Intervista all’attrice Noemi Brando: dal liceo a Venezia a Gianna Nannini e Netflix…per caso 

Attrice veneziana, ventitré anni, Noemi Brando è nel cast di due produzioni Netflix: Supersex, ispirato alla vita di Rocco Siffredi e Sei nell’anima, il film su Gianna Nannini in uscita il 2 maggio.

Appena diplomata al liceo linguistico, Noemi lascia Venezia e si trasferisce a Milano. Vi resta due anni. Poi “ho conosciuto un amico regista che mi convince a trasferirmi a Roma: non era nei miei programmi fare cinema. Mi interessava, ma non avevo mai studiato recitazione”.

Noemi si racconta con semplicità, gentilezza, senza divismi, nella sua casa romana dove vive con il suo barboncino color champagne, l’unico autorizzato ad apparire nel suo Instagram. “Avevo appena chiuso una storia, sono uscita e mi sono regalata il cane”.  

Noemi Brando, ph. Fabio Lovino
Ritratto di Noemi Brando, ph. Fabio Lovino

L’attrice Noemi Brando racconta del suo incontro con Gianna Nannini: «Non lo dimenticherò mai. È stata lei, Gianna, a volermi. È stato come se mi avesse riconosciuta»

Sono arrivata a Roma per caso due anni fa e ho iniziato a studiare con una coach. Poi l’anno scorso ho incontrato, per caso, Gianna Nannini. Un incontro fortunato. È stato indimenticabile. Ero sempre stata una fan di Gianna, con tanto di poster in camera. Un mio amico mi invita al concerto di Firenze e sono andata. Stavano girando le prime riprese live per il film. Mi chiamano nel backstage e c’era lei. Un’energia pazzesca.

Aspetto che finisca e la incontro. A un certo punto mi abbraccia e mi dice “Tu sei Tina! sei Tina!”. Io non capivo niente, perché non sapevo neanche del film. Gianna continua a dire alla regista, in modo concitato, “Lei è Tina, lei è Tina!”. La regista lì per lì la asseconda e dice “Sì sì va bene… vediamo… facciamo un provino”. Ma Gianna era già tutta euforica e diceva “L’ho trovata, l’ho trovata”. Tina è la sua migliore amica da giovane e stavano iniziando i provini proprio in quei giorni. Una settimana dopo faccio il provino e poi vengo presa. Un incontro fantastico che non dimenticherò mai. È stata lei, Gianna, a volermi. È stato come se mi avesse riconosciuta.

La vita è così. Pensa se quel giorno avessi detto “No, non vengo al concerto”. Le nostre strade non si sarebbero incontrate. Gianna è fantastica. Veniva sempre sul set: una volta felicissima, la volta dopo incazzata con tutti. È fatta così. Ma è stata presente alla lavorazione perché il film parla della sua vita e lei ci teneva.

«Ho la fortuna di avere genitori giovani che mi hanno sempre spinta a fare nuove esperienze»

A Milano da sola a 17 anni? 

Sì, ero giovanissima. Ho un fratello più grande che mi ha raggiunto. Venezia è una città bellissima, ma è una bolla: non vedi il mondo esterno. L’ho obbligato a raggiungermi, ma poi è tornato a Venezia. Lui sta bene lì, mentre io non ci tornerei.

I miei hanno dei ristoranti e degli hotel: vivono in un mondo diversissimo dal mio. Ho la fortuna di avere genitori giovani che mi hanno sempre spinta a fare nuove esperienze. All’inizio mia madre non voleva, ma ha rispettato le mie scelte e lo apprezzo infinitamente. Da ragazza ho anche pensato: “Forse non gliene frega niente di quello che faccio”; invece poi ho capito che l’ha fatto per me. Ho un bel rapporto con lei.

Una bellissima casa dal gusto orientale. L’hai arredata tu?

L’ho trovata già arredata e mi rispecchia. Appena l’ho vista ho detto: “Sì è la mia!”. Ha tantissima luce e per me è molto importante. All’inizio avevo una casa a Trastevere, ma sono scappata per il casino e perché era buia.

Hai diversi libri…

Amo leggere, ma ne inizio tanti in contemporanea e faccio dei casini pazzeschi. Mi lascio affascinare dalle storie, dai loro contenuti…

L’ultimo film che hai visto?

La zona di interesse. Un film davvero forte, potente, disturbante. È giocato molto sui suoni.

Noemi Brando, ph. Fabio Lovino
Ritratto di Noemi Brando, ph. Fabio Lovino

«Ho già detto alla mia agente che ora vorrei un ruolo un po’ più tranquillo»

Sei nella prima puntata di Supersex, di Matteo Rovere. Che sperienza è stata?

Supersex è stata un’esperienza tosta, ma Matteo lo conosco. Ci teneva e mi ha convinta. È una piccola parte all’inizio della prima puntata: sono una hostess e incontro Borghi. Lui finisce la conference dicendo che vuole lasciare il porno e io dico: “No, non devi lasciare il porno, io voglio fare un film con te”. C’è questa scena dove inizio a baciarlo e si vede il doppio lato di Rocco che, dall’essere carino e dolce, diventa aggressivo. La scena di sesso è stata impegnativa.

Anche Siffredi era sul set come la Nannini?

No, per fortuna non c’era. Già il set era pieno di gente: c’erano i tre registi, la sceneggiatrice, i tecnici. In quelle scene credo che ci dovrebbero essere meno persone sul set. 

Era prevista un‘intimacy coordinator?

Sì. Mi ha contattata già una settimana prima, mi chiamava ogni giorno, c’era durante le prove e, alla fine di ogni set, mi chiedeva se stessi bene, se fossi a mio agio, se fossi stata toccata in zone dove magari non volevo. Abbiamo discusso insieme il copione, analizzato tutta la mia parte, e ogni volta mi chiedeva se autorizzassi a essere toccata in determinati punti. Mi sento fortunata ad aver avuto questa figura sul set, soprattutto perché sono i primi ruoli che recito.

Due ruoli piccoli ma complessi…

Ho già detto alla mia agente che ora vorrei un ruolo un po’ più tranquillo. In Sei nell’anima, Tina è una tossicodipendente che muore per overdose di eroina. Per prepararmi ho visto Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino. Un film tostissimo, ma nel film io muoio così. Ho dovuto studiare e questo film racconta proprio quegli anni, quando le persone morivano spesso di eroina.

Noemi Brando, ph. Fabio Lovino
Ritratto di Noemi Brando, ph. Fabio Lovino

Che formazione hai?

Non ho una formazione tradizionale. Studio con Aurin Proietti e con Anna Redi. È lei che mi prepara per i provini. E poi ho fatto delle master class. 

Sì, ma con Özpetek e Muccino…

Due esperienze fantastiche. Con Özpetek, che poi mi ha preso per il suo corto Compagni di viaggio, ho fatto una bellissima formazione. Conoscerlo è stata un’esperienza unica. Abbiamo legato e abbiamo realizzato questo corto in Toscana su Maserati. Lo adoro. È una persona meravigliosa. Ho visto tutti i suoi film e sono andata a teatro a vedere Magnifica presenza. Muccino è completamente diverso. Urla in continuazione. Urla già di prima mattina sul set, mentre io sono più zen, pacata. Una formazione molto diversa ma altrettanto preziosa.

Noemi Brando, ph. Fabio Lovino
Noemi Brando, ph. Fabio Lovino

«Mi piace provare e sperimentare»

Sei zen ma fai box…

Faccio Muay Thai. È un’arte marziale e sport da combattimento con calci e pugni. C’è un grande contatto fisico e ti dà un’energia pazzesca. 

Quindi, nonostante l’arredamento in stile giapponese, non sei una tipa da yoga?

