta no. In teatro pensa che darebbe frutti migliori?

Credo che il problema della crisi delle sale cinematografiche dipenda dalla qualità dei film. Se devo andare a vedere Drive My Car, esco e vado al cinema perché so che è un film che ha bisogno della sala. Se devo vedere una commedia alla Netflix, è chiaro che il resto sul divano. È la crisi di un certo cinema d’autore che mette in crisi anche la sala. In pandemia anche io ho visto molte serie. Quello che noto, però, è che queste piattaforme, quando riconoscono una struttura che funziona, tendono a replicarla. Serie diverse con gli stessi codici narrativi.
In teatro vedo invece la voglia di tornare a godere di uno spettacolo dal vivo. Anche lo spettacolo del mio compagno, Tommaso Ragno, in scena con Popolizio a Milano, registra mille persone a sera. Quando faccio dei semplici reading, viene tantissima gente. L’impressione che ho è che, in questo momento, la crisi sia più forte al cinema che al teatro; che la gente abbia più voglia di incontrarsi e di sperimentare quella comunione che il teatro crea naturalmente. L’incontro fra esseri umani, in questo momento, è l’unica cosa che esorcizza l’isolamento a cui siamo stati costretti.
Per la salvezza delle sale, invocherei una maggiore attenzione al cinema che si possa chiamare tale, che non sia un prodotto paratelevisivo. Se devo vedere un prodotto paratelevisivo al cinema, me lo vedo in televisione.
Per il teatro, una tax credit potrebbe creare posti di lavoro, come nel cinema. Credo, però, che i sostegni dovrebbero andare anche a chi cerca di perseguire strade più difficili. Bisogna, secondo me, limitare una deriva populista. Se in teatro va bene uno spettacolo di un comico televisivo e poi una compagnia che cerca di fare qualcosa di non commerciale non è sostenuta, le espressioni più libere e originali finiranno con lo scomparire.

Sopravviverebbe solo il teatro commerciale, con buona pace dell’antica tradizione del teatro come forma sì di intrattenimento, ma anche di discussione?

Continuo a ritenere che l’ignoranza non aiuta la coscienza, non aiuta la morale, non aiuta il pensiero vasto. Quanto più diventiamo ignoranti, quanto più diventiamo individualisti, tanto meno aiutiamo il paese a progredire.


Ph. Davide Musto


Tutte le foto sono di Davide Musto

Giancarlo Commare racconta il suo debutto nel musical con ‘Tutti parlano di Jamie’

Sta per arrivare il musical più atteso della stagione, ovvero Tutti parlano di Jamie, e come detto dal regista Piero Di Blasio in questo caso è stato veramente scelto il più bravo per interpretarlo: Giancarlo Commare.
Per la prima volta è stato concesso non solo di tradurre semplicemente lo spettacolo in una lingua diversa da quella inglese, ma bensì di avere carta bianca per realizzare un’opera a sé mantenendo lo storyboard originale.
Il cast è strabiliante, fatto di giovani attori preparatissimi, e con la presenza di una voce straordinaria come quella di Barbara Cola nei panni della madre di Jamie.




Mai come in questo momento storico c’è bisogno di uno show così, che insegna a tutti cosa sia davvero l’unicità nel 2022.
Sinceramente, sentendo le domande in conferenza stampa (che sono state la conferma di quanto siamo ancora indietro), l’idea che un ragazzo voglia avere degli abiti diversi da quelli indicati dalla società crea confusione nelle menti arcaiche, quindi tutti al Teatro Brancaccio di Roma dall’8 marzo.



Voglio sapere la prima cosa che hai pensato quando Piero (il regista) ti ha proposto di fare Jamie...

Oh, cazzo, e come lo faccio questo personaggio! Preso dalla disperazione ho chiamato la mia agente (Giorgia Vitale) facendo presente che non sapevo cantare; quindi, reggere uno spettacolo così importante era fuori dalla mia zona di expertise.
Poi sono andato ad ascoltare le canzoni, e il ragazzo che lo ha interpretato per la prima volta è un soprano e io un baritono.
Mi sembrava davvero irraggiungibile, sono arrivato al primo provino e lo stesso regista non era convinto, mentre qualcun altro mi ha detto che, forse, se avessi studiato ce l’avrei potuta fare.
Onestamente sono stati più gli altri a darmi fiducia, ed allo stesso tempo la carica per prepararmi. Così ho scoperto una cosa bellissima: so cantare!



Ho saputo che forse c’è il problema che non vuoi tornare bruno dopo il musical.

Esatto, mi piaccio davvero tanto così, o mi daranno altri ruoli da interpretare biondo platino, o cambierò mestiere (ovviamente ride, ndr).



Che cosa ti diverte di più nel fare questo spettacolo?

A parte che sono in un gruppo fantastico, e non lo dico tanto per dire ma chi verrà a vederlo se ne renderà conto, poi anche se non avrei pensato di risponderti in questo modo, ora dopo un mese che sono sui tacchi (odio profondamente quei trampoli) e pur non capendo come facciano le donne a utilizzarli, in realtà è divertentissimo. Quando capisci come andarci in giro, realizzi che è un superpotere stare lassù.
All’inizio, senza offendere nessuno, ovviamente, la mia coinquilina (la bellissima Jamila) mi ha detto “ecco così no, perché sembri Maria De Filippi”. Proprio lei, che insegna heels dance, ovvero come ballare sui tacchi, è stata la mia maestra in questo caso.
Jamie, quando è sui tacchi, esprime tutta sua vera essenza e la sua gioia, e attenzione, non diventa una drag queen.



È una storia estremamente attuale quella di Jamie, che speriamo diventi la normalità, anni fa sarebbe stato improponibile, cosa ne dici?

Abbiamo sicuramente la fortuna di poterlo raccontare più liberamente, anche se sicuramente ci sono dei paletti che vanno superati, pochi mesi fa abbiamo visto delle persone applaudire in Senato per affossare il ddl Zan, per negare quindi dei diritti alle persone, senza etichette per nessuno, proprio a delle persone.
Forse il problema è ancora radicato nelle vecchie generazioni, perché i giovani questo problema non lo hanno più.
Spesso l’errore però è in noi, in quanto ci diciamo che gli altri non ci capiscono, ma a volte bisogna anche fare un passo indietro e dire “ma io mi sono spiegato bene?”.




Per tutte le immagini, credits Davide Musto

Tra sport e viaggi, 4 influencer raccontano di quando la paura diventa adrenalina

Quella degli influencer è da alcuni anni una vera e propria professione: Instagram ha dato la possibilità di emergere a talent delle realtà più diverse, che si sono costruiti un rapporto consolidato con una community coesa e curiosa. Spesso è la passione per lo sport e i viaggi a innescare i primi passi verso quella che diventerà una  professione, dettata dal forte bisogno – fisico e mentale – dei giovani di vivere sempre nuove sfide ed avventure, dalle più facili alle più estreme, per poi condividerle anche con i follower.


Petra Cola

Chiara Lovato

Gare di equitazione, corse in moto, salti sugli sci, conquiste di vette innevate e battaglie sul ring: nell’intervista che segue si raccontano quattro ragazze sportive che amano viaggiare e mettersi in gioco a 360 gradi, conducendo una vita sana, e creando col tempo uno stretto rapporto con chi le segue sui social.
È il caso di Chiara Lovato, appassionata fin da piccola di moto e sci, che vediamo sovente in scatti spettacolari, in strada o sulla neve, dove riesce sempre a trasmettere un forte senso di adrenalina ed energia, proprio come gli sport che pratica, come pure della “green” influencer Petra Cola, avventuriera e autrice del libro La maestra silenziosa. Vivere in montagna al femminile, tra le più giovani ed intraprendenti sportive del Nord Italia; tra gite, arrampicate, escursioni e sport estremi, Petra insegna alla propria fan base come viaggiare in modo sano, sicuro e intelligente.
E ancora, di Federica Monacelli, campionessa italiana di pugilato, atleta pluripremiata e laureata in economia aziendale, che scatta foto mozzafiato in giro per il mondo mentre pratica sport senza mai fermarsi, dal mare alla montagna, e di Nicole Cereseto, influencer ambientale, supporter del WWF e campionessa di equitazione, tra le content creator più ricercate di questi ultimi anni.


Federica Monacelli

Nicole Cereseto

Come è nata la tua passione per lo sport, e cosa significa per te?

Chiara: La passione per lo sport è nata grazie ai miei genitori. Fin da piccola mi hanno fatto provare di tutto, dalla ginnastica al basket, allo sci e tante altre discipline, lasciandomi scegliere quelle che preferivo, non forzando mai. Mi hanno insegnato che la vita è fatta di lavoro, studio ed esperienze.
Grazie a loro sono cresciuta con la curiosità di sperimentare sempre nuovi sport e cercare quel senso di libertà che non si può trovare nella normale quotidianità. Lo sport è la mia via di fuga dalla monotonia di ogni giorno, non mi basta andare in palestra ad allenarmi o fare una passeggiata, cerco adrenalina. Amo lo sci in tutte le sue forme (pista, freeride, freeski), amo andare in moto, amo il wakeboard.

Petra: La passione per lo sport mi è stata trasmessa dai miei genitori: mia mamma è un’insegnante di educazione fisica e già da piccolissima mi portava a raggiungere le cime più alte, poi mi ha iscritto a diversi sport come nuoto, ginnastica artistica e atletica leggera, che hanno creato le basi di ciò che sono ora. Lo sport mi ha dato una routine e donato la struttura anche per affrontare la vita, per risolvere i problemi più banali.

Federica: Arrivo da una famiglia molto sportiva, ho iniziato a fare nuoto per neonati con mia mamma a cinque mesi di vita. Non ricordo neanche il momento in cui è nata la passione per lo sport, è semplicemente sempre stato parte integrante delle mie giornate, come fare colazione, pranzare, andare a scuola. Lo sport rende forti e questa forza può essere sfruttata per vivere meglio. Il concetto di base è questo: vivere in modo attivo costa fatica; fare tante cose, anche se piacevoli, costa fatica. Se la fatica supera il piacere, allora non si trova più gratificazione in ciò che si fa.

Nicole: La mia passione per lo sport è nata quando mi sono avvicinata al mondo dei cavalli e dell’equitazione, però in generale mi affascinano tutti gli sport, adoro lo sport! Fa stare bene e lo trovo una sorta di mondo parallelo: quando entro in un maneggio sono in un’altra vita, in un certo senso la mia vera vita.
Amo i cavalli, così come il mio sport, sono i miei compagni d’avventura, senza i quali non potrei mai rendere possibili i miei sogni. Lo sport per me è sacrificio, fatica, soddisfazione, ma soprattutto sacrificio.


Chiara Lovato

Petra Cola

Il fatto di essere donna ti ha mai condizionato durante la tua carriera?

Chiara: I due sport che mi hanno cambiato la vita sono sci e motociclismo, in entrambi c’è una netta prevalenza maschile, soprattutto nello sci freestyle/freeride e nei track days in moto in pista.
In certi momenti avevo paura di non trovare amiche con cui condividere le mie passioni, ma il bello degli sport è che unisce le persone, quindi alla fine sono sempre riuscita a farmi nuovi amici e anzi, ho conosciuto persone stupende che mi hanno aiutata a imparare e migliorarmi.

Petra: In realtà non mi ha mai condizionato molto, non è stato mai un limite. Sono cresciuta con molti fratelli maschi e ho sempre giocato con gruppi maschili, ho sempre avuto un carattere forte e ho dimostrato che potevo fare benissimo tutto quello facevano gli uomini; se il limite non esiste per te, non esiste neanche per gli altri.

Federica: Fin da quando ero bambina ho praticato sport insieme agli uomini, facendo gli stessi allenamenti e le stesse gare, per me era normale.
Ho capito negli anni che in realtà era un problema più per gli uomini che per me. Tempo fa, all’inizio della mia carriera come pugile, un ragazzo mi ha rotto il naso durante una sessione di sparring, è stata una mossa abbastanza volontaria, in quel momento mi si è accesa una lampadina, ho capito che ci sono dei cluster delicati che rendono le persone vulnerabili, per molti uomini è il confronto fisico con una donna, ritengono inaccettabile non essere superiori.


Federica Monacelli

Nicole Cereseto

Ci racconti un episodio in cui, durante una delle tue imprese, pensavi di non farcela ma alla fine ci sei riuscita?

Chiara: Amando gli sport più “movimentati” mi è spesso capitato di aver paura: una discesa ripida e tecnica in neve fresca, le prime volte in pista in moto, i primi salti in wakeboard. Col passare degli anni ho capito però che sono proprio quelle le sfide più belle, quei momenti in cui pensi di non farcela e poi ti butti, e la paura si trasforma in adrenalina ed emozione.
La vittoria più bella della mia vita probabilmente sta nell’essere sempre riuscita a coniugare studio/lavoro e sport, sono riuscita a raggiungere un equilibrio tra i due mondi che mi motiva e mi sprona a continuare così.

Petra: In montagna è importante saper rinunciare, saper ascoltare e capire quando è il momento giusto per tornare indietro. Rinunciare non è una cosa negativa, bensì sinonimo di avere testa sulle spalle e una grossa forza interiore. Non è una sconfitta, solo consapevolezza.

Nicole: Di episodi in cui pensavo di non potercela fare ce n’è più di uno, ma racconto quello in cui davvero pensavo di non riuscire più a vivere il mio sport come prima. Sono caduta nel 2019. Si cade, succede a tutti, ma la caduta è stata l’inizio del mio buco nero perché ha coinciso con un periodo davvero difficile per me, in ambito familiare; non avevo più al mio fianco coloro che hanno sempre creduto in me e sostenuto il mio sport, mi sentivo demoralizzata e delusa.
Insomma, per una sciocchezza stavo crollando e distruggendo tutto ciò che avevo costruito in moltissimi anni, poi però, due anni dopo, è arrivato il pezzo mancante del mio puzzle, ossia Corbreka, il cavallo che mi ha subito riportato la fiducia di prima e ai livelli di prima.


Chiara Lovato

Petra Cola

La vittoria più bella della tua carriera?

Federica: Il primo match di pugilato è stata una grande prova per me, ero prontissima fisicamente, ma a livello emotivo stavo entrando nell’occhio di un ciclone. Alla fine della prima ripresa ero distrutta, quel momento è stata la svolta della mia carriera, se non avessi finito quel match, che poi ho vinto, probabilmente non avrei mai più combattuto.

Nicole: Sicuramente i Campionati Regionali 2016. Tra scuola, studio, cinque cavalli da montare, a volte ero davvero stanca, ma ho sempre messo tutta me stessa in ciò che facevo. Avevo praticamente quello che in molti desideravano, facevo tante gare e avevo bei cavalli, e quindi avevo molte persone contro. Eppure mi sono così chiusa nel mio guscio che vedevo solo me, i miei cavalli e i miei allenamenti, il sudore, la fatica, i sacrifici.
Mi ripetevo “ce la posso fare”, anche se avevo mille occhi che mi fissavano augurandomi di andare male, e ce l’ho fatta, grazie a Cuba, quella vittoria è stato il regalo più bello che potessi farmi.


Federica Monacelli

Nicole Cereseto

Sappiamo che ami viaggiare: qual è il tuo posto del cuore, quello che ti emoziona in modo particolare? Cosa significa per te viaggiare?

Chiara: Ho due posti che mi fanno particolarmente emozionare e, sebbene possano sembrare completamente opposti, hanno tante cose in comune: la cima della montagna per lo sci e la pista per le moto. In montagna siamo solo io, gli sci e la neve, in pista siamo solo io, la mia moto e l’asfalto. In quei momenti è tutto in mano a me, decido io cosa fare, quanto andare veloce e quanto spingermi fino al limite, è quella sensazione unica di adrenalina e libertà che accomuna due sport così diversi.

Petra: Ho viaggiato molto spesso da sola, in giro per l’Europa, con la mia numerosa famiglia (siamo in sette) l’ho fatto in van, per vivere la natura, poter ascoltare il luogo e scoprirlo in tutte le sue sfaccettature.
Ho sempre evitato i viaggi più turistici come quelli negli hotel stellati, voglio andare con il van e viaggiare  a braccia aperte, libera. Ad esempio sono stata in Messico da sola un mese, per legare al meglio con la gente del posto. Mostro sui social tutto quello che faccio, e anche se sono una donna posso viaggiare da sola, con tutti i pro e contro del caso, uso i social anche per dare consigli in merito.

Federica: I gusti nel tempo cambiano, negli ultimi anni sono andata spesso a Fuerteventura, dove ho scoperto nuove passioni come il surf, incontrato tante persone… In questo momento sento quell’isola un po’ come una seconda casa, spero che il turismo non la rovini.

Nicole: Mi piace viaggiare, purtroppo però non ho la possibilità di svegliarmi un giorno e dire “domani parto e vado là”. Si ricollega tutto al mio sport: i cavalli sono esseri viventi, devono essere curati, mossi, allenati, non ci si può assentare più giorni o settimane. Anche questo fa parte del sacrificio. Riesco a viaggiare a fine stagione, il viaggio più lungo e lontano che ho fatto è stato in Giappone. Bellissimo, ci tornerei domani e lo rifarei altre mille volte.
Il luogo che più ho nel cuore è Cagnes-Sur-Mer, in Francia, dove nell’ottobre del 2021 ho fatto una gara indimenticabile per me, mi emozionerebbe molto tornarci. Spero di viaggiare sempre di più, per lavoro o per lo sport.


Chiara Lovato

Petra Cola

Qual è il tuo motto?

Petra: La vita è fatica e la montagna ce lo insegna, nessuno ti regala niente.
La vita è una passeggiata fatta di alti e bassi ma una volta arrivati in cima la vista è fantastica.

Federica: Le nostre passioni possiedono una loro propria saggezza: guidano il nostro pensiero e la scelta dei nostri valori, e garantiscono la nostra sopravvivenza.


Federica Monacelli

Nell’immagine in apertura, Chiara Lovato sugli sci

Giulio Greco, tra editoria e recitazione nel segno della curiosità

Multitasking è uno di quegli inglesismi (ab)usati fino a suonare come formule prive di reale significato, eppure davanti alla biografia di Giulio Greco, trentenne dai molti talenti, aria radiosa e piglio energico, è difficile trovare un termine più calzante. Non si limita, infatti, alla recitazione, muovendosi tra set e palcoscenici, film quali On Air – Storia di un successo, Hard Night Falling o Tafanos e pièces, ma ha cofondato la Giuliano Ladolfi Editore (con cui ha pubblicato il romanzo In concerto), si è laureato in scienze politiche e, una volta deciso di concentrarsi sulla carriera attoriale, ha perfezionato gli studi presso accademie, masterclass e soggiorni negli States, spinto sempre dalla curiosità, un motore inesauribile che, insieme alla grinta, permette di «capire un pezzetto alla volta chi siamo, entrando in contatto con persone che la pensano nei modi più diversi»; che, a ben guardare, è una descrizione efficace del lavoro dell’attore.



Hai titoli in uscita o sei impegnato in progetti di cui vuoi parlarci?

Quest’anno escono due film cui ho preso parte, uno è Rosaline, sorta di reboot di Romeo e Giulietta (Rosaline è infatti la cugina di quest’ultima, al centro di un intrigo amoroso).
L’altro è Francesco stories, particolarissimo perché pensato specificamente per Instagram. Il protagonista racconta momenti della sua vita attraverso il telefono, con l’obiettivo di coinvolgere appieno gli spettatori, facendogli vivere la storia in contemporanea ai personaggi, tra cui il musicista da me interpretato; tra l’altro amo cantare, quindi è stato bellissimo avere l’opportunità di farlo in scena.
Si è trattato di una sfida appassionante ma difficile sotto il profilo tecnico, abbiamo girato per buona parte in piano sequenza e bisognava lavorare nel formato 9:16.
Al momento sto preparando una pièce in Belgio, Le lacrime di Nietzsche (Les larmes de Nietzsche nell’originale), capitatami in modo un po’ “rocambolesco”, chiacchierando col regista dopo essere andato a vedere un’altra sua opera a teatro; mi ha proposto il provino per il ruolo di Freud da giovane, nel giro di tre giorni è partito tutto.
È uno spettacolo complesso, tratto dal romanzo eponimo di Yalom: parla della psicanalisi inscenando delle sedute cui Freud e il suo maestro Breuer sottopongono il grande pensatore tedesco, finendo con una specie di rovesciamento ad essere analizzati dal paziente, per cui il filosofo influenza i due psichiatri. Alla fine ne escono, umanamente, tutti “migliori”, il pregio principale dell’opera credo risieda nella capacità di far ridere e piangere con uguale intensità, affrontando le domande esistenziali che tutti si pongono, scavando nella sfera intima.


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Scorrendo la bio si nota come il tuo percorso si discosti parecchio da quello lineare dell’attore: hai cofondato una casa editrice, ti sei laureato in scienze politiche, hai viaggiato all’estero per formarti nella recitazione… C’è un minimo comun denominatore tra tutte queste attività e interessi?

La curiosità, sono convinto che porti a sperimentare, ad avere feedback che, a loro volta, ci permettono di migliorare, nel senso di capire un pezzetto alla volta chi siamo, entrando in contatto con persone magari lontane da noi, che la pensano nei modi più diversi.
Un’altra parola chiave è grinta, da piccolo provavo una forte irrequietezza, che poteva magari sfociare in comportamenti aggressivi; ne soffrivo, ma col tempo ho capito che, per dirla con Eraclito, tutto scorre, e attraverso un lungo lavoro sono riuscito a canalizzare quest’energia in maniera costruttiva.
Con pazienza, curiosità e grinta, appunto, ogni cosa, compresa la sofferenza, può essere  declinata in positivo. Amo la vita, però mi suscita curiosità l’altro lato, la parte oscura dell’essere umano, in senso artistico ovvio.



Nel tuo curriculum c’è molto teatro, hai studiato alla scuola Quelli di Grock, recitato in numerosi spettacoli e diretto lo show Raffaello 2020; nello specifico, cosa apprezzi del genere, e quali esperienze ti hanno segnato maggiormente?

Alla prima domanda potrei rispondere semplicemente Le lacrime di Nietzsche, racchiude tutte le emozioni e sfaccettature di cui parlavo prima. Poi è chiaro che le esperienze dell’inizio, legate a Quelli di Grock, siano state fondamentali, estremamente formative.
Il teatro è meraviglioso, nonostante si basi sulla ripetizione permette sempre di trovare, all’interno di questa, delle novità, è un’arte viva in cui tutto ruota intorno alle persone, quando sono sul palco riesco a sentire distintamente la presenza del pubblico.
Raffaello 2020 era uno spettacolo olografico, una cosa particolare perché interpretavo l’artista in occasione del 500esimo anniversario della sua nascita, in una mostra immersiva alla Permanente di Milano, gestendo anche la parte di regia.

Restando sull’argomento, ci sono spettacoli che ti hanno lasciato un ricordo indelebile?

Un dramma visto a Parigi sull’autore del Cyrano Edmond Rostand, dalla qualità ed energia incredibili.
Cito anche Fuori Misura – Il Leopardi come non ve l’ha mai raccontato nessuno, mi ha impressionato constatare come un solo attore, Andrea Robbiano, potesse reggere tutto su di sé, dall’inizio alla fine.


T-shirt Gabriele Pasini, trousers Altea, bracelets from stylist’s archive

Parlando invece di set cinematografici, a quali sei più legato?

Sicuramente a On Air – Storia di un successo, ha rappresentato uno snodo fondamentale, sebbene a distanza di tempo penso che da un lato sia stato un gran bene, dall’altro mi abbia fatto male, nel senso che partendo in quarta ci si aspetta di andare sempre a mille, invece in questo mestiere non funziona così, ci sono continui alti e bassi.
Ora, con una consapevolezza diversa, avverto il desiderio di un nuovo film da protagonista, non per la fama, i soldi e il “contorno”, ma per il lavoro in sé, sento la necessità di tirar fuori tutto ciò che ho accumulato interiormente, quasi un’urgenza emotiva.
Reputo significativi anche i corti realizzati con gli studenti, ti danno la libertà di creare cose diverse, stabilendo un rapporto di parità.

Biondo, occhi azzurri, il physique du rôle del modello… Pensi che la bellezza possa aver contribuito a incasellarti in determinati personaggi, precludendotene altri?

Sì e mi chiedo come sia possibile che l’aspetto, ossia un dato di fatto (sono così, biondo, occhi chiari, sbarbato…), debba costringermi a sudare il doppio per convincere chi deve giudicarmi sul lavoro. Sono voluto andare in America per questo, lì a nessuno importa che tu sia alto, basso, magro, muscoloso ecc., prescindono dall’aspetto, oppure lo stravolgono rasandoti a zero, mettendoti lenti a contatto, facendoti ingrassare o dimagrire, il lavoro del resto consiste in questo!
Non capisco neppure perché l’attore italiano “medio” debba avere certe caratteristiche, come se esistesse un archetipo della categoria, senza contare che viviamo in un mondo globalizzato, eppure l’esteriorità rappresenta ancora un limite.
Ho avuto spesso a che fare con pregiudizi simili, come la convinzione secondo cui l’attore non dovrebbe fare il modello, quando persino Brad Pitt non disdegna le pubblicità ed è testimonial di Brioni.



Trovi che il cinema italiano stia effettivamente iniziando a rinnovarsi, a imboccare strade che fino a non molto tempo fa sarebbero risultate impraticabili?

Credo di sì, bisogna solo dare chance e supporto economico agli autori che si muovono in questa direzione, basta guardare Freaks Out, l’ultimo, fantastico film di Mainetti, uno che dal casting alla storia fa tutto a modo proprio.
Mi piacerebbe, poi, che si interrompesse il filone della criminalità organizzata, non ho nulla contro anzi, sono innamorato di Suburra, penso tuttavia che da una mole di soggetti sullo stesso argomento escano prodotti molto connotati a livello regionale, dunque napoletani, romani… Amo le città e culture menzionate, però più lavoriamo sulla dimensione micro, meno avremo una visione artistica di respiro internazionale, ancorandoci a un tipo di cinema che parla solo del (e al) posto in cui è ambientato.


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Pensi che per gli attori l’abito faccia il monaco, oppure è, al pari di altri, uno strumento al suo servizio? Tuo padre lavorava nella fashion industry, sei stato testimonial di diversi marchi, che rapporto hai con la moda?

Non penso che l’abito faccia il monaco, sebbene in quest’ambito un errore che spesso si compie sta nel giocarsi il costume, puntarci troppo insomma.
I costumi aiutano, indubbiamente, se per recitare devi indossare una giacca stretta avrai una fisicità del tutto diversa che se fossi in tuta, però sta a te, puoi magari apparire sciolto nella giacca stretta e rigido nella tuta.
Gli abiti sono al servizio dell’attore, personalmente mi sono trovato a indossare collane o anelli che non sarebbero apparsi sullo schermo, solo perché sentivo che potevano spingermi a calarmi meglio nella parte.
Il mondo della moda mi affascina, apprezzo gli shooting, sono una figata perché posso viverli da attore, ma nonostante mi sia stato proposto migliaia di volte, non sono mai stato un modello di professione, che va ai casting col book; è un settore complicato, dove si viene costantemente giudicati, in una società che già ci spinge a dare di continuo valutazioni, dai piatti del ristorante alle mail.



Cosa ti auguri per il futuro?

Vorrei fare del bene agli altri, mi hanno chiamato da poco per delle conferenze nelle scuole superiori, un’iniziativa davvero coinvolgente.
Mi piacerebbe prima o poi passare dietro la cinepresa, inoltre ho scritto un progetto e, fondi permettendo, spero di realizzarlo a breve.
Un altro possibile obiettivo è la conduzione, e poi continuare con la casa editrice, è stata – e rimane – un pilastro fondamentale, una palestra grandiosa tra lavori editoriali, incontri con gli autori e Giuliano, un secondo padre per me.
L’augurio è che ci siano sempre più persone intenzionate a fare da mentori ai giovani e questi, dal canto loro, prendano ad esempio uomini e donne così, non il tizio con milioni di follower che vende la felpa sui social.




Credits

Photographer & art director Davide Musto

Photographer assistants Valentina Ciampaglia, Dario Tucci

Stylist Alfredo Fabrizio

Stylist assistant Federica Mele

Nell’immagine in apertura, Giulio indossa t-shirt Gabriele Pasini

Livio Kone, dal calcio al cinema per passione e curiosità

Livio Kone è originario della Costa d’Avorio ma è cresciuto a San Vittore Olona, in provincia di Milano, con il grande sogno di giocare a calcio, sogno che ha inseguito fino ad un certo punto per capire poi che la sua vera passione era il cinema.
Lo abbiamo visto in diversi ruoli tra Zero Crazy for football – Matti per il calcio, ma il grande pubblico avrà modo di conoscerlo molto bene in Noi, la versione italiana della serie che ha commosso il mondo This is us, su Rai1 dal 6 marzo.


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Sei di San Vittore Olona, quali sono le tue origini?

La mia leggera abbronzatura (ride, ndr) è dovuta al fatto che sono originario della Costa d’Avorio; in realtà sono nato a Milano, però poi dagli zero ai tre anni sono stato in Costa d’Avorio, in quanto i miei lavoravano e si dovevano stabilizzare, quindi per questioni economiche sono stato con la famiglia.

La tua passione per la recitazione come è arrivata?

La verità è che è nata per curiosità, anche perché fino a quel momento avevo pensato solo al calcio, però tutti mi dicevano che ero simpatico e avrei dovuto provare a far qualcosa nel campo dell’intrattenimento.
E così mi sono iscritto a un’accademia, all’inizio pensavo fosse solo un esperimento, poi ho capito davvero che quella era la mia strada.


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E il tuo primo ruolo importante qual è stato?

Sicuramente quello di Honey che ho interpretato in Zero per Netflix, prima serie italiana con un cast all black, e sono stato estremamente fiero di esserci stato, soprattutto perché viene considerata una serie che ha aperto molte porte.
Anche se tutti se lo chiedono, non ci sarà una seconda stagione.

E di Crazy for football – Matti per il calcio che ricordo hai? Insomma, eri al fianco di Sergio Castellitto

Sì, una bellissima esperienza con un super cast, è stata divertente e allo stesso tempo mi ha fatto riflettere sulla diversità di una persona che viene considerata schizofrenica rispetto a una normale. Conoscendo i ragazzi che soffrono di questa malattia, ho capito che in fondo non c’è nessuna differenza.
Un trauma o un evento può condurre chiunque alla follia, in questo senso tutti noi abbiamo dentro un potenziale negativo, solo che loro lo hanno portato all’esterno.


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Anche in queste giornate sanremesi si è tornati a parlare di razzismo, ti è mai capitato qualche episodio sgradevole?

Sì, mi è successo, ma solo sui campi da calcio non nella vita quotidiana, come spesso succede si litiga con i difensori e volano parole che non dovrebbero sentirsi, però nulla di cui tener conto ecco.
Essendo cresciuto a San Vittore Olona, ero l’unico bambino nero della scuola, l’unico bambino nero nella squadra di calcio, tant’è vero che quando ho preso la cittadinanza italiana a 18 anni, il comune ha fatto una festa, ed è uscito un articolo sul giornale, insomma son stato coccolato sotto questo punto di vista.
Se una persona con cui stai discutendo l’unico argomento che ha per ribattere è quello del colore della pelle, vuol dire che il tuo interlocutore non ha temi, ed è finita la discussione, questo è quello che penso.


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Il grande pubblico ti conoscerà in primavera con la versione italiana di This is us, Noi, che mi dici a riguardo?

Vi aspetto tutti sintonizzati il 6 marzo su Rai1, la storia è un mix di passato e presente di questa famiglia dove io interpreto Daniele, sono padre, ma a mia volta il mio di padre non l’ho mai conosciuto e a un certo punto, per un conflitto interiore, decido di cercarlo.

È vero che sei pazzo di Viola Davis?

Mi piace tantissimo, perché sento che mi arriva la sua potenza, la sua femminilità, capisco la sua fatica per arrivare ad essere quello che rappresenta per il cinema e per la community, insomma mi ipnotizza.


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Total look Zegna

Credits:

Talent Livio Kone
Photographer & creative director Davide Musto
Photographer assistants Valentina Ciampaglia, Dario Tucci
Stylist Alfredo Fabrizio
Stylist assistant Federica Mele
Make-up Maria Esposito @Simonebellimakeup
Location The Hoxton hotel Roma

Nell’immagine in apertura, total look Zegna

‘Sissy’, il frutto di un incontro speciale: intervista a Eitan Pitigliani

«Mi rende davvero felice essere riuscito a cogliere tutto questo e aver dato vita a Sissy, opera grazie alla quale mi sento un regista – e soprattutto – una persona migliore». Mentre lavora per il suo primo lungometraggio – intitolato E poi chissàEitan Pitigliani ci trasporta all’interno del percorso del suo ultimo progetto Sissy.
Regista conosciuto per i suoi corti acclamati dalla critica – come In questa vita del 2011 e Like a Butterfly del 2015 – Pitigliani porta sullo schermo una storia profonda e travolgente che gli ha cambiato la vita.


Eitan Pitigliani

Sissy parla di un amore di un figlio verso la propria madre. Sta parlando di lei e dell’amore per sua madre nel film?

Certamente, Sissy rappresenta per me un film particolare, quello a cui sono più affezionato, per tanti motivi, non ultimo quello di averlo realizzato con una bambina al centro della storia, e di essere riuscito a girarlo prima che diventasse troppo grande. Perché la storia, e lo stesso personaggio di Sissy, avevano bisogno di un’innocenza, di un’immediatezza, che solo una bimba così piccola poteva raffigurare. Una bambina magica come, appunto, è Dea. E sì, sicuramente, la storia viene dal mio vissuto, ed è dedicato ad una persona speciale, mia mamma. E nessuno meglio di Dea avrebbe mai potuto rappresentare l’elemento magico di questa storia. Le sono molto grato, più di quanto io stesso possa pensare.
Il suo ruolo era molto complesso, ma ha saputo dargli vita in una maniera sorprendente, e io stesso, nel guardarla e riguardarla durante tutta la fase della post-produzione, ancora non riesco a capacitarmi di come abbia fatto. Alla sua prima prova da attrice, a soli 7 anni, è come se avesse sentito su di sé la vera importanza del personaggio del quale era stata investita, di cui sapeva il giusto ma non troppo e, dopo mesi di preparazione e di lavoro sodo, è riuscita a dargli vita in un modo davvero sorprendente.

Può raccontare cosa è stato per lei l’incontro con Dea Lanzaro, la bambina che l’ha aiutata a uscire da un momento difficile?

L’incontro con Dea Lanzaro è avvenuto come d’incanto, in un momento molto delicato, e particolare. In realtà la conoscevo già da tempo, da quando era piccolissima. Avrà avuto credo appena 4 anni quando venne alla prima del mio precedente film breve, e ricordo ancora come si emozionò quando entrò per la prima volta in una sala cinematografica.
Da lì, è sempre stata per me un personaggio molto curioso, un piccolo genio, dotato di grande sensibilità e di grande energia, con una delicatezza e una grazia d’altri tempi, e un piglio da scugnizza che non guasta. Il mix perfetto per dare uno scossone a chi è, in un modo o nell’altro, in un momento di difficoltà. Quello che mi ha sorpreso è che, dopo le prime lezioni di cinema, era già in grado di emozionarmi a tal punto da spingermi a creare una storia su di lei, un personaggio modellato su di lei… E credo sia il più grande talento per un’attrice o un’attore, quello di ispirare personaggi inesistenti, e di far sì che le/gli vengano cuciti addosso. E tutto questo è nato così, per gioco, fino a diventare un film.



La bambina è stata in grado di farle cambiare percezione della vita? O della famiglia magari?

La bambina ha dato forza ad una concezione della vita che già ho. La vita per me, oltre che un gran casino, è anche un campo di gioco, un teatro come diceva Shakespeare, dove ognuno ha il suo ruolo, e lo interpreta a modo suo. Per questo giudicare gli altri per partito preso, anche quando viene naturale, non è mai un bene perché non si capisce il vero ruolo di una persona, la sua unicità, nel bene e nel male.
E in questo gioco di ruoli, in questo immenso, gigantesco casino, è proprio il gioco che non si deve perdere mai, il vivere davvero, fino in fondo, o per lo meno il provarci, costi quel che costi. E passare per ospedali – mai come in questo momento il tema è così attuale – o luoghi dove c’è molta sofferenza, mi ha dato la spinta a considerare il gioco, e quindi l’innocenza bambina, come l’unica via per superare il dolore e vivere appieno questa vita così ricca ma al tempo stesso cosa incredibilmente incasinata.


La locandina di Sissy

Tra i personaggi della storia ce n’è uno che lo si potrebbe considerare come la proiezione di lei stesso?

Quando scrivo viene automatico trasferire la maggior parte della mia sensibilità alla figura centrale della storia. In Sissy sicuramente quello che mi è più vicino è il giovane protagonista, interpretato da Vincenzo Vivenzio, che è riuscito a calarsi a nel ruolo in un modo così profondo e totale che ha stupito anche me che quel ruolo l’avevo scritto. E non era facile, perché è un ragazzo che fa una scelta estrema, quella di vivere per strada, allontanandosi dal mondo reale, e che vive dentro di sé un conflitto fortissimo: un “internal struggle” che tuttavia ha in sé già la risposta alla
sua sofferenza e che nell’arco della storia, dà vita e realtà ai successivi eventi. Perché in fondo, al di là di qualsiasi aiuto esterno, a volte fondamentale, la risposta a molte cose, soprattutto al dolore, è dentro di noi. E non può che essere così.
Al di là di tutto però, quando scrivo tendo a depositare parti di me non soltanto nella figura protagonista ma anche negli altri personaggi, come in una sorta di dialettica interiore. Per questo, anche Sissy (il personaggio di Dea Lanzaro) e quello di Fortunato Cerlino, il padre del protagonista, incarnano aspetti di me molto diversi tra loro: Sissy quello più arguto, giocoso e pazzerello, che vuole trovare le soluzioni alle difficoltà della vita attraverso il sorriso, il personaggio del padre, invece, quello più forte, coscienzioso, e imperturbabile.. Il classico Super-Io.
E poi c’è Mirella D’Angelo, last but not least, che ha in sé la chiave per aprire tutte le porte; la formula che dà un tocco ancora più magico alla storia.

Si potrebbe considerare Sissy come prodotto “autobiografico” o è il prodotto delle sue emozioni non necessariamente legate a una storia simile a quella che ha raccontato nel corto?

Sissy è sicuramente in linea con le storie che mi piace raccontare, che sento di dover mettere in forma filmica per una sorta di ispirazione divina, e che per forza di cose sono il riflesso di ciò che accade nella vita reale.
Bisogna stare attenti a non raccontare storie o girare film che parlino solo di noi stessi, come registi o autori, altrimenti si perde il contatto con il pubblico, e soprattutto la sua fiducia. È necessario, invece, cercare di capire cosa c’è in quelle storie che ci può accomunare agli altri e che può magari essere uno strumento a loro utile per comprendere se stessi e gli altri.
Per me il momento più bello è quando il pubblico in sala entra nella storia come se fosse la sua, e ne parla poi a modo proprio, dando spunti e riflessioni che anche l’autore stesso non aveva carpito inizialmente, almeno a livello conscio.
Sissy è certamente un tema che accomuna molti, in un modo o nell’altro, e questo mi rende molto fiero di aver raccontato questa storia, e felice di poterla condividere con il pubblico, che resta sempre il referente sommo.

Sul set di Sissy


Chi è veramente Sissy o che cosa rappresenta?

Posso rispondere solo in parte. Sissy è una figura astratta, una bambina che
irrompe nella vita del protagonista e lo fa rinascere. Rappresenta la vita, la gioia. Diciamo che è l’immagine dei nostri cari che, seppur non qui fisicamente, e seppur abbiano patito e sofferto tanto nella vita, spero abbiano finalmente potuto trovare, in qualche posto lontano, una loro felicità, una forma diversa, gioiosa.

Ho visto che Dea Lanzaro fa parte del cast del film. Come è stato averla come parte integrante del prodotto di cui è stata l’ispiratrice?

Dopo aver diretto attori magnifici, uno su tutti Ed Asner, purtroppo venuto a mancare lo scorso anno all’età di 91 anni – una vera e propria leggenda, vincitore di 5 Golden Globe e 7 Emmy Awards, era per me difficile trovare qualcosa che mi ispirasse in maniera altrettanto forte, in attesa del mio primo lungometraggio. E l’idea di Sissy è arrivata, appunto, grazie a Dea, come un fulmine a ciel sereno. Ispirato da qualcosa che sentivo dentro di me, ma catalizzato e illuminato dalla meravigliosa energia di questa bambina. E devo dire che non potevo immaginare niente e nessuno migliore di lei.


Like a Butterfly

Il suo personaggio ha lo stesso ruolo che ha avuto lei stessa nella sua vita?

In parte, sicuramente. Il tutto è potenziato e ampliato al massimo dalla figura che realmente Sissy – nome fittizio – incarna, figura che le dà una voce e un corpo immensamente più forti anche se già Dea è un tornado di suo. In questo caso, il personaggio che le ho scritto addosso assume dei connotati concreti ma al tempo stesso eterei, in un viaggio nello spazio, e nel tempo.

È evidente che il film contiene il tema della morte; lei che rapporto ha con questo argomento?

La morte è un tema molto delicato, molto discusso, ma anche molto evitato. Come poi è comprensibile che sia. A volte penso che non sia nemmeno “reale”. Capitano quei momenti in cui ti sembra che una persona che non c’è più, in realtà ci sia, ancora, forse perché la sua anima è talmente forte, talmente presente, che sembra addirittura non essersene mai andata via.
Di certo, non c’è una formula per interfacciarsi alla morte, né un segreto per superarla quando accade. Non c’è per la vita, figuriamoci per la morte. Però, nei momenti più bui c’è bisogno di tanta forza, che a volte può essere trovata anche attraverso cose frivole e apparentemente di poco valore, ma che sono le uniche che riescono ad anestetizzare il dolore.
Nel film, è proprio grazie all’irruzione di una bambina magica che il protagonista riesce finalmente ad affrontare il suo dolore, diventato un vero e proprio torpore, e a risorgere.



Ha un messaggio che vuole portare a chi deve avere a che fare con la perdita di qualcuno?

Forse non lo definirei un messaggio, ma sicuramente con Sissy l’obiettivo è quello di restituire ad una persona cara – in questo caso quella di una mamma – la bellezza e la dignità che spesso la vita toglie, specialmente nel caso di alcune malattie terribili, cercando così una speranza, ma soprattutto convincendomi io stesso che possa esserci sempre una rinascita, una felicità oltre la sofferenza, che mi piace pensare le persone venute a mancare trovino da qualche parte, in qualche posto dell’universo, rinascendo in un’altra forma, quella più bella.

Crede che il suo film possa aiutare a superare la perdita di qualcuno caro?

Lo spero, fortemente. È, in fondo, il motivo per cui ho raccontato questa storia, al di là dell’ispirazione iniziale.
Ho già avuto molti segnali positivi in questo senso, e ciò mi rende davvero felice, e mi tocca profondamente. Certo, non vale sempre e non per tutti, ma appunto, dai feedback che ho ricevuto finora da parte di persone di diverse età e con diversi trascorsi, credo che la storia riesca ad arrivare al cuore dello spettatore. È forse grazie alla sua non presunzione e al suo approccio umano e innocente al tema della morte di una mamma, la figura più importante nella vita, l’origine di tutto; a quanto ho capito dalle riflessioni degli spettatori, la storia di Sissy sembra riuscire a toccare anche le anime delle persone che non sono passate attraverso quel dolore, e a farle empatizzare con questo tema, nella parte più delicata e fragile, e poi in quella più sognante.
Immaginare i nostri cari in un mondo altro, finalmente liberi e felici, che passano il loro tempo a giocare e a divertirsi, credo sia il più grande dono che possiamo fargli, per ringraziarli di tutto quello che ci hanno dato quando erano vivi. Non buttandoci giù e distruggendoci, come a volte accade come diretta conseguenza della loro morte, ma anzi, riprendendo per mano la nostra vita e facendo tesoro dei loro insegnamenti e del loro amore. Per farli vivere nuovamente, dentro di noi. Questo nel film accade in maniera indiretta, e indotta, ma accade e spero possa essere un catalizzatore e uno strumento per chi ancora non ci è riuscito o non sa come metabolizzare un evento di così grande delicatezza… E che possa trovare la forza di prendersi per mano e rinascere.

Ha paura a pensare alla piega che avrebbero preso gli eventi se non avesse incontrato Dea?

Non saprei. Sicuramente, come dicevo, è arrivata, ed è arrivata come per magia, con tutta la sua energia e la sua voglia di imparare il mestiere dell’attrice, e ha illuminato un momento per me molto delicato.
In realtà è quello che penso degli attori, che non sono sempre tutti giusti per tutti i ruoli e per tutti i film, ma che credo siano delle figure magiche, come degli angeli, presenti sulla terra per dare voce e ruolo a chi non ne ha; a volte perché non è più qui, altre perché non è ancora qui, o forse perché magari sono semplicemente personaggi immaginari, ma comunque incarnazione di pensieri e di emozioni più intime di un autore, della nostra anima.
Dea ha rappresentato sicuramente un momento molto forte, di rottura con una fase, e di inizio di un’altra, ispirando questa storia. E mi rende davvero felice di essere riuscito a cogliere tutto questo e di aver dato vita a Sissy, opera grazie alla quale mi sento un regista, e soprattutto una persona, migliore.
Il cinema ha anche questo di compito, quello di renderci migliori, più vicini agli altri e, in un certo senso, alla vita… Quella vera. Perché senza questo non c’è più sogno. Ed è invece proprio grazie al cinema, e ai bambini, che si può ritrovare la gioia di vivere, e la forza di andare avanti e di sognare.



Che significato ha il colore rosa utilizzato nel film e nell’intera campagna pubblicitaria?

Il rosa è un colore che amo molto, nelle sue più diverse sfumature. In termini fotografici, può essere un rosso chiaro, a volte con dentro un pizzico di arancio, oppure di blu, come nel caso di Sissy, progetto che nasce come un dialogo tra la nostra parte più intima, cupa e sofferente, rappresentata dal blu notte, dall’oscurità, e appunto il rosa, nella sua più ampia gamma di sfumature, che si prende la scena, fino a soggiogare il blu, e a riportare la vita.
Sissy è vestita di rosa, in una stanza che, in seguito al suo ingresso, da blu diventa rosa e rinasce. Grazie a Sissy, tutto il mondo del protagonista si colora di rosa, la realtà intorno a sé, le pareti, le tende. E il rosa, in realtà, rimane anche alla fine. Una botta di colore o, per dirlo alla romana, “una botta di vita”. Il rosa per me è un colore speciale perché mi rimanda a molti oggetti personali di mia mamma, alcuni dei quali presenti nella scenografia e nei costumi del film.
In realtà ho sempre con me qualcosa di lei, che mi accompagna nei momenti più importanti, ovviamente qualcosa di rosa.

Che rapporto c’è tra lei e Dea Lanzaro?

Con Dea ho un rapporto molto bello, profondo, viscerale. Nonostante lei sia una bambina di soli 7 anni, ha una grande capacità di empatizzare con gli altri, e di entrare in contatto con la profondità della emozioni e delle storie che le vengono raccontate. Sono rimasto stupito sin dall’inizio dalla sua particolarità, e in alcuni momenti ho avuto l’impressione che fosse addirittura un alieno, un angelo, catapultato da non so bene dove, fino a qui, sulla terra, un po’ come Sissy.
E sono orgogliosissimo di averla cresciuta come attrice e che abbia fatto il suo esordio diretta da me. Ricordo ancora l’emozione delle prime lezioni di recitazione, delle prime prove. E poi, finalmente, il primo ciak sul set. Era emozionatissima, e lo ero anche io. Non potevo immaginare niente di più magico. D’altronde, il cinema è magia, e cosa c’è di più magico della felicità dei bambini?!



Models to follow: Mike Cugnata

Nonostante debba ancora compiere 21 anni, Mike Cugnata è dotato di un “cool factor” da modello navigato che, unitamente al portamento e a un aspetto di quelli difficili da dimenticare (occhi verdi, fluenti capelli scuri, zigomi alti), possono fare la differenza nella carriera di qualsiasi indossatore. La sua, peraltro, è partita col piede giusto, arricchendosi da subito di esperienze presso nomi “pesanti” quali Etro (era nel video pubblicitario Caravan of Love, dello scorso anno) Philipp Plein e Palm Angels, brand, quest’ultimo, che sembra affine allo stile personale di un ragazzo italoamericano che ha trascorso l’adolescenza a Los Angeles, un incrocio tra rilassatezza nel vestire tipica della californian way of life e reminiscenze di una tra le decadi più caratterizzanti per la moda maschile, i ‘70s, senza disdegnare un pizzico di streetwear, come si può notare scrollando il suo profilo Instagram.


Gilet and belt worn as a necklace @PWC Milano, pants Dockers, foulard E.Marinella

Da quanto fai il modello, come hai iniziato? Gli elementi che ti piacciono di più e quelli che ritieni meno positivi, i “difetti”, se così possiamo chiamarli.

Ho iniziato circa un anno fa, dopo il mio rientro da Los Angeles. Sin da bambino sono sempre stato a contatto con questo mondo: mia madre, americana, è stata una modella internazionale e mio padre è un agente, mi ha lanciato in questo settore con l’agenzia Fabbrica Milano, tra le più importanti per lo scouting di talenti italiani.

A giudicare dal tuo account IG, il filo conduttore dei tuoi look sembra sia la variatio, passi da capi street con loghi in evidenza a outfit di gusto dandy con foulard, stampe paisley e pantaloni chiari…

Devo riconoscere che, avendo trascorso buona parte della mia adolescenza in California, subisco in modo particolare le influenze di quell’area del pianeta. Non dimentico però le mie origini italiane: ho un cognome di origine siciliana e tutto un bagaglio di stile ed eleganza, quindi modulo il mio stile a seconda delle occasioni.



Tra i lavori fatti finora (tra gli altri il lookbook della collezione Umit Benan Fall/Winter 2021, campagne adv per Etro, Philipp Plein e District People, foto per e-store come LuisaViaRoma) quali ti sono rimasti più impressi, per un motivo o per l’altro?

Si dice che la prima volta non si scordi mai, anche per me è stato così. Il primo lavoro ha portato con sé quella carica emozionale che rimane impressa per sempre.
Nella campagna di Etro, invece, interpretavamo coppie di fidanzati che andavano in gita in un van e, in quella occasione, ho conosciuto Adele Aldighieri, ragazza che ha iniziato la sua carriera con me, proprio nella mia stessa agenzia.


Salopette Levi’s Red Tab, boxer BATTISTA

Che cos’è secondo te lo stile? E, nello specifico, come descriveresti il tuo?

Secondo me lo stile è semplicemente la modalità attraverso cui viene esternata la personalità di ciascuno; il mio, quindi, riflette banalmente la mia, poi ognuno ha i suoi alti e bassi…


Blazer Uniqlo, jumper MTL STUDIO, jeans Dockers, shoes Levi’s Footwear

Il capo/accessorio (o anche più di uno) che non può mancare nelle tue mise e, al contrario, quello (o quelli) che non indossi mai, con cui non sapresti proprio vederti.

Alcuni mi dicono che la collana d’oro da “O.G.” (“Original Gangster”, ndr) sia un po’ eccessiva, soprattutto per i gusti italiani, ma la indosso molto spesso. Nel tempo libero mi piace indossare capi confortevoli, perciò raramente mi vedrete in abiti formali.

Pensando a due occasioni diverse, ad esempio un’uscita easy e un evento formale, come sarebbe il tuo look?

Per l’uscita easy: sneakers ricercate, black jeans, felpa nera e probabilmente anche un berretto oversize.
Per gli eventi formali non si transige: l’eleganza formale è quella di un abito sartoriale italiano, magari con vestibilità asciutta, camicia e scarpa classica stringata.



Brand con cui sarebbe un sogno poter lavorare?

Sono appena all’inizio della mia carriera, per me è ancora un sogno lavorare con tutti i brand!

A proposito di marchi, quali preferisci a livello personale e perché?

Non ho un marchio preferito, mi piace guardare in giro e prendere ispirazione. Poi metto insieme i vari capi al meglio e faccio un po’ lo stylist di me stesso.


Denim jacket heart of zeus, jumper LABO.ART, pants Dockers, beanie Levi’s Accessories

Tra i tuoi colleghi in attività, chi sono secondo te i più interessanti, diciamo pure ispiranti?

Sono cresciuto quando modelli come David Gandy, Noah Mills e Jon Kortajarena erano delle vere e proprie icone, i miei riferimenti sono tuttora quelli.



Per il futuro sei concentrato, al momento, solo sulla professione di modello oppure ti vedi altrove?

Al momento sono super concentrato sul provare fino in fondo a diventare un modello professionista. La pandemia, sfortunatamente, ha reso più complicato viaggiare e spostarsi in altre capitali della moda importanti per lo sviluppo della carriera, a breve però riuscirò a spostarmi a Londra e in Germania, per acquisire esperienza anche in quei “mercati”.


Polo shirt and necklace @PWC Milano, salopette Levi’s Red Tab, boots Dr. Martens




Credits:

Photographer Riccardo Albanese
Stylist Adele Baracco
Make-up artist e hair stylist Annamaria Fanigliulo
Model Mike @Fabbrica Milano

In apertura, blazer Uniqlo, jumper MTL STUDIO

Show, documentari, libri: Dimitri Cocciuti ci racconta il suo percorso tra tv e romanzi

Il percorso professionale di Dimitri Cocciuti, capoprogetto di Drag Race Italia (qui i suoi aneddoti, ricordi e “highlight” personali della prima stagione) è tanto ricco e prolifico quanto sfaccettato. Responsabile del dipartimento format e sviluppo della Ballandi Multimedia, ha cominciato a lavorare come autore televisivo nel 2006, quasi per caso, arrivando poi a collaborare con mostri sacri dello showbiz italiano, da Raffaella Carrà a Fiorello, passando per Piero Chiambretti, Enrica Bonaccorti, Paola Cortellesi, nonché a supervisionare progetti documentaristici di notevole successo, su tutti Artists in Love per Sky Arts, trasmesso in diversi paesi, dal Regno Unito all’Australia, oltre ovviamente all’Italia, dieci episodi che raccontano il rapporto tra giganti dell’arte del livello di Picasso, Modigliani, Fellini o Nureyev e le loro muse o compagne/i.



Da ultimo, è anche scrittore: il suo primo romanzo, Ogni cosa al suo posto, racconta delle difficoltà nel riconoscere e vivere appieno la propria omosessualità da parte del protagonista Giovanni; uscito nel 2017, ha scalato le classifiche di piattaforme come Kindle e Kobo, ed è stato seguito tre anni dopo da Vai quando vuoi.

Di tutto questo, e altro ancora, ci ha parlato direttamente Dimitri nella videointervista che trovate in questa pagina, concessa in esclusiva a Manintown, in cui ricorda momenti per lui particolarmente significativi e prova a tracciare le fila di una carriera divisa tra tv, documentari e scrittura, confidandoci gli obiettivi professionali non ancora realizzati.

Credits

Director – Federico Cianferoni

Production – ManInTown

Editor in Chief – Federico Poletti

Art Direction & Photography – Davide Musto

Interview by – Marco Marini

Special Thanks – Hotel Valadier Roma

Stefano Nincevich, esploratore poliedrico del buon bere

Un «agitatore culturale, secondo la storica dell’arte Jacqueline Ceresoli, un «grande ricercatore e professionista» per Dario Comini, patron del Nottingham Forest di Milano, un «osservatore attento, preciso e al tempo stesso disincantato della nostra realtà», stando a Salvatore Calabrese, il “maestro” dei barman di tutto il mondo. Viene descritto così Stefano Nincevich nella pre e postfazione del suo libro bestseller Cocktail Safari. Un viaggio avventuroso nella storia di 70 drink. Per me che l’ho intervistato, Stefano è un esploratore “costruttivista” del buon bere, un uomo di cultura dalle sette vite come un gatto che, complice il suo modo di raccontare e raccontarsi, merita una conoscenza non superficiale, bensì più profonda e approfondita della sua persona. Si descrive lui stesso come un «costruttivista, modernista, un astronauta della mente proiettato verso il futuro». Bastano queste tre definizioni per capire che, oltre ad essere una firma storica di Bargiornale, Nincevich è molto altro. Provo a raccontarvelo.

Stefano è in primis «un fan del rock, di questo mix esplosivo di attitudine, cultura e ignoranza; un fan del rock come contenitore incontenibile e incontinente, bello in quanto sincero, vario e perché, in fin dei conti, tutto quel che ho fatto è sempre stato molto vario». Sette vite come un gatto, si diceva all’inizio: «Sono autore di programmi tv, documentari, conduttore, giornalista professionista, precedentemente laureato in scienze politiche con una tesi di tipo sociologico legato alla musica (sulla Beatlemania), sono stefanobargiornale (tutto attaccato, come te lo sto dicendo) e, da un paio di mesi, vesto felicemente i panni di Ninja Nincevich, samurai della comunicazione di Engine, non solo un buon gin, ma un mix esplosivo di moda, arte, musica e motori. Ovviamente molto di quello che ho elencato è legato alla mia persona, al mio carattere. Lo stesso Cocktail Safari, per esempio, è stato voluto così; un libro diverso, per scelta, che unisse tutte le mie passioni».


Cunene Photography per Cocktail Safari

Cocktail Safari, uscito alla fine del 2016, è frutto di 16 anni di ricerche, di «viaggi intorno al mondo dove ho avuto la possibilità di conoscere a tu per tu i vari drink. Sono andato direttamente nei posti dove sono stati creati». Un antropologo del gusto quindi, che nel suo volume racconta di 73 drink (tutti rigorosamente in ordine alfabetico) che «hanno storie da raccontare e sono sexy dal punto di vista della narrazione». Doppia sia la prefazione, a cura di Jacqueline Ceresoli (storica e critica dell’arte) e Fulvio Piccinino (il maggiore esperto di liquoristica in Italia) che la postfazione, con gli interventi di due cari amici come Salvatore Calabrese e Dario Comini

Numerose sono, secondo Stefano, le affinità tra cocktail e musica: «È una questione di ritmica, come con lo shaker, e di balance, come il jazz. Pensa a come è fatto un drink: si apre, si chiude, si colora, svanisce, si chiarifica, ha delle dinamiche, come la musica. Parti allegro, poi torni, chiudi, fai un riff, ritorni, fai una pausa e, quando tutto sembra scomparso, boom! L’orchestra inizia a suonare, fiato alle trombe, tutto ricomincia, poi piacevolmente arriva altro e tu resti stupito…». Così è un drink: un ritmo inaspettato di sapori che alla fine ti sorprende.

Nincevich non ha mai fatto recensioni negative né di luoghi né di cocktail. Analisi critiche sì, perché convinto sostenitore, come il giornale per cui tuttora collabora, della necessità di fornire modelli a cui ispirarsi e da cui prendere spunto per migliorare. «I menù – racconta – devono essere chiari, il più delle volte sono fatti per essere letti da altri barman e non dalla gente normale».



Nella vita come in un concerto rock, secondo Jim Morrison, non dovrebbero esserci regole o limitazioni. Dovrebbe essere possibile tutto. La vita a tempo di rock di Stefano Nincevich lo dimostra.

Playlist consigliata da Stefano alla fine della lettura dell’articolo:

Per l’immagine in apertura, credits: ph. by Antonella Bozzini

Drag Race Italia, la videointervista con lo showrunner Dimitri Cocciuti

In onda dal 9 gennaio su Real Time, dopo il passaggio in streaming sulla piattaforma Discovery+, Drag Race Italia porta – finalmente – anche nel nostro paese il reality ideato da RuPaul. Realizzato dalla Ballandi, a volere fortemente la versione tricolore del talent è stato Dimitri Cocciuti, già a capo del reparto format della casa di produzione.
Manintown lo ha incontrato: nella videointervista, in esclusiva per il magazine, che trovate di seguito è proprio lo showrunner del programma a raccontarci scelte di casting, aneddoti, ricordi personali (come l’emozione di Priscilla, membro di spicco della giuria, quando le è stato comunicato che sarebbe stata lei la main drag dello show, e il suo toccante discorso per la finale), episodi significativi e valori alla base dello show, di cui si attende, dopo l’ottimo esordio, la prossima, rutilante stagione.




Drag Race Italia è uno spin-off del celebre RuPaul’s Drag Race, in cui concorrenti en travesti si sfidano a colpi di pose, sketch, esibizioni, performance ad alto tasso di drammaticità e mise teatraleggianti, e che dalla sua messa in onda, nel 2009, ha collezionato ben 24 Emmy Awards.




L’edizione italiana del programma, per molti versi storica (considerata l’arretratezza, ahinoi, del Belpaese in materia di diritti civili e conoscenza delle dinamiche che ruotano intorno al mondo drag e Lgbtq+) è stata trasmessa, come si diceva, dal 19 novembre al 23 dicembre su Discovery+; protagoniste 8 aspiranti “Superstar” (Ava Hangar, Divinity, Elecktra Bionic, Enorma Jean, Farida Kant, Ivana Vamp, Le Riche e Luquisha Lubamba), giudicate da un trio d’eccezione, formato dalla suddetta Priscilla, dall’attrice, conduttrice e scrittrice Chiara Francini e dall’influencer Tommaso Zorzi.




Credits

Director – Federico Cianferoni

Production – ManInTown

Editor in Chief – Federico Poletti

Art Direction & Photography – Davide Musto

Interview by – Marco Marini

Special Thanks – Hotel Valadier Roma

Il percorso di Emanuela Rei: beniamina della tv dei ragazzi oggi protagonista a teatro

A metà tra l’adolescenza e l’età adulta, i trent’anni rappresentano un vero cambiamento. Tra i bilanci di quel che è stato e i progetti per ciò che sarà, a quest’età anche noi giovani facciamo un piccolo punto sul percorso che abbiamo intrapreso. Nel nostro dialogo, Emanuela Rei (giovane attrice romana classe 1991) ci racconta un pezzetto della sua storia: dalla passione per la recitazione e l’intrattenimento sin da piccola, un talento innato nell’imitare i personaggi famosi e poi la danza e il canto. Insomma, una bambina destinata a lavorare nel mondo dello spettacolo ma soprattutto nel teatro, primo amore che continua ad essere ancora oggi la sua più grande passione.



Quando hai realizzato che saresti diventata un’attrice?

Fin da piccola mi piaceva far ridere le persone e creavo degli sketch tutti miei. Ho iniziato a studiare recitazione e a studiare teatro. Amo la recitazione a 360 gradi, sono cresciuta a pane Verdone e De Sica.

Al momento sei in tournè con Aladin, come sta andando?

Non vedevo l’ora di riprendere dopo la pausa legata al covid e la voglia e le aspettative erano alte. Le ultime tappe sono andate bene, lo spettacolo sta funzionando nonostante alcuni membri del cast siano cambiati rispetto all’inizio, c’è un’evoluzione positiva.



Il mio personaggio, che nella nella nostra versione si chiama Aisha perchè si ispira a quello de “Le Mille e una notte” (Jasmine nella versione Disney) ha un’indole decisamente più romantica e dolce.

Un consiglio che daresti a te stessa agli esordi?

Sembra banale ma funziona sempre: non buttarsi mai giù e crederci molto, perchè la fatica e l’impegno ripagano. Il nostro è un mondo complicato e i no sono certamente più dei si. Non si molla mai però!

Il tuo pubblico è decisamente giovane, senti una sorta di responsabilità nei loro confronti?

Assolutamente si, la prendo molto sul personale soprattutto con lo sviluppo dei social. È una cosa a cui tengo molto, ho stretto un bel rapporto con molti fan e mi sono sempre posta con loro come una sorella maggiore. L’aspetto più bello di questi canali è proprio il fatto di poter essere vicino a chi avesse bisogno di un consiglio. Anche se sembra banale mi ritrovo molto spesso a mettere in guardia che la vita reale non è quella dei social, per cui è bene sviluppare una giusta capacità di discernimento.



Se avessi un tappeto magico come Aladin dove voleresti ora?

A New York, la mia città del cuore. Magari con la neve, per godermi a pieno l’atmosfera natalizia!