No, faccio anche yoga. Sono appena tornata da un ritiro di yoga e meditazione. È stata un’esperienza stupenda. Pensavo di non riuscire a fare meditazione: è stata un’avventura per me totalmente nuova. In Toscana, quattro giorni di digital detox senza cellulare. Pensavo sarei impazzita, invece sono riuscita a non usare il telefono e a non entrare su Instagram. Ormai quando non sai che fare apri Instagram. 

Ero con pochissime persone e non conoscevo nessuno. Ho fatto qualcosa che non è nelle mie corde: mi sono completamente affidata. Ero con la compagna di Fabio Lovino, il mio fotografo. Lei insegna yoga a Roma e fa questi ritiri. Anche in questo caso ho deciso di buttarmi.

Sperimentare quello che non hai mai fatto mi sembra il filo conduttore della tua vita…

Mi piace provare e sperimentare. Mi sto iscrivendo a corsi di danza, canto. L’anno scorso avevo pensato di fare domanda al Centro Sperimentale di Cinematografia, però mi sarei dovuta fermare per tre anni. Durante l’Accademia non puoi fare nulla, mentre io già stavo iniziando a lavorare, per cui ho lasciato stare. 

Ritratto di Noemi Brando, ph. Fabio Lovino
Ritratto di Noemi Brando, ph. Fabio Lovino

«Quello che mi preoccupava era fare yoga, guardare dentro di me… non sai mai che trovi»

Le foto per MANINTOWN sono di Lovino. Ti interessa anche la moda?

Era la prima volta che scattavo con lui ed è veramente bravo: mi ha fatto sentire a mio agio. A Milano stavo in un’agenzia di moda e ancora adesso, a volte, faccio qualche campagna: mi diverte fare le foto.

Molte attrici non amano stare sotto l’obiettivo.

No, io lo trovo divertente. Non ho paura di essere scrutata. Pensa che invece quello che mi preoccupava era fare yoga, guardare dentro di me… non sai mai che trovi. Fermarsi, studiarsi… dici che non hai tempo, ma in realtà il tempo si trova. Quello che manca è il coraggio. E rimandi. La prima volta non ho sentito niente, con queste campane tibetane e lei che diceva: “Adesso scendete una scala, c’è un bosco, arriva un animale… Che animale è?”. E io mi chiedevo: “Non lo so, che animale vuoi che sia?”. A volte, quando approcci queste tecniche, guardi gli altri e pensi che siano tutti pazzi…

Foto Noemi Brando, ph. Fabio Lovino
Noemi Brando, ph. Fabio Lovino

Il tuo Instagram è molto professionale. Lo usi per lavoro?

Sì. Mi piace mostrarmi, ma proteggendo la mia intimità. Non pensavo, ma ci sono anche registi che mi contattano su Instagram, anche del livello di Virzì.

Va bene se ti scrive Virzì, il problema è se ti scrive il pazzo di turno…

Quelli ce ne sono ogni giorno. All’inizio ci rimanevo male, dicevo: “Chissà che idea hanno di me”. Devi avere un carattere forte. Dopo Supersex, poi, arriva di tutto. 

Alla scoperta di Roma tra foto e sculture con la mostra di Federico Pestilli al The Westin Excelsior

Dal felice connubio tra ospitalità di lusso e arte nasce Passione in pietra, il nuovo progetto fotografico ed espositivo nella lobby del The Westin Excelsior, in collaborazione con il giovane talento Federico Pestilli. Un percorso unico alla scoperta di una Roma nascosta, tra scatti di statue e sculture che prendono vita mentre il marmo si trasforma in espressione artistica.

La mostra si terrà fino al 30 aprile nella maestosa lobby del The Westin Excelsior Rome, luogo simbolo della Dolce Vita felliniana, offrendo un itinerario singolare a disposizione dei molti ospiti in visita a Roma. Quella ospitata dal celeberrimo albergo di via Veneto è un’esposizione unica, inserita nelle celebrazioni per i suoi 118 anni di storia.

Federico Pestilli nasce a Roma nel 1985. Il suo operato è il risultato di una formazione internazionale. Dopo aver conseguito una laurea in Storia alla Sorbona di Parigi, si trasferisce a New York lavorando sui set fotografici di moda. E proprio qui Pestilli inizia parallelamente a sviluppare un progetto fotografico indipendente, che lo porta ad esplorare angoli del mondo poco conosciuti. Una fotografia di stampo documentaristico che unisce persone e posti agli antipodi tra loro. Nel 2023 vince il concorso con ILFORD Photo per il suo progetto Extinct sulla fauna in estinzione. Vive e lavora tra Londra e Roma.

Passione in pietra è un progetto che si snoda tra nove gigantografie in bianco e nero, raffiguranti statue e sculture presenti in strade e luoghi simbolo della Città Eterna.

«Le opere della mostra – racconta Federico Pestilli – non sono ancorate a un arco temporale specifico. Le gigantografie nella hall principale sono opere storiche ma relativamente recenti. Nella seconda hall le stampe di dimensioni più intime sono invece di epoca romana, primo e secondo secolo. Il tempo non è stato un fattore critico nella scelta delle opere. Lo è stato invece il loro posizionamento topografico nella cittàsono opere situate in prossimità dell’Excelsiore il loro potere evocativo di passione, sia dei soggetti scolpiti sia degli scultori nel loro lavoro. L’idea di portare delle statue è nata studiando lo spazio espositivo dell’Excelsior e intuendo il potenziale di stampare in grande opere piccole. La foto di un monumento non sarebbe stata più grande del reale, quelle delle statue sì».

Mostra Passione in pietra all'hotel The Westin Excelsior Rome
The Westin Excelsior Rome

Federico Pestilli sulla mostra Passione in pietra: «Per la mostra all’Excelsior ho raccolto le immagini che sintetizzano il mio percorso fotografico. Ho usato le statue per evidenziare il mio pensiero su luce, composizione ed etica»

Queste immagini si inseriscono in un ampio lavoro su Roma e sulla sua evoluzione storico-urbanistica. Qual è il progetto?

I miei progetti si articolano in lassi di tempo vari. Una volta trovata una tematica che mi incuriosisce, inizio un lavoro di archiviazione di immagini in progetti, come fossero delle cartelle per il pensiero. Essendo nato a Roma, il mio progetto su questa città continuerà finché potrò impugnare una fotocamera. Quindi, il primo lasso di tempo è quello a lungo raggio senza scadenza. Il secondo lasso di tempo di un progetto è quello breve che mi costringe a fare sintesi della mia ricerca.

Per la mostra all’Excelsior ho raccolto le immagini che sintetizzano il mio percorso fotografico. Ho usato le statue per evidenziare il mio pensiero su luce, composizione ed etica. Ogni progetto informa gli altri, quando se ne espone uno si fa sintesi dell’esperienza acquisita negli altri. Quello su Roma raccoglie vari soggetti della Capitale, dall’urbanistica antica a quella contemporanea. Per questa presentazione ho voluto sottolineare la fragilità dell’immagine scolpita in marmo: la pietra prende le sembianze umane e ci emoziona, poi rompendosi torna pietra e la nostra illusione si scioglie. A me piace vedere nelle statue, soprattutto antiche, delle pietre con sembianze umane, anziché delle figure umane in decadenza. L’opportunità della mostra mi ha spronato a cercare nuovi dettagli in una città che offre sempre qualcosa da scoprire.

«La pellicola di per sé aggiunge una sensazione naturale e organica all’immagine, difficile da decifrare, ma è simile al suono del vinile rispetto al suono digitale»

Ha vinto il premio ILFORD Photo 2023. Cosa significa oggi fotografare su pellicola? E in B/N?