Come stai trascorrendo le festività?

In famiglia, a Roma con i miei cari e poi in teatro. Sono felice di lavorare in questo momento speciale, sarà una bella esperienza. Ce lo meritiamo, vorrei trasmettere momenti di vita leggeri e divertenti a tutti quelli che verranno a trovarci sul palco.



È vero che hai imparato ad apprezzare la moda con la serie Maggie e Bianca?

Devo dire di sì, la serie mi ha aiutato molto ad appassionarmi al fashion. Adesso il mio guardaroba ha preso una nuova forma e io stessa cerco di essere più attenta agli abbinamenti. Ho imparato anche qualche nozione di armocromia, anche se non mi definirei mai una fashion victim! ( ride ndr)



Quali progetti o desideri hai per il nuovo anno?

Il desiderio più grande è quello di poter continuare a fare questo lavoro per tutta la vita. Vedremo se la tournè sarà più lunga del previsto, per il resto teniamo le dita incrociate!



Credits:

Photographer Davide Musto

Video Director Federico Cianferoni

Music Iskander

Styling Andreas Mercante

Stylist assistant Federica Mele, Valentina Calicchio

Special thanks to Alfredo Fabrizio, Coho Loft

Irene Antonucci: l’energia positiva di un’attrice dai mille volti

Irene Antonucci è un’attrice dai mille volti. Sin dagli esordi si rivela un’ artista a tutto tondo e soprattutto amante delle sperimentazione tesa alla ricerca della vera inclinazione artistica. Il suo percorso inizia nella terra natale, la Puglia, per approdare poi sui primi palcoscenici con il canto, con la moda e poi diventare conduttrice di numerosi show live e musical. Oggi, la ritroviamo in Italia a teatro con lo spettacolo Disuniti, ma prepariamoci a vederla presto anche fuori dai confini nazionali…

Ph: Denny Mosconi Stylist e Art Director Linda Boranga- Make up Graziano Giommaroni – Hair stylist Sabrina Locci

Come inizia il tuo percorso?

Ho sempre avuto sin da piccola la propensione all’arte e con il tempo la sperimentazione mi ha dato modo di capire quale fosse la forma più adatta a me. Nel corso degli anni ho compreso che la recitazione sarebbe stata il mio futuro, l’ambito in cui mi sento totalmente a mio agio. Mi sono avvicinata allo studio in un’età più adulta, prima a Milano presso il CTA, per poi passare negli Stati Uniti, America Latina e infine tornare a Roma, città in cui vivo e riconosciuta da tutti come capitale del cinema.

Oggi quali progetti hai in corso ?

Di recente c’è stato il debutto in teatro di Disuniti, scritto diretto e interpretato da me e Domenico Palmiero, un omaggio ai grandi autori del teatro italiano.  Con questo spettacolo volevamo che l’arte e la cultura tornassero ad essere protagoniste nella vita delle persone. “L’arte deve stare nel posto in cui è nata, nei teatri e nei set cinematografici e deve essere fatta da professionisti e da persone che nutrono una passione incondizionata e dedicano la propria vita a questa grande missione”.


Ancora, progetto di portare in scena degli altri lavori come attrice e regista. L’anno prossimo uscirà un nuovo cortometraggio con nomi importanti sul panorama italiano, una sorta di ventaglio di apertura di diverse generazioni di donne. Si metteranno a confronto le diverse problematiche di una società patriarcale. Infine un progetto cinema in America latina a cui tengo molto, questo paese fa parte del mio percorso e sento che mi darà grandi soddisfazioni.

Come hai vissuto invece la recente esperienza televisiva?

Mi sono diverita molto anche se considero questo tipo di esperienza un momento di passaggio. Ho voluto sperimentare quella strada per capire cosa sentissi e provassi nel fare qualcosa di diverso, ma se dovessi immaginarmi ancora in televisione mi vedrei più nelle fiction o produzioni di serie.

A proposito di serie, cosa stai seguendo al momento?

La Reina del flow (così alleno anche lo spagnolo), sto terminando la Casa di carta e poi mi piace anche il tema action e il thriller, due generi che vorrei sperimentare anche come attrice.

Ph: Denny Mosconi Stylist e Art Director Linda Boranga- Make up Graziano Giommaroni – Hair stylist Sabrina Locci

Sei molto attiva su diversi canali social da tempo, un consiglio per avere successo?

In primo luogo un pizzico di senso civico ed etico e poi la chiave di lettura migliore è sempre quella di essere se stessi. Io li affronto come una vetrina, uno storytelling della vita professionale e meno di quella personale. Grazie ai social ho la possibilità di trasmettere energia positiva a chi mi segue, dare consigli o ispirazione, come con Youtube dove ho ideato un format dedicato agli attori, con curiosità e consigli da trasferire a chi vuole intraprendere questo mestiere.

Credi molto all’energia e all’essere positivi come stile di vita?

Io credo fortmente nella legge dell’attrazione, nella meditazione e al potere dell’ energia, che serve per alimentare le nostre azioni, solo così possiamo generare risultati. Avere un atteggiamento positivo e domandarsi se le nostre azioni possono essere di beneficio a noi e a chi ci circonda è un filo conduttore per me.

Un viaggio che ti ha colpito?

La Thailandia, dal punto di vista spirituale mi ha toccato molto l’attitudine con cui la popolazione coltiva la propria anima. Ad esempio loro pregano per te quando paghi per un bene o un servizio, hai modo di sentire tutta la loro gratitudine. Poi ho sempre in mente l’America Latina, NY Los Angeles.

Come inizierai il nuovo anno?

Spero di partire per l’America Latina con il progetto Colombia, poi il cortometraggio e nel mentre incrocio le dita per tante nuove date a teatro!

I look e le tendenze hair secondo il nostro Beauty Editor Claudio Furini

Un percorso nella moda in cui ha avuto l’opportunità di fare esperienze professionali altamente formative dal punto di vista tecnico e creativo al tempo stesso. Claudio Furini, oggi, vanta una fruttuosa e lunga collaborazione con le più importanti  realtà del fashion a livello internazionale e oggi ci racconta come nasce la sua passione per l’hairstyling e il beauty, svelandoci in tempo per le festività i trend da seguire e i look di alcuni personaggi.

Com’è nata la tua passione per hair&make up e beauty in generale?

La mia passione è nata con mia mamma. Era una donna dalla cura e dall’aspetto impeccabile, capelli con un taglio long bob biondo miele, pelle molto chiara, indossava sempre rossetto rosso e mascara, unghie nude e ballerina di Chanel. Io ero sempre affascinato quando la accompagnavo nei suoi momenti dedicati al beauty.

Quali consideri i tuoi maestri e le persone che sono state fondamentali nel tuo percorso?

All’ inizio della mia carriera, è stata fondamentale la mia insegnante della scuola di acconciatori. Sognavo già il mondo del fashion, lei ha compreso questa mia passione insegnandomi tanti segreti del mestiere.

La tendenza hair per lui e per lei e i personaggi che meglio la rappresentano?

In questi ultimi anni abbiamo assistito a diverse tendenze: capelli con onde con taglio lungo, corto, frangia con ogni taglio e colore. In questa immagine possiamo vedere Francesca Rocco all’evento di Natale per Dior, abbiamo realizzato un look glamour con onde lunghe e morbide, dando un effetto sofisticato ed elegante.



Parlando di tendenze hair uomo, troviamo il modello Marco Bellotti. Abbiamo studiato un look versatile, sia per il giorno durante il lavoro che per la sera nei momenti di svago; in entrambi i casi, il capello è diventato un accessorio da cambiare a seconda della serata, dell’evento o dell’umore. In fondo, il bello è potersi divertire con la propria immagine.



Il modello romano Edoardo Sebastianelli è il perfetto esempio di come un taglio maschile leggermente lungo, ma ben calibrato sia una soluzione molto cool e interessante, che permette cambi strategici di look. Strutturati per essere più corti nella parte inferiore ma non rasati, i capelli hanno in questo caso nella parte superiore maggiore corpo, che rende la chioma morbida e scompigliata. Ma ci vuole poco per trasformarla: basta una pasta modellante per spostarla completamente all’indietro e creare un effetto elegantissimo, che può essere più o meno “rigido” a seconda dell’occasione.



Il classico look easy-chic: così potremmo definire lo stile dell’influencer Francesca Rocco, che sa come esaltare al massimo i suoi lunghi capelli castani in maniera contemporanea ed elegante. Infatti, sceglie un taglio medio-lungo pari ed esattamente come vogliono i trend, la chioma ha un colore pieno, senza schiariture né variazioni di colore, ma è luminoso e tridimensionale. Un hairstyle versatile che Francesca porta con la riga centrale, perfetto sia con una piega liscia da tutti i giorni, che mossa per un look più particolare e raffinato.

L’ispirazione è sicuramente anni ’90, ma l’applicazione è totalmente moderna: il look del modello Marco Bellotti è una delle proposte più cool di stagione. Il capello ben sfumato è lasciato più lungo nella parte superiore, dove può essere libero e spettinato, oppure disciplinato per un effetto più elegante e in un certo senso vintage. Una versatilità che lo rende perfetto sia per coprire leggermente la fronte oppure per lasciarla completamente libera, il tutto senza sforzo. Un taglio perfetto per chi ha i capelli mossi e cerca qualcosa che sappia esaltare le onde ma che sia anche facile da gestire. E che in un attimo passi dal casual allo chic.

Last but not least un personaggio affascinante e un po’ misterioso, tra bellezza e talento: Nima Benati è più che una fotografa, un vero talento e un’ispirazione, oltre a essere una delle media personality più seguite. Nata nel 1992 a Bologna, è decisamente eclettica: sa stare sia davanti che dietro l’obiettivo con grande naturalezza, protagonista o fotografa che firma campagne, sempre mantenendo il suo stile unico.



Il suo nome ha ormai da tempo valicato i confini ed è una star internazionale. Nima è una vera e propria diva e il suo hair look riflette alla perfezione questo suo ruolo: i suoi capelli sono lunghissimi e ondulati, degni di una sirena, che porta tagliati pari e con la riga centrale per lasciare il suo bellissimo viso completamente scoperto. Naturalmente mora, ha scelto di schiarire la chioma in maniera graduale partendo alcuni centimetri dopo le radici per ottenere un effetto più morbido, ideale per esaltare le lunghezze. Il risultato è un look sofisticato, elegante e che rappresenta al massimo la sua femminilità, con la quale ama giocare e sperimentare. Non è raro vederla con acconciature dal sapore vintage, che la rendono ancora più glamour.

Hai lavorato con tanti personaggi, raccontaci qualche aneddoto curioso

Tempo fa ero stato chiamato per un lavoro con un personaggio internazionale talmente importante che non potevano dirmi chi fosse fino al mio arrivo in hotel nel centro di Roma. Ero molto teso e poco prima di salire nella sua suite mi dissero: “Signor Furini, la signora Charlotte Casiraghi la sta aspettando”. Ero molto emozionato, nel momento in cui mi aprì la porta, tutta la mia ansia scomparve, poiché la sua gentilezza ed eleganza mi avevano subito messo a mio agio.

Quali sono i personaggi con cui vorresti lavorare nel futuro?

Nel corso della mia carriera, mi piacerebbe molto poter lavorare con nomi della musica italiana come Baby K, Annalisa, Marco Mengoni, Mahmood e Gaia; sarebbe interessante realizzare videoclip musicali dove vi è la possibilità di creare look molto creativi.

Claudio Furini IG: @claudio_furini_

Musica, psicologia, fiction e cinema: i diversi volti di Laura Adriani

Occhi grandi, sguardo intenso, una fisicità nervosa ma con un tocco di grazia da ballerina che la rendono diversa dallo stereotipo classico su cui sono modellate la maggior parte delle attrici del cinema italiano, sempre un po’ schiave di un’idea di sensualità convenzionale: ecco Laura Adriani, che è romanissima eppure sembra un po’ certe ragazze francesi, con addosso qualcosa di irrequieto e tormentato terribilmente sexy.



Ha iniziato da giovanissima e non ha ancora 28 anni. Ha interpretato una decina di film, spesso diretta da registi di qualità come Giuseppe Piccioni in Questi giorni e Silvio Soldini nel Colore nascosto delle cose. Ma, soprattutto, Laura ha lavorato moltissimo in televisione, ruoli piccoli e medi in tante fiction, una carriera senza fiammate eppure solida, un percorso più da maratoneta che da sprinter. Cosa che risponde al suo carattere deciso, equilibrato.



L’abbiamo appena vista in Cuori, serie campione di Auditel su Rai1, la ritroviamo in A casa tutti bene, reboot del film di Gabriele Muccino, campione di incassi del 2018. Gli otto episodi, scritti e diretti dallo stesso regista, sono in onda su Sky e in streaming su NOW dal 20 dicembre. Il personaggio interpretato da Laura Adriani è Ginevra, seconda moglie di Carlo (Francesco Scianna) primogenito dei Ristuccia, famiglia di ristoratori di successo visti da fuori, famiglia altamente disfunzionale da dentro.



Un tipino appiccicoso, questa Ginevra.

“Lo è, poverina. È più giovane del marito e lui è ancora legatissimo alla prima moglie (interpretata da Euridice Axen, ndr), donna molto sicura di sé, molto centrata. Però, vedrai, nel corso della serie, Ginevra evolverà e si rivelerà molto più interessante di quel che sembra a prima vista”.

Al momento mi pare vittima di una gelosia retrospettiva terribile. Sei gelosa anche tu, nella vita?

“Non molto. Sono tollerante in generale nei confronti delle debolezze umane. I tradimenti fanno parte della vita. E dell’amore. Si tradisce se si ama, quindi tutto è molto più complicato. Non ci sono bianchi e neri. Io stessa ho tradito e sono stata tradita. Penso che, prima o poi, capiti a tutti”.



Io credo che Ginevra sia così gelosa della prima moglie di Carlo anche perché lei è stata la sua amante, prima che lui si separasse. Sa che lui è un potenziale traditore e ha paura di ritrovarsi “parte lesa”.

“Non ci avevo pensato ma credo tu abbia ragione. La verità è che questa famiglia è terribilmente conflittuale e, nel momento in cui lei ha scelto di stare con quest’uomo, si trova in mezzo a tutte le loro contraddizioni. Ma, ripeto, più va avanti la serie più sorprendente sarà l’arco narrativo di Ginevra”.

Aspetto volentieri, la serie è un family drama molto riuscito. Ma torniamo a te. Tu hai partecipato a serie popolarissime, anzi nazional-popolarissime come I Cesaroni. Che ricordo hai?

“Ero piccola, ancora poco consapevole rispetto a tante cose. Mi sono divertita, ho imparato tanto, se ci penso è stato un periodo della vita entusiasmante e soprattutto decisivo”.



Ti sei laureata in Psicologia. Deduco che se non avessi fatto l’attrice, avresti fatto la psicologa.

“Sì, penso proprio di sì. E comunque, come secondo lavoro, lo faccio già un po’, nel senso che avere studiato certe cose si è rivelato un bagaglio davvero utile nel mio mestiere di attrice”.

Il mondo dello spettacolo è pieno di nevrotici? I set sono degli psicodrammi anche fuori scena?

“Un pochino sì (ride, ndr). E poi avere un background in psicologia aiuta tantissimo a capire i personaggi, a studiare le dinamiche con gli altri, è un bagaglio davvero utile”.

Sul luogo di lavoro ognuno ha un ruolo. Tu per tanti anni sarai stata la piccolina, la mascotte. Com’era?

“Ammetto che non era sempre facile. Mi sentivo un po’ schiacciata, intimorita dalla presenza degli attori adulti. Adesso è diverso, anche perché mi capitano ruoli più rilevanti, per esempio sto girando una nuova serie con Francesco Arca che probabilmente si intitolerà L’ultimo spettacolo e qui sono la protagonista femminile. Per me quel che conta è cercare di instaurare un rapporto paritario con tutti. Una volta, sul set, schiattavamo di caldo, ho chiesto dell’acqua, qualcuno della produzione si è offerto di andarmela a prendere, io ci ho tenuto a dire che dovevano portarla a tutti non solo a me”.



Non è più tempo di divismi, insomma.

“Ma proprio no. Questo è un lavoro collettivo, nessuno deve sentirsi lasciato indietro perché ha meno battute di un altro o perché il suo nome non è in testa al titolo”.

Tu sei anche cantante, hai partecipato a Ti lascio una canzone e insegni nella scuola di teatro musicale fondata da tuo fratello Daniele, che è tenore.

“Mio fratello è un vero cantante, lui sì. Io ho solo studiato canto, non mi definisco una cantante. La scuola è ad Acilia, io ho condotto un corso di recitazione, gli allievi sono ragazzi e bambini, si mettono in scena tanti musical, è un’esperienza bellissima e molto arricchente anche per chi insegna”.



E tu, non hai voglia di buttarti nel musical?

“L’ho già fatto, in realtà. Ho interpretato un musical che si intitola Next to Normal qualche anno fa. L’ho amato moltissimo perché, dentro un genere apparentemente leggero come il musical, si affrontava il tema dei disturbi bipolari. Uno spettacolo geniale e profondo che, non a caso, in America, ha vinto il Premio Pulitzer”.

Faresti ancora un musical?

“Il problema è che in Italia, il repertorio dei musical è molto limitato. Si fanno sempre le stesse cose, raramente si rischia con testi innovativi come Next to Normal. Ce ne sarebbero tanti altri super interessanti da adattare per l’Italia ma qui si preferisce fare Grease per la milionesima volta. Niente contro Grease, ma non fa per me”.



Video director: Federico Cianferoni 

Music: Iskander

Art Director & Photographer: Davide Musto

Styling: Andreas Mercante

Styling assistant: Valentina Calicchio

Ph. Ass. Dario TucciValentina CiampagliaRiccardo Albanese

Fashion Editor: Alfredo Fabrizio 

Ass. Fashion Editor: Federica Mele

Hair e make up: Laura Casato, Eleonora Mantovani @simonebellimakeup

Location: Coho Loft – Roma

Attilio Fontana, Never again Kabarett

Incontro Attilio Fontana, all’ Ellington Club, di venerdì, infatti sta per iniziare le prove per lo spettacolo della sera. Lo abbiamo conosciuto come cantante e Teen Idol negli anni 90’, per poi farsi notare come un attore veramente completo e re dei musical, insomma come ce ne sono pochi in Italia.

Come tutti gli artisti ha sofferto delle chiusure dovute alla pandemia e così adesso ha deciso di buttarsi in questa nuova avventura con uno spettacolo di cabaret a Roma assolutamente da non perdere, formato da sedici artisti, che intrattengono e stupiscono il pubblico a rotazione.



Cosa mi racconti di questa nuova esperienza?

Questa è un esperienza work in progress, nel senso che è uno spettacolo molto particolare. La storia della mia partecipazione a quest’idea nasce forse dal periodo del lockdown, momento in cui ho conosciuto Vera Dragone e l’Ellington club. Avevo la necessità di registrare un disco acustico e così ci siamo incontrati artisticamente. Vera è proprietaria insieme ad Alessandro Casella di un mondo fantastico, in quanto la prima volta che vi ho messo piede mi sembrava di essere in una scena di “C’era una volta in America”.

E com’è nata l’idea dello spettacolo?

È nata la scorsa estate; per due ore Vera mi ha parlato della sua idea dello spettacolo, nata insieme alle altre due interpreti Camilla Nigro e Miriam Gaudio. Voleva mettere insieme una serie di performer ed artisti, cosa che poi ha fatto curandone la regia. Ha creato una sorta di manifesto della libertà artisticа, dopo che siamo stati intrappolati dentro delle gabbie claustrofobiche e lo siamo ancora per certi versi.

Quindi l’idea finale era quella mettere insieme degli artisti, e come degli spettri inquieti poter abitare il palco regalando la nostra arte.

Insieme a noi ci sono anche tanti altri performer come Giuditta Sin.

Canto anche delle cover, che non è una cosa che faccio solitamente, tranne che a “Tale e Quale” ovviamente, ed in più propongo anche dei brani miei.

Siamo una sorta di nave sogno approdata al Pigneto.

Hai sofferto parecchio tu personalmente come artista per le chiusure?

Si, forse perché sono inquieto, e l’inquietudine mi porta a fare questo spettacolo, perché la mia vita è il palcoscenico.

Ci hanno messo: mascherine, distanziamento, plexiglass, sono tutte cose che remano contro l’empatia dal vivo, che è il mio nutrimento, soprattutto per me che in questi ultimi anni ho vissuto di teatro e musica dal vivo che sono le cose che amo di più fare.



A che ora inizia lo spettacolo?

Lo spettacolo inizia alle 21,30 e v avanti fino a mezzanotte, sono due ore piene, insomma una bella tirata, però siamo tanti ed abbiamo una band dal vivo di musicisti che è straordinaria, e la cosa che amo in assoluto nell’esibirmi qui è l’amore per l’arte che abbiamo tutti quanti. Siamo nell’era dei numeri, ecco noi non sopravviviamo per i numeri ma per la passione. Ci stiamo conoscendo e mescolando gradualmente, qui all’Ellington ci sono una serie di alchimie a cui sono sempre affezionato.

Stiamo vivendo un momento privilegiato rispetto a certe zone dell’Europa, come lo vivi questo momento di incertezza?

Voglio rimanere ottimista, anche perché ho combattuto con l’informazione sin dall’inizio, in quanto esercita un pressing davvero importante sulle persone.

Non entro in merito del buono o del cattivo, preferisco rimanere in una terra di mezzo e combatto con la mia positività.

Crediti:

Foto: Massimo Insabato

Location: Ellington Club Roma

Artists: Attilio Fontana con Vera Dragone e Giuditta Sin e con Camilla Nigro e Miriam Gaudio (interpreti dello spettacolo Never Again Kabarett)

Press: Ufficio Stampa Fabi Savona

Christiane Filangieri, bella ed austera con un’ironia da 10 e lode.

Christiane Filangieri, che per esteso fa: di Candida Gonzaga, ma come si definisce lei la cosa che conta è essere nobili d’animo, il resto non ha importanza, vale solo l’educazione che hai ricevuto, e che lei riconosce a suo padre, gentil uomo napoletano.

Segni particolari, bellissima, un percorso artistico iniziato tanti anni fa con Miss Italia, per autodefinizione, non ha mai ambito al primo posto, preferisce la sua zona di comfort che le permette di vivere la sua vita e la sua famiglia come vuole.

Ora in onda nella fiction di RAI1 con ascolti record “Un professore” per la regia di D’alatri ed al fianco di Alessandro Gassman.

Christiane Filangieri di Candida Gonzaga, mi dici a quale punto sei nobile così capisco come posso pormi?

Sono nobile d’animo, questo è quello che desidero essere il messaggio, mio padre è stato un grandissimo signore fino alla fine, non si è mai dimenticato di dire grazie a nessuno, il vero napoletano elegante, quindi, questo ho imparato da lui.

Della nobiltà che ce ne “import” (alla napoletana).

Sei super amata e super talentuosa, un successo dopo l’altro, “Mina settembre” prima e ora “Un Professore”, cosa mi dice quest’ultima fiction?

Partiamo dalla regia di D’Alatri che è una persona dedita al suo lavoro e di una umanità incredibile. Lo avevo conosciuto qualche anno fa per un provino e vidi proprio l’amore del regista per il lavoro dell’attore, che non è mai così scontato.

Alla fine, non andò in porto quel progetto, ma come dico sempre nella vita non si sa mai, alla fine i provini sono sempre delle lezioni.

E poi proprio per la stima reciproca mi ha chiamato per “Il commissario Ricciardi”.

Ed ora mi ritrovo nuovamente sul set con lui, accanto ad Alessandro Gassman, che è sempre vero e naturale senza troppe smorfie e soprattutto credibile anche nel ruolo del professore nonostante lui dica di essere sempre andato male a scuola.

Parlami del tuo personaggio nel ruolo di Floriana, chi è?

Anche qui sono nuovamente una donna del mistero, si vedono dei flashback, non è chiaro ancora, infatti ho tutti gli amici che fanno ipotesi, ma io non dico nulla, devono vedere tutte le puntate!

Mi divertiva l’idea di esserci poco ma che comunque dalla scena iniziale si è intuiva che il loro matrimonio è finito per un motivo X, e poi si scoprirà con tutto l’amore, la dolcezza e la tristezza che ci può essere stata in un rapporto.



Tu riesci a vivere una vita serena senza social, spiegami il tuo segreto?

Più vado avanti e più ci credo che la mia scelta di astenermi sia stata quella giusta per me, tutti voi state impazzendo e io no, alla fine che bisogno c’era di vivere così dicendo tutto quello che un fa o non fa.

Io devo conoscere e coltivare quello che conosco, mi piace avere le chat con le amiche di sempre quello si, ma il bisogno di esternare come fanno quasi tutti i miei colleghi attori io non ce l’ho.

A me l’idea che tutti abbiano sempre qualcosa da dire un po’ mi spaventa.

Non ti viene mai neanche la curiosità di dire provo, o ti è venuta in passato?

Assolutamente mai, il mio ufficio stampa oramai ci ha perso le speranze, sono una causa persa.

Ho un figlio che a breve molto probabilmente mi chiederà, ed a questo mi preparerò, in quanto non sarò io a privarlo di una cosa che può fargli piacere, anche se non farò un controllo da Polizia, ma un certo tipo di vigilanza ci deve essere per forza per un teenager.

Lasciare un ragazzino da solo con uno smartphone come si vede spesso in giro lo trovo un abomino.

Tanto sto facendo talmente tanti ruoli di mamme di adolescenti con problemi che mi sento preparatissima.

C’è qualcosa che non rifaresti nel tuo percorso artistico?

Direi di no, mi son sempre detta provo a fare cose diverse senza andare contro la mia natura, quindi mai volgarità o mai scene di sesso, questa sono io ed ho sempre incontrato registi che mi hanno capita e non le ho fatte. Sarebbe stato un po’ come fare una violenza su me stessa.



Quando una arriva terza a Miss Italia, la sua voce interiore che dice?

Ci pensavo ieri, in quanto sono ricominciate le riprese per Mina Settembre ed ho incontrato una ragazza con cui ho fatto il concorso, e così abbiamo rivissuto dei momenti insieme, ma sai, quando sei giovane le cose le fai senza pensarci.

Mia madre mi aveva iscritto e l’ho fatto.

La realtà è che io avrei voluto fare l’accompagnatrice turistica, quindi per me era solo un’esperienza da fare, nel messaggio che le sei finaliste devono dire, io dissi: “vorrei arrivare seconda o terza, non prima”, quindi era il mio destino, zero autopromozione da parte mia.

Ti si vede praticamente solo in TV, non sei mondana, lo sei stata e non lo sei più dopo l’avvento della famiglia?

No, non lo sono mai stata mondana, sono fatta così, certo ora si sono ridimensionati anche gli eventi, però ogni tanto mi piace andare magari un’oretta ad un opening per vedere qualche amica e collega.

Poi sono un’antidiva per eccellenza, non mi so vestire non so fare shopping, insomma un disastro.

Quale ruolo ti manca che vorresti interpretare, sai parlandone lo mettiamo nell’universo?

In passato ho sempre detto che mi sarebbero piaciuti dei ruoli più ambigui, magari più dark o la principessa, ora ho fatto la principessa Garibaldina, poi quella degli anni 30’ che avvelena ed uccide il figlio, insomma mi reputo soddisfatta, il mio lato della pazzia l’ho dato.

Photography: Francesco Guarnieri

Look: Due tappe

Press: Lapalumbo

Rosana Auqué, l’artista del cielo e dei fiori

Rosana Auquè è una giovane artista di origine colombiana che scopre la passione per l’arte sin da bambina, avvicinandosi alla pittura all’età di 11 anni per poi proseguire gli studi d’arte al liceo e all’università, tra Cambridge, Colombia e Italia. 

Il risultato di questa lunga formazione emerge nelle sue opere che risentono fortemente delle ispirazioni della sua terra di origini e dell’Italia, due culture che continuano ad avere un grandissimo influsso sulla sua creatività, abbinate poi all’ispirazione dei maestri del Rinascimento e dell’arte moderna come Monet e Klimt. Il risultato sono opere colorate, gioiose e piene di gratitudine verso la natura.

Com’è nata la tua passione per l’arte e quando hai capito avresti voluto diventare un’artista?

Il mio interesse per l’estetica e per le cose belle della vita è nato da bambina, penso che la missione più importante di un’artista sia quella di cercare e di creare bellezza e così è stata la mia mentalità sin dagli inizi. Come diceva Dostoyevski “la bellezza salverà al mondo”, ed io ci credo profondamente.

Quando avevo 11 anni, ho cominciato a dipingere sistematicamente e a maturare la mia passione per l’arte, ho scoperto da quel momento che sono nata per fare l’artista.  Oggi, 19 anni dopo, continuo a creare la mia arte. Nel corso di questi anni ho lavorato sulla creatività e sul particolare interesse per il colore, esplorando nuove forme e tecniche posso dire che finalmente ho trovato il mio linguaggio artistico, quello che mi fa sentire a casa e in piena autenticità: la natura astratta.  



Parlaci della tua formazione…

Nel 2002, quando andavo al Liceo in Colombia, ho iniziato a frequentare delle lezioni extrascolastiche con dei maestri d’arte che venivano ogni settimana a casa. Ricordo che mio papà mi aveva destinato uno spazio speciale a casa vicino alla biblioteca per studiare, dove trascorrevo quasi tutti i giorni. Dopo essermi diplomata, mi sono trasferita in Inghilterra, per iniziare a studiare arte e pittura all’università di Cambridge; in quel periodo, ho passato due anni magnifici, per poi ritornare in Colombia e concludere la laurea in arte a Bogotà, all’Università De Los Andes.

Nel 2017 sono venuta in Italia per frequentare un Master all’Istituto Marangoni focalizzato sulla moda, e ad oggi continuo a vivere a Milano, una città che mi ha accolta e che mi nutre molto di cultura.

Ti dividi tra la Colombia e l’Italia, due paesi ricchi di arte e contrasti. Che influsso hanno queste due nazioni nel tuo lavoro?

Entrambe le culture, sia quella colombiana sia quella italiana, hanno un grandissimo influsso sulla creatività. Il mio più grande interesse, che si evidenzia in ogni creazione, è quello di trovare l’equilibrio tra il colore e la forma.  L’attrazione per il colore viene senz’altro dalle mie radici colombiane. La felicità che ti fa sentire il colore è unica! E questa gioia e libertà cromatica sono caratteristiche del folklore colombiano, così come l’accoglienza e la libertà in senso generale, tutti valori con cui sono cresciuta. Dell’Italia ho colto sicuramente la forma: l’interesse concettuale per quello che sto dipingendo, il fatto di approfondire l’argomento di mio interesse e creare una forma sistematica e disciplinata.

Il lasciarmi ispirare dai grandi artisti Italiani che più ammiro, dai maestri del Rinascimento ma anche quelli moderni e contemporanei, sentendo in ogni momento la presenza di una grande storia, o meglio, la più affascinante storia dell’arte nel mondo.



Le tue opere partono spesso da ispirazioni musicali, come è nato e come hai sviluppato questo legame musica-arte?

In realtà questo legame è nato in maniera organica. Da piccola i miei genitori mi hanno inculcato la passione per la musica. Ascoltavamo musica di ogni genere assieme e questa è una passione che ho continuato a coltivare negli anni.  Ho cominciato a dipingere i paesaggi dopo aver ascoltato “La Primavera” di Vivaldi, e da quel momento è stato inevitabile non immaginare la natura mentre ascolto la musica classica. Quando chiudo gli occhi, le immagini vengono a me: i campi di fiori colorati, la composizione e dimensione di ogni pittura. Senza alcun pensiero specifico, si tratta solo di sentire.

Sei stata definita l’artista del cielo e dei fiori. Come è nata questa passione per la natura e i colori?

Penso che questa passione sia stato il risultato di tante cose. Principalmente perchè mi piace guardare il cielo e i fiori. Tant’è che le persone più vicine a me, ogni volta che vedono un tramonto mozzafiato, delle belle nuvole o dei fiori particolari, mi inviano sempre una foto o mi chiamano; questa è una cosa bellissima perché così si crea un legame umano basato sull’ammirazione della bellezza della natura! Prendersi del tempo per ammirare quello che vedi, il sentirti grato di essere al mondo, capire che siamo tutti qui per goderci il nostro viaggio e che la vita ci regala tante cose belle come il cielo e i fiori, è tutto per me.



Raccontaci dal lato tecnico. Come lavori e impreziosisci le tue opere?

Ogni opera comincia da una spinta: dalla musica, da un concetto particolare, oppure da un sogno che ho fatto mentre dormivo. L’importante è avere sempre un’idea di base e una direzione iniziale, anche se durante la realizzazione dell’opera le cose possono un po’ cambiare. Come materiali, lavoro principalmente con l’olio e con l’acrilico su tela. In più, mi piace utilizzare metalli preziosi come l’oro e il bronzo per accentuare dei dettagli nell’opera e renderla più ricca ed interessante. 

Le tele che utilizzo sono principalmente quadrate (non rettangolari), ma di recente preferisco quelle rotonde, soprattutto per la serie dei cieli che sto dipingendo perché la forma circolare dona un senso di infinità e che il paesaggio si spande al di là del quadro. 

Quali sono le opere che hanno rappresentato per te un passaggio importante nel tuo percorso?

Sicuramente il lavoro di Monet ha influenzato molto il mio lavoro. I suoi paesaggi mi hanno colpita significativamente, in particolare la serie di “Water Lilies”. Penso sia affascinante che prima di dipingere questa serie, Monet abbia piantato e coltivato a casa sua quel giardino che ha poi ritratto sulla tela; è come pensare che prima di avere il pennello in mano, lui ha creato un capolavoro con i fiori veri, il processo creativo è nato da molto prima!

Un altro artista che ha avuto e continua ad avere un grande effetto su di me è Gustav Klimt e il suo utilizzo dell’ornamentazione e dell’oro nelle opere, trovo particolarmente meravigliosi i suoi dipinti di fiori e paesaggi pieni di dettagli e di colore.

Quali sono i tuoi luoghi preferiti in Colombia e in Italia che ti ispirano e ti ricaricano?

Il mare e i suoi paesaggi mi fanno sentire a casa, danno un senso di quiete che mi ispira. È un’esperienza che coinvolge tutti i sensi: il tatto della sabbia scaldata dal sole, l’aroma di freschezza, la musicalità delle onde. È un ambiente che non pretende niente da te, lì c’è solo pace e luce. Sicuramente i luoghi che più mi ricaricano di energia sono Santa Marta in Colombia e Napoli in Italia.

Quali sono i prossimi progetti e sfide per il futuro?

Continuare a dipingere è la mia più importante missione. Voglio fare questo, continuare nella mia crescita e ricerca pittorica. In più, voglio portare questo mio mondo ad altre situazioni e oggetti di uso quotidiano, creando la possibilità di vivere l’arte e la bellezza a 360°. 

Al momento sto lavorando per creare una fondazione d’Arte in Colombia, dove tutti i bambini possano avere accesso alla migliore educazione artistica, avendo l’opportunità di scegliere l’arte come un percorso reale di vita. Penso che una società che pone al centro la cultura e l’amore per la bellezza sia destinata al successo e ad un futuro più inclusivo. Questo nutrimento verso la cultura spero porti consapevolezza ad ogni persona della responsabilità che ha nella società, e la spinga a creare un mondo migliore in cui vivere. Infine vorrei portare ottimismo e ispirare le persone a nutrire la propria anima come solo l’arte sa farlo.

Photographer: Riccardo Albanese

Maria Chiara Giannetta è Blanca, quando una disabilità diventa un super potere

Maria Chiara Giannetta è Blanca nella nuova e attesissima fiction di RAI1 che la vede protagonista nei panni di un’esperta in dècodage, ovvero l’ascolto analitico dei materiali audio delle inchieste, grazie alla sua cecità che la rende estremamente sensibile ed attenta diventerà il suo super potere.

La sua grandissima popolarità è arrivata con Don Matteo, e ultimamente l’abbiamo vista anche in Buongiorno Mamma, insomma come dice lei, ha girato tra un set e l’altro negli ultimi anni senza mai fermarsi.

Sei tornata al cinema da quando hanno riaperto le sale?

Sto cercando di vedere più film che posso in questo periodo tra le pause delle varie riprese, diciamo che cerco di recuperare le cose che mi son persa e quelle in uscita, l’ultimo film che ho visto è stato Freaksout.



Come è nata la tua passione per la recitazione.

Devo dire un po’ per caso, nel senso che sin da piccola facevo parte di questa compagnia teatrale del mio paese, soprattutto in estate facevamo molti spettacoli, ma era un gioco per me, non mi sarei mai immaginata che potesse diventare la mia professione.

A un certo punto mia madre mi ha chiesto di scegliere un’attività pomeridiana, la palestra mi annoiava e quindi è stato spontaneo scegliere il teatro.

Dopo la scuola ho scelto di rimanere a Foggia e fare lettere, e poi ad un certo punto ho tentato il provino al centro sperimentale, mi hanno presa, e di lì è cominciato il mio percorso.

La tua popolarità è arrivata con Don Matteo, come ti sei sentita ad entrare in un grande cast come quello?

Si, assolutamente è stato così, la prima persona che ho conosciuto è stato Nino Frassica al provino, e devo che mi ha insegnato cose come nessun altro, il set con lui era magico, speciale, in quanto stimolante la sua capacità di improvvisazione.

Anche perché in una macchina da guerra come Don Matteo, dove magari ci sono tanti interrogatori, quindi tante scene da imparare a memoria, ecco Nino ha la capacità di stravolgere tutto in cinque minuti.

Inoltre, devo ammettere che è stato molto interessante avere sempre tanti attori nuovi in ogni episodio come protagonisti di puntata, ti da veramente l’impressione di una grande famiglia che accoglie tutti i nuovi arrivati.



Sei richiestissima, ti capita a volte di rifiutare un copione e perché?

La verità è che se ho detto qualche no fino ad ora è semplicemente perché ero già impegnata quindi non avevo il tempo materiale per farlo, calcola che Blanca, Buongiorno Mamma e Don Matteo, sono serie TV che ho girato no stop una dopo l’altra, tutto l’anno per tutti gli anni.

Comunque credo i provini bisogna farli tutti, per il semplice motivo che leggendo un copione magari ti fai un’idea sbagliata e non lo senti nelle tue corde, poi invece ti confronti con il regista e scopri un mondo diverso.

Sta per uscire Blanca, attesissima fiction che ti vede protagonista, che mi dici del tuo ruolo in una persona non vedente?

È stato molto bello perché in quanto conoscevo il romanzo che avevo letto in tempi non sospetti, e poi son venuta a sapere del progetto televisivo, però, tra le altre cose le riprese sarebbero dovute iniziare proprio mentre ero ancora sul set per “Buongiorno Mamma”, quindi non era assolutamente in cantiere.

Poi come spesso succede la produzione era in ritardo e son stata chiamata al provino, sono stata felicissima anche perché il ruolo di una non vedente quante volte ti può capitare durante la carriera attoriale, è molto raro, e allora ci ho messo tutto quello che avevo pensato anche durante la lettura del libro.



Come è stato il tuo approccio al ruolo?

Ho provato a vedere le cose come le vede Blanca, cosciente del fatto che io la vista ce l’ho, per me è stato molto importante lo studio dell’ambiente per capire dove potevo inciampare o dove potevo sostenermi, ogni giorno sul set è stato stimolante.

Purtroppo, eravamo nel secondo round di zona rossa ed avrei preferito andare in giro e provare il mio ruolo in luoghi pubblici magari bendata con qualcuno che mi sosteneva, ma non è stato possibile.

Ho avuto l’onore di fare incontri singoli con Andrea Bocelli, Maria Ligorio che è una campionessa para olimpionica di corsa e Veronica Tartaglia che è una campionessa para olimpionica di scherma, insomma ho avuto l’onore di conoscere delle vere e proprie eccellenze italiane.

Invece il tuo tempo libero come lo occupi?

La dura verità è che non ce l’ho, cerco di ritagliarmi un po’ di tempo il sabato e la domenica, però il mio lavoro è la mia dedizione, vado a dormire presto e cerco mangiare sano per avere più energie possibile da utilizzare sul set.

Ho una prerogativa che mi rende famosa: il mio super mega zaino da due tonnellate, di color rosso e blu in tal modo da poterlo vedere sempre, dentro ho tutto ciò che mi serve per sfruttare i tempi morti del set.

Photography: ROBERTA KRASNIG

Hair & Make up: CONCETTA ARGONDIZZO

Press: LAPALUMBO

Filippo Contri: the intimate performer

Filippo Contri sembra essere nato per stare sul palcoscenico. Un performer che non sente il bisogno di urlare, ma la cui presenza basta a riempire lo spazio circostante, scavando e restituendo il senso ad ogni parola detta, andando a riscoprire il valore profondo di ogni sentimento nei cassetti dei ricordi, con il favore del tempo. Dopo gli esordi dentro una vita apparentemente destinata a una strada diversa, è stato scelto per stare davanti alle telecamere, perché quella vocazione, che era nella sua stessa natura, qualcuno l’aveva vista con chiarezza, illuminandogli la strada. E quando appartieni a qualcosa, non ti resta che assecondarla e iniziare a crederci davvero.
Lo vediamo in questi giorni su Prime Video nella serie Vita da Carlo in cui interpreta Giovanni, il figlio di Carlo Verdone. Ci ha raccontato salite e discese che l’hanno portato fin qui e i progetti collaterali, tra cinema, laboratori e teatro, figli di una personalità forte e volitiva, e di una sempre maggiore consapevolezza di se stesso, misto a una buona dose di autoironia.



Filippo, passione per il cinema fin da piccolo. Ti sei avvicinato al mondo dello spettacolo in svariati modi e fasi differenti, proviamo a raccontare tutto dalle origini?

È una passione tramandata dai miei genitori, con i quali passavo il mio tempo libero andando spesso al cinema, ma anche tra le mura di casa – ricordo che eravamo pieni di dvd – se non dalle scuole elementari, dove seguivo con entusiasmo il laboratorio teatrale, che poi ho continuato con sempre maggiore interesse. Solo che col passare degli anni l’impegno si fa più intenso e io come tutti i ragazzini, volevo uscire con le ragazze e giocare a calcio. Intorno ai 14 anni il mio interesse matura, perché sento di essere perfettamente a mio agio quanto mi trovo in mezzo alla gente. Riesco a percepire il fascino di poter trasmettere qualcosa al pubblico con la sana esuberanza che mi contraddistingue.
A 14 anni mia madre mi manda a studiare cinema e confesso che all’epoca io andavo a imparare a fare i monologhi per conquistare la ragazza di cui andavo matto.
Nel 2009 ottengo una parte in Amore 14 di Federico Moccia. Fatto sta, che la mia percezione di questa professione rimane ancora relegata tra quelle destinazioni lontane e troppo difficili da raggiungere. Perciò, finisco gli studi, mi laureo in economia e inizio a lavorare all’estero. Tornato a Roma avvio una discreta carriera in Deloitte, rifiutando occasioni che mi si sono presentate per strada, come il corto della Campari di Sorrentino per la quale sono stato fermato per strada per fare un casting serissimo che era andato bene perché in effetti il giorno dopo mi è arrivata la notizia che ero stato preso, era il 2016 e non mi sentivo a mio agio nel fare un’esperienza sapendo che non avrei avuto modo di approfondire questa strada.

Un paio d’anni dopo, una ragazza mi chiama per chiedermi di girare un video per il Grande Fratello e dopo un po’ di tempo mi chiamano da Cinecittà e mi ritrovo di fronte a una decina di autori che vogliono conoscermi, così tra un provino e un mucchio di risate mi chiedono di partecipare al reality. In quel momento la mia personalità era centrata ma temevo che potesse trattarsi dell’ennesima illusione.



Però non lo è stata…

No, pare, perché quando sono uscito dal Grande Fratello, ero a tavola con Enrico Lucherini e Barbara D’Urso, a un certo punto, proprio Enrico – dall’alto della sua esperienza – si alza da tavola e mi dice che io dovevo fare l’attore. Questa cosa mi ha dato una carica incredibile che mi ha spinto a studiare e a tirare fuori tutta l’energia che avevo dentro. Dunque, cercai il corso più adatto a me, il migliore a cui potessi accedere e lo trovai nella formazione di Alessandro Prete: iniziai a studiare, lasciandomi trasportare dal mio sesto senso e dagli eventi.

Entri in una nuova fase. Che cosa cambia?

Mi rendo conto che la recitazione può insegnarmi a essere me stesso: può sviscerare le mie emozioni, e può rendermi libero di prendermi sul serio o di far finta, posso sognare mettendoci tutta la mia creatività, lavorando approfonditamente su questo e arrivare a sentirmi migliore. La pratica della recitazione mi ha permesso di riportarmi indietro nel tempo, a quando avevo 15 anni, imparando a conoscermi meglio, facendomi delle domande sulla mia vita personale.

Una sensazione profonda che sentii quando, nel 2019, presi parte al cortometraggio Happy Birthday, di One More Pictures con Rai Cinema, presentato alla 76° mostra del Cinema di Venezia, in cui viene raccontata la personalità degli Hikikomori, insieme a Genny De Nucci e Fortunato Cerlino, per la regia di Lorenzo Giovenga. Lì il mio principe azzurro non era altro che un avatar del padre e quello che ho sentito quando ho interpretato quel personaggio è stato il senso di responsabilità nel non potermi permettere lo stupore per non deludere mia figlia.



Ogni esperienza è un tassello in più non tanto nella tua formazione, ma nel raggiungimento di una nuova consapevolezza personale.

Si è sicuramente un settore difficile, è innegabile, ma se lo affronti con convinzione e passione, lavorando su te stesso, sicuramente quell’energia ti porta da qualche parte. Dico questo perché, una delle cose che mi ha dato più fastidio in questi anni è stato l’atteggiamento di molti, quasi a volerti scoraggiare a fare questo lavoro. Nella vita, come per tutte le scelte che un individuo fa, le possibilità sono bassissime, ma se lavori con dedizione qualcosa si muove, ed è quello che fa la differenza. Nulla è casuale e nulla è impossibile.

2020 l’anno della svolta “in tutti i sensi”

Il 2020 è stato l’anno in cuiho preso un piccolo ruolo con il regista Riccardo Antonaroli – ne La Svolta con Ludovica Martino e Andrea Lattanzi.

Ho avuto l’onore di fare la pubblicità per la BMW (mondo) diretto ma soprattutto doppiato da Jan Wentz!


Maglia LES HOMMES

E poi arriva Carlo Verdone…

Si, è il momento in cui stai veramente iniziando ad appassionarti a quello che si prova quando riesci a sentire dentro la recitazione, il gusto di un jeans non troppo largo, ma neanche troppo comodo, il ricordo dietro un bacio, imparare a rimanere calmo e insistere.

Un giorno, mentre facevo le prove di Nero a Metà, in cui ero protagonista in una puntata con Gobbo Diaz e Claudio Amendola, mi arriva una telefonata in cui mi comunicano che ho preso la serie di Carlo Verdone in cui interpreto la parte del figlio. Un’esperienza che mi ha cambiato la vita. Avevo solo il pensiero di fare bene quello che stavo facendo, entrare in quella realtà e godere di quello che avevo tra le mani e così è stato. Dopo che fai un’esperienza del genere, tutte le altre ti sembrano molto più piccole, anche se le altre sono ugualmente grandi.



Come dicevi prima, quando hai la possibilità di farti conoscere, arrivano anche i provini e altre opportunità. La perseveranza paga?

Sicuramente! Infatti, subito dopo è arrivata un’altra opportunità con la serie Impero per la regia di Fabio Resinaro e Nicolò Marzano che ruota attorno all’universo del calciomercato e dei procuratori sportivi, con Francesco Montanari, e ti rendi conto che le cose sono cambiate. Ti sembra di essere arrivato a quello che desideravi, lavorando duro tutti i giorni, ma soprattutto rischiando, abbandonando anche un lavoro certo che mi avrebbe portato successo.

Ma meno male che siamo abbastanza matti da assecondare il sesto senso e cambiare strada! Adesso quando vedo uno in giacca e cravatta non vedo l’ora di metterla “in scena”

Cosa che ho fatto durante un’esercitazione teatrale molto personale:
Ho iniziato ad aprire i regali che mi avrebbe fatto mio padre dall’anno in cui è mancato, ad oggi.



Ce li racconteresti questi regali che parlano di te e di lui?
È stato interessante immaginare come mi potrebbe vedere mio padre in questa rivoluzione che sto vivendo, mi sono chiesto se mi avrebbe appoggiato e come lo avrebbe fatto. Ignorandomi e facendo finta di niente o sostenendomi e accompagnandomi a vedere dei film, come “Favolacce”, da un consumatore vecchio stampo.

Mi è piaciuto immaginare una serie di regali: da un paio di scarpe belle alla locandina di The Disaster Artist in cui James Franco è produttore, regista e attore. Una delle mie pellicole preferite in cui risuona il mantra “Non permettere mai a nessuno di dire che non puoi fare una cosa”.
Ma anche un completino di calcio della Roma, per non dimenticare la tua tradizione, il gioco, il divertimento e le tue origini – una serie di messaggi che lui mi avrebbe voluto mandare visti in maniera più intima e profonda.
Una pistola perché quand’ero bambino mi piaceva giocare con le pistole giocattolo, dunque sono andato a creare dei presupposti per ritornare a giocare. Una volta giocai carte con lui. Tutto questo vestito con i suoi abiti da lavoro, proprio quelli, giacca e cravatta.



Cosa vorresti suggerire a chi desidera seguire il tuo stesso percorso?

È la libertà che ti può condurre alla felicità, a volte non ce ne rendiamo conto. Adesso sono cosciente che ho raggiunto un livello autocoscienza che prima non avevo, è una costante ricerca di qualcosa che ci fa stare bene, che basta a me, senza doverla necessariamente divulgare.

Per fare questo ho iniziato a sperimentare, a scrivere insieme a un gruppo di amici. Sfruttando anche quello che ho imparato dal mio primo lavoro – “Faccio delle presentazioni che neanche Elon Musk” – stiamo realizzando un lungometraggio sul tema della cancellazione dei colori in politica. “PUTSCH” – seguaci – scritto da Costanza Bongiorni, diretto da Marco Armando Piccinini e soggetto ideato da me, parla di un giovane influencer che crea un partito politico insieme ad altri influencer, sotto il nome di Nuovo Mondo, basato su dei valori più nobili di oggi: ecosocialismo e retaggi culturali della nostra nazione, presentato da un trailer già pronto di grande impatto.
Un progetto ambizioso, scritto in due anni, con l’intento di promuovere volti nuovi attraverso un tema di grande attualità.
Questo è solo uno degli ultimi progetti che rappresentano la somma di tutte le esperienze condivise con le persone che incontri in questo meraviglioso percorso.

Look cover: canotta e pants LES HOMMES

Photographer and art direction: Davide Musto

Styling and interview: Rosamaria Coniglio

Production: Alessia Caliendo

Location: Coho Loft Roma

Food: Avocado Bar Roma

Ritratto di un giovane attore: Sebastiano Kiniger

Ha origini trentine il giovane Sebastiano Kiniger e la sua storia inizia proprio nella città di Rovereto, un luogo di rifugio nei lunghi mesi del lockdown ma anche un posto da cui scappare da giovanissimo, per trovare la sua strada all’estero prima nel teatro e poi nel cinema. Nella nostra intervista ci racconta sottovoce la sua storia, un viaggio che inizia in Italia per poi arrivare in India e tornare infine a Roma, una città che gli ha dato tanto e continuerà a farlo…


Come è avvenuto il tuo primo approccio con la recitazione?

Ho scoperto il mondo del teatro durante l’infanzia, prima con le recite a scuola e poi al liceo. Questa passione è maturata dentro di me sin da subito così dopo gli studi ho iniziato a studiare recitazione prima in Italia e dopo a Parigi alla scuola Jacques Lecoq, più incentrata sul teatro fisico. Quel periodo mi ha permesso di conoscere una realtà completamente diversa e sono cresciuto molto dal punto professionale e personale, mentre ero in Francia mi sono avvicinato anche alla fotografia, e ho iniziato a scattare per strada scoprendo anche la passione per la street photography. È stato da lì che ho iniziato a pensare di portare la recitazione davanti alla macchina da presa. A Londra invece ho lavorato in una compagnia teatrale, e poi è arrivato il primo ruolo in tv in the Durrels.

Raccontami del tuo personaggio nella serie Netflix 56k…

Questa serie è stata girata nel pieno del secondo lockdown e mi sono innamorato da subito del personaggio perché è un uomo molto contemporaneo. Enea riflette valori e temi molto legati alla nostra società come il rispetto della figura della donna. Lui riesce ad ascoltare e apprezzare la sua compagna avendo con lei un rapporto prioritario, sarebbe disposto a fare di tutto anche se questo significasse perderla. 



Nel tuo ambito lavorativo la figura femminile è vittima ancora molti svantaggi come spesso sentiamo?

Purtroppo anche nell’ambito del cinema la figura femminile subisce numerosi torti. Sulle pari opportunità c’è ancora da lavorare.

A quale dei personaggi interpretati fino ad oggi sei più legato?

Oltre ad Enea in 56k anche il personaggio nei Durrels mi è molto caro, una personalità molto turbolenta. Questa caratteristica si avvicina anche al mio carattere, spesso interpreto personaggi taglienti e poco sereni. 

Come ti senti oggi?

Sono turbolento nell’anima, vicino al fuoco. Faccio fatica a trovare la calma anche se la cerco tutti i giorni. Penso derivi dal fatto che ho perso uno dei miei genitori da adolescente e questo mi ha fatto sentire davvero spiazzato per molto tempo. Ho avuto bisogno di trovare un’identità fuori dalla mia società e scappare da brutti ricordi, in questo senso andare all’estero è stata anche la mia salvezza.



Hai vissuto molto all’estero, quale destinazione ti ha colpito di più? 

Ho avuto la fortuna di scoprire l’India grazie alla mia compagna, lei è originaria di New Dheli e poi si è trasferita a Londra per lavoro. Ogni giorno continuo a conoscere nuovi aspetti dell’India e ci tornerò anche a Natale. Sono appassionato anche del loro cibo, adoro la cucina indiana. 

Parlando di musica invece cosa ti piace ascoltare?

Ho scoperto l’hip hop a Parigi, a Londra la techno. Nell’ultima settimana sto ascoltando Damn di Kendrick Lamar.

Altra fonte di ispirazione è Colors, uno studio di registrazione con base a Berlino che ospita vari artisti ad esibirsi nei loro spazi, è il mio canale di riferimento su YouTube per la sua estetica molto minimale e un suono pulito.

Il tuo rapporto con la moda…

Ho iniziato ad interessarmi alla moda una volta uscito dal liceo, facendo i primi lavori mi sono divertito l’ho sempre vista come un gioco. Il modo in cui vesto è molto importante perché mi fa sentire bene. Ho uno stile minimal molto vicino al mood londinese, vivendo lì ho assorbito un po’ la loro impronta. Un capo che non può mancare in questa stagione è il cappotto lungo monocromatico sui toni del marrone caldo. 

Cosa ti aspetti dal futuro, dove ti vedi tra qualche anno?

A Roma, spero che la mia carriera mi dia l’opportunità di lavorare in ambito internazionale con l’intento di costruire una carriera in Italia e all’estero. Un percorso che rifletta chi sono e che mi dia l’opportunità di viaggiare. Per il resto ci sono nuovi progetti in ballo ma è ancora presto per parlarne. 

Sebastiano Kiniger

Photographer: Erica Fava

Make-up: Marialivia Igliozzi @makingbeauty.management

Location: Istituto Superiore di fotografia

Assistenti: Laura AurizziValeria Demofonti

Ludovica Nasti, l’ex amica geniale ora si divide tra film d’autore e serie

Nonostante abbia compiuto da poco 15 anni, la filmografia di Ludovica Nasti è densa di produzioni di notevole spessore, a cominciare naturalmente da quella che nel 2018 l’ha lanciata, appena undicenne, nel firmamento delle nuove stelle della recitazione italiana, L’amica geniale. Sono poi venute altre serie e pellicole, dalla storica soap Rai Un posto al sole al dramma Rosa pietra stella, per continuare con Mondocane, cupo sci-fi dal sottotesto ambientalista, e la seconda stagione di Romulus. Proprio dagli ultimi due titoli è partita la nostra chiacchierata con Ludovica, che ha toccato temi diversi, dai ruoli che le hanno dato di più alla voglia di «mettersi in gioco, di sperimentare», all’auspicio di lavorare con giovani autori talentuosi della sua generazione, che lei crede saprà «dimostrare di sapersi impegnare per il suo futuro, anche nel cinema».



Puoi parlarci di Mondocane Romulus 2, i tuoi lavori più recenti?

Per quanto riguarda Mondocane, presentato in concorso alla Settimana della Critica durante la Mostra del Cinema di Venezia, sono una dei protagonisti insieme ad Alessandro Borghi, Barbara Ronchi e altri giovani attori, è uscito nelle sale e presto – speriamo – su una piattaforma streaming; un bellissimo progetto, con una sceneggiatura di livello.
Sul set di Romulus ho affiancato invece Andrea Arcangeli, Valentina Bellè, Francesco Di Napoli e Marianna Fontana, è ambientato prima della nascita di Roma e si parlava perciò una lingua arcaica, il protolatino. Mi sono ritrovata catapultata in un’altra epoca, con costumi ad hoc e tutto il resto; una nuova sfida, ho cercato di affrontarla al meglio, mi piace mettermi in gioco nei vari contesti, in questo caso c’erano numerose scene d’azione, duelli, momenti emotivi intensi, un’esperienza senz’altro impegnativa ma assolutamente positiva.

A proposito di Mondocane, com’è stato recitare con Alessandro Borghi? Ci sono attori, tra quelli che hai trovato finora sul set, che ti abbiano particolarmente impressionato?

Condividere la scena con Borghi è stato un piacere e un onore, Alessandro prima ancora di essere un attore fenomenale è una bella persona, genuina, simpatica, con me è stato molto carino e si è subito instaurato un rapporto di amicizia, non lo ringrazierò mai abbastanza, mi ha trasmesso davvero tanto, anche a livello umano.
In generale sono del parere che tutti gli attori con cui si lavora ci lascino un’emozione, un qualcosa che ci si porterà dietro come un bagaglio, vale per ogni persona incontrata sul set.

Hai iniziato a recitare quasi per caso, superando un provino per Lila de L’amica geniale tra migliaia di coetanee, ora però hai una certa dimestichezza con il settore, quali pensi siano i lati migliori e quali, invece, i meno positivi di questa professione?

Al momento trovo ci siano quasi esclusivamente elementi positivi, uno svantaggio potrebbe essere rappresentato, forse, dalla quantità e dal tipo di impegno richiesti, sono necessarie dedizione, pazienza e testa, soprattutto alla mia età, in cui bisogna conciliare la recitazione con la scuola; per qualcuno magari può rappresentare un peso, nel mio caso non lo è anzi, mi diverto moltissimo e lo vivo con passione, energia ed entusiasmo.
Un altro difetto, se così possiamo chiamarlo, è la possibilità che una carriera del genere possa rendere una persona troppo sicura di sé, spero di non dover mai fare i conti con questa eventualità, penso sia fondamentale rimanere umili, con la testa sulla spalle.


Embroidered dress | Antonio Marras

Laminated sandals | Salvatore Ferragamo, Mirrored dress | Antonio Riva 


Il tuo idolo e massima ispirazione è Sophia Loren, una leggenda vivente del cinema tricolore, hai altre figure di riferimento oltre a lei?

Adoro Sophia Loren perché credo incarni il grande cinema italiano (e non solo), tra gli altri modelli cito Millie Bobby Brown, Jennifer Aniston, Serena Rossi, ce ne sono tanti comunque, anche perché vedo un sacco di serie e film.

Hai esordito giovanissima ne L’amica geniale, serie evento coprodotta da Hbo e Rai, basata sulla tetralogia letteraria di Elena Ferrante e che, grazie alla fama dei romanzi, ha avuto una risonanza globale. Sono passati tre anni, come valuti a posteriori quest’esperienza?

L’amica geniale mi ha fatto scoprire questo mondo, dandomi l’opportunità di entrare a farne parte e poi di appassionarmene, fino ad amarlo. Sono felice per tutti i bei momenti vissuti, Lila è cresciuta e io con lei, non smetterò mai di essere grata al suo personaggio, mi è entrato sottopelle e continuo a portarmelo dietro. È stato un capitolo della mia vita magnifico, cui sono e sarò sempre legata.

Ci sono ruoli o generi in cui ti piacerebbe cimentarti? Per quanto riguarda i registi, invece, con chi sogni di collaborare?

Non saprei indicare ruoli o generi specifici, vorrei mettermi alla prova con tutto, dai film drammatici a quelli comici agli action, sperimentare insomma il più possibile per capire se determinate parti facciano o meno per me.
Credo che oggi in Italia ci siano tanti registi eccezionali, Martone, Sorrentino, Garrone, Rovere (con cui ho lavorato per Romulus), lo stesso Alessandro Celli di Mondocane, che era stato incluso nella selezione dei titoli italiani da candidare all’Oscar. Mi piacerebbe scoprire autori esordienti di talento con cui fare nuove esperienze, in questo senso più giovani ci sono meglio è, così la nostra generazione potrà dimostrare di sapersi impegnare per il suo futuro, anche nel cinema.




C’è qualche pellicola o serie che ti ha segnato, cui magari sei più legata?

Ci sono talmente tanti film che non saprei scegliere, tra le serie invece Stranger Things.

Frequenti il liceo linguistico, al di là di scuola e recitazione cosa ti piace fare?

Mi piace leggere, per il resto gioco a calcio, faccio un po’ di palestra e mi dedico ai miei nipotini e in generale alla mia famiglia, sono ciò che di più caro ho al mondo e adoro passare del tempo con loro. Fondamentalmente, comunque, quando non sono sul set studio, a volte persino lì.

Tua mamma ha una boutique e l’hai ringraziata perché «è un’ottima stylist», mi chiedevo quale sia il tuo rapporto con la moda, si tratti di red carpet e altre occasioni ufficiali o di vita quotidiana

Penso che la moda sia basilare anche nella quotidianità, in ogni contesto si alternano ormai abiti casual e capi più classici, io sono la prima a farlo, ritengo di non essere né troppo sportiva né eccessivamente elegante. Cerco un equilibrio tra questi due poli, la mamma per fortuna mi capisce al volo, consigliandomi sugli outfit più adatti, che riflettano anche il mio carattere. La moda è presente in ogni nostro passo e, nel mio caso, rappresenta un ambito nuovo e affascinante, nel quale immergersi pian piano sempre di più.

Hai delle novità, lavorativamente parlando, di cui puoi anticiparci qualcosa? Come e dove ti vedi tra dieci anni?

Dovrei iniziare a girare a breve, non posso ancora svelare nulla del progetto. Il cinema è il mio presente, per il futuro non so, vedrò dove mi porteranno cuore e testa, un passo dopo l’altro, al momento mi godo questo percorso recitativo, che mi rende felice.

Photography by Davide Musto 

Production & Styling by Alessia Caliendo 

Creative Direction Filippo Solinas @One Shot Agency 

Hair Kemon 

Make up Eleonora Juglair using Armani Beauty Luminous Silk Primer 

Location Stazione Milano Centrale 

Photographer’s assistants Dario Tucci and Riccardo Albanese 

Stylist’s assistants Andrea Seghesio and Laura Ronga

Cover Look: Total look | Balenciaga  @ Nida Caserta

Special thanks to Bowls and more 

Con Fabio Canino è sempre fiesta!

Fabio Canino, ha fatto la cosa giusta che tutti quanti ci aspettavamo, è tornato a teatro con il suo spettacolo effervescente nonché bandiera gay: Fiesta, dedicato al suo ed al nostro idolo Raffella Carrà.

Proprio nel celebrare i vent’anni dal debutto teatrale, Fabio è tornato in pompa magna alla Sala Umberto di Roma, con un parterre da urlo, da Pippo Baudo che ha ricevuto una standing ovation ad Alessandro Zan, una platea entusiasta che si è scorticata le mani per gli applausi e le mandibole dalle risate, proprio quello che ci voleva in questo momento storico.