Fotografare in bianco e nero vuol dire astrarre la realtà. La fotografia digitale è precisa e scientifica, userei anche il termine “televisiva”. Quando vediamo un’immagine molto chiara non ci sforziamo a completarla. Un’immagine astratta invece, senza colori, ci richiede di evocare le nostre esperienze ed emozioni per completarla. La pellicola di per sé aggiunge una sensazione naturale e organica all’immagine, difficile da decifrare, ma è simile al suono del vinile rispetto al suono digitale.

Mostra Passione in pietra all'hotel The Westin Excelsior Rome
Il progetto Passione in pietra

Cosa ama della pellicola?

La fotografia sta diventando sempre più a portata di mano, ormai con il telefono siamo tutti fotografi. Ironicamente mi sembra che più vediamo e meno capiamo, e meno siamo in grado di percepire il valore della realtà. Fotografare in pellicola vuol dire poter vivere il momento in cui si fotografa senza verificare immediatamente se l’immagine ripresa corrisponda all’idea di composizione. Questo vuol dire lasciare più spazio agli errori e aprire più porte all’inatteso. Questo è un pregio della fotografia analogica.

Per ILFORD ha presentato il progetto Extinct, foto di animali nel loro ambiente naturale. Un mondo antitetico rispetto agli scatti esposti all’Excelsior o a quelli dei marmi di Villa Borghese con le mascherine in era Covid. Ci sono due Federico diversi?

Ci sono tanti Federico quanti i soggetti da fotografare. Non credo sia il contenuto a descrivere la creatività di un individuo, bensì la maniera in cui il contenuto viene trasmesso e l’etica che lo vela. È la sensibilità di un artista che va sempre evidenziata prima del contenuto o i materiali con i quali si lavora. Se parliamo di animali o di statue è la percezione della luce e delle forme che è più indicativa di un unico Federico.

Mostra Passione in pietra all'hotel The Westin Excelsior Rome
Il progetto Passione in pietra

«Credo siano tutti più insicuri in un mondo in cui l’immagine è un’arma a doppio taglio»

Si scatta molto più che in passato, ma resterà molto meno, tutto sparpagliato in nuvole virtuali. Cosa racconta, secondo lei, il nuovo rapporto delle persone con la fotografia?

Credo che la nuova fotografia sia soprattutto un linguaggio, una nuova maniera per dire le solite cose. Le persone che riusciranno a dire cose rilevanti saranno la stessa piccola percentuale di prima. Sicuramente ora c’è più “rumore visivo” e per questo è necessario uno sforzo in più per distinguere l’importante dal superfluo. Forse uno dei cambiamenti più grandi è la maniera in cui la gente si rapporta alla propria immagine. Credo siano tutti più insicuri in un mondo in cui l’immagine è un’arma a doppio taglio. Quando giravo a Roma negli anni novanta se volevo fotografare qualcuno la gente si impettiva d’orgoglio. Oggigiorno la gente vuole controllare la propria immagine, non si fida subito.

«Non mi garba essere definito da due, tre scrollate di schermo che dicono “Ah lui fa questo”. Preferisco la domanda “Ma lui cosa fa?”»

Instagram nacque per condividere foto. Perché il suo profilo ne ha così poche?

Il mio rapporto con Instagram e il mondo online è sicuramente conflittuale. Ho resistito molto tempo prima di decidere che una presenza virtuale fosse effettivamente uno strumento utile per me. Più volte ho fatto una purga totale del mio storico di immagini. Non mi garba essere definito da due, tre scrollate di schermo che dicono “Ah lui fa questo”. Preferisco la domanda “Ma lui cosa fa?”. Chi mi segue da tempo sa sia cosa ho fatto che quel che sto facendo. Diciamo che è un incentivo inusuale a seguirmi.

Mostra Passione in pietra all'hotel The Westin Excelsior Rome
Passione in pietra

«La fotografia di moda contiene ovviamente una vena di forte creatività, ma nel momento in cui l’immagine si propone di vendere un capo d’abbigliamento questa si appiattisce»

Si è formato nel mondo della moda. È una mia impressione da profana o in questo tipo di fotografia l’arte sta scemando?

L’arte quando deve vendere qualcos’altro non è più arte. La fotografia di moda contiene ovviamente una vena di forte creatività, ma nel momento in cui l’immagine si propone di vendere un capo d’abbigliamento questa si appiattisce fino a essere priva di valore spirituale. Pubblicità e propaganda sono simili in questo contesto. Anche le case di moda sono responsabili di questa realtà; per evitare di essere politicamente scorrette e per massimizzare i guadagni sottraggono potere decisionale ai creativi che si trovano sempre più ad essere ingaggiati come tecnici di fotografia.

Il digitale, e la conseguente facilità di lavorare in post-produzione, sta facendo diventare fast non solo il fashion ma anche il modo di raccontarlo?

C’è sicuramente una sete insaziabile di contenuti in un mondo sempre più digitale. Se fino ad oggi le grandi piattaforme social si sono cibate dell’attenzione degli utenti, in futuro cercheranno di accaparrarsi l’intimità degli utenti. Solo una presa di coscienza individuale e collettiva potrà evitare che gran parte della popolazione mondiale cada preda di un sistema dal quale sia impossibile scollegarsi. Più la moda diventa “fast” e meno tempo si ha per riflettere. Dovremmo tutti prendere un bel respiro e cercare insieme di rallentare un sistema sfrenato.

Mostra Passione in pietra all'hotel The Westin Excelsior Rome
Passione in pietra

Gian Paolo Barbieri: rivelazioni di Stile e Bellezza, Il docufilm sul maestro della fotografia di moda

Arriva in esclusiva su Sky Arte lunedì 15 aprile alle 21.15 il documentario Gian Paolo Barbieri. L’uomo e la bellezza. Un racconto intenso, un viaggio nella storia di uno dei protagonisti della grande moda italiana.

Gian Paolo Barbieri, il fotografo di Armani, Ferrè, Versace, Valentino; colui che ha inventato il glamour come nessuno prima di lui aveva fatto. Un uomo di cultura e di straordinario stile che non può essere racchiuso nella limitata definizione di fotografo di moda. L’artista che sapeva trasformare una campagna pubblicitaria in un reportage e un abito nel protagonista di una storia.

Un documentario che è un viaggio in un mondo lontano, con i maestri Tom Kublin e Richard Avedon; i volti di donne iconiche come Audrey Hepburn per Valentino nel 1969, Catherine Deneuve, Monica Bellucci per il calendario “GQ”, Sophia Loren, Ava Gardner, Elisabeth Taylor; le campagne per i grandi stilisti che hanno reso la moda italiana unica al mondo: Valentino, Versace, Ferré, Armani.

Il documentario, diretto da Emiliano Scatarzi e scritto da Federica Masin ed Emiliano Scatarzi, è prodotto da Moovie in collaborazione con la Fondazione Gian Paolo Barbieri. Quello che resta è una storia, come quelle che minuziosamente Barbieri ha sempre costruito sui suoi set, dove il grande fotografo incontra e saluta chi lo ha conosciuto, amato, chi ha lavorato con lui e per lui. Uno sguardo tenero e potente su uno degli ultimi testimoni di quei meravigliosi anni che in tanti hanno provato a imitare senza riuscire a farli rivivere. Un abbraccio collettivo a Gian Paolo Barbieri da Monica Bellucci, Domenico Dolce, Stefano Gabbana e tanti altri.

Un viaggio irripetibile tra preziosi materiali d’archivio, come quelli del Centro di Ricerca Gianfranco Ferré, diretto dalla sua storica compagna d’armi Rita Airaghi. Ed è Rita Airaghi a raccontarci Ferrè architetto della moda e Barbieri che costruiva set fotografici come fossero progetti, a tal punto minuziosamente realizzati da non necessitare, spesso, neanche di lavoro in post produzione. 