Come hai fatto a radunare tutta la royalty dello show biz e non solo in un’unica serata all’anteprima di fiesta.

Beh, diciamo che molti sono amici e sono anche persone che frequento e che stimo tantissimo, sono molto contento e riconoscente dell’affetto che mi hanno dimostrato, quindi diciamo che è stato abbastanza semplice.

Poi c’è da dire che Fiesta erano in molto chiedermi quando lo avrei rifatto di anno in anno, quindi c’era una vera e propria aspettativa.



Primo vero spettacolo a teatro dopo le chiusure, che emozione è stata?

Esattamente così, noi ci siamo fermati a Marzo 2020 proprio alla Sala Umberto con “La piccola bottega degli orrori” con Giampiero Ingrassia, che fortunatamente riprenderemo a Dicembre subito dopo Fiesta, e poi proseguiremo con la tournee in tutta Italia fino a Maggio.

Stavamo lavorando al ritorno di fiesta sin dalla primavera, poi purtroppo Raffaella è venuta a mancare ed abbiamo avuto un momento di titubanza nel proporlo, invece proprio per questo il pubblico ce lo chiedeva ancora di più, perché è proprio l’omaggio giusto.

Lo spettacolo è stato completamente rinnovato nei testi, anche perché le battute di vent’anni fa non tutti le avrebbero comprese.

E si abbiamo dovuto aggiornarlo, un po’ perché deve essere attuale, ed anche per chi lo aveva già visto prima.

Abbiamo scoperto proprio facendolo, nella parte finale, che il pubblico aveva bisogno di questo tipo di messaggio, ci voleva una cosa leggera dove il pubblico si sentisse coinvolto con simpatia, facendo arrivare a teatro persone che magari avevano ancora paura a tornare in sala.

Come ti era venuto in mente di fare questo tributo a Raffa vent’anni fa.

Quando ci abbiamo pensato a suo tempo con Paolo Lanfredini e poi coinvolgendo anche Roberto Biondi, ci prendevano tutti per matti, dicendoci ma figurati un omaggio alla Carrà non sei mica Almodovar, ma io mi son detto se in ogni locale da ballo quando parte una sua canzone la gente si scatena, deve funzionare per forza.

Così è stato, e poi da quando lei stessa ci fece la Carrambata con le telecamere della sua trasmissione il livello di interesse si era triplicato, e da tre settimane che dovevamo fare siamo rimasti sei mesi a teatro con il tutto esaurito e poi una tournee di tre anni senza mai fermarci.



È stato commovente avere Alessandro Zan in sala proprio il giorno dopo della sconfitta della sua proposta di legge al senato.

La cosa buffa è che io non lo sapevo che ci sarebbe stato, e poi quando son rientrato in camerino ho visto il suo messaggio che mi diceva sto arrivando!

In quanto lui mi aveva detto che sarebbe stato in Sardegna per la presentazione del suo libro, poi invece è saltata ed è venuto.

Mi è spiaciuto non averlo salutato, anche perché in questo momento Fiesta è una bandiera gay, è un mettere i puntini sulle i.

Però dopo mi ha detto che si è emozionato nel vedere un pubblico attento a sentir parlare di questi temi con leggerezza.

Hai anche ristampato il libro “Raffa Book”, tu davvero l’hai sempre celebrata.

Si mi sembrava quasi necessario in quanto anche quelli che magari prima l’hanno snobbata ora si informano e vogliono sapere tutto su di lei, ed il libro è la risposta giusta, dove si racconta tutto, da come è nata a chi l’ha aiutata a diventare il mito che è, e che rimarrà per sempre.

Photographer: Davide Musto

Styling: Alessia Caliendo

Styling assistant: Andrea Seghesio & Laura Ronga

Grooming: Chiara Corsaletti Agency

Fabio Canino indossa Levi’s

Vincenzo Vivenzio nel racconto TV di “Luce dei tuoi occhi”

Napoletano DOC, nasce con la passione per la recitazione, sin da piccolo si cimenta in spettacoli, che lo porteranno a traferirsi a Roma, ed intraprendere la sua carriera artistica.

Ora lo possiamo vedere sulla rete ammiraglia di Mediaset Canale 5 con la fiction “Luce dei tuoi occhi”, dove interpreta un poliziotto.

Presto lo vedremo anche al cinema con “Sissy”, ruolo per cui ha dovuto trasformarsi, prendendo svariati chili, ed entrando a piedi giunti nel ruolo di un senzatetto.


@manidelsud @raffaelestella | Blusa e giacca kimono – @zerobarracento | Giacca – @carlopignatelli | Occhio scultura – @lou_duca

Cosa mi vuoi dire di “Luce dei tuoi occhi”?

È una serie Tv che si sviluppa in dodici episodi, con protagonisti Giuseppe Zeno ed Anna Valle, io invece interpreto Mario, un personaggio decisamente lontano da me, poliziotto integerrimo ed alla ricerca continua della verità.

C’è un però, che si scoprirà vedendo la serie, ovvero la sua stima ed affetto e molto probabilmente qualcosa in più nei confronti del suo vicequestore, interpretato da Maria Rosaria Russo. Per lei andrà anche incontro all’infrangere le regole pur di accontentarla.


@manidelsud @raffaelestella
Blusa & giacca kimono @zerobarracento
Giacca & Pantalone @carlopignatelli

La sceneggiatura è tratta da una storia vera?

Si, infatti alla protagonista Anna Valle, fanno credere che la propria bambina sia nata morta, con il dispiacere nel cuore sceglie di trasferirsi a New York, proseguendo la carriera come prima ballerina. Fino a quando riceve un bigliettino con la scritta “Dark Out”, Alice, tua figlia vive a Vicenza e balla come te.

Infatti, abbiamo girato quattro mesi a Vicenza e due a Roma.


@manidelsud @raffaelestella
Blusa & giacca kimono @zerobarracento
Giacca & Pantalone @carlopignatelli

Avevi già lavorato in altre serie televisive?

Sì, questa è la mia seconda volta in quanto prima avevo lavorato su “Nero a metà 2” con Claudio Amendola, interpretando il ruolo di Michele Lizzetto, il prodotto è targato RAI ma ora fruibile su Netflix per chi si fosse perso le puntate.

Molto probabilmente ci sarà anche una terza stagione, ma non so ancora se ci sarò io, in quanto il mio personaggio finisce in un modo che non si sa, quindi tutto è possibile.


In Luce, interpreti un personaggio Napoletano?

La serie prende luogo al nord, a Vicenza come dicevamo, ed io sono il classico poliziotto trapiantato dal sud.

Infatti, quando ho iniziato il primo giorno di riprese il regista Fabrizio Costa, mi ha chiesto conferma se io fossi di Napoli, esortandomi a farlo sentire di più, in quanto mi ero contenuto non sapendo esattamente quale direzione prendere.



Parlami del film che ti vede protagonista “Sissy”?

Trattasi del quarto film del regista Eitan Pitigliani, ed io sono protagonista insieme a Fortunato Cerlino in questo meraviglioso progetto.

È una storia molto forte, in quanto il mio personaggio sceglie di vivere all’estremo della realtà, annullando qualsiasi tipo di contatto esterno, vivendo sotto i ponti.

Abbiamo girato a viale Marconi a Roma, ho dovuto ed ho voluto dormire anch’io li, al punto tale che il mio lavoro è stato talmente intenso che ho avuto difficoltà ad uscire dal mio personaggio per una decina di giorni.

La cosa buona è che il mio ruolo parte dal basso, davvero dagli inferi, per poi arrivare al paradiso.

Photographer – Sabina Felice

Styling – Michele Santoro

Cover total look – @tizianoguardini

Luca Pantini, quando non lo trovate sul set andate a cercarlo su qualche spiaggia sperduta a fare surf

Luca Pantini, romano, ex modello, ha anche fatto parte del concorso Mr. Italia tanti anni fa, ora si gode il suo momento di assoluto successo, soprattutto grazie al suo incontro con Ferzan Ozpetek che ne ha cambiato il destino.

Lo abbiamo conosciuto nel film “La dea fortuna”, poi in svariati spot pubblicitari tra cui quello per le feste natalizie di Unicredit, ed ora lo vedremo presto a teatro con “Mine Vaganti”, tournée che era stata interrotta a causa pandemia. Ma tutti noi lo attendiamo con la nuova serie TV per Disney Plus de “Le fate ignoranti” tratta dall’omonimo film e sempre per la regia di Ferzan. Quando non lo vedete sul set, potete cercarlo su qualche spiaggia sperduta a fare surf, la sua vera passione.



A che punto della tua vita hai deciso di fare l’attore?

Non saprei dire se vi è stato un momento preciso, ho iniziato la mia carriera come modello a soli diciassette anni e nel frattempo ho sempre continuato a studiare recitazione, quello che io chiamo il momento di svolta, è successo cinque anni fa quando per uno spot pubblicitario di Trenitalia sono stato scelto da Ferzan che ne avrebbe diretto la regia.

Cosa è successo dopo lo spot?

E beh è successo che son stato scelto prima per “La Dea Fortuna” il film, dopodiché per lo spettacolo teatrale “Mine Vaganti”, con cui torneremo a breve in scena a dicembre, che è la trasposizione teatrale del celebre film, poi ancora il meraviglioso spot per Unicredit per le feste di Natale, ed ora le serie TV per Disney Plus delle “Fate Ignoranti”, che ha festeggiato i suoi vent’anni dall’uscita in sala.

Senti il peso di essere riconfermato per tanti progetti da Ozpetek?

Assolutamente sì, perché mi rendo conto che il mio cammino professionale è stato di tipo esponenziale, non ho avuto una crescita graduale, quindi il bello viene ora cercando di rimanere al punto in cui mi trovo adesso.



Secondo te perché tutti gli attori vogliono lavorare con Ferzan?

Credo che sia la sua visione dei personaggi che lo differenzia da qualsiasi altro regista, la sua sensibilità nel capire il ruolo giusto per ognuno di noi.

A lui basta guardare una persona per capire quale ruolo sarà, è una dote sicuramente innata la sua, e non sbaglia mai.

E la conferma sono anche i suoi brani che sceglie come colonna sonora dei suoi film, diventano sempre dei successi ascoltatissimi, come recentemente per Diodato.

Invece ora parliamo di teatro, avevi già avuto esperienze prima di “Mine Vaganti”.

È stata la prima esperienza in assoluto, quindi il mio livello di paura è stato folle, sai quando fai la recita da bambino pensi che il teatro sia quello, però poi quando ti ritrovi a debuttare nei più grandi teatri d’Italia, nel momento in cui si apre il sipario ci sono quei tre secondi di vuoto totale, e ti dici: o parlo, o parlo.

Anche perché davanti a te hai tantissime persone che hanno pagato un biglietto per vedere quello spettacolo e non è come al cinema che hai la possibilità di un secondo take, sul palcoscenico è buona la prima e poi senno solo brutte figure.



Come mai la serie “Le fate ignoranti” dopo vent’anni?

Credo che forse ci stesse pensando da molto tempo, ha approfondito quell’italianità e sensibilità che lo ha affascinato al punto di scegliere Roma come sua residenza e che tanto gli ha portato fortuna rendendolo celebre in tutto il mondo.

Ci saranno tanti elementi che sono cambiati, però si rivede sempre il film in una nuova prospettiva. E forse ci sarà anche una seconda stagione, chissà.


Photography by Pier Nicola Bruno

Styling by Irene Lombardini & Miriam De Nicolò

Styling assistant Nicolas Marcantonio

Grooming Fabio Cicerale

Photographer assistant Riccardo Ruffolo

In partnership with NES Nito Electric Scooter www.nitobikes.com

Thanks to CNL 1969 

Cover look: Shirt | Fred Perry T-shirt | Tagliatore Pants | Kiton Sunglasses | Italia Independent

Tancredi: il nuovo volto della musica italiana



Parlando di Tancredi, cantautore salito alla ribalta nell’ultima edizione di Amici, non bisogna lasciarsi ingannare dall’età (20 anni) né dai modi pacati o dall’aria da “bravo ragazzo”, col viso pulito incorniciato da una massa di riccioli. Ha già dimostrato, infatti, di saper dare voce a paure, dubbi e tormenti che costellano il passaggio dall’adolescenza alla vita adulta, raccontandoli attraverso hit da milioni di stream come Las Vegas (doppio disco di platino), Balla alla luna o Leggi dell’universo. Non ha mai nascosto, del resto, ansie e fragilità, indici di una sensibilità fuori dal comune che riversa evidentemente nella sua musica, in cui, come ci rivela, confluiscono ricordi, esperienze e immagini, così da delineare «un proprio universo personale, come in un film».


Total look | Herd

Hai cominciato presto a fare musica, studiando al CPM Music Institute e mettendoti alla prova con strofe e contest. Come e quando ti sei avvicinato a quest’arte?

Intorno ai 12 anni, facevo freestyle con gli amici e ho iniziato a scrivere testi, il primo l’ho composto interamente a cappella, senza una base strumentale; sono partito dal rap per poi evolvere, toccando ambiti musicali eterogenei.

Restando in tema, chi sono i tuoi modelli di riferimento?

Mi lascio ispirare da tracce o autori diversi a seconda della canzone cui sto lavorando, i punti fissi sono sicuramente Drake, The Weeknd, Jaden Smith, la dance anni ‘80.

Quali brani, generi o artisti ti hanno accompagnato nelle varie fasi del tuo percorso?

All’inizio mi rifacevo al rap italiano, ascoltavo Salmo, Gemitaiz e MadMan, quindi sono passato a quello americano e inglese di big come 50 Cent o Eminem, poi a Post Malone: mi ha impressionato per il suo coniugare pop e rap, dando il la un nuovo filone che, partendo da basi rap, esplora i generi più disparati. In fin dei conti uno dei punti di forza dell’hip hop, secondo me, è proprio la capacità di adattarsi a svariati sound.



Potresti descriverci il tuo iter creativo, dalle prime idee alla registrazione finale?

Non mi sono mai dato un metodo preciso, a volte parto da un giro di accordi, altre da una frase appuntata, altre ancora da un vero e proprio concept che sviluppo man mano. Cerco di tenere insieme, nello stesso momento, la creatività pura e la parte più razionale e “rifinita” del lavoro, passando molto tempo in studio: è lì che cerco di portare a termine il processo, concentrando tutto ciò che ho voglia di esprimere.

Come descriveresti la tua musica a chi non l’ha mai ascoltata?

Mi ritengo eclettico nel mio approccio, provo a esplorare strade diverse e sono certo continuerò a farlo, altrimenti mi annoierei. Se dovessi individuare un genere specifico direi il pop, è una sorta di contenitore che comprende tutto, però preferisco non etichettare la mia musica, lo trovo limitante; parla della mia vita, delle esperienze vissute, delle immagini che ho in testa, il bello sta nel mescolare tutto liberamente plasmando un proprio universo personale, come in un film.

C’è stato un momento che hai percepito come un punto di svolta, uno snodo cruciale per la tua crescita artistica?

Sicuramente la prima canzone scritta, più a livello personale che per la carriera in sé, mi ha spalancato un mondo che ho amato all’istante.
È stato fondamentale anche avere il coraggio di prendere lezioni di tecnica vocale, è complicato cantare davanti a una sola persona che è lì per insegnarti. Un’altra svolta è arrivata poi grazie a un professore del CPM, ha riconosciuto il mio talento e mi ha aperto le porte del settore.


Total look | Balenciaga 

A maggio è uscito il tuo primo EP Iride, che contiene hit come Las Vegas, Fuori di testa o Leggi dell’universo, cosa puoi dirci a riguardo?

È un disco in cui è racchiuso il vissuto del lockdown o meglio, dei lockdown, nasce infatti da cose successe in precedenza che, durante quel periodo di pausa forzata, ho avuto modo di elaborare. In Fuori di testa, ad esempio, parlo dell’ultimo giorno di scuola, Iride è una specie di omaggio ai miei amici, alle persone che ho conosciuto e mi hanno reso ciò che sono, Leggi dell’universo è invece una ballad d’amore abbastanza triste. Considero l’EP un mio biglietto da visita, è passato del tempo e ora lo vedo un po’ acerbo, però sono soddisfatto perché, in un momento estremamente complicato, sono riuscito col mio team a portare a termine un progetto musicale degno del nome.

Sei arrivato in semifinale ad Amici 20, a distanza di qualche mese come valuti la tua esperienza nel talent show Mediaset?

Mi ha aiutato sotto molteplici aspetti, dal mantenere un ritmo veloce alla gestione dello stress, permettondomi inoltre di conoscere persone con cui condividevo il sogno della musica e di raggiungere un gran numero di spettatori, mostrando loro ciò che posso e potrò fare.

Vanti numeri di tutto rispetto su Instagram et similia (443 mila follower su IG, 1,6 milioni di like su TikTok) com’è il tuo rapporto con i social? Pregi e difetti, a tuo parere, di questo mondo?

Ho un rapporto particolare con i social, tendenzialmente non li amo perché credo suggeriscano una realtà distorta cui vorrei evitare di adeguarmi, non voglio sottostare a una sorta di obbligo per cui, in sostanza, esisti solo se posti. Vado a periodi, a volte li uso con regolarità, l’importante è che non diventino un obbligo, bisogna fare attenzione perché la vita non è fatta esclusivamente di fasi up e bei momenti, sebbene vengano mostrati quasi sempre quelli.
Il loro maggior pregio penso sia l’immediatezza, l’arrivare subito a una miriade di persone.



Provieni da una famiglia di creativi, tuo padre lavora per una nota maison e la musica non è certo indifferente ai codici fashion, che rapporto hai con la moda? Trovi ci sia un legame tra la cifra distintiva di un cantante e il suo stile, dentro e fuori dal palco?

Dipende dai singoli artisti, ad alcuni piace unire la musica a una certa esteriorità espressa dall’abito, ma non è fondamentale, ci sono cantanti che tengono egregiamente il palco pur non badando troppo all’outfit. Personalmente mi piace combinare queste due dimensioni, sono sempre stato immerso nella moda, mi va di farlo e credo funzioni.

Ci sono capi o accessori che pensi ti identifichino sotto il profilo stilistico? Hai un debole per qualche marchio o designer?

Degli orecchini con le ali che ho rubato a mia sorella, per me esprimono un concetto di libertà, e una collana a catena di chiodi: sono questi gli accessori che porto più spesso, credo mi rappresentino.
Per quanto riguarda i brand, mi piacciono Armani, Issey Miyake e Yohji Yamamoto, però indosso anche Zara, vario insomma, sia a livello di capi che di marchi specifici.

Ci sono novità in arrivo che vuoi anticiparci? Cosa speri ti riservi il futuro?

Le novità verranno svelate a breve, sto lavorando molto e dopo aver passato un periodo davvero tosto, caratterizzato da timori e ansie varie, adesso mi sento bene, come se avessi chiuso un cerchio. Non vedo l’ora che escano i nuovi lavori, sono soddisfatto, penso meritino più di un ascolto.
Per il futuro, spero di avere tanta serenità, non sono sicuro di meritarla ma ne ho bisogno, assolutamente.


Total look | Salvatore Ferragamo

Photography by Davide Musto 

Creative Direction Filippo Solinas @One Shot Agency 

Production & Styling by Alessia Caliendo 

Hair Kemon 

Make up Eleonora Juglair using Armani Beauty Luminous Silk Primer 

Location Stazione Milano Centrale 

Special thanks to Bowls and more 

Photographer’s assistants Dario Tucci and Riccardo Albanese 

Stylist’s assistants Andrea Seghesio and Laura Ronga 

Brand alert: Lorenzo Sabatini Clothing

Lorenzo Sabatini fonda il suo marchio di t-shirt eco-friendly e inclusive. A realizzare la sua collezione, che non ha una referenza stagionale, sono sarte locali e ragazzi con problemi mentali. Dietro Lorenzo Sabatini Chothing, però, si nasconde un progetto solidale che aiuta le missioni umanitarie attraverso la piattaforma to.get.t.here. Le tee, con grafiche disegnate da vari artisti (l’ultimo in ordine di tempo è il tattoo artist e clubber della scena underground berlinese, OHM AR), sono state indossate nella serie Netflix, Summertime 2, dal rapper afro-italiano Tommy Kuti, da Mondo Marcio e dai Murr. 


Uno scatto della campagna Lorenzo Sabatini clothing 2021

Lorenzo, da fashion editor per testate internazionali come Vogue, Elle ed Esquire (ma la lista è più lunga) a fondatore di un marchio di t-shirt: quando hai maturato questa idea?

È tutto avvenuto per caso, anche se non credo che le cose avvengano mai senza un motivo. Massimo Leonardelli, pr romano che negli anni ha collaborato con personalità come Valentino Garavani, Sophia Loren (e ha anche preso parte come organizzatore al Met Gala di Anna Wintour) stava lanciando un progetto solidale di charity dal tocco glamour e mi ha chiesto, con il mio team di collaboratori, di pensare a logo, al sito e alla maglietta ufficiale oltre a chiedermi qualche parere su come impostare il feed di instagram. Poi, mi ha detto: ‘Perché non realizzi delle magliette anche tu?’ e così ho fatto.

Le tee firmate Lorenzo Sabatini Clothing sono realizzate in cotone danese riciclato: quanto è rilevante, la sostenibilità, nel tuo marchio?

È centrale insieme alla sua etica, poiché questo filato lo trovo presso una stamperia lombarda che fa lavorare ragazzi speciali con problematiche legate alla salute mentale, un tema di cui in Italia si parla ancora troppo poco a mio avviso. Tornando al tema ecofriendly, essendo il core della produzione vintage rivisitato che potremmo affermare recupero ‘a km 0’ con l’ausilio di sarte locali posso affermare che esso è un tema piuttosto rilevante.



Inoltre, la stamperia che produce le t-shirt impiega ragazzi con problemi legati alla salute mentale: è un passo verso l’inclusività?

Come anticipavo prima, la filosofia del mio brand non può prescindere da due fattori: business umano/etico e green. Concludo dicendo che la piattaforma solidale di cui parlavo prima, to.get.t.here, dona parte del ricavato delle vendite a varie missioni umanitarie nel mondo e in Italia.

Qual è la filosofia del brand e quale messaggio vuole inviare?

Con estrema umiltà vorrei comunicare quanto sia importante dare una seconda vita ai capi, il mix e match di ricco e povero, le fantasie,  per me è sinonimo di gioia di vivere, empatia, verso la comprensione  del fatto che senza gli altri non esistiamo. La filosofia del brand è la gioia di vivere, la profonda conoscenza di sé, con i nostri demoni e i nostri lati illuminati. È un invito all’introspezione per creare un mondo più solidale.


Uno scatto che rappresenta l’idea di moda di Lorenzo Sabatini: mix and match, creatività e sostenibilità

Nessuna stagionalità ma produzione con cadenza semestrale: è una strategia?

Senza nessuna falsità è ciò che mi posso permettere al momento autofinanziandomi e sono molto soddisfatto. Ad ogni modo se anche le cose, che già stanno andando per il verso giusto, migliorassero, non so se cambierei questo modus operandi giacché è in linea con la scelta green che muove il brand.

Chi sceglie di vestire Lorenzo Sabatini Clothing?

Solitamente la fascia di clienti è molto giovane. Sono ragazze e ragazzi curiosi di vita, sperimentatori, viaggiatori, creativi e molto entusiasti. Grazie.

NOTALEAN – This is not a lean

Notalean nasce dalla volontà di Sipec srl, azienda Bresciana specializzata nel confezionamento conto terzi di alimentari e bevande in barattoli in banda stagnata, nella persona di Samuele Galbiati, di lanciare sul mercato un prodotto realmente nuovo, toccando anche un tema sensibile tra I giovani, come quello rappresentato dalla “piaga” diffusa della Lean.

Grazie all’incontro tra Samuele Galbiati e la coppia di direttori artistici Caterina Adele Michi e Davide Turcati, professionisti con competenze riconosciute acquisite nella fashion e nella comunicazione, guidando il loro staff, si concretizza e “veste” questa idea, scaturendo da subito molto interesse creando così un buzz internazionale.

La recente morte di Juice Wrld dovuta anche all’abuso di lean (una droga a base di codeina e spesso bibite gassate) ci ha portato ad indagare nel passato e scoprire quanti pilastri del mondo urban siano scomparsi per via della sostanza. Da qui l’idea, proporre un’alternativa che mantenga lo stesso elemento estetico, ovvero il colore viola, ma ben lontana dall’essere una pericolosa sostanza ed illegale. This is not a lean.



Il progetto è legato alla passione per la scena trap. Parlatecene.

La scena Trap ha sonorità, bpm e un immaginario vicino al consumatore e fan del lifestyle di Notalean, ma è un errore pensare che sia solo ad appannaggio di questa musica, di questo stile. La trap culture, la musica di Juice WRLD, Future, sono solo un mezzo. Notalean è adatta ad ogni consumatore che apprezza il Gin, i drink dal sapore deciso e che vuole assaporare un gusto nuovo.

Quali artisti state ascoltando? 5 tracce dalla vostra playlist Spotify.

Per proiettarci nel giusto mood la colonna sonora delle nostre giornate di lavoro ultimamente è Slime Language 2, Sky di Playboi Carti, Body In Motion di Dj Khaled, Bryson tiller, Roddy Ritch, Lil Baby, NahNahNah di Kanye West, Spiral di 21 savage, War di Drake.



Qualche Ambassador del brand. Li menzionereste? Perché avete scelto questi volti? Cosa rappresentano per voi?

Attualmente stiamo proponendo il prodotto ad artisti e personaggi importanti che sicuramente apprezzano il drink. Gli Slings, Bianco Mat e molti altri. Questi fanno parte di mondi totalmente diversi tra loro, dal dj trap a quelli della TechnoCulture, allo stylist, dal musicista indie all’artista contemporaneo, dal bartender allo sportivo. A breve verranno lanciate vere e proprie iniziative per la nostra community che sta crescendo, non abbiamo veri ambassador, ma amanti della Notalean.

Parallelamente è nato un magazine di lifestyle collegato al progetto. Cosa propone?

Notaleanmag è un contenitore di lifestyle. Stiamo creando attorno alla Notalean una community che si occupa di condividere l’immaginario, le influenze e gli interessi più freschi. Sicuramente la creazione di alcune playlist è sola la punta dell’iceberg delle iniziative previste volte a creare interesse e informazione intorno alla Notalean. L’obiettivo è quello di coinvolgere i fan del prodotto in esperienze e situazioni sicuramente gradevoli.



Un’anteprima succulenta che vi riguarda?

Sono in cantiere collaborazioni moooolto interessanti e decisamente di grande portata. Siamo scaramantici, vi invitiamo a seguirci sui nostri canali (Ig, tik tok, Fb, Spotify ..) per scoprirle.

Descrivete i vostri prodotti.

Notalean è un prodotto nuovo nel suo genere, una bevanda alcolica (gradazione 11%) a base di gin e succo di mirtillo, confezionata in lattina da 200 ml e venduta in box in banda stagnata per essere così, senza compromessi, totalmente sostenibile dal punto di vista ambientale perché realmente Plastic-Free. Dirompente e unica nel gusto e nel colore, da gustare liscia o accompagnata a distillati, toniche e addirittura Champagne.



Qual’è la vostra ambizione più grande?

Nel nostro piccolo vorremmo che Notalean fosse ricordata non solo come una bevanda … anche se farla assaggiare ad Asap Rocky o Future non sarebbe male come obiettivo.

Beauty tips: il make up secondo Simone Belli

Ph. Davide Musto 

Ass. Ph. Angelo de Marchis 

Grooming Raffaele Schioppo @simonebelli agency

Jewels @anihma.it   

@marcodelucagioelli 

Fin dai primi anni di studio, Simone Belli manifesta una grande passione per l’arte e la bellezza. Il suo percorso culturale inizia con studi d’arte e umanistici dove consegue eccellenti risultati per poi proseguire con un diploma magistrale che lo aiuterà, nel tempo, a svolgere il suo ruolo di “insegnante della bellezza” con estrema maestria.
La spiccata vena creativa e la determinazione nel voler emergere nell’ambiente artistico del beauty, lo vedono conseguire moltissimi attestati, quali quello di truccatore estetico e cinematografico, in aggiunta ai numerosi corsi di formazione presso importanti case cosmetiche a cui si affiancherà anche come consulente interno.

Dal cinema al teatro, dalla televisione alla moda passando per musica e arte, scopriamo di più su di lui nella nostra conversazione…



Raccontaci il tuo percorso, come nasce la passione per questa professione?

Questa passione non l’ho scoperta improvvisamente ma l’ho sempre avuta sin da piccolo, chiesi a mia mamma di comperarmi la bambola ‘truccami’ ed avevo forse 8 anni. Io e il trucco ci siamo scelti da sempre, è il mio primo grande amore.  Ho sempre amato il mondo dell’arte, sin da piccolo disegnavo e organizzavo il “circo” nel quartiere di casa truccando i compagni da pagliacci.
Poi ho iniziato un percorso artistico ma il trucco mi ha sempre sedotto, amavo vedere donne cambiare con il make up e sorridere davanti allo specchio. Le prime esperienze me le ricordo ancora con grande affetto, truccavo a concorsi di bellezza con i trucchi di mia mamma e per raggiungere le città facevo l’autostop. Poi è arrivata la moda, Fendi e poi Biagiotti; avevo 20 anni, ero un ragazzo semplice ma con un grande amore per questo lavoro.

Sei un punto di riferimento per molte star del cinema e della televisione, è difficile conquistarle ogni volta con i tuoi beauty look? 

Credo che alla base di una conquista ci sia il saper ascoltare gli altri e capirne la parte più intima, io sono un bravo ascoltatore. Amo le donne e loro e loro lo sentono. Oggi le star italiane sono anche mie amiche, c’è complicità. Con quelle internazionali è sempre una nuova sfida, ma amo provare con loro l’emozione della prima volta.

Come sta evolvendo il tuo mestiere in questo periodo, quali sono le maggiori difficoltà nel quotidiano?

Si sono sviluppate molte attività social ed amo essere complice di bellezza anche di tutte le mie follower. È difficile lavorare sui set perché sono sostenitore della sicurezza ma sono anche un privilegiato. Da quando ho iniziato, il mio mestiere è cambiato tantissimo e anch’io mi sono adeguato a sistemi lontani dalla mia visione ma credo che, trovandone la giusta chiave di lettura, tutto può essere interessante.

Sei anche ambassador di Actionaid, raccontaci del progetto…

Quando mi hanno proposto questa collaborazione ne sono stato lusingato e felice, le donne sono al centro della mia vita e poterle sostenere in modo più attivo mi fa soltanto onore. Sono una persona estremamente sensibile e odio la violenza. Questo inverno sarà ancora più a sostegno delle donne, stiamo infatti definendo nuove progetti in loro favore. Le donne mi hanno donato davvero tanto nella vita e mi piace essere utile per proteggerle in questo senso.



Quale consiglio daresti ad un giovane che vuole intraprendere il tuo percorso professionale?

Il mio lavoro come tutti i percorsi artistici non esclude l’idea di avere una base accademica. Non si deve pensare a questo mestiere come un ripiego, per farlo ad alti livelli sono necessari studio e formazione continua. Bisogna partire con l’idea di sacrificarsi e non essere ossessionati dal guadagnare tanto e subito. Inoltre, per riuscire bene, bisogna amare prima se stessi per poi truccare gli altri e infine imparare a lasciare a casa i problemi. L’empatia in questo campo è fondamentale, bisogna trasmettere sicurezza e tranquillità.

Quali sono i must have nel trucco dell’estate attuale?

Incarnato super nude, illuminare senza coprire e un gioco di colori. Le donne finalmente possono riprendere a sfoggiare le labbra con rossetti o gloss (complice la libertà da mascherina all’aperto). Per gli occhi vanno gli azzurri e i viola ma in generale colori scintillanti, una ribellione cromatica che riflette il nostro stato d’animo attuale.

Quali sono i prodotti essenziali che una donna deve avere nel suo beauty?

Un rossetto rosso e un correttore.


Quali invece dovrebbe avere un uomo…

Ho creato una mousse correttiva sia per uomini che donne, in un istante il viso è riposato e le imperfezioni eliminate: un primer di lusso! 

Progetti imminenti e desideri per i prossimi mesi?

Sono al lavoro sul prossimo Festival di Venezia e per la Fashion week di Milano. Inoltre partirà anche un contest sul mio canale Instagram in cui darò la possibilità ad alcune donne di farsi truccare da me. Saranno protagoniste per un giorno e racconterò il beauty tramite loro. Ultimo ma non per importanza, ritorna il concorso per giovani ed ambiziosi truccatori, pronti a sfidarsi in tv per entrare a far parte del mio team: proprio una delle vincitrici dello scorso anno oggi lavora con me. Credo nei sogni e in chi si batte per raggiungerli.

Il percorso artistico del ballerino e attore Christian Roberto, dai musical a Netflix

Ph: Davide Musto
Assistente ph: Dario Tucci

Il percorso di Christian Roberto si snoda tra danza e recitazione, due totem per il 19enne messinese, astro nascente della new wave italica. Dopo un precoce esordio in Italia’s Got Talent e la perfomance “sdoppiata” nel musical Billy Elliot (in cui interpretava sia l’omonimo ballerino che l’amico Michael), colleziona ruoli in fiction (Baciamo le mani o La vita promessa) e al cinema, da I poli opposti a Grotto fino alla grande occasione di Sulla stessa onda, pellicola drammatica di Netflix di cui è protagonista con Elvira Camarrone; una parabola artistica destinata, con ogni probabilità, a procedere spedita.



Nasci come ballerino, ben presto hai iniziato a recitare e poi ti sei diviso fra teatro, serie e cinema, c’è un’attività tra queste che prediligi, su cui vuoi concentrarti, oppure preferisci non fare distinzioni?

«Porto avanti in parallelo queste attività fin da piccolo e vorrei continuare a farlo, dedicandomi alla danza come alla recitazione; in generale preferisco il musical che le tiene insieme, però mi trovo bene con entrambe».

Sei co-protagonista del film Netflix Sulla stessa onda, vuoi parlarcene più nel dettaglio?

«Ho saputo del provino a Los Angeles e l’ho sostenuto subito dopo il rientro dagli Usa, in realtà non sapevo si trattasse di un film Netflix. Comunque è andata bene, ne ho fatti in seguito altri cinque e fin dall’inizio c’era la mia partner sullo schermo, Elvira, come coppia siamo piaciuti subito e alle fine hanno scelto noi. Un’esperienza incredibile, poter lavorare per una piattaforma del genere in un ruolo da protagonista è un sogno avveratosi, inoltre abbiamo girato nella mia Sicilia, un vero onore. È stato entusiasmante, tutti i giorni al mare in vela, tra l’altro né io né Elvira sapevamo andarci e abbiamo dovuto imparare nel mese di training prima delle riprese. Per non parlare poi di quanto è venuto dopo, l’ottima accoglienza, il successo e così via».


Hai 19 anni ma nel tuo curriculum annoveri già numerose esperienze, ce n’è una cui sei particolarmente legato?

«Sicuramente Billy Elliot, una delle esperienze che più mi hanno fatto crescere. Esibirsi al Sistina è stato davvero emozionante, senza contare che il titolo in sé è sempre stato un mio sogno, conosco a memoria il film e non appena il musical è arrivato in Italia, ho fatto le audizioni, ritrovandomi in tournée nei successivi due anni, una grande scuola. D’altronde sul palco non è come sul set, quando sbagli non puoi rifare daccapo la scena, devi recuperare velocemente in altro modo, essere reattivo.
Lo porto nel cuore, tra l’altro mi è valso il premio come miglior attore non protagonista agli Oscar italiani del musical del 2016, che ho ricevuto da Christian De Sica; quella sera ero l’unico minorenne e sono poi rimasto l’unico under 18 ad averlo ottenuto, in competizione con i miei maestri, non mi sembrava vero».

Come ti sei avvicinato alla danza? E oggi come la vivi?

«Da piccolo mio padre mi portava a calcio, come sport mi piaceva ma la cosa che preferivo era il goal, non tanto per il risultato quanto per la possibilità di esibirmi in una specie di coreografia; resosi conto che amavo la danza, mi ha quindi segnato a una scuola vicino casa, che ho poi cambiato per dedicarmi a stili diversi. Otto anni fa, infine, mi sono trasferito a Roma, proseguendo qui gli studi».



Total Look WE ARE DREAMERS

Il passaggio alla recitazione quando e come è avvenuto?

«La mia prima esperienza è stata da bambino la partecipazione a Italia’s Got Talent, dopo avermi visto un’agenzia ha contattato i miei per farmi proseguire nello spettacolo e, sebbene non sapessi di avere doti recitative o canore, abbiamo accettato la proposta. Il primo provino è stato per il musical La Bella e la Bestia, evidentemente hanno visto qualcosa in me, sono stato scritturato con tanto di corso di un mese (recitazione, canto, danza…). Ho passato quindi otto mesi al Teatro Brancaccio, appassionandomi a questo mondo, da allora non mi sono più fermato».

Il tuo mito è Michael Jackson, ora che la tua carriera è ben avviata ci sono altri artisti che ammiri, con i quali sogni – chissà – di lavorare?

«Sono un fan assoluto di Jim Carrey, conosco a menadito i suoi film, per le scene di Michael in Billy Elliot (che nel musical hanno reso più divertente rispetto al film) mi sono ispirato proprio a lui, rendendo questo ragazzino folle e iperattivo. Mi piacerebbe, un giorno, avere una parte comica in stile Carrey, dovendo fare due nomi direi dunque lui e Michael Jackson per la danza».


Descrivici la tua giornata tipo

«Quest’anno mi sto focalizzando sulla danza, piuttosto che frequentare un’accademia preferisco variare, scegliendo volta per volta gli insegnanti, così da essere il più versatile possibile e sperimentare stili differenti. La mia giornata tipo prevede sostanzialmente gli allenamenti, poi cerco di ritagliarmi momenti per gli amici. Giugno, inoltre, è un periodo di provini, ne sto facendo diversi».


Che rapporto hai con la moda?

«Mio padre, a Messina, aveva un negozio di abbigliamento di gran tendenza, molto noto perché assortiva capi decisamente particolari, stravaganti, soprattutto per una piccola città. Sono cresciuto con la moda e la mentalità è rimasta quella, mi piace vestire in un certo modo».



Hai dei brand o designer di riferimento?

«Dipende dal contesto, passo dalla tuta Nike all’abito, ad ogni modo non mi soffermo troppo su specifici marchi, ho dei must che indosso di continuo, su tutti il chiodo di pelle (sempre e comunque), apprezzo anche le sneakers più ricercate e a livello di brand nomi come Supreme. In sostanza mi piace essere alla moda, scovando però dei pezzi con i quali posso distinguermi».


Cosa ci dici dei progetti futuri, hai un sogno nel cassetto?

«Non posso dire granché, sono alle ultime battute per un film che verrà girato a ottobre, nel caso andasse a buon fine si accavallerebbe con un altro progetto e dovrò scegliere. Spero in generale si torni regolarmente al cinema, con il pubblico in sala a guardare magari un mio film».

Andrea Offredi: il messaggero di Maria torna a fare il modello per Man In Town

Fotografo: @alissonmarks_photographer

Styling: Stefano Guerrini @stefano_guerrini

Assistenti: Giulia Basile e Laura Grandi @giuliabras e @lauragrandi

Grooming: Francesca Lana @lanaf_makeup

Model: Andrea Offredi @Urbn Models @andrea.offredi

Ci sono trasmissioni televisive che regalano facilmente notorietà, e non vi devo dire io che fra queste ci sono sicuramente gli show che hanno per protagonista Maria De Filippi, capace come pochi a puntare i riflettori su figure spiritose, interessanti, complesse. Andrea Offredi, da ospite di uno dei salotti di Maria a presenza costante dello show del sabato sera per eccellenza, dove come messaggero degli inviti e delle buste della presentatrice ha saputo ritagliarsi un suo spazio, una sua costante televisiva. E per uno che ha iniziato per caso anni fa a fare il modello è un bel percorso, ricco di soddisfazioni, ma che Offredi spera porti a nuovi impegni e traguardi. Intanto con noi sul set ha deciso di giocare con la sua immagine, divertirsi un po’ e cambiare stile. I risultati sono davanti ai vostri occhi ed è indubbio che dietro la faccia da simpatico latin lover, Andrea nasconda molte sfaccettature, capaci di regalarci sorprese e in futuro, chissà, magari non solo sul piccolo schermo.

Come ti sei avvicinato al mondo dei media e della televisione e quale il momento più gratificante fino ad ora?
Al mondo della Tv più che avvicinarmici, sono stato avvicinato un po’ casualmente. Un autore mi notò anni fa, già lavoravo nel mondo della moda come modello a Milano, e mi fece un provino, andò bene e così ebbi l’opportunità di conoscere Maria De Filippi. Di momenti e ricordi gratificanti ne ho diversi. Il passaggio al sentirsi dire: ”Sei bravo” e non solo “Come sei bello”, per me è stato uno di quei momenti davvero gratificanti.



Te lo avranno chiesto in molti ma lavori da anni con una delle figure più famose della TV italiana, come ti trovi con Maria De Filippi?
So di essere molto fortunato e sono molto orgoglioso di lavorare per la signora Maria De Filippi. Mi piacerebbe lavorare ancor più a stretto contatto, per poter imparare di più da lei.



Cosa è l’eleganza per te? Chi è elegante?  
Eleganza per me significa sapersi comportare in ogni situazione con educazione e naturalezza. Elegante è chi ostenta meno di quanto ha e chi parla meno di quanto sa.

Cosa non può mancare dal tuo guardaroba e cosa ti piace indossare?
Ultimamente mi piace molto indossare pantaloni con le pence e magliette a girocollo e giocare a sdrammatizzare i miei outfit con sneakers colorate. Diciamo uno stile urbano non troppo sportivo, ma neanche troppo ‘dress up’. 




Città preferita e perché?
Città preferita è quella che ancora non ho visitato! Durante l’anno mi piace vivere in grandi città. La dinamicità delle metropoli mi fa sentire al centro del modo. 




La tua beauty routine, che prodotti usi?
Sono attento alla mia beauty routine. Cerco sempre di scegliere prodotti naturali. Di base per il viso uso detergente neutro e crema idratante. 


Total look Andrea Pompilio

Un libro, un disco, un artista da consigliarci?
Vi consiglio “Open. La mia storia” di Andre Agassi. Davvero una bella biografia. Mi piacciono storie come queste da cui si può imparare molto da un punto di vista umano, ma che sono anche, parlando di un grande campione, molto avvincenti. Vi consiglio due album diversi fra loro, ma di due nomi davvero top, “Playing the Angel” dei Depeche Mode e “Testing” di A$AP Rocky.



Sogni e progetti per il futuro?
Sogno di diventare milionario, anche se dicono che i soldi non fanno la felicità.

Recitazione, moda, social: il talento prismatico di Fabius

Ph: Martina Chiapparelli

Hair: Idola Saloon Roma

22 anni, radici francesi ma attitudine cosmopolita, Fabius ha una creatività prismatica che riflette un approccio vitalistico all’arte in senso lato. Il suo carattere entusiasta lo spinge ad abbracciare con un’energia straripante, piuttosto contagiosa, la recitazione come pure la scrittura, la moda e il rapporto con i (tanti) follower, coinvolti in un dialogo ininterrotto che tocca spesso argomenti sui generis, dalla legge dell’attrazione alla mindfulness; nel mentre, si impegna per emergere nel cinema, per cui prova da sempre un amore incondizionato.

Lavori come modello e basta scorrere il tuo profilo Instagram per intuire quanto tu sia interessato a questo mondo. Cos’è per te la moda?

«Una grande forma d’espressione, sono convinto ci si possa esprimere attraverso l’abbigliamento e dunque presto attenzione alla ricerca dei capi senza farmi influenzare troppo dalle tendenze, mi appassionano le cromie, i possibili abbinamenti ecc.
Tempo fa avevo un blog – Oblivioncoffee – tra i più seguiti in Italia, gran parte delle persone che ora mi seguono su IG (che l’ha soppiantato) vengono da lì, magari apprezzano il mio rifuggire l’omologazione; penso valga anche per il cinema, ovviamente ho dei modelli di riferimento ma mi sforzo di distinguermi, di rendermi autentico in ogni sfumatura caratteriale, in tutto ciò che faccio e sono».



Come descriveresti il tuo stile?

«Innovativo, sebbene non sia un eccentrico credo la differenza stia nel dare un’impronta personale ad abiti non per forza estrosi o coloratissimi, aggiungendo dettagli alla mise o ricorrendo a tutto ciò che può differenziarci. Di base vesto casual, però mi piace usare tessuti particolari quali il lurex, ad ogni modo il discorso cambia a seconda del momento.
Sono camaleontico, una caratteristica che riverso anche nel percorso attoriale: può darsi, ad esempio, che esca in cappellino e sneakers perché sto sostenendo i provini per interpretare un ragazzino. Definirei il mio stile imprevedibile oltre che innovativo, muta adeguandosi alle esigenze recitative, assorbendo i tratti del personaggio».


Hai dei marchi preferiti? Ci sono capi o accessori cui non potresti rinunciare?

«Jacquemus e Louis Vuitton sono i due brand che riflettono al meglio il mio stile tendenzialmente ‘70s. Un capo cui proprio non rinuncio è il jeans, un bel paio di denim pants ampi credo facciano la loro figura con tutto».

Hai cominciato da giovanissimo a teatro, poi il trasferimento a Firenze per la scuola di cinema Immagina, il primo film e tanto altro. Riavvolgendo il nastro, quali sono le tappe di questo percorso che ricordi con maggior piacere?

«Mi sono trasferito a Roma proprio perché il sogno era – è – affermarsi nel cinema, ho iniziato da poco ma sono già arrivate occasioni importanti, anche per Netflix. Tra le esperienze migliori cito la masterclass diretta da Muccino o quella con Anna Gigante che mi ha poi segnalato a Sorrentino, è stato prezioso ricevere dei feedback da registi di tale livello. Tutti i set sono stati significativi, dai corti al film Re minore, che ha vinto il Festival Internazionale del Cinema di Salerno».




Hai citato la Nouvelle vague come genere di riferimento…

«Non posso non menzionare Godard, se penso ai dialoghi, ai tagli, ai piani-sequenza di Fino all’ultimo respiro… Inoltre amo Parigi, che nella pellicola è quasi un personaggio, al pari di Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo. Poi Truffaut, mi vengono in mente le citazioni felliniane di Effetto notte. La Nouvelle vague racchiude l’essenza del tipo di cinema che amo, un mezzo per conoscere tante realtà eterogenee, per allargare gli orizzonti».


Ci sono serie che catturano la tua attenzione?

«Mi sembra che cinema e tv odierni siano proiettati verso una dimensione più inclusiva, predisposti ad accogliere nuovi volti e storie, ne sono felice, pur avendo iniziato da poco posso concorrere a ruoli per piattaforme come Netflix; noto, insomma, una freschezza che ritengo peculiare di questo periodo. Apprezzo le serie, ma sinceramente guardarle a casa di continuo fa perdere loro un po’ di valore, non nego che sarebbe fantastico prendervi parte ma ad ora, se dovessi scegliere tra un serial dal grande seguito o un film non avrei dubbi, preferirei il secondo».


Parlando di attori e registi, chi apprezzi di più?

«Joaquin Phoenix, Pierfrancesco Favino e Belmondo, tra i registi apprezzo Özpetek per le sue storie coraggiose, Muccino per La ricerca della felicità… Comunque cerco di non legarmi ai singoli attori, trovo un po’ fuorviante il concetto alla base, nel senso, riconosco tutto ciò che alcuni artisti sanno regalarmi, preferirei tuttavia non menzionarli troppo, lasciare dentro di me uno spazio che non sia influenzato dal nome ».


Su Instagram e Clubhouse affronti spesso argomenti singolari, specie per il medium: fisica dei quanti, meditazione, consapevolezza ecc., vuoi parlarcene?

«Su Instagram mi divido tra outfit, contenuti fotografici e professionali, cioè una parte di me, come lo sono la legge di attrazione o la teoria dei quanti, perciò durante le dirette dedicate, con vari ospiti, ci confrontiamo sull’avere un atteggiamento mentale proattivo, sulla gratitudine, sul dare rilievo alle cose positive. Sono felice che argomenti simili abbiano ottimi riscontri, capita che intervengano personaggi come Stash dei The Kolors o Biagio Antonacci, oppure colleghi attori più o meno affermati: li invito a parlare delle proprie esperienze, del prendersi cura di sé, li coinvolgo in letture motivazionali e così via.
Su Clubhouse con la mia community (loro si definiscono Soulsfires) cerchiamo di capire come affrontare le negatività e lavorare su di noi senza lasciarsi condizionare dai giudizi, reagendo sempre e comunque a quanto ci succede; ne parlo come un ragazzo di 22 anni che invita chi ascolta a sfogarsi, a porsi in una determinata maniera, riuscendo ad aggregare persone di varie età; possono ascoltare e condividere perché non è uno spazio solo mio, dò volentieri la possibilità agli altri di raccontarsi».


Tre aggettivi che ti rappresentano.

«Camaleontico, creativo, riflessivo».




Su quali progetti stai lavorando ora, e cosa sogni per il futuro?

«Sono alla fine di una selezione per un personaggio inglese con accento francese. Mi piacerebbe partecipare al Festival di Venezia, mi era stato proposto in qualità di influencer però ho rifiutato, desidero arrivarci come attore. Quello che gli inglesi chiamano purpose per me è senz’altro la recitazione, non per il successo – più o meno effimero, piuttosto per la soddisfazione data dall’emozionare il pubblico; vedo ogni personaggio come un regalo, io in primis voglio arricchirmi, costantemente. Ho un forte senso di giustizia e odio i pregiudizi, vorrei arrivare a esser bravo abbastanza da non giudicare i personaggi interpretati, così che chi guarda possa fare altrettanto.
Poi mi attirano anche regia, inquadratura e composizione dell’immagine, al momento sono alle prese con una sceneggiatura che non so ancora come evolverà; avverto l’urgenza di comunicare, credo che ciascuno possa trasmettere qualcosa, non si tratta di ego o voler passare alla storia, quanto di amare ogni forma di arte, dalla scrittura alla recitazione. Vorrei continuare a esprimermi, a raccontarmi, ho questa sorta di furia vitalistica che spero di riversare sullo schermo, regalando emozioni agli altri».

Tra medicina estetica e chirurgia, in dialogo con il Dott. Emanuele Bevilacqua

Stare bene con sé stessi, piacersi ed essere in armonia con la propria mente, sono fasi della vita collegate tra loro che rispondono ad un’unica esigenza : la salute completa dell’individuo. Il concetto di bellezza ovviamente è relativo, ma diventa universale quando lo si associa al rapporto intimo col proprio corpo: quando una persona si sente bella, infatti, acquisisce sicurezza in sé stessa ed è in grado di modificare anche il suo stato di salute interiore.

Medicina e chirurgia rientrano in questo discorso come strumenti utili a raggiungere la bellezza esteriore e il benessere interiore, ma quando si parla di trattamenti estetici, è bene specificare la differenza esistente tra medicina estetica e chirurgia. La prima oggi più che mai è davvero molto ricercata rispetto agli interventi chirurgici sia per la facile fruibilità, ma anche perchè si tratta di procedimenti reversibili che non comportano l’ingresso in sala operatoria.

Ecco il nostro approfondimento con il Dott. Emanuele Bevilacqua, chirurgo e medico estetico portavoce di un concetto di bellezza naturale e non stereotipata.


Il Dott. Emanuele Bevilacqua, chirurgo e specialista di medicina estetica
Credits Emanuele Bevilacqua

Come ti sei avvicinato a questa professione, hai sempre saputo che era il lavoro per te?

Sin da quando ho memoria ho saputo di voler fare il medico, di voler mettere al servizio degli altri tutto ciò che era in mio possesso in termini di scienza e coscienza. Ricordo da piccolo alla classica domanda: “cosa vuoi fare da grande” io rispondevo con decisione e fermezza che avrei svolto questo lavoro.

La tua concezione di bellezza…

La bellezza è un’idea, che diviene reale se sono rispettate regole di armonia e proporzioni. Un corpo umano è bello se armonico, se tutte le parti che lo compongono sono in sintonia.

Chirurgia vs medicina estetica, cosa sono e quando ricorrere all’una o all’altra?

Sono due facce di una stessa medaglia ed entrambe nascono per rispondere ad una richiesta, un’esigenza: quella di migliorarsi.
È una domanda che mi viene rivolta molto spesso, soprattutto dai pazienti, e mi sento di dire che entrambe sono un percorso da intraprendere con il professionista scelto, che abbia le capacità e la sensibilità di prendere per mano il paziente e insieme raggiungere il risultato sperato.

Che rapporto hanno con la bellezza gli uomini che si rivolgono a te? Quali trattamenti ti chiedono di più?

Un tempo l’uomo che si rivolgeva al mondo della medicina estetica lo faceva quasi con vergogna, come se stesse cedendo a qualcosa di effimero, un settore che per lungo tempo è stato ad appannaggio del mondo femminile.
Oggi non è più così, l’uomo vuole piacersi e piacere. Vuole essere informato dei cambiamenti e delle novità che via via si presentano nel panorama della medicina estetica. I trattamenti più richiesti sono peeling e biorivitalizzazione, botox, trattamenti lipolitici per le adiposità localizzate.

Quali invece molto gettonati per le donne?

Anche le donne amano prendersi cura del proprio volto prevenendo spesso i segni del tempo con peeling e biorivitalizzazione. Un trattamento molto in voga nel mondo femminile è lo skin lift non chirurgico per il lato B (un protocollo ideato dal Prof. Maurizio Ceccarelli, Direttore dell’International Centre for Study and Research in Aesthetic and Physiological Medicine.)

La tua professione ti porta a vedere sempre qualcosa da cambiare negli altri?
Giammai! (Ride) Ciò che dico sempre ai miei pazienti è: non ostinatevi ad essere qualcun altro, siate la migliore versione di voi stessi!

I tuoi progetti per i prossimi mesi…

Credo molto nel lavoro di equipe, dove ognuno apporta la propria conoscenza, competenza e soprattutto la propria professionalità.
A tal proposito è da un anno che collaboro con il Dr. Andrea Scoccia (odontoiatra) sul progetto Smile, per un approccio studiato e calibrato all’un terzo inferiore del volto. Ancora una volta capirai come per me la forma è sostanza, non c’è estetica senza salute in primis.

La recitazione per Michele Ragno: un’arte da vivere intensamente, tra cinema e teatro

Ph: Dario Tucci

Ass ph: Edoardo Russi

Sono sufficienti poche battute con Michele Ragno per rendersi conto che, per l’attore 25enne, la recitazione sia una pratica in cui immergersi completamente, da perfezionare attraverso studio, dedizione e disciplina, e al contempo una questione di pelle, quasi un’urgenza personale. D’altra parte, il suo cursus honorum è lì a dimostrarlo: dopo gli studi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico, ha lavorato con autori di rango, districandosi tra opere teatrali classiche, pièce moderne, tv (da 1994 a La stagione della caccia) e ora cinema con il film School of Mafia. La sua è dunque una traiettoria artistica in fieri, che spera possa permettergli di «mettersi in gioco e continuare a imparare».

Hai studiato all’Accademia per poi inanellare varie esperienze teatrali, tra cui uno spettacolo con Marion Cotillard. Cos’è per te il teatro, puoi raccontarci il tuo percorso in quest’ambito?


«Il teatro è dove tutto è cominciato, ho iniziato a sette anni e non mi sono più fermato. Dopo il liceo ho proseguito all’Accademia, lì ho capito che nulla viene lasciato al caso, ci sono dinamiche precise che necessitano di studio e disciplina; e ancora, ho incontrato registi come Emma Dante o Bob Wilson, la prima in particolare ha lavorato tanto su di me, cercando di decostruire e ricostruire, scavando, insistendo sui limiti corporei, aiutandomi a toccare corde che neppure conoscevo.
L’esperienza con Marion Cotillard è stata davvero emozionante e d’impatto, abbiamo recitato in piazza al Festival di Spoleto, davanti a 3000 persone. Lei è un’attrice estremamente sensibile, magnetica, riesce a farti vibrare qualcosa dentro, a volte mi sedevo nella platea e, semplicemente, mi abbandonavo alle sensazioni che sa trasmettere»



Al momento a quali progetti stai lavorando?

«A un riallestimento di Uomini e topi di Steinbeck, che presenterò insieme alla compagnia dell’Accademia al Festival di Spoleto».

Sembra si stia tornando alla normalità anche nel settore artistico, con cinema e teatri aperti e la ripresa di festival, rassegne e quant’altro. Ti chiederei, ex post, come hai passato il lockdown e come vivi ora la ripartenza.

«All’inizio è stato difficile, ho cercato di tenermi in allenamento, leggendo più del solito, praticando yoga, concentrandomi sulla respirazione, lavorando in sostanza sia sul corpo che sulla mente.
Ho poi avuto la fortuna di vivere la prima esperienza cinematografica in estate, subito dopo la chiusura, un’opportunità grandiosa».



Il film in questione è School of Mafia (attualmente al cinema), che declina in un’inedita chiave comico-grottesca un tema ampiamente esplorato quale la criminalità organizzata. Vuoi parlarcene?


«È un film comico dalle sfumature western; affronta un argomento assai delicato, trattandolo però con intelligenza, così da screditare la mafia, toglierle ogni forza attraverso la commedia, descrivendola come un anacronismo, un mondo bigotto e goffo. Per fare ciò, ricorre all’esempio di tre giovani figli di boss, che non intendono seguire le orme criminali dei genitori, contrapponendosi alle pratiche opprimenti e obsolete della mala. Girare School of Mafia è stata una fortuna in un momento complicato, per me ha rappresentato sul serio una scuola con diversi veterani dello schermo, un’esperienza travolgente sotto ogni aspetto. Sul set, insieme a Giuseppe Maggio e Guglielmo Poggi, ci ritrovavamo spesso in situazioni comiche, quindi bastava abbandonarcisi, vivere tutto con naturalezza».

Sei nel cast (d’eccezione) della nuova serie Rai di Bellocchio Esterno Notte, puoi dirci qualcosa in più?
«Il mio è un piccolo ruolo: sarò Franco Tritto, l’assistente personale di Aldo Moro, e ho avuto l’onore di lavorare al fianco di Fabrizio Gifuni (che interpreta il presidente Dc rapito dalle Brigate Rosse, ndr), attore meraviglioso da cui ho imparato moltissimo; anche nelle sue pause, si percepisce il modo in cui vive, in cui diventa il personaggio di turno, e questo aiuta chi gli sta intorno a porsi in una determinata maniera, detta il ritmo agli altri anche solo con la gestualità. Con lui si è creata un’energia comune che ci ha permesso di condividere appieno la scena, sono davvero contento di averlo visto all’opera».




Hai preso parte a diversi serial, da Il miracolo a 1994, a quali esperienze sei più legato?


«Ne Il miracolo avevo una parte minore, brevissima, in un flashback di Marcello/Tommaso Ragno, la porto comunque nel cuore perché è stata la prima in assoluto in tv.
In seguito ho girato 1994 e La stagione della caccia (parte di un ciclo di film ispirati alle opere di Camilleri, ndr); in quest’ultima, per una coincidenza incredibile, ho girato le scene in cui il personaggio compiva gli anni lo stesso giorno del mio compleanno. C’erano (di nuovo) Ragno, Donatella Finocchiaro, Miriam Dalmazio… In effetti sono sempre stato fortunato nel trovarmi accanto attori di questo calibro, compreso Accorsi nella scena face to face in aereo di 1994, una situazione piuttosto intima, ha favorito la connessione».


Ci sono generi non ancora sperimentati con cui vorresti metterti alla prova?


«Mi piacerebbe esplorare un thriller psicologico, lavorare su personaggi lontani da me costretti a fare i conti con i loro demoni, del resto adoro lavorare con il corpo, plasmarlo per aderire al personaggio, una situazione del genere sarebbe l’ideale».


Tra i tuoi colleghi chi ammiri particolarmente? E tra i registi?


«Nel panorama italiano direi Lino Musella, Elio Germano e Luca Marinelli, personaltà di enorme fascino scenico oltreché estetico. Tra i registi Nanni Moretti, Paolo Virzì e Matteo Garrone».




Come vivi la relazione tra personaggio e abiti di scena?


«Ricordo che una volta entrai di corsa in scena, indossando il mantello al contrario, la regista – Emma Dante – si infuriò e disse una cosa che non scorderò mai: “Il costume è come dici la battuta”. Mi è rimasta scolpita in mente, ho sempre grande cura degli abiti di scena, come fossero oggetti personali ai quali tengo. Ho una relazione molto intima con il costume, mi aiuta quasi sempre a dar vita al personaggio, indossarlo mi permette di essere lui al 100%, naturalmente prima viene il lavoro sul corpo e sulla voce, ma l’abito lo completa».


Fuori dal set, invece, che rapporto hai con la moda?


«Ho un debole per il vintage, mi piace vestire bene, di solito non cose appariscenti; ho molti capi in colori tenui, soprattutto camicie, cerco però di portare nel modo giusto anche la semplice combo t-shirt e jeans; ci tengo, non per apparire o altro, piuttosto credo abbia a che vedere con l’immagine che ho di me, per certi versi ciò che indossiamo ci rappresenta»




Cosa ti auguri per il futuro?


«Sicuramente non abbandonerò il teatro, sto pensando di mettere su uno spettacolo, adesso che ho scoperto il cinema, poi, voglio senz’altro continuare, sperando che l’esordio possa darmi una marcia in più; ho voglia di mettermi in gioco, di continuare a imparare, ci sto prendendo gusto».

Stefano Sala, da modello a papà rock

Photographer: Umberto Gorra (@umbertogorra)

Creative Director: Gianmarco Chianese (@gianmarco_chianese)

Stylist: Stefano Guerrini (@stefano_guerrini)

Make-up & Hair: Francesca Lana (@fraa_elle)

Assistenti Stylist: Erna Džaferović (@ernadzaferovic), Aurelio Comparelli (@aureliocomparelli), Laura Grandi (@laugrandi)

Model: Stefano Sala (@stevenlivingroom) – URBN Models (@urbnmilan)

Ho il piacere di conoscere Stefano Sala da molti anni, da quando era agli inizi come modello e sognava di portare al successo la sua rock band! L’ho sempre trovato genuino, alla mano, simpatico e ritrovarlo dopo qualche anno ha riconfermato la mia idea e penso che il suo ruolo mediatico, l’aver partecipato a trasmissioni tv molto seguite, esser stato protagonista di gossip di cui si è parlato nei giornali di settore, non lo abbia cambiato molto. Quando è arrivato sul set per scattare queste foto è stato gentile con tutti, scambiando chiacchiere con ognuno dei presenti, non ha lesinato battute e risate. Ho la certezza che questo suo essere così spontaneo gli venga da solidi affetti familiari e dall’aver costruito così giovane un’altra familia, Stefano parla sempre dei suoi figli, ci mostra le foto, ci racconta piccoli aneddoti, e la luce nei suoi occhi è quella di uno che non vede l’ora di tornare a casa e abbracciarli. Mi ha fatto piacere incontrarlo di nuovo, e trovo anche che le foto realizzate mettano in evidenza la sua perfetta padronanza della macchina fotografica, del mezzo che gli ha dato il successo.



Come sei diventato modello e quale è stata l’esperienza più bella che hai fatto in questo settore?

Son Diventato modello circa undici anni fa, quasi per caso, perché un agente di moda era in vacanza sul lago di Como e mi vide lavorare nella pizzeria di mio padre. Mi chiese se fossi interessato e da lì iniziai. Le belle esperienze son state tantissime, certamente lavorare con alcuni dei nomi più importanti della moda italiana è stato molto gratificante.



Come figura pubblica, lavorando anche in TV, quali pensi sia il più grande insegnamento che hai ricevuto?

Lavorando in Tv, il piú grande insegnamento che ho ricevuto è quello di essere se stessi il più possibile. La maggior parte dei personaggi televisivi tendono ad emulare altri, o comunque a porsi come forse non si è. Ma l’essere se stesso è l’arma vincente, o almeno considero lo sia per me.