«Agli occhi di Gianfranco, Gian Paolo aveva la capacità sublime di restituire, con i suoi scatti, la femminilità e il senso dell’eleganza della moda»

Ma cosa univa Gianfranco Ferrè e Gian Paolo Barbieri e dove, invece, contrastavano?

Su molte cose erano estremamente convergenti. Anzi, pericolosamente convergenti, perché tutti e due rasentavano la follia del dettaglio. Ricordo che, per un servizio fotografico, c’era necessità di una pelle di zebra, oggetto non facile da reperire. Un collaboratore, che oggi chiameremmo un art buyer, arriva con una pelle di zebra. Immediatamente, entrambi e all’unisono, dicono: “è piccola”. Ma quelle erano le dimensioni della zebra. Ne abbiamo riso per anni. Gian Paolo era abituato a questa precisione nel dettaglio che, credo, gli venisse dalla frequentazione con Visconti ai tempi di Cinecittà. Gianfranco era preciso di natura; una delle frasi che amava era di Van Der Rohe: “Dio è nei dettagli”.

Quella tra Ferré e Barbieri è un’intesa che è nata molto presto. Gian Paolo fece per noi alcune campagne prima che nascesse la Gianfranco Ferrè e il marchio di prêt-à-porter, quando Ferré ancora disegnava per diverse aziende, tra le quali Baila. Una cosa che ha sempre caratterizzato Gian Paolo è il  modo di rappresentare la bellezza della donna. Gianfranco definì Gian Paolo “divino fotografo”, sottolineando la sua straordinaria capacità di raccontare il potere seduttivo della moda e della femminilità. Agli occhi di Gianfranco, Gian Paolo aveva la capacità sublime di restituire, con i suoi scatti, la femminilità e il senso dell’eleganza della moda.

Una frase apre e chiude il docufilm: “La bellezza deve essere colta”…

Si, credo che quella frase riassuma l’arte di Gian Paolo Barbieri.

Rita Airaghi su Gian Paolo Barbieri: «Questa sua capacità di illuminare la scena fotografica di un pathos che rende i suoi scatti irripetibili»

Una delle voci della docufilm, Benedetta Barzini, dice: «Per me la bellezza degli anni 60 e 70 è noiosissima. Talmente perfetta da essere irreale». Ferrè e Barbieri ci hanno restituito delle donne iconiche, di una bellezza disarmante. È stata braccio destro di Ferrè e ora si occupa del Centro di Ricerca Gianfranco Ferré. Trovava quella bellezza noiosa?

Ho avuto la grande fortuna di aver visto questo mondo in momenti di nascita e crescita consapevole. Capivamo che stavamo facendo qualcosa di nuovo e di importante. Con il Centro di Ricerca Gianfranco Ferré abbiamo fatto il lavoro di raccontare la moda di Gianfranco vista attraverso gli occhi dei vari fotografi che hanno realizzato le nostre campagne, da Demarchelier a Lindbergh. Uno dei primi è stato proprio Barbieri e c’è una sezione di foto dove emerge il suo amore per il dettaglio, la sua precisione. Questa sua capacità di illuminare la scena fotografica di un pathos che rende i suoi scatti irripetibili. Una cosa che vorrei sottolineare è che, quando parliamo di Gian Paolo, ricordiamo sempre le sue foto di donne, perché le più famose sono sempre di creature femminili straordinarie; ma resta sottotono la sua fotografia al maschile, che non è solo quella etnica. Non ci sono solo i bellissimi uomini vestiti di tatuaggi di Tahiti Tattoos. Ci sono foto uniche dove Gian Paolo entra nell’uomo contemporaneo col suo obiettivo: visi e corpi straordinari, uomini veri, concreti; pose statuarie che risultano di una naturalezza impressionante e non impostate o finte. Frutto della maestria di Gian Paolo.

Vedendo il contenuto della moda di oggi credo che Gianfranco non sarebbe stato contento di vivere nel momento attuale della moda. Abbiamo vissuto un’altra storia e, probabilmente, quel suo modo di concepire la bellezza femminile e maschile, oggi, secondo me, avrebbe avuto meno spazio.

«Nessuno di loro veniva da scuole di moda. Ma tutti e tre hanno trovato degli industriali che hanno accettato il rischio, che hanno puntato su questi giovani che non erano nessuno»

Secondo lei il fatto che la moda oggi sia in mano alla finanza ha distrutto la moda come arte?

In parte sì, perché c’è una pressione sui creativi che una volta non c’era. Mi rendo conto che parlo della preistoria, quando è nato il fenomeno del made in Italy, e parlo di Armani, Versace e Ferré: Armani sfila col suo nome la prima volta nel ’75, Ferré e Versace nel ‘78. Nessuno di loro veniva da scuole di moda. Ma tutti e tre hanno trovato degli industriali che hanno accettato il rischio, che hanno puntato su questi giovani che non erano nessuno. Oggi invece il gruppo, i fondi, puntano su nomi che dovrebbero già essere conclamati, dando loro dei paletti a sei, massimo dodici mesi, per vedere un ritorno degli investimenti. E comunque dopo un certo periodo si rimescolano le carte. Ci sono casi estremamente fortunati e positivi, ma in molti altri possiamo dire che questa fretta e questa pressione sul risultato, sui numeri, sul raggiungimento di certi mercati, non fa bene alla creatività, credo .

Gianfranco era un fenomeno perché andava ogni settimana a Parigi da Dior, si occupava della Ferré a Milano, controllava personalmente le seconde linee. Ma c’era un modo di lavorare che non era così drammaticamente condizionato da un risultato a breve. Da Dior Gianfranco ha ottenuto risultati strepitosi, ma non aveva il fiato sul collo.

Ha parlato di “preistoria” del made in Italy. Però Sabato De Sarno ha riportato Gucci all’interno di un percorso più classico, più vicino ai suoi anni d’oro; se vedo foto di Barbieri o di altri che hanno fatto la storia della fotografia di moda, resto ipnotizzata; sui red carpet gli abiti più acclamati sono pezzi vintage che vengono dagli archivi storici delle maison. Cosa legge in tutto questo?

Vuol dire che negli ultimi decenni sono state create espressioni dell’arte della moda che sono eterne, che hanno valenza anche a distanza di tempo. Ci sono foto di Gian Paolo dei primi anni Ottanta che sembrano scattate ieri. C’è una campagna che lui ha fatto con una tecnica particolare e quando, un anno fa, guardando delle foto di archivio, gli ho chiesto come le avesse realizzate, lui mi ha detto: “non mi ricordo, ho fatto delle prove, degli esperimenti”. Lui provava. Ma era quell’esperimento che ha reso quegli scatti più moderni di qualunque cosa fatta oggi. Vuol dire che certi valori sono eterni. Io lo leggo così

«Da Gianfranco ho imparato più di quanto io abbia dato a lui: in termini di raffinatezza, di gusto della bellezza»

Ogni volta si dice che tornano gli anni 70-80-90. Raccontava di quando eravate consapevoli di star creando qualcosa di nuovo. Perché si anela a quel trentennio ma non emergono nuovi Valentino, Versace, Ferré?

Perché è cambiato il sistema: non emergono nella moda come non emergono in altri campi. Per quanto riguarda la moda è proprio cambiato l’uso del vestito, il suo consumo. Da quando si è inserito il sistema del fast fashion è cambiato il modo di concepire l’abito. In un contesto di regole completamente modificate, non è detto che gli attuali creatori di moda non debbano essere considerati dei geni. È diverso il metodo di giudizio.

Cosa le ha lasciato Ferré e cosa ha dato lei a Gianfranco Ferrè?