Ed invece come padre quale lezioni hai imparato e come sei cambiato?

L’essere padre mi h dato una forza interiore incredibile, ora realizzare i miei sogni è molto piú difficile, ho più responsabilità, meno tempo, non penso più da singolo individuo, ma da padre, ma continuo ad inseguirli con molta piú grinta, e questa grinta deriva dalla forza che i miei bimbi mi trasmettono. Ed è davvero tanta!



Il tuo ideale di eleganza e cosa non può mancare dal tuo guardaroba?

Io sono malato di Cappelli, qualsiasi forma e modelli. Ne possiedo tantissimi e adoro indossarli. Per me il cappello rappresenta l’emblema dell’eleganza di un uomo da sempre.Quindi come accessorio non manca mai dal mio guardaroba e possibilmente dal mio outfit del giorno.



Cosa non manca invece nella tua borsa quando viaggi?

Quando viaggio non manca mai una camicia bianca, che sia seta,lino o cotone! Ovunque vada, una camicia bianca  puo’ sempre servire. E ti assicuro che è stato spessissimo così in passato. È un passe partout per ogni tipo di serata o di incontro.



Destinazione preferita e perché?

Destinazione preferita Los Angeles, è l’unica Cittá in cui mi sento davvero me stesso.



Chi sei in privato? Amori e hobbies? Ti dedichi ancora alla musica?
In privato sono un amorevole padre, un buon marito nei giorni dispari (e lo dice mettendosi a ridere, ndr) e un biker appassionato di Harley Davidson. Penso ormai sia chiaro che la mia anima più vagabonda è stata mitigata dal mio ruolo di padre, ma certe passioni rimangono ovviamente!


Stefano Sala indossa un look firmato Paoloni e Hevò dai colori autunnali: giacca a quadri, lupetto senape pantaloni marroni
Giacca Paoloni, maglione e pantaloni Hevò


Sogni e progetti per il futuro?

Sto lavorando a un album musicale da solista, molto particolare perchè è completamente folk in italiano. È un progetto a cui tengo molto e spero la gente gradisca. Stefano, poi voglio sapere la tua, quando lo ascolterai!

Dalla vittoria sanremese ai live: Gaudiano

Vincitore della categoria Nuove Proposte del 71esimo Festival di Sanremo 2021 con la canzone “Polvere da sparo”, Luca Gaudiano, in arte Gaudiano, sceglie Manintown per parlare del suo passato, del suo presente e del suo futuro, svelando quanto creda nel confronto diretto con chi gli sta a cuore. Un mantra che riporta al singolo Rimani, da poco approdato nelle classifiche italiane, che lo proietterà direttamente ai suoi primi e attesissimi live.

“Voglio scappare a Milano per farmi tagliare la faccia dal vento” e ci troviamo proprio qui per raccontarti come uno dei Men in town dell’anno grazie alla tua vittoria tra le Nuove Proposte al Festival di Sanremo. Possiamo ,quindi, dire che nel tuo caso il 2021 è iniziato in realtà con il vento in poppa non trovi?

Concordo pienamente, il 2021 ha subito un piacevole risvolto fisiologico generato da un 2020 di impegno e dedizione.



Dalla Puglia a Roma, dove hai approfondito gli studi musicali e vissuto alcune esperienze teatrali, al capoluogo meneghino. Come vivi la tua quotidianità da artista e quali sono i tuoi luoghi del cuore?

La mia quotidianità è molto casalinga. La vivo studiando, suonando e lavorando alle produzioni. Il mio arrangiatore è Francesco Cataldo che plasma la struttura melodica e armonica di ciò che elaboro. Il luogo del cuore è diventato la Scuola di Musica di Novate dove, insieme al mio amico Dave Marchi, ho iniziato a porre le basi dei miei esordi. Una location dove si respira musica in ogni angolo e si percepisce l’entusiasmo dei piccoli musicisti concentrati nella propria formazione.

Il brano presentato a Sanremo “Polvere da sparo” narra la cruente tematica della metabolizzazione di un lutto che attraverso le note viene “donata” alla memoria collettiva. Atto liberatorio ma anche un’elogio alla fragilità emotiva di un giovane uomo. Guardare oltre le nuvole attraverso la musica è uno dei messaggi che hai voluto dare ma quali altri si celano in esso?

Il concetto di continuazione è sempre trasversale. Tutti gli accadimenti ci fanno capire che sopravviviamo in un flusso che si rigenera costantemente. Spesso ciò ci infligge profondi sensi di colpa in quanto non riusciamo a governarlo. Però, ho capito che gli stessi possono diventare una nuova linfa che genera risvolti inaspettati.



Hai già annunciato i tuoi primi appuntamenti dal vivo post restrizioni pandemiche: il 21 novembre ai Magazzini Generali di Milano e il 25 novembre al Largo Venue di Roma. Cosa ti aspetti dall’incontro con il pubblico che non hai avuto modo di accarezzare vocalmente dal vivo sul palco dell’Ariston?

Sono spaventatissimo perché, avendo un background teatrale che mi vedeva interpretare personaggi, per la prima volta mi ritroverò privo di filtri davanti ad un pubblico. Salirò sul palco con i pezzi che rappresentano una parte mio vissuto. Di sicuro non vedo l’ora di riuscire a coinvolgerlo.



Gaudiano resta concentrato sui suoi ambiziosi traguardi sul suo nuovo singolo: “RIMANI” (Adom Music/Sony Music/Epic). Un brano dedicato “a tutti i coraggiosi che scelgono di amarsi ai tempi della precarietà sentimentale.” Ancora un insegnamento, ancora un cura: il segreto del far andar tutto bene è come sempre la resilienza?

Ho imparato a credere tantissimo nel confronto con l’altro esulandosi da quello che si ha unicamente su sé stessi. Mi sono reso conto che ho davvero bisogno di avere qualcuno a casa “con cui litigare”. Amo condividere il tempo con chi amo e penso che in due si possa sicuramente riempirlo meglio.



Special content direction, production, interview and styling Alessia Caliendo

Photographer Martina Ferrara @ Studio Luce 

Mua Eleonora Juglair
Hair Florianna Cappucci @ Freelancer

Alessia Caliendo’s assistant Andrea Seghesio

Location A15  Milano

Special thanks to 

La Forchetta Verde 

Martina Sergi: lo Yoga online

Insegnante internazionale di yoga, co-founder della piattaforma YOME digital, coautrice del libro Smart Yoga, creatrice dei blocchi e la cinghia MALI, imprenditrice e content creator con studenti e followers in tutto il mondo: Martina Sergi ha raggiunto mezzo milione di seguaci sul suo profilo Instagram ed oggi è un importante punto di riferimento per tutti gli amanti dello YOGA. In occasione dell’international yoga day si racconta e spiega al meglio i segreti della sua professione.

Come è nata la tua passione per lo yoga ?

La passione per lo yoga è nata per caso, sono sempre stata una ragazza molto attiva e sportiva, seguivo diverse persone su Instagram che facevano più classi di questa disciplina. Da lì mi sono incuriosita sempre di più, anche perché vedevo le coach fare delle pratiche davvero assurde per me, e ne rimasi affascinata. Ad un certo punto ho detto “proviamoci, e quindi grazie alla mia curiosità ho iniziato ad avvicinarmi al mondo dello yoga.



Come la tua passione è diventata una vera e propria professione ?

Ho iniziato a fare yoga mentre scrivevo la mia tesi di laurea. Terminati gli studi ho cominciato un internship legata al corso di studio, ma capii in fretta che quella dell’architettura non era la mia strada, non mi rendeva felice. Ho trovato un corso per insegnanti e poco dopo, lo stesso corso mi propose di restare lì ad insegnare.

Sappiamo che hai fatto anche diverse esperienze all’estero. Quanto hanno segnato la tua vita e perché ?

Amo viaggiare e imparare cose nuove: andare all’estero è fondamentale per crescere e migliorarsi. Ho viaggiato sia per motivi di studio, come ad esempio a Cambridge per imparare meglio la lingua inglese. Andai a Bali invece per fare un corso di yoga avanzato; per non dimenticare i miei workshop che ho tenuto a New York, Parigi e altre città.



Quanto i social sono importanti nella tua professione?

I social per me sono una vetrina: il mio modo per arrivare alle persone. Sono stata la prima, in Italia, a portare lo yoga online, soprattutto su Instagram. Grazie a questo riuscivo a fare stare bene persone a distanza, avevo finalmente uno spazio con il quale potevo raggiungere tantissime persone in maniera veloce, diretta e simultanea, abbattendo le barriere della distanza fisica.

Sappiamo che hai creato anche una azienda. Raccontaci di più…

Ho co-fondato un’azienda, Yome, con due colleghe, Martina Rando e Claudia Casanova: una piattaforma di corsi online, non solo di yoga: qualcosa di più completo, con corsi anche di fitness, nutrizione e meditazione. Chi tramite abbonamento si registra alla piattaforma può accedere a tutti i nostri contenuti, sia live che registrati. E’ nato tutto durante la pandemia, con la speranza di tenere compagnia al nostro pubblico.



Come rispondi a chi oggi ti chiede quali sono i segreti per diventare come te ed avere successo in questo settore ?

Penso che non ci sia un segreto: bisogna essere sé stessi e portare avanti le proprie passioni, in modo trasparente anche tramite i nostri canali online, senza fingere e senza filtri! Bisogna crearsi una nicchia spontanea ma soprattutto sincera, senza avere paura di mostrare anche i fallimenti e gli insuccessi.

Sappiamo che hai anche pubblicato un libro: di cosa parla? Come mai questa scelta ?

Ho scritto un libro insieme a Martina Rando, Smart Yoga, nel 2018. Un testo per iniziare lo yoga, che spiega le diverse posizioni ed allineamenti, non basato sulla filosofia ma sulla pratica, anche utile per posizioni facili da fare a casa.



Ci sono altri progetti che ancora non sappiamo ?

Quello che posso dire è che a Settembre ci saranno tante belle novità.

Francesco Russo dal 14 Luglio su Netflix con “Classic Horror Story”

Francesco Russo, è un attore campano di Caserta, anche se lo scambiano spesso per napoletano, lui, ci tiene a precisare le sue vere origini. Non si può chiedere quando abbia capito che la sua vera passione era la recitazione, perché tutto ebbe inizio sin da bambino senza rendersene conto. All’inizio si è fatto conoscere al pubblico con “Classe Z” e “Tuttaposto”, ad oggi lo possiamo vedere nella sit-com “Ritoccati” in onda su SKY. Prossimamente sarà protagonista in L’Amica Geniale 2 su Rai 1 e in “A classic horror story” su Netflix a Luglio.

Quando hai capito di voler fare l’attore?

Ho iniziato a recitare totalmente per caso a cinque anni, anche perché in Campania ci sono tantissime compagnie amatoriali, e in quell’occasione per la rappresentazione della famosissima “Miseria e Nobiltà” cercavano un bambino e per combinazione lo scenografo che era amico di mia sorella che mi introdusse.

Ovviamente non sapevo ancora leggere, quindi le battute le imparavo a memoria con mia madre per gioco. Da quel momento non mi sono mai fermato.



Hai seguito qualche scuola in particolare?

Sin dai tempi del liceo dicevo a tutti che avrei fatto l’attore e che volevo fare l’accademia, infatti subito dopo mi son trasferito a Roma e son stato ammesso alla Silvio D’amico che ho frequentato per cinque anni.

Invece la tua vena comica è arrivata col mestiere o l’avevi già prima?

Io credo che noi tutti siamo la conseguenza delle esperienze che facciamo, e nel mio caso credo che sia arrivata totalmente in maniera involontaria. Ora che mi chiedi se ci ripenso ho trascorso la mia infanzia a guardare i film di Totò, quindi credo di aver assimilato.

E poi c’è ovviamente il cliché che se sei campano, fai anche ridere!



Qual è stato il primo lavoro in cui sei rimasto veramente soddisfatto di te stesso.

Senza ombra di dubbio quando all’età di quindici anni feci una tournee teatrale in giro per l’Italia con Gianfranco D’Angelo, cambiando piazza quasi ogni giorno, circondato da adulti mi sembrava davvero un sogno.

Cosa mi vuoi dirmi della tua esperienza con “Ritoccati”.

È stato bellissimo perché per me è stato un ritorno alla sit-com, con cui per altro avevo cominciato con Paolo Calabresi su RAI2 molti anni fa. Sono stato fortunato perché trattasi di lavoro molto diverso in quanto non basato su di una storia, a seconda della scena girata si racconta un frammento diverso di situazione che deve essere divertente solo in quello specifico frangente.



Il 14 Luglio uscirà “Classic Horror Story” su Netflix

Questo è un film che abbiamo girato l’anno scorso, in pochissimo tempo, solo cinque settimane, e che appunto debutterà su Netflix il 14 Luglio. Per la prima volta mi sono misurato in un genere così diverso e mai interpretato da me, insomma non ero abituato a dissanguamenti e protesi artificiali. Lavoro anche con un accento diverso, in quanto sono calabrese, e poi il sentimento della paura è difficile da trovare nelle sceneggiature.



A tu per tu con Francesco Arca: esordi, passioni, progetti passati e futuri

Ph: Davide Musto

Styling: Stefania Sciortino

Ass ph: Michele Vitale, Eleonora Cova Minotti

Grooming: @simonebellimakeup

Location: Corso 281 Luxury Suites Roma

Toscano doc (è nato a Siena nel 1979), l’attore Francesco Arca si è avvicinato alla recitazione quasi casualmente, grazie anche alla notorietà regalatagli nei primi anni Zero da alcuni programmi e reality show, ma da allora non l’ha più abbandonata, costruendosi una solida carriera. Dopo gli inizi in fiction dal grande seguito è approdato al cinema d’autore con Ferzan Özpetek – che l’ha voluto al fianco di Kasia Smutniak in Allacciate le cinture (2014), poi sono arrivati serial italiani (Sacrificio d’amore, La vita promessa, il recente Svegliati amore mio) e di respiro internazionale come Los nuestros o Promesas de arena. A breve lo vedremo in nuovi titoli per il grande e piccolo schermo, come ci ha confidato nell’intervista che segue.

In questo momento sei sul set, a cosa stai lavorando?

«A una serie per Canale 5 di cui sarò protagonista con Vanessa Incontrada, girata quasi del tutto ad Arezzo; per la prima volta interpreterò un personaggio appunto toscano, il che mi riempie di soddisfazione. Sono anche sul set di una serie Netflix e, a fine giugno, inizieranno le riprese del nuovo film di Lillo, in questo caso si tratta di poche scene per un piccolo ruolo, ma sono contento di dare il mio contributo».



La recitazione è sempre stata tra i tuoi obiettivi oppure è venuta fuori man mano?

«Non era assolutamente tra i miei obiettivi, all’inizio per un discorso di emulazione della figura paterna volevo fare il militare, poi ho intrapreso un percorso televisivo di cui mi sono stancato dopo un paio d’anni, lasciando anche Milano che per me rappresentava quell’ambiente lì.
L’amore per la recitazione è nato quando mi sono fidanzato con Laura (Chiatti, ndr), seguendo lei, accompagnandola sui set dove ho cominciato silenziosamente a guardarmi intorno, a osservare; ben presto mi sono fatto coinvolgere dalla magia del cinema, così ho cominciato a studiare, a inserirmi pian piano in questo mondo, da lì è partito tutto».



Sei stato tra i protagonisti di Allacciate le cinture (2014) di Özpetek, cosa puoi dirci di quell’esperienza, com’è stato lavorare con un autore della sua caratura?

«È stata un’esperienza unica, all’epoca non riuscivo a rendermene conto appieno, tornandoci a distanza di anni ne traggo delle considerazioni che prima non sarei stato in grado di fare, su tutte quanto mi abbia aiutato in termini lavorativi girare un film con lui, quanto si possa imparare da un maestro del genere, che ti fa capire come, alla base di questo mestiere, ci sia sempre l’emozione, nel bene e nel male bisogna emozionare il pubblico.
Özpetek insisteva molto proprio sul piano emozionale, sul far rivivere determinati momenti, non era un lavoro tanto pratico quanto psicologico, perlomeno prima di girare, quando mi ha fatto entrare nella sua fantastica visione. Sul set invece mi guidava, anche perché ne avevo bisogno, essendo privo dell’esperienza necessaria a gestire un ruolo simile, dunque mi ha guidato e io saggiamente, in modo quasi militaresco, l’ho seguito».



Ci sono dei registi, in particolare, con cui vorresti lavorare?

«Lasciami dire che un’altra figura per me fondamentale è stata Ricky Tognazzi: mi ha dato una cosa che in pochi mi avevano concesso, la fiducia, ha creduto in me e, pur seguendomi, mi ha lasciato andare. Ricky e Simona (Izzo, moglie e collaboratrice del regista, ndr) sono state due persone davvero importanti a livello sia umano sia lavorativo.
Per quanto riguarda i registi ce ne sono tanti, ad esempio ultimamente mi sono trovato a girare con Fabrizio Costa, una persona squisita che mi ha aperto il cuore; è un cineasta di vecchio corso e mi sta insegnando molto, il bello di questo lavoro sta nel fatto che ogni persona con la quale collabori apporta un qualcosa, ti dà un quid. La più grande vittoria per me consiste nel riuscire a lavorare con tanti autori che possono regalarti altrettante sfumature diverse, solo allora puoi diventare un attore completo».

Al di là del lavoro, quali sono le tue passioni?

«Sono sempre stato per il mens sana in corpore sano, il mio tempo libero lo dedico allo sport; da 6-7 anni, inoltre, ho scoperto la meditazione, che intendo anche semplicemente nel senso di prendere asciugamano e libro, andare in un parco e mettermi lì da solo, immergendomi in una pratica che riesce a tranquillizzarmi».

Che rapporto hai con i social?

«Sono ormai parte integrante della nostra vita, non mi sono certo messo contro questo dato di fatto, ho cercato di assecondarlo senza farne un uso smodato. Penso di avere un rapporto tutto sommato equilibrato con i social, pubblico qualcosa quando mi va, non perché debba o voglia apparire per forza, anzi, di mio sono abbastanza riservato, però ci sono persone che magari mi seguono da anni e cerco di metterle al corrente di ciò che faccio. D’altra parte se prima il pubblico poteva informarsi sugli attori solo attraverso interviste e articoli, ora con i social può farlo in maniera diretta ogni giorno».



Cosa pensi del connubio tra abiti di scena e interpretazione del personaggio? E che rapporto hai con la moda?

«I costumi ti aiutano tantissimo a entrare in una determinata situazione, nel momento di indossarli avviene come una magia e diventi quel personaggio specifico, in questo senso più gli abiti di scena sono caratterizzanti, meglio è; credo però che i veri artisti, cui va dato tutto il merito, siano i costumisti, che piegano abilmente la moda alle esigenze del cinema o del teatro. Per quanto riguarda il mio gusto personale, ho alcuni stilisti di riferimento che, anche a livello comunicativo, mi lasciano la libertà che cerco, in effetti è proprio questa la parola chiave parlando di moda; non mi piacciono gli stereotipi, adattarmi per forza alle tendenze o avere cose che portano tutti, cerco di definire un mio mondo».

Quali capi o accessori non possono mancare nel tuo guardaroba?

«In estate sicuramente dei jeans corti neri che ho da circa dieci anni, li indosso continuamente, poi un paio di sneakers che porto sempre con me, per potermi ritagliare ovunque un’oretta per correre o allernarmi».


Cosa ti aspetti dal 2021 e, in generale, quali sono i tuoi progetti per il futuro?

«Mi aspetto di tornare in Spagna, dove intendo portare avanti dei contatti che risalgono al 2017, ho fatto due lavori lì che mi hanno permesso di crescere tanto e non vedo l’ora di tornarci, ho trovato una dimensione per certi versi molto più vicina a me.
L’obiettivo, per il futuro, è passare nel paese almeno meta dell’anno lavorando a progetti in lingua spagnola o araba, nel solco di quanto fatto finora».

Andrea Zelletta: tra amore e musica

Deejay, influencer, modello, ex tronista e colonna portante dell’ultima edizione del Grande Fratello Vip: Andrea Zelletta con l’uscita del suo nuovo brano “Lovin’ at the speed of light”, si esprime a tutto volume per fare emergere al meglio l’artista che è in lui.




Come è nata la tua passione per la musica? Come sei riuscito a costruirne una vera e propria professione?

Sono sempre stato appassionato di musica e mi piaceva andare ad ascoltare i miei artisti preferiti ai concerti. Dopo aver smesso di giocare a calcio, la musica è diventata la mia priorità. Ho iniziato i miei studi con un grande maestro che è partito dalle basi. Credo che la passione sia fondamentale per diventare un vero e proprio artista e farne una propria professione.

Cosa significa la musica per te?

La musica è una parte fondamentale della mia vita. Ogni giorno sono alla ricerca di nuovi brani e suoni: studio e programmo assieme al mio team le uscite in arrivo. Ad oggi senza la musica non vedo un futuro.



Sappiamo che ci sono diversi tipi-generi di DJ.  Come ti definisci?

Sono un dj che guarda la pista. Il dj che deve capire la gente e creare un’onda emotiva con la sua selezione. Amo l’house e la musica elettronica, oggi declinate in molti sotto-generi. E’ positivo perché è possibile spaziare e mixare successi in versioni inedite rispetto a quelle che il pubblico ascolta in radio tutta la giornata.

Quanto ti hanno aiutato i social in questo percorso? È importante oggi per un Dj avere un forte seguito sui canali digitali?

Il mondo influencer e deejay possono andare abbastanza d’accordo. Io preferisco esprimere sui social network la mia passione per la musica con vari contenuti musicali ma senza trascurare altre passioni, come lo sport e i viaggi. Vanno di pari passo.

È importante avere un seguito sui social per i deejay: tuttavia è fondamentale conoscere e comprendere al meglio il pubblico che ti segue. Dunque, più che avere una grossa fan base, che magari non è interessata alla musica, bisogna essere seguiti da una nicchia verticale  e settoriale, che può provenire da molti altri canali come ad esempio Spotify, SoundCloud ed altre piattaforme musicali importanti.



Cosa consigli a chi oggi ti chiede “come faccio a ritagliarmi uno spazio nel mondo della musica”?

Dopo due anni e mezzo di studio non credo di essere la persona più adatta a dare consigli in quanto vedo la mia strada ancora in salita e penso di dover lavorare tantissimo prima di poter essere considerato un “top” deejay. We can be anything è il mio motto: quando si vuole una cosa bisogna impegnarsi investendo tanto tempo e denaro per riuscire a trasformare le nostre vere passioni in  un futuro solido.

Quale è il tuo pezzo preferito e perché?

Savages, di Sunnery James e Ryan Marciano: questo brano è stato come un motore per me che ha scaldato tutta la macchina; è iniziato tutto da lì, il ritornello mi ha letteralmente conquistato.

Sappiamo che da poco è uscito il tuo nuovo pezzo “Lovin’ at the Speed of Light”. A cosa o a chi è ispirato? Raccontaci di più…

Il 28 maggio è uscito il mio nuovo singolo, grazie anche alla collaborazione con Shady: ci siamo trovati in studio di registrazione e abbiamo pensato di fare una cosa insieme. Ci siamo ispirati ad una base ’80 e ’90 con un ritmo dance. Con “amare alla velocità della luce” abbiamo voluto ricordare quell’amore adolescenziale e spensierato che purtroppo oggi, a causa anche della pandemia, non riusciamo più a trovare. Gli adolescenti hanno smesso d’amare alla velocità della luce, senza pensieri. Tuttavia, il pezzo sottolinea allo stesso tempo i profondi sentimenti di quelle persone che sono riuscite ad amarsi per una vita intera.



Come e dove ti vedi tra dieci anni?

Sono un sognatore. Tra dieci anni mi vedo in una villa con la mia famiglia: Natalia al mio fianco, il mio cagnolino e magari dei figli. Ovviamente sempre con il lavoro da deejay che sarà cresciuto e migliorato e che, magari, mi porterà  a suonare sulle consolle internazionali.

Aroma’s – Tasty experience

Il marchio Aroma’s ( instagram @aromas_tasty) ha il suo core business incentrato su prodotti come spezie ed erbe aromatiche, farine, tè e tisane, risi delle migliori produzioni.Tutto rigorosamente prodotto e confezionato in Italia. Comprende anche una linea aperitivi/snack monouso: arachidi, pistacchi, mais tostati e salati,tarallini. Le tanto attese golden hours estive dopo i mesi di lockdown ci aspettano! Aroma’s è uno dei brand emergenti di food & snacks che noi di Man in Town vi segnaliamo. Abbiamo intervistato il suo CEO, Samuele Galbiati.


Come nasce Aroma’s?

Il brand aroma’s nasce dalla volontà di Sipec srl, azienda leader nel confezionare alimenti in barattoli in banda stagnata, di creare una gamma di prodotti di alta qualità confezionati in packaging plastic free, ossia in barattoli in banda stagnata.



Descrivereste la vostra gamma di prodotti?

I prodotti aroma’s sono suddivisi in delle macro categorie: spezie ed erbe aromatiche, tisane e te’, risi, farine e linea aperitivi ( arachidi, pistacchi, mais e tarallini) La linea aperitivi è nata subordinata dal momento di pandemia seguendo la normativa di igiene alimentare prevista,
in quanto tutti gli alimenti sono sigillati e somministrati in sicurezza. C’è da dire che siamo sempre in constante evoluzione nel ricercare nuovi prodotti da inserire in gamma.



La Lombardia é la madre dell’aperitivo. Consigliate ai nostri lettori 3 posti ideali dove farlo ? E quale é il drink
dell’estate 2021 e perché?

Sicuramente la nostra città, Brescia, è perfetta per gustare un aperitivo di tutto rispetto. The Lab, Enotema e Areadocks sono posti che sicuramente non vi deluderanno. Il drink dell’estate? Gin tonic profumato con bacche di ginepro e mirtillo.

Parlateci del packaging. Cosa vi ha ispirato?

Il restyling dei prodotti Aroma’s, dal packaging alla comunicazione, alle collaborazioni esterne è stato un processo sicuramente naturale e frutto di un’evoluzione, ma è anche un segno di rottura, un concetto di slow food anche nella fruizione dell’oggetto in sé. I rimandi artistici sono sicuramente tangibili ed evolveranno con il tempo. L’apertura del barattolo deve essere un’esperienza di gusto e di vista. Il barattolo, il contenitore rigorosamente plastic free, è un oggetto d’arte, da conservare, collezionare e riutilizzare.



Guardiamo sempre avanti … Un traguardo per il 2022 cui aspirate? Puntiamo sempre ai migliori locali, l’obbiettivo è quello di portare Aroma’s al di fuori dei confini nazionali.



E da intenditori di aperitivo, cui solitamente segue la cena, quali sono i vostri ristoranti preferiti di Milano? perché
li consigliereste?

Senza ombra di dubbio Turbo Milano, Botanical Club, Lùbar. Sono locali con atmosfere completamente diverse tra loro ma in ognuno di questi posti ci sentiamo a casa e respiriamo Milano allo stesso tempo.

Qual è l’aroma del 2021?

L’intramontabile culto del pistacchio, da gustare dolce o salato a qualsiasi ora.

Lorenzo Adorni: Maschile singolare

Ph: Lucia Iuorio

Styling: Luca Pisciottano

 Look: Valentino

 Grooming: Adelina Popa

Location: Hotel Valadier Roma

Special thanks Sonia Rondini


Chi è Lorenzo Adorni? Se non lo conoscete ancora preparatevi perché questo è il suo momento. Nato a Parma è il perfetto mix tra l’emiliano e il siciliano, come da origini famigliari, la passione per il cinema l’ha capita sin da subito ed ora i risultati stanno decisamente arrivando.

Lo possiamo vedere su Amazon Prime nell’attesissimo film che si colloca nel Pride Month “Maschile singolare”. Ma in questo momento si trova già a Torino per le riprese della seconda stagione di “Guida astrologica per cuori infranti” serie TV targata Netflix.

Facciamo un po’ di background, di dove sei?

Sono nato a Parma, da papà emiliano e mamma siciliana della zona del Trapanese, quindi da piccolo andavo a scuola e poi a giugno scappavo dai nonni e mi godevo il mare per tre mesi, insomma ho tutte e due le culture dentro di me.



Quando nasce la tua passione per la recitazione?

Posso dire proprio da piccolissimo, con la classica recita per la scuola, mi ero davvero divertito tantissimo, da lì ho coltivato il primo seme della passione per lo spettacolo. In casa si guardavano molti film e questo ha sicuramente contribuito, all’inizio volevo fare il regista ai tempi del liceo, e poi ho capito che in realtà volevo fare l’attore. Ho iniziato l’università per poi proseguire con gli studi della recitazione a Milano, ma ovviamente il miraggio era la capitale del cinema, ovvero Roma.

In quale momento ti sei reso conto che il percorso che stavi facendo era quello giusto?

Sicuramente è stato il primo lavoro che mi sono procurato appena entrato in agenzia ovvero “Il cacciatore” per RAI2 dove interpretavo Matteo Messina Denaro, che mi ha portato a lavorare in Sicilia proprio nella zona di Castelvetrano che alla fine è dove ci sono parte delle mie origini.

Mi sento ancora in una fase talmente embrionale che ogni passo è un traguardo, come il ruolo da protagonista nella serie di Netflix.



È appena uscito su Amazon Prime Video “Maschile Singolare” che cosa mi dici di questo film tanto atteso.

Devo dire che siamo tutti molto contenti del consenso di pubblico che stiamo riscuotendo, e soprattutto per i range di età molto diverse che sta riuscendo ad abbracciare. Amazon lo ha spinto molto soprattutto per che giugno è proprio il mese dell’orgoglio omosessuale “Pride Month”, quindi come comunicazione è come si suol dire il momento giusto.

Posso dire che è una storia molto semplice, senza nessun tipo di arzigogoli strani per fare autorialità e basta, la volontà è quella di raccontare una storia quotidiana, raccontata tramite un protagonista che è Giancarlo Commare ed il mondo che gira intorno a lui in un percorso di formazione. La cosa assurda è che abbiamo girato in ventun giorni con una accuratezza rara e portando a casa un risultato più che soddisfacente. 

Abbiamo finito di girare dieci giorni prima della pandemia, poi la gestazione è stata lunga per scegliere la programmazione.

Ora però sei partenza per Torino, cosa vai a fare al nord?

Stiamo per iniziare a girare la seconda stagione di “Guida astrologica per cuori infranti” una produzione Netflix di cui sono protagonista, per i dettagli però bisogna attendere, per il momento non posso aggiungere altro.



Summertime, cinema d’autore e non solo: il talento sfaccettato di Andrea Lattanzi


Volto della serie Summertime insieme ad altre promesse del panorama attoriale italiano, Andrea Lattanzi è un artista poliedrico: al di là della carriera ben avviata sullo schermo (che l’ha visto cimentarsi con opere prime, thriller e pellicole drammatiche, da Manuel Palazzo di Giustizia passando per Letto N. 6 e Sulla mia pelle), impegna il suo tempo scrivendo, componendo musica, dilettandosi con la fotografia. In attesa di vederlo nuovamente nei panni di Dario nella terza stagione del teen drama di Netflix (la seconda è disponibile ora sulla piattaforma di streaming) e nel film La svoltacon Manintown ha parlato di esordi, provini, set, città agli antipodi nel vero senso della parola (Roma e New York) e altro ancora.

Hai frequentato vari corsi di recitazione e, a un certo punto, ti sei trasferito negli Usa con il sogno dell’Actors Studio. Diventare un attore, dunque, è sempre stato un tuo obiettivo?

«La recitazione in realtà è arrivata un po’ per caso, un primo approccio risale all’ultimo anno di scuola media, quando sostenni un provino di cui avevo letto su un volantino. Intorno ai 17 anni la passione si è riaccesa, ho iniziato a studiare e un coach mi ha dato la spinta necessaria ad andare fuori, così mi sono trasferito a Londra e poi a New York, con il sogno dell’Actors Studio.
Ho vissuto un periodo intenso, ritrovandomi anche a dormire per strada. Ogni settimana andavo all’Actors Studio ma non avevo il coraggio di entrare, quando l’ho fatto ho realizzato che per frequentarlo sarebbero state necessarie troppe cose, a partire dalla Green Card. Perciò sono tornato in Italia, il giorno prima di partire ho letto di un casting alla Festa del Cinema di Roma che vedeva in giuria Carlo Verdone, Lina Wertmüller e Daniele Luchetti. Bisognava recitare un monologo, ho scelto Er fattaccio di Gigi Proietti, fatto sta che Il giorno del provino il ragazzo prima di me ha portato lo stesso pezzo e Verdone lo ha interrotto dopo qualche minuto; quando è stato il mio turno ho preso coraggio e, davanti alle sue rimostranze, l’ho pregato di non fermarmi. Alla fine ho vinto il concorso, è cominciato tutto da lì».

Hai dichiarato che «un attore dovrebbe essere un artista a 360 gradi», in effetti sembri avere una creatività sfaccettata: fotografi, scrivi, componi musica… Ti va di parlarci di queste tue inclinazioni, pensi che potrebbero trovare spazio nel tuo percorso artistico?

«Tutte queste attività, semplicemente, mi completano, mi fanno stare bene. Ho iniziato adesso un’altra sceneggiatura, canto, ho scritto dei testi musicali. Sono un attore e mi piace da morire, ma in quanto tale mi reputo un artista, e alla fine ogni artista è un insieme di tante cose differenti».

Hai recitato in film drammatici, thriller, serie, ci sono generi che prediligi o con cui vorresti metterti alla prova? E registi con i quali sogni di lavorare?
«Credo che un attore debba essere versatile, disposto a trasformarsi, a sperimentare il più possibile. Detto ciò, preferisco il cinema autoriale, come i due film che finora ho più amato, cioè Manuel e La svolta, gli unici dai cui set ho preso un ricordo, il giubbotto indossato in scena; sono pellicole sotto certi aspetti simili e, a livello di sceneggiatura, mi hanno dato maggiore visibilità, potrei dire di essere stato tra i protagonisti di entrambe, sebbene non mi piaccia affatto l’espressione e tutto ciò che ruota intorno al concetto di protagonismo.

Parlando di registi, anche italiani, non saprei scegliere, ci sono diversi autori emergenti con i quali mi piacerebbe lavorare, come i fratelli D’Innocenzo, il duo Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, lo stesso Dario Albertini (regista di Manuel, ndr), però ce ne sono davvero tanti».

Cosa puoi dirci di Summertime? Esperienze sul set, ricordi, tutto ciò che vuoi…
«Nella seconda stagione si assisterà a una crescita di tutti i personaggi, compreso il mio (Dario, ndr), vedremo nuove storie, rivalse e tanto altro. Di Dario posso dire che forse troverà una sua strada, rispetto all’anno precedente è maturato molto.
L’esperienza in sé è stata totalmente diversa dalle precedenti, ero abituato a lavorare con troupe abbastanza ristrette, sul set di Summertime le persone erano il triplo. Mi sono confrontato con un modo di fare parecchio diverso rispetto al cinema, dove le cose sono più impostate, nelle serie invece è tutto frenetico, inoltre mi sono trovato splendidamente sia con gli altri ragazzi del cast che con la produzione».

Sei un romano verace, che rapporto hai con la capitale? ci sono luoghi ai quali sei particolarmente legato, oppure tappe imperdibili per un weekend in città che consiglieresti a chi ci legge?

«Sono dell’idea che qualunque cosa faccia un romano, prima o poi tornerà alla base. Ho trascorso due anni a New York e, all’improvviso, ho sentito una mancanza incredibile della città. Ormai mi sono “rassegnato”, amo Roma pur con tutti i suoi pregi e difetti, qui in ogni angolo spuntano storia e bellezza. Il luogo che preferisco è forse il Gianicolo, nei momenti di solitudine spesso andavo lassù e sedevo sul muretto, ammirando il panorama meraviglioso.

Tra le tappe obbligate menziono San Pietro, bisogna visitarlo e salire in cima al Cupolone, ho avuto la fortuna di andarci recentemente e c’erano pochissimi turisti, una goduria! Ad ogni modo ci sono così tante cose da fare e vedere, chi viene in città dovrebbe trovarsi un amico romano che lo porti in giro».

Il protagonista di Summertime in uno degli scatti realizzati in esclusiva per l’intervista con Man in Town

Come vivi il legame tra abiti da indossare sul set e interpretazione del personaggio?

«Mi è capitato che alcuni abiti di primo acchito non mi convincessero ma poi, vedendoli sullo schermo, mi sono reso conto di quanto funzionassero, quindi ho imparato a non giudicarli frettolosamente. I costumi di scena, inconsciamente, mi aiutano tanto, mi danno una mano a entrare nella parte, in questo senso le persone esterne possono avere una visione differente e magari più precisa della tua; secondo me, comunque, non ci si deve focalizzare troppo sui vestiti né preoccuparsi di essere fighi, gli abiti devono essere giusti per il personaggio, uno stumento al suo servizio».

Che rapporto hai con la moda, ci sono capi o accessori cui non potresti rinunciare?

«Ultimamente ho un’autentica fissazione per anelli, bracciali e occhiali da sole, a livello di capi sto rivalutando il look anni ‘70».

Hai film o serie in uscita? Quali sono i tuoi progetti, se vogliamo anche i sogni, per il futuro?

«L’ultimo progetto è stato La svolta, al momento sono fermo ma a breve cominceranno le riprese della terza stagione di Summertime.

Tempo fa mi era arrivata una chiamata dall’estero, una grande opportunità che purtroppo ho dovuto declinare perché impegnato con un altro lavoro, spero in futuro capiti di nuovo un’occasione simile, sarebbe fantastico prendere parte a un progetto internazionale».

Ph: Davide Musto
Styling: @vaneboz @la_sara_kane @othersrl
Ph Assistant: @michelevitale_ @_eleonoracm_

Total look Dior

New faces: Giulio Pranno

Il giovanissimo Giulio Pranno è uno degli attori emergenti del cinema italiano. Molti lo ricorderanno insieme a Claudio Santamaria e Valeria Golino nel film di Gabriele Salvatores dal titolo “Tutto il mio folle amore“. Oggi, ha qualche anno in più e il periodo della pandemia oltre ad una buona dose di stress e preoccupazioni ha portato anche tanti nuovi lavori in cui siamo pronti per riscoprirlo presto…


Dove e come inizia il tuo percorso?

Ho iniziato a recitare con il teatro in modo assolutamente amatoriale. La passione però è nata da subito quindi ho continuato gli studi frequentando una scuola professionale per 5 anni, fino ad arrivare a recitare in alcuni spettacoli come protagonista. Dopo un po’ di tempo il debutto con il primo film “Tutto il mio folle amore”.

Oggi ci sono invece due film in uscita in cui ti rivedremo

Esattamente, si parte da Security di Peter Chelsom in cui interpreto Dario, un ragazzo di 19 anni molto turbolento , arrabbiato con il mondo e con un rapporto conflittuale con la madre. Un tipo irrequieto e che beve tanto , insomma un combina guai, anche se in realtà è un bravo ragazzo e alla fine si rende conto di possedere una sensibilità forte e risulterà un personaggio chiave per il thriller.

Poi c’è Comedians di Gabriele Salvatores in cui interpreto il ruolo di un aspirante comico, un ragazzo che ha avuto difficoltà molto grandi e viene abbandonato da tutti. Nonostante questo vuole comunque utilizzare la comicità per superare le difficoltà. 

Cosa ti hanno lasciato le esperienze con Salvatores e altri big del cinema?

L’esperienza sul set con Gabriele è sempre molto bella perché è un regista in grado di creare un clima di lavoro davvero unico facendo legare molto il cast. Abbiamo letteralmente vissuto tutti a stretto contatto (anche a causa anche del covid che limitava i contatti esterni) ma è stata un’esperienza davvero positiva.

Con quali registi italiani o stranieri ti piacerebbe lavorare un giorno?

Tra gli italiani Garrone, Sorrentino, i fratelli D’innocenzo e Nanni Moretti. Come internazionali nei miei sogni c’è Tarantino e Paul Thomas Anderson.

Come hai vissuto il periodo covid?

Ho lavorato molto, forse più del 2020 ho accusato i mesi del 2021 quando ho smesso di girare. Non appena sarà terminata la promozione dei film sono prontissimo per vaccinarmi ed essere più sereno.

Che rapporto hai con la moda?

Non ho mai seguito le tendenze, sono un tipo da maglietta e jeans. Ho più confidenza con la macchina da presa piuttosto che con le foto.

E con i social?

Anche sui social pubblico pochissimo e cerco di seguire un percorso in cui condivido solo contenuti che riguardano il lavoro.

Devi partire domani, cosa porti? 

Macchina fotografica, crema solare, una buona dose di soldi. Spero di raggiungere un posto assolato con una spiaggia molto grande e trascorrere una paio di settimane di totale relax.

Progetti nel lungo periodo…

Si stanno muovendo un po’ di cose, ho deciso di seguire un percorso professionale coerente con il mio personaggio e i miei primi trascorsi, quindi stiamo valutando proposte conformi a questo tipo di carriera. Ci sono alcune cose in ballo ma meglio non anticipare troppo!

Thayna Soares: l’eleganza brasiliana nell’alta moda

Manintown incontra sul set Thayna Soares, modella brasiliana di haute couture diventata icona social apprezzata in tutto il mondo.



La tua attitude felina e l’innata eleganza ci svelano che sei una modella di haute couture. Quando hai iniziato la tua carriera e quali sono stati i designer con cui hai collaborato?

Ho iniziato la mia carriera a Parigi lavorando per brand come Hermés, Cartier e Givenchy. La mia prima sfilata Haute Couture è stata per Armani Privé, un cliente per il quale continuo a lavorare ogni stagione. All’inizio della mia carriera in Brasile, sentivo molta pressione nel dovermi adattare al mercato della moda. La corsa nel sembrare più giovane e più mainstream. Per fortuna mantenere la mia veridicità e l’eleganza nel modo di pormi professionalmente hanno portato i loro frutti.



Sfogliando l’album dei ricordi, descrivici i migliori momenti della tua carriera.

Mi considero una persona molto curiosa e sempre aperta a nuove scoperte ed esperienze. Ciò che ho sempre amato della mia carriera è l’opportunità di viaggiare grazie alle fashion week. 

Inoltre, l’interazione con altre modelle internazionali ed il confronto con i designer ha sempre generato forti emozioni. Momenti come il Festival della moda africana e le sfilate in Arabia Saudita mi hanno fatto entrare in contatto con culture totalmente diverse dalla mia, scoprendo novità culinarie e altre lingue, nonché modi diversi di vedere il mondo. È difficile elencare i momenti più importanti della mia carriera in quanto il susseguirsi di essi hanno dato vita alla professionista che sono diventata.

Sicuramente posso parlare di momenti memorabili come la mia prima settimana della moda a Parigi dove sono stata selezionata esclusivamente per rappresentare il marchio Issey Miyake. Oppure la mia prima passerella di Haute Couture per Giorgio Armani, il sogno di una vita, la campagna di Azzedina Alaia e le presentazioni di Alta Gioielleria per Cartier.

Ogni momento della quotidianità di una modella è importante così come gli step che si susseguono per raggiungere i risultati.



Da icona di stile anche sui social quali sono i must haves del tuo guardaroba estivo?

Nel mio guardaroba non mancano assolutamente i bikini. Vengo da una città brasiliana sul mare dove ho trascorso la maggior parte della mia vita indossando solo un bikini. Sono veramente ossessionata da questo indumento in tutte le sue fogge. 

Ogni bikini che si rispetti deve essere accompagnato da un bel paio di occhiali da sole e da caftani in tessuti leggerissimi. I miei materiali preferiti sono il lino e la paglia che reputo elegantemente versatili per la bella stagione.



E che dire della tua beauty routine? Raccontaci i segreti per la cura della pelle.

Ho iniziato a fare modelling a 27 anni, l’età in cui la maggior parte delle modelle si ritirano dalla carriera e prendermi cura della mia pelle mi ha aiutato molto. Non mi ripeto mai abbastanza quando dico che è sempre il momento di prendersi cura della propria pelle, e il segreto sta nella detersione e nell’idratazione.  Sono sempre truccata durante il lavoro e gli eventi motivo per il quale cerco di lavare il viso con acqua corrente e idratare con una crema specifica ogni volta che posso. La qualità dei prodotti che uso è fondamentale, meglio se anti aging. Il tutto viene completato da un’alimentazione molto sana e dal bere molta acqua.






Photographer Stefano Guindani

Photographer assistant Lorenzo Baroncelli

Videodirector Federico Gariboldi

Alessia Caliendo’s assistant Andrea Seghesio

Mua Roberto Meloni per Nars

Location Hotel Gallia Milano

Stazione Centrale Milano

Backstage photographer Lorenzo Curcetti

Rafi Carmon e il Gruppo Fattal, l’hospitality per passione

Il man in town del giorno è Rafi Carmon, cluster General Manager dei Leonardo Hotels di Italia, Austria e Ungheria che svela alla testata i segreti della buona hospitality.



Una lunga carriera iniziata nel 1982 come addetto alla sicurezza per poi innamorarti letteralmente del mondo dell’ospitalità per il quale hai studiato intensamente per raggiungere l’eccellenza negli standard.

Come è cambiato questo settore negli ultimi anni? 

Prima del Covid il mercato si era totalmente massificato e, grazie alla tecnologia, aveva perso una buona dose di emozionalità. La nostra forza è sempre stata quella di mantenere le relazioni umane trasmettendo la passione a tutti i nostri ospiti.

Il coaching motivazionale e il puro entusiasmo sono la chiave del successo dei Leonardo Hotels/Fattal Group situati nel centro nevralgico delle più importanti città. 

E’ stato difficile mantenere questa attitude durante le limitazioni pandemiche?

La nostra industry ha bisogno di ottimismo. Il team è stato costantemente in contatto su Zoom e, appena è stato possibile, abbiamo riaperto con tutte le procedure richieste. I nostri ospiti non hanno fatto altro che ringraziarci per essere stati così immediati, così efficienti, così pronti a ripartire.

“Tratta gli altri come vorresti essere trattato”. I Leonardo Hotels sono la location ideale per tutti gli appassionati d’arte. Scelti, tra l’altro, da celebrity e personaggi di rilievo nell’ambito della politica, del business e dello sport. Presenti sulla stampa specializzata e sui social, quanto reputate importante investire nella comunicazione digitale?

Dare voce agli artisti è uno dei nostri focus principali, motivo per il quale molti dei nostri hotel sono delle vere e proprie gallerie d’arte. Collaboriamo con i local hub che si occupano della comunicazione a 360 gradi e, grazie alla proattività sui social, riusciamo a raggiungere un pubblico molto vasto.

Leonardo Hotels fa parte del Gruppo Fattal, di David Fattal, che oggi possiede e gestisce circa 230 hotel in Europa, Regno Unito e Israele. Le vostre attività sono concentrate in Italia, Austria e Ungheria, quali sono i vostri prossimi passi in questi Paesi e che tipo di evoluzione avete in mente per gli hotel che rappresentate?

La nostra azienda è in costante evoluzione. Ci stiamo espandendo in Germania, in Olanda e inaltri Paesi europei e, per ciò che concerne l’Italia, vantiamo una rosa di cinque strutture con l’obiettivo di ampliarla. Non vi resta che seguirci!

Ci stiamo sviluppando ed espandendo in tutto il continente e l’Italia è uno dei nostri obiettivi principali. Attualmente l’azienda gestisce più di 220 hotel in 17 paesi diversi e continua a crescere.

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New faces: Ryan Prevedel

Ph: Marco Pionato

Styling: Filippo Solinas

Location: Federico De Luca

Diciannove anni, quasi 800K di follower su IG e più di 3 milioni e mezzo di follower su TikTok. Ryan è giovane ma ha le idee piuttosto chiare, vuole addentrarsi nel mondo della comunicazione e far convergere la sua passione per la moda con il mondo dei social network, adottandone tone of voice e linguaggio. La sua è una storia di rivalsa: nato e cresciuto a Pordenone, a quattordici anni era tra i creators più seguiti sull’applicazione Musical.ly, che oggi è diventata TikTok. A seguito di diversi episodi di bullismo nei suoi confronti ha deciso di eliminare il suo profilo.

Dopo qualche anno, però, decide di tornare alla ribalta e in poco tempo ha riconquistato i suoi vecchi follower, acquisendone di nuovi. Per l’occasione lo abbiamo incontrato e abbiamo parlato di moda, fluidità e progetti futuri. 

Se dovessi tracciare il tuo identikit, come ti descriveresti?

Sono Ryan, ho quasi 19 anni e vivo in Friuli-Venezia Giulia anche se sogno di trasferirmi presto a Milano. Nel frattempo studio lingue al liceo (tedesco e spagnolo) e una volta finito questo percorso spero di entrare nell’università dei miei sogni: marketing e comunicazione. Amo la natura e la tranquillità, il mio posto felice è il mare, non potrei vivere senza. Mi definisco un ragazzo solare ed empatico, se qualcuno sta male lo percepisco subito. Inoltre mi ritengo decisamente ambizioso ed estroverso al punto giusto, caratteristiche che nella mia vita di tutti i giorni sono essenziali.


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Quale è il segreto del tuo successo sui social?

Penso che il segreto del mio successo sui social sia dato dal fatto che sono sempre stato me stesso. Mi piace farmi vedere per come sono, cerco di non seguire la massa e differenziarmi sempre. Può sembrare un cliché, ma al giorno d’oggi possedere il proprio “timbro d’autenticità” è davvero difficile. Sui miei profili social io comunico inglese: in questo modo riesco ad arrivare a più persone abbattendo le barriere linguistiche.

Instagram vs Tiktok, cosa preferisci e perché?

Entrambi mi piacciono per motivi diversi. Su Instagram curo l’immagine, mi piace dare risalto al mio senso estetico; su Tik Tok, invece, sono più spontaneo e divertente. Di conseguenza se ho bisogno di farmi una risata ovviamente apro Tik Tok -ci passo le ore su quell’app- altrimenti cerco ispirazione su Instagram dove seguo moltissimi artisti/creator che stimo e ammiro.


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Quali sono i capi essenziali della tua estate?

In estate dentro il mio borsone non possono mancare una camicia azzurra, un pantalone di lino bianco e un paio di converse. Sono i miei capi preferiti, il mio “outfit to go”. 

E quando il sole spacca le pietre, immancabile anche un paio di Rayban.

Sentiamo spesso parlare di moda fluida, quale è il tuo parere a riguardo?

Mi piace distinguermi e ammiro chi si sa esprimere al meglio fregandosene di qualsiasi pregiudizio. Ammiro chi riesce ad uscire dalla propria comfort zone e sperimentare; in questo editoriale ho indossato per la prima volta smalti colorati, è stata davvero una figata, un’esperienza liberatoria per certi versi. Come ho accennato prima è davvero complicato staccarsi dal gusto comune per via dei moltissimi stereotipi “appresi”, anche a livello inconscio, dalla società. Penso che siamo proprio noi giovani a dover fare il primo passo per abbattere queste rigide barriere.


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Chi sono i designer che secondo te hanno esplorato al meglio questa avanguardia?

Nel panorama contemporaneo penso a John Galliano con Maison Margiela e Alessandro Michele con Gucci. Sono due uomini che hanno avuto un impatto enorme nella moda fluida, li stimo davvero tanto. Si tratta di designer che sono stati capaci di abbattere le barriere e creare un qualcosa di unico, non si è trattato solamente di fare show: hanno creato qualcosa con una potenza comunicativa capace di far riflettere lo spettatore non solo su tematiche di genere, ma anche sulla diversità della pelle e su diverse tipologie di bellezze non conformi. 

Dove ti vedi da qui a 5 anni?

Tra cinque anni vedo una versione di me cresciuta e molto più sicura di sé stessa. Spero di essere maturato, sia a livello personale che professionale. Vorrei concludere in tempo gli studi e avviare al meglio la mia carriera. Il mio obbiettivo per ora è riuscire in un modo o nell’altro di addentrarmi nel mondo della moda, è una realtà che mi appassiona da sempre, ma che solo ora sto interiorizzando. Sono quasi certo che i social faranno ancora parte della mia vita. Chissà, forse un giorno potrò congiungere moda e social e creare qualcosa di mio, nuovo e diverso.


Look MSGM, camicia Wayerôb By Alessandro Onori

Racconti di ballate davanti allo specchio Angelica

Ci diamo appuntamento con Angelica per raccontare le storie di un incontro, quello con noi stessi dinanzi allo specchio alle prese con le fragilità e il disorientamento tipico di questo momento storico. Nel nuovo album l’intimità viene affrontata con il sapore analogico dell’artista, fiore all’occhiello della scuderia Carosello Records, ex front woman dei Santa Margaret, da qualche anno sofisticata solista.



Il Karma vuole che Angelica si avvicini alla musica grazie a ONE dei Beatles, dimenticata per sbaglio venditore nel lettore cd acquistatole dai suoi genitori. Una compilation non da poco per svezzare alla musica un’adolescente che si innamorerà del quartetto di Liverpool, non trovi?

Mi ritengo baciata dalla fortuna. Se avessi trovato un altro disco forse non sarei qui con voi. La mia passione ha preso vita da un album iconico e non posso che esserne grata.

Chitarrista autodidatta arrivi addirittura ad essere sponsorizzata dall’iconica Gibson. Senza disdegnare la sperimentazione che conduce all’utilizzo di un basso Rickenbacker del ‘72 mezzo rotto.  Quanto è importante per un’artista la totale fusione con lo strumento?

L’importante è comunicare grazie alle note. C’è chi è virtuoso e chi, come me, è più creativo. Nasco come autodidatta e il mio dialogo con lo strumento è fondamentale. Gli strumenti sono tutti belli a livello estetico, quindi è facile creare un feeling e dialogarci.



Il tuo appuntamento con il destino, ha svelato, dopo l’esperienza come leader dei Santa Margaret, una carriera da solista. Pensi di aver acquisito un tuo balance nella dimensione domestica e individuale fatta di pianoforte, chitarra e pc?

Quando ero nella band non avevo grandi possibilità di esprimermi ma, dall’altro canto, le responsabilità non ricadevano unicamente sulla mia persona . Lavorare da solista mi ha consentito di diventare sincera con me stessa e ciò mi ha aiutato anche nell’approccio con il pubblico.



Un disco “dedicato a tutti quegli errori che pensavo fossero del cuore e invece erano solo della testa”, così ami descrivere il lavoro attualmente disponibile su tutte le piattaforme. Un manuale di sopravvivenza per coloro che riescono a guardarsi con occhi diversi riuscendo a perdonarsi. E’ stato difficile scavare in te stessa per arrivare a denudarti dinanzi all’oggetto più temuto da noi donne?

Il viaggio introspettivo è iniziato senza che me ne accorgessi. In realtà si tratta di un cassetto nel quale avevo rinchiuso tutto ciò che non volevo vedere. Se lo sto raccontando in musica è perché posso affermare di essere fieramente sopravvissuta.

Parafrasando il titolo di un brano presente in esso. Pensi che questo per Angelica possa essere il Momento giusto?

Io non penso che esista il momento giusto anzi, per scaramanzia, vi dico che tutte le volte che l’ho pensato si è rivelato non esaustivo. Questo sicuramente è un momento stupendo e l’anno migliore in assoluto che mi ha educata a non fermarsi nonostante mai, anche con una pandemia in corso.




Special content direction, production, interview e styling Alessia Caliendo

Photographer Riccardo Ambrosio using Polaroid

Video director Federico Floridi

Make up Eleonora Juglair

Hair Florianna Cappucci @Freelancer

Alessia Caliendo’s assistants Andrea Seghesio e Laura Ronga

Brano “Lost in Space” di Space Hunter music

Beauty credits

FaceD

Special thanks to

Leonardo Hotel Milan City Center, Milano

La Forchetta Verde, Milano

Stefano Malchiodi e Domenico Croce, ecco i vincitori del David di Donatello 2021 per il migliore cortometraggio: “Anne”

Quest’anno ai David di Donatello 2021 ad aggiudicarsi la tanto desiderata statuetta come miglior cortometraggio sono stati due giovani registi Stefano Malchiodi e Domenico Croce, altri due talenti plasmati dal Centro Sperimentale di Roma. In un’edizione ovviamente diversa dal solito a causa del distanziamento sociale che ci impone la pandemia, hanno trovato il modo di emergere con un progetto degno di nota, ricco di dettagli che sapientemente hanno aggiunto il carattere che li ha portati al trionfo. Ecco cosa ci ha raccontato Stefano.



Eravate presenti alla cerimonia dei David?

Sì, assolutamente eravamo in sala, nello studio televisivo, in quanto una parte degli invitati erano nel teatro dell’opera per un a questione di capienza delle sale.



Come ci si sente a ricevere il premio più ambito del nostro paese?

La prima reazione è stata quella dell’incredulità, quando si vincono premi così grossi per due ragazzi appena usciti dalla scuola ed autoprodotti, la sensazione è davvero immensa. È la storia di studenti cresciuti insieme, ed indipendenti, ecco una bella differenza dagli altri candidati.

Come nasce l’idea di Anne?

La storia di Anne, l’avevo trovata sul web diversi anni prima, e la verità è che mi rimase così impressa in quanto quasi surreale, e l’idea di poterne far qualcosa in futuro mi ha sempre accompagnato. Ovviamente quando ho iniziato la scrittura mi son dovuto andare ad informare meglio sul dettaglio anche perché volevo essere fedele il più possibile alla storia reale. Distinguendo ciò che fosse realtà o mistificazione. Questa è una storia realmente accaduta.

A cosa si lega la grafica del vostro cortometraggio?

La scelta è molto legata al tipo di storia, e a noi interessava giocare con i due piani della realtà e del racconto. Ovvero, gli incubi del bambino, con la grafica che a livello istintuale ti porta a collegarlo a delle immagini molto realistiche. Per noi è stato anche un modo di porre lo spettatore a scegliere quale fosse il piano di riferimento a cui fare fede.

Avete anche scelto la lingua inglese, dimmi perché.

Questo semplicemente per una questione di fedeltà alla storia, in quanto il protagonista era un ragazzo americano e ci interessava essere rispettosi nei suoi confronti.

Lo avete portato in giro per svariati Festival prima di arrivare ai David?

Sì, il primo è stato il “Giffoni Film Festival”, appena terminato il lavoro nel 2019 nella sezione Parental Experience, poi il “Cortinametraggio” dove abbiamo vinto tre premi, tra cui il Cinema RaiPlay, infitti è visibile proprio li il nostro corto, e poi un altro premio che ci porterà nelle sale cinematografiche in visione prima di altri film, insomma non potevamo chiedere di meglio.

E poi, Bingo! Storia dell’incontro con Margherita Vicario

I brani di Margherita Vicario sin dal suo esordio e, con il passare delle stagioni e dei cambiamenti storici e sociali, arrivano dritti al cuore delle donne facendo luce sulle loro passioni e paure più recondite. Sembrano tratte dal diario di una Millenial alle prese con l’avvento dell’età in cui ci si può definire adulte.

Da qui le parole sono origliate dagli aperitivi con le amiche che risuoneranno in tutta la Penisola. Tra uno Spritz e un caffè amaro non c’è nulla di meglio che raccontarsi “Come va?” . Un’artista vera per le donne vere, lontane dalle sovrastrutture digitali ma alle prese con le più svariate emozioni e senso di inadeguatezza che le attanagliano.

Solidarietà, sorellanza e accettazione della vita (tra qualche smagliatura di troppo, il dover scegliere di diventare madri e l’ultimo episodio di ghosting)  che non può essere di certo quella che ci raccontavano da bambine. La sua sensibilità non si esprime solo in musica e nella cura estetica dei prodotti visivi, a essa correlati, ma anche nella drammaturgia. Margherita è, infatti, dotata di istrioniche capacità attoriali.

E fin qui forse abbiamo fatto Bingo! L’album omonimo è disponibile dal 14 maggio.


“No, ma dimmi come va? Come va? Come va?
Come vedi il futuro? Vuoi cambiare mestiere?
” come ci si sente nel sentirselo dire a pochi giorni dall’uscita di Bingo! Il progetto discografico che da ampio respiro ad un lavoro su cui sei concentrata da due anni?

Nella mia vita vi è una domanda che si ripete ad libitum: “vuoi fare l’attrice o la cantante?”. 

Questo anno di incertezza ci ha messo dinanzi a scommesse e a direzioni inaspettate e mi ha guidata a guardare verso nuovi orizzonti. Dopo una crisi vi è sempre un inizio e il mio è una scommessa.

“Questa è l’Italia che odia l’indiano che mette benzina
Buongiorno signorina ma quanto sei bela miscela? lascia mancia! cosa fai stasera?”

Mandela un brano sui diritti umani premiato anche come Premio Voci per la Libertà di Amnesty International. Da artista ti sei esposta in prima persona su un tema che nel 2021 divide ancora il nostro Paese. Che riscontri hai ottenuto?  E soprattutto pensi che la sensibilizzazione in merito al sociale possa diventare parte integrante del tuo Manifesto?

Vivo nella convinzione che un artista non debba essere un attivista. Non abbiamo la zavorra del dovere sociale. Mandela è una riflessione personale sul quotidiano di una cittadina italiana che ha avuto un eco inaspettato. Non è un brano sul cat calling ma parla dell’inclusività nei luoghi che nel corso degli anni hanno subito stratificazioni etniche. Mi piace sempre citare la frase di Jurij Gagarin , il primo uomo nello Spazio, “Da quassù la Terra è bellissima e senza confini”.



“Tu non sai quanto ti voglio bene Ci vedo da vecchie a bere Col tuo sguardo di sguincio Sul terrazzo del Pincio
Che mi offri un abbraccio mentre io do di matto”.

Un video racconto, quello di Pincio, che diventa memoria collettiva della pandemia. Orfani di abbracci offerti e di momenti condivisi, non più inni dai balconi ma una danza liberatoria, la tua, che tuttora risuona come uno dei brani del vissuto storico. “Come va?” può essere definito paradossalmente il suo sequel non trovi?

Assolutamente si perché “Pincio” era una mia dichiarazione d’affetto nei confronti di un rapporto intimo familiare (sua cugina n. d. r.) nel pieno dell’isolamento fisico.

“Come va” è nata dalla stanchezza del secondo lockdown e nel pieno della zona rossa torinese. Il regista Francesco Coppola ha volutamente affermato che “con Pincio io guardavo al di fuori della finestra mentre in Come va il Superzoom entra in casa ed esplora i gesti della nuova quotidianità”.

“Devi fare una foto dove sembri una figa.  E poi subito un’altra dove sei un po’ sbiadita  Non perder di vista il tuo vero obiettivo  Devi mettere in luce il tuo lato creativo” sono le considerazioni autoinflitte in una società che ci vede come stoiche, ci vuole brillanti, che proclama la body positivity ma che contestualmente vede la permanenza di ideali estetici irreali. Cos’altro ancora ti piacerebbe raccontare delle donne?

La vita di una donna è costellata da tantissimi cambiamenti fisici ed emotivi. Sono un’autrice con un pugno spontaneo e irrazionale che viene da una famiglia matriarcale. Quindi si, di sicuro non smetterò mai di raccontarle.


“Beh, che cosa vuoi, cosa c’è, te chi sei? Forse ero un po’ ubriaca, sì, mi sono aperta troppo
Un bacio quello no, rischio troppo C’è più amore dentro un bacio che durante tutto l’anno nel mio letto”

Così cantavi nel 2015 presa dal monologo di “Per un bacio” improntato su un flirt platonico consumatosi in poche ore. Cosa racconteresti in dell’approccio odierno virtualizzatosi a causa del distanziamento sociale? 

Le dinamiche del corteggiamento e dell’annusamento sono le stesse da secoli, ciò che è cambiato è soprattutto il contesto sociale. Dietro “Per un bacio” vi è il racconto delle relazioni platoniche che spesso vincolano dal mettersi in gioco per davvero.



Special content direction, production, interview e styling Alessia Caliendo

Photographer Riccardo Ambrosio using Polaroid

Video director Federico Floridi

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Hair Florianna Cappucci @Freelancer

Alessia Caliendo’s assistants Andrea Seghesio e Laura Ronga

Brano “Ghetto Blaster” di Claudio Luce – River Studio Recording

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