Occupandomi delle pubbliche relazioni e della comunicazione, avevo il compito di trasferire all’esterno informazioni e suggestioni che appartenevano al mondo Ferrè. A lui personalmente ho dato di più, ma perché essendoci un vincolo di famiglia c’era questa perversa abitudine di parlare di lavoro anche il sabato sera o la domenica pomeriggio. L’esperienza l’ho fatta sul campo perché nei famosi anni 70 non esisteva una scuola. Oggi si esce da una pseudo università di comunicazione e si entra in un ufficio già strutturato. Noi siamo quelli che quel sistema lo hanno creato dal niente. Da Gianfranco ho imparato più di quanto io abbia dato a lui: in termini di raffinatezza, di gusto della bellezza, della ricerca di quelle ispirazioni che non sono mai casuali, ma che sono il frutto di una passione spirituale.

Da Cortinametraggio, intervista impossibile con Antonio Bannò

Antonio Bannò è in varie serie tv di successo: Rocco Schiavone 2, Suburra, Romulus. In Vita da Carlo interpreta Chicco. È nel cast della serie Christian nel ruolo di Davide, tra gli interpreti de Il Principe di Roma di Edoardo Falcone e in Gigolò per caso di Eros Puglielli.

A Cortinametraggio Antonio Bannò è in giuria. Arrivo con i soliti appunti per le domande. Fatica sprecata. Mi trovo davanti un casinista che mi fa fare un salto indietro di trent’anni, ai tempi del liceo. Cerco di fare domande che abbiano un senso… niente… ma non mi arrendo. Poi ci parli e scopri il classico tesoro, quello davanti al quale sei passato tante volte, ma hai sempre visto la superficie senza scendere in profondità. Comunque, dopo i primi due minuti ho chiara la situazione: finirà in caciara (termine romano per indicare… ‘na caciara)

Antonio Bannò, tra i giudici di Cortinametraggio
Antonio Bannò, tra i giudici di Cortinametraggio

Antonio Bannò: «Sono il terzo figlio, quello lasciato un po’ a se stesso, al quale è stata data libertà»

Capiamoci: chi fa le domande qua? Io o te?

No vabbè, si chiacchiera… sennò è una rottura di palle.

Iniziamo con la domanda a piacere…

Il primo film che mia mamma mi ha portato a vedere al cinema è stato La gabbianella e il gatto. E poi tutti gli Harry Potter. Anche gli ultimi, nonostante fossi già grande. Ogni volta era “A mà, dobbiamo andare insieme”. La mia generazione è cresciuta con loro: quando loro sperimentavano i primi amori, noi sperimentavamo i nostri primi amori; loro il primo bacio e noi il primo bacio (mi chiedo se me sta a… sì, insomma… se è serio, ndr). Sono il terzo figlio, quello lasciato un po’ a se stesso, al quale è stata data libertà. Il terzo è quello che, se cade, è: “si è fatto male? Vabbè rialzati”. Il bello dei terzi è che amano tantissimo i primi. Io poi li amo tutti e due. Mio fratello è la persona più intelligente che conosco.

Sulle piste c’è neve. Hai sciato?

Sono un grande amante del mare. Guardo queste bellissime montagne innevate e dico: tutto bellissimo, dov’è il mare? Mi piacciono gli scogli, amo Salina: si mangia pesce freschissimo. Ma se gli chiedi il limone, ti guardano come se venissi dai Parioli… (ancora una volta mi chiedo se me sta a… sì, insomma…se è serio, ndr).

Antonio Bannò al Cortinametraggio
Antonio Bannò al Cortinametraggio

«Con Binasco ho fatto La cucina di Arnold Wesker al teatro Eliseo, quando ancora esisteva l’Eliseo. Binasco è un grande e ho lavorato con lui perché ho studiato alla scuola dello Stabile di Genova»

Invece da quale Roma vieni?

Dal Portuense.

Come attore vieni dal teatro. Hai lavorato con Valerio Binasco, Ennio Fantastichini…

Con Binasco ho fatto La cucina di Arnold Wesker al teatro Eliseo, quando ancora esisteva l’Eliseo. Binasco è un grande e ho lavorato con lui perché ho studiato alla scuola dello Stabile di Genova. Con Ennio Fantastichini eravamo al teatro Argentina di Roma, nel suo penultimo spettacolo. Fantastichini era una persona meravigliosa. Aveva un cuore grandissimo. Era un grande appassionato di antiquariato. Eravamo in tournée con il Re Lear, regia di Barberio Corsetti, e lui andava in giro per antiquari. Abbiamo fatto tanti teatri di provincia e lui, in qualunque posto, aveva un’amica con un negozio di antiquariato che magari gli diceva “Ennio, devi venire che ho una sedia…”.

Aveva un furgoncino sul quale caricava tutta questa roba e, per la prima, mi regalò un astuccio delle elementari degli anni ’20, in legno, che custodisco gelosamente. Dentro c’è il bigliettino che aveva scritto per me: “Per le tue primine”. Le mie prime a teatro… le mie primine… aveva un grande cuore. Poi offriva sempre da mangiare, quindi gli volevamo tutti bene. Eravamo tutti scapestrati.

A Roma non mancano le scuole di teatro, perché sei andato a Genova?

Ho fatto provini e selezioni anche per altre scuole, ma avevo visto La tempesta diretta da Binasco, dello Stabile di Genova, e ho detto: io attori che recitano così non li ho mai visti.

Da bambino eri quello che a Natale, in piedi sulla sedia, leggeva la poesia a tutti?

Ovvio, perché ero il terzo figlio. Uno era quello bello, uno quello intelligente, io dovevo per forza fare qualcosa. Siccome con lo sport è andata male… Avevo provato con il nuoto, ma ero scarsissimo.

Antonio Bannò
Antonio Bannò

Antonio Bannò: «Ho fatto il liceo classico, ma non si vede per niente»

Prima dell’Accademia?

Ho fatto il liceo classico, ma non si vede per niente. Le cose bisogna nasconderle… sono andato al Montale, lo stesso di Damiano dei Maneskin… vuoi mettere…

Greco o latino?

Greco! Amavo il greco. Un giorno andiamo a San Pietro in visita scolastica. Arriva un prete tedesco e chiede indicazioni in inglese alla mia insegnante di latino e greco. Lei vede che è un prete e parla in latino. Si sono dati le indicazioni stradali parlando in latino! Ho visto conversare in una lingua morta! Però amavo il greco e soprattutto… il vocabolario deve essere il Rocci.

Ti ricordi quando dovevi tradurre quelle parole tipo logos e ti trovavi sette pagine di traduzione? La mia classe al liceo era veramente tosta: seccavano tutti. Siamo partiti in 25 e arrivati in 14. Dovevi studiare. Una volta la mia professoressa di filosofia, donna intelligentissima ma che rompeva le palle, mi becca che camminavo per strada su via dei Colli Portuensi. Era tipo il secondo liceo, quindi il quarto anno. Lei col cane gigante. Mi guarda scandalizzata e mi fa: “al secondo liceo, alle quattro del pomeriggio, sui Colli Portuensi…” . Con sguardo truce e voce che si abbassava sempre più, dice: “Domani t’interrogo”. Probabilmente avrò preso sei meno a quell’interrogazione.

Che alunno eri?

Due anni di fila rappresentante d’Istituto. Ho manifestato senza saperne un cazzo, abbiamo occupato, ma è giusto perché al liceo devi sapere chi sei.

Antonio Bannò, ph Anna D’agostino
Antonio Bannò, ph. Anna D’agostino

«Ho visto corti che potrebbero essere film. Cortinametraggio è un festival dove ho incontrato delle perle»

Quando hai detto ai tuoi: faccio l’attore?

Sono nato in una famiglia di liberi fino alla fine. Per loro basta che io sia felice. I miei genitori sono spettacolari. Mi piacciono. Li amo e quando li guardo li vedo belli. Quando ho compiuto trent’anni, mi hanno scritto una lettera. Ero appena uscito da una relazione dopo tre anni e mezzo di convivenza. Mi son detto: e ora dove vado? Prima un divano, poi un altro, poi avevo finito gli amici e sono tornato da mamma. Dopo un po’ le ho detto: “Ho trovato una stanza a Centocelle”. Lei mi fa: “Centocelle è lontano”. Le ho risposto: “A ma’, sono andato a Genova quattro anni e non ci siamo mai visti”. E poi le ho chiesto: “Ma tu vuoi un figlio felice o un figlio ubbidiente?” Allora lei ha detto: “No vabbè vai”. E mi hanno scritto una lettera d’amore bellissima.

Quando decisi di fare l’attore, io scrissi loro facendogli proprio quella domanda e me ne ero anche dimenticato. Avevo diciotto anni. Avevo scritto: voi mi avete insegnato la libertà: volete un figlio felice o un figlio ubbidiente? Sono stati due grandi. Mia madre poi mi ha confessato che papà non era tanto convinto. È siciliano, di una famiglia di mezzadri di San Giorgio, frazione di Assoro, comune di Agira, provincia di Enna.

Che ne pensi dei corti che hai visto?

Penso che, se glielo permettono, ci sono dei futuri autori. Ho visto corti che potrebbero essere film. Uno è un incrocio tra Alice Rohrwacher e Ken Loach. Fategli fare un lungo. Cortinametraggio è un festival dove ho incontrato delle perle. C’è un signore, si chiama Pasquale Cozzupoli, che fa la color correction: è l’ultimo step del film e lavora a stretto contatto con i direttori della fotografia. Sta lavorando con Vittorio Storaro, direttore della fotografia di mezzo cinema americano, tra cui Woody Allen. Stanno restaurando tutta la filmografia di Bertolucci. Ha fatto Il cacciatore di Cimino, Gangs of New York di Scorsese. Bellissimo quando ti racconta di Scorsese che “non se capisce niente quando parla”.

Antonio Bannò: «Io sono uno easy, mi piace l’ironia, mi piace che niente sia preso sul serio»

Sei in Vita da Carlo. Il tuo rapporto con Verdone?

Reverenziale. Lui è quello che ti fa “Come stai oggi? Hai dormito bene? OK. Motore, azione”. Lo vedi, io sono uno easy, mi piace l’ironia, mi piace che niente sia preso sul serio, nascondere la profondità in superficie. Ogni tanto mi avvicino e gli chiedo di raccontarmi un aneddoto. Come ad esempio quella volta che girava in esterno. Il film era in pellicola e la pellicola costa. C’era uno col motorino che faceva casino: erano tipi che lo facevano per farsi pagare per non fare rumore.

Nel favoloso mondo del cinema di una volta esistevano anche questi. Un direttore, mi pare di produzione, non gli voleva dare i soldi. A un certo punto Carlo dice: “Qua non si riesce a girare”. Va dal suo capo elettricista che fa: “Vabbè, mo’ te lo risolvo io”. “Senti te, viè un attimo co sto motorino. Viè dietro l’angolo”. Verdone racconta che si sentono tre colpi di pistola. Il capo elettricista ritorna e fa: “A Carlo! Tutto a posto, è scappato come un coniglio. Dai motore!” Hai capito che mondo che era il cinema? Erano pirati.

Sei in serie tv per Sky, Netflix, Amazon, Paramount+. Vorresti fare cinema?

Sì, ma ho imparato ad aspettare. Prima ero molto più impaziente. Sono molto affascinato da Galimberti, tanto che sono andato fino a Brescia per sentirlo parlare. Ero in un momento di crisi. Mi avvicino e gli dico: “Professore, io faccio l’attore nella vita, quindi mi vendo”. Lui guarda i suoi libri e mi fa: “Perché io no?” Gli dico: “Come sopravvivo? Sono venuto qua, mi sono fatto sei ore di macchina, mi dica qualcosa”. E lui mi fa: “Sii competente e poi le cose arrivano”.

Chiara Vinci: un frammento di vita dell’ex madrina di Cortinametraggio

A Cortinametraggio Chiara Vinci, madrina della scorsa edizione, ha passato il testimone a Eleonora De Luca. Attrice, nata a Marsala nel 1995, dopo il liceo classico si diploma al CSC. È stata diretta da Paolo Genovese, Pietro Castellitto (I predatori) ed è nel cast di Generazione Neet.

Devo dire – esordisce con una voce brillante nonostante il tour de force di festival che si sono sovrapposti – che se dovessi tornare indietro rifarei il percorso che ho fatto. Forse prenderei prima la laurea e poi farei il Centro Sperimentale con più consapevolezza. Mi ha dato una forma mentis, una disciplina che prima non avevo. Tutto quello che so l’ho imparato al Centro Sperimentale e poi sul campo. È un lavoro che nessuna scuola ti può insegnare: ti può dare le basi, ma poi impari sul set.

Chiara Vinci
Chiara Vinci a Cortinametraggio, ph. Anna D’agostino

«Le persone che mi vedono oggi non riconoscono la Chiara Vinci di dieci anni fa»

Sei andata spedita verso il Centro Sperimentale e non hai pensato a un’accademia teatrale?

Ho sempre fatto teatro al liceo, ma dopo ho avuto paura di iscrivermi a una scuola di recitazione. Quell’anno c’erano i provini al Piccolo Teatro di Milano. Mi sono iscritta e non mi sono presentata. Ero insicura. Ho dovuto lavorare tanto sulla sicurezza. Le persone che mi vedono oggi non riconoscono la Chiara di dieci anni fa. È un percorso che ho fatto anche grazie alla psicoterapia. Nel frattempo mi ero iscritta all’università a Milano, ma continuavo ad avere un senso di rimpianto. Mi sono detta: l’anno prossimo devo ritentare. E se non va, non deve essere perché non ho provato.

Il Piccolo era perso perché le selezioni sono ogni tre anni. Decisi il Centro Sperimentale. Era la scuola dove erano andati i miei miti, che non hanno niente a che fare con la recitazione, come Modugno e Raffaella Carrà. Ma anche tanti registi che amavo venivano da lì. Mia madre mi disse: “Scegli una scuola, una sola”. Fui presa, ma non ero sicura, tanto che avevo pagato il secondo anno di retta universitaria…che è andata in fumo perché mi sono trasferita a Roma.

«Lui non lo sa, ma l’ho ringraziato perché ho mantenuto la promessa che gli avevo fatto»

Sei tornata sui tuoi passi? Sei coraggiosa…

Mi ero iscritta alla Iulm di Milano e studiavo comunicazione e cinema. Sapevo che quello era il mio ambito. Decisi che avrei fatto l’attrice dopo aver visto “Nuovo cinema paradiso”. Rimasi folgorata e dissi: questa sono io! Ogni volta che lo rivedo mi devasta sempre nello stesso modo.

Feci un corso di teatro all’università e il mio professore, Gianni Canova, che ammiro, mi spronò a provarci. Ma mi disse: comunque ti devi laureare. Infatti, dopo il Centro Sperimentale, mi sono iscritta alla Sapienza e laureata l’anno scorso. Lui non lo sa, ma l’ho ringraziato perché ho mantenuto la promessa che gli avevo fatto.

Chiara Vinci
Chiara Vinci a Cortinametraggio, ph. Anna D’agostino

«Forse a volte ti devi accontentare di quello che la vita ti offre, mentre io mi metto lì finché non ce la faccio»

Coraggiosa e determinata…

Miiii troppo… Non so se è un bene essere determinati. Forse a volte ti devi accontentare di quello che la vita ti offre, mentre io mi metto lì finché non ce la faccio. Che ne so se magari ci arriverò a cinquant’anni… Non so se essere ambiziosi in questa società oggi sia positivo…

Un conto è essere testardi, un conto è essere determinati. Pensa a quel povero Mosè che fa un viaggio lungo quarant’anni nel deserto. Se si fosse fermato un giorno prima non avrebbe visto la meta…

Mi piace questa immagine! Ora mi sto concentrando sulla carriera perché finalmente ho iniziato a crederci io. Per questo ringrazio il percorso di psicoterapia. Per me dovrebbe esserci lo psicologo di base. La tutela della salute mentale l’ho anche messa nel lavoro: grazie a due colleghe attrici Federica Pagliaroli (Che Dio ci aiuti, nda) e Liliana Fiorelli (I predatori, nda) abbiamo creato School of love.

«È difficile che gli uomini parlino in pubblico di violenza agita»

School of love è una bellissima iniziativa contro la violenza di genere. Come è nata?

Su Instagram quando ci fu la morte di Marisa Leo, di Marsala come me, uccisa dall’ex compagno. Scrissi un post e mi contattò Liliana. Mi disse: abbiamo tanti contatti, dobbiamo fare qualcosa di concreto. Decidemmo di partire dalla formazione dei più giovani. Abbiamo creato l’evento e chiamato professionisti e personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo a tenere una giornata di incontri al cinema Troisi di Roma. Abbiamo coinvolto associazioni che fanno capo alla Casa Internazionale delle Donne e che si occupano e di violenza di genere. Sono venuti circa 300 studenti. Abbiamo parlato di sentimenti e di accettazione. Ci sono state testimonianze di donne che hanno subito quello che erroneamente viene chiamato revenge porn. È intervenuto anche un ex abusante che ha portato la sua testimonianza. È difficile che gli uomini parlino in pubblico di violenza agita.

Siete state coraggiose perché, per quanto si apprezzino simili gesti, sotto resta il rancore nei loro confronti.

Infatti eravamo molto indecise. E poi avevamo un pubblico prevalentemente di minorenni. Durante il suo intervento c’era un silenzio assoluto. Farlo partecipare non è un modo per giustificare una persona che ha agito violenza, ma è stato un modo per ascoltare anche l’altro punto di vista e capire da dove viene il malessere che hanno queste persone e come si può trasformare.

«È strano, ma è più facile dare uno schiaffo che una carezza perché è quello che vedono in televisione»

È bello che partiate dai giovani perché si pensa sempre che deve cambiare chi governa, invece i grandi cambiamenti partono dal basso e soprattutto dalle nuove generazioni.

Per questo ci teniamo a cominciare dalle scuole. Sono i ragazzi i primi a chiedere l’educazione sentimentale. Notiamo come facciano fatica a relazionarsi. Spesso è più facile quando hanno un telefono che fa da tramite invece che con una persona davanti. È strano, ma è più facile dare uno schiaffo che una carezza perché è quello che vedono in televisione. È orribile ma, ad esempio, molti sono convinti che un porno sia la realtà mentre non è così. Ecco perché è fondamentale l’educazione sentimentale, più che sessuale, fatta da professionisti nelle scuole.

Sei stata a Cortinametraggio. Cosa pensi dei corti proiettati? Spesso vengono considerati film di serie B…

Eleonora De Luca, la nuova madrina, ha detto una frase bellissima sui corti: devi raccontare tutto nel tempo di un fiammifero, prima che bruci completamente. I corti sono fondamentali e vanno fatti. Non è vero che il corto è quella cosa che fai prima di diventare famoso. Tutti pensano che il corto sia la gavetta. A Cortina, sia quest’anno che l’anno scorso, è stato bello vedere attori conosciuti che facevano i cortometraggi. Questo vuol dire che si dà dignità al corto. Non va bene che, se sono un’attrice navigata, allora il cortometraggio non lo faccio. Vedere attori affermati che si mettono nelle mani di giovani registi, vuol dire dar loro una possibilità. A Cortinametraggio c’era Paolo Genovese con Piccole cose di valore non quantificabile. Nel 2018, in una delle mie prime esperienze di set appena diplomata, feci un corto con la regia di Paolo. Non sono prodotti di serie B. Raccontare tutto in così poco tempo è difficilissimo.

«Sono una che non riesce a stare ferma»

Alla fine di un set c’è l’ansia da “e ora che faccio?”. Tu cosa fai fuori dal set?

Di tutto. Tutti soffriamo l’horror vacui, è vero. Fino all’anno scorso, quando non lavoravo ero serena perché studiavo. Sono una che non riesce a stare ferma. Ho dedicato molto tempo a School of love. Quando non sono sui set faccio la modella o la fotomodella per campagne pubblicitarie. Sono attiva nel sociale, mi piace fare la presentatrice, mi chiamano per eventi. Viaggio molto. Mi sono anche appassionata al tango e vado nelle milonghe.

Un ballo bellissimo. Ma riesci a ballare così stretta a un estraneo?

Mi fa ridere questa cosa perché anch’io non lo tolleravo. Ho iniziato facendo un abbraccio largo, dove i busti non si toccano, proprio perché all’inizio balli con sconosciuti. Ma è stata una folgorazione. Mi fa anche ridere il fatto che nel mio corso di tango ci siano tantissimi psicologi e psicoterapeuti. Evidentemente è una sorta di terapia. Per me lo è e sono rinata. È anche un’attività utilissima per il mio mestiere: lavori molto con il corpo e devi stare in ascolto dell’altro, soprattutto per la donna che deve seguire l’uomo per capire i passi. È come se l’uomo facesse un disegno a terra e la donna dovesse colorarlo rimanendo all’interno degli spazi…

Chiara Vinci
Chiara Vinci a Cortinametraggio, ph. Anna D’agostino

«Non vado mai al cinema a vedere due volte lo stesso film, ma questa volta sono ritornata il giorno dopo»

Sono appena stati assegnati gli Oscar. Un film che ti ha colpito?

Past Lives, il film opera prima di Celine Song candidato come Miglior film in lingua non inglese. Non vado mai al cinema a vedere due volte lo stesso film, ma questa volta sono ritornata il giorno dopo. Me ne sono innamorata.

Vai spesso al cinema?

Sì certo. Ho il mio cinema di fiducia sotto casa, dove ormai mi conoscono. È bellissimo poter scendere ed essere già in sala, senza problemi di parcheggio o di traffico. Quando andai a vedere Le otto montagne, a sala era strapiena, pioveva e faceva freddo. Arrivo e dico: no vi prego ragazzi non posso tornarmene a casa. Sono stati carinissimi: mi hanno messo una sedia in fondo, dopo l’ultima fila, e mi hanno anche fatto pagare il biglietto ridotto. I grandi film vanno visti in sala.

Adriano Moretti e lo sbarco da YouTube a Cortinametraggio: intervista al Baronetto pariolino

Tra i giurati di Cortinametraggio, festival di corti che raduna a Cortina registi, attori e addetti ai lavori delle case di produzione cinematografica, quest’anno è arrivato anche Adriano Moretti aka Baronetto aka 7am. Anno di nascita 1999. Classico pariolino a Cortina, Adriano Moretti è uno dei giudici di Cortinametraggio. Parla un italiano corretto (da liceo classico), con quel lieve eco romano tollerato nelle vecchie famiglie di Roma nord: quelle per le quali Roma nord non è tutta quella che sta tra est e ovest, ma si limita a uno ristretto triangolo che ha nel quartiere dei Parioli uno dei suoi vertici e si allarga in direzione Fleming, Vigna Clara, Cassia (ma entro una certa latitudine), Cortina d’Ampezzo (mai oltre una certa altezza). Quella Roma nord per la quale i figli dovevano essere soprattutto educati (e Adriano lo sottolineerà più volte durante l’intervista).

Adriano Moretti
Adriano Moretti a Cortinametraggio, ph. Anna D’agostino

I tanti volti del giovane e intraprendente Adriano Moretti

Ma, a differenza del pariolino per cui al di fuori della Roma nord storica Google Maps si tinge di grigio, Adriano Moretti si è spinto fin sulla Tuscolana, dove ha sede il Centro Sperimentale di Cinematografia. Dall’unione felice di Roma nord, Centro Sperimentale, il mondo romano dei collettivi rap e dell’indie-trap, la musica italiana ascoltata dal papà e il rock inglese, nasce un giovanissimo artista alle prime armi, che ha già al suo attivo un alter ego Baronetto e che nei giorni di Cortinametraggio ha visto uscire Posh, il suo secondo singolo.
Un ragazzo che ha riversato il torpore del pariolino che faticosamente si trascina tra un locale alla moda e un altro, che si spreme le meningi per decidere in quale porto della Sardegna andare d’estate, magari convinto che la Sardegna si estenda in quel piccolo fazzoletto di costa che principia dopo la pietra con su scritto Costa Smeralda, in un iconico personaggio che senza autista si perde, testimonial dello “swærv anglosassone” (ma non cercatelo sul dizionario…).

«Scrivo anche dialoghi comici, io stesso sono un comico, e ho utilizzato Instagram e TikTok per dar vita ai miei personaggi»

Papà direttore del Messaggero. Quando hai detto che avresti fatto lo Youtuber è svenuto, ti ha ripudiato?

No no… l’ho fatto per caso. Sono diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia, quindi la mia passione per il cinema e la recitazione era nota. Scrivo anche dialoghi comici, io stesso sono un comico, e ho utilizzato Instagram e TikTok per dar vita ai miei personaggi. Lui è uno molto social e addirittura mi ricondivide. Per fortuna non mi voleva medico, avvocato, ingegnere. Diciamo che già dopo la scelta del Centro Sperimentale era abituato alle mie velleità artistiche.

Figlio unico?

No, ho un fratello più grande. Anche lui artista, cantante e autore delle sue canzoni. Diciamo che siamo una famiglia di freaks, come direbbero in America. Siamo effettivamente due artisti e questo è stato accolto bene dai miei genitori, per fortuna. Sono stati entrambi contenti di vederci all’opera.

Quindi a casa Moretti niente cene noiose a Natale o per le ricorrenze obbligatorie…

Esatto! Le nostre sono riunioni divertenti.

Adriano Moretti
Adriano Moretti al Cortinametraggio, ph. Anna D’agostino

«Devo mettere da parte il mio gusto personale e cercare di vedere i corti in una chiave più oggettiva, valutarli nel complesso»

Sei in giuria qui a Cortinametraggio. Li hai visti? Che ne pensi?

Sì, ogni sera ne vediamo almeno cinque. È un’esperienza particolare, perché mi porta a vedere questi corti con molta più attenzione di quella che ho normalmente da spettatore. Devo mettere da parte il mio gusto personale e cercare di vederli in una chiave più oggettiva, valutarli nel complesso e non semplicemente perché mi piacciono. Non avevo mai fatto il giurato ed è un’esperienza interessante perché a me piace molto il lato critico del cinema, trovare sempre dei significati più profondi, cercare di analizzare le cose, interrogarmi su quello che ho visto, rimuginarci. È un ruolo che per ora mi sta piacendo davvero molto.

Ti sei diplomato lo scorso anno al Centro Sperimentale quindi hai evitato le proteste per il nuovo cambio di direzione. Se fossi stato ancora iscritto avresti protestato anche tu?

Certo, assolutamente. Sarei stato al fianco di tutti gli studenti, ma sono stata l’ultima classe prima della nuova direzione, ero già diplomato.

«Questo mi piace perché mi dà una capacità di osservazione più ampia, perché cerco sempre di cogliere particolari»

Siamo qui a Cortina, dove è stato girato Vacanze di Natale dei Vanzina (e non chiedermi quale perché il vero è solo uno…) che ha portato sullo schermo i nuovi ricchi degli anni Ottanta di Roma nord. Loro li hanno trovati già confezionati in giro per salotti e bar alla moda. I tuoi da dove arrivano?

I miei nascono dall’osservazione della realtà, quindi se mi capita di vedere qualche personaggio che mi ispira cerco di prendere alcune sue caratteristiche. Poi il mio compito è quello di crearne una parodia e cercare di renderlo più tridimensionale. Questo mi piace perché mi dà una capacità di osservazione più ampia, perché cerco sempre di cogliere particolari. E quando mi capita qualcosa nella mia vita, cerco di renderla a mio modo commedia. Prendo molta ispirazione, ad esempio, da Carlo Verdone che è un uomo che ha fatto questo per una vita. Lui è quello che mi piacerebbe diventare nel corso del tempo, perché dal social e dai video vorrei passare al teatro e al cinema.

«Mi sento abbastanza libero di dire la mia e farò di tutto per difendere questo mio diritto»

Fabio Rovazzi è andato con alcuni youtuber dal presidente Mattarella, che ha sottolineato come chi ha molto seguito ha anche una grande responsabilità e deve preoccuparsi di quale messaggio passa. Ti sei mai posto questo problema? Perché è anche vero che oggi fare comicità tra i paletti del politically correct è difficile…

La comicità si basa anche su dei modelli scomodi. Da questo punto di vista sono abbastanza d’accordo, però so di avere un’educazione tale che non mi porterà mai a invadere determinati territori o essere scorretto o rude, e mi prendo delle libertà. So che, se vengono male interpretate, posso non sentirmi in colpa, perché so di agire in buona fede. Finora non mi è ancora capitato. Forse perché cerco sempre di muovermi all’interno di tematiche che non sono politiche o particolarmente scomode. A me piace fare comicità sul quotidiano, per cui è qualcosa che non mi riguarda più di tanto. Mi sento abbastanza libero di dire la mia e farò di tutto per difendere questo mio diritto perché, soprattutto per chi fa comicità, è importante avere la propria visione che non sia modificata dai condizionamenti esterni.

«Penso che oggi sia utile saper fare un po’ di tutto per chi, come me, vuole fare lo showman, il comico, il presentatore, l’attore»

Su Instagram hai scritto che sei amico stretto di Baronetto Brighton…

È un mio alter ego. Baronetto è il mio alter ego cantante che viene da Brighton e che canta con questo accento inglese. Perché ho creato questa cosa? Perché, avendo la passione per la musica oltre a quella per la commedia, uso questo personaggio comico per unire questi due mondi. Da uno scherzo con dei miei amici, dove cantavo in questo modo posh è nata l’idea di creare un personaggio. Ed effettivamente sta cominciando ad andare, perché alla gente piace. È uno step intermedio per andare poi a fare musica più seria, più intima, che faccio da tanto tempo e che ancora non ho pubblicato con costanza.
Questo è un periodo particolare perché sto andando spesso a Milano, dove ho firmato con un’etichetta. Ci vorrà un po’ di tempo per ripartire col progetto che è sotto il nome d’arte 7am.
7am è il mio progetto sul quale vorrei investire di più nel corso del tempo. È una parentesi che mi diverte molto perché unisce l’utile al dilettevole, è interessante, mischia un po’ le carte in tavola tra commedia e musica. Penso che oggi sia utile saper fare un po’ di tutto per chi, come me, vuole fare lo showman, il comico, il presentatore, l’attore. Secondo me avere tante skill è importante, quindi sto cercando di coltivarle tutte.

Adriano Moretti
Adriano Moretti a Cortinametraggio, ph. Anna D’agostino

«Il mio desiderio di intrattenere le persone era troppo forte per non renderlo un lavoro»

Eri il casinista della classe?

Sì, ero tremendo! Sono sempre stato il casinista della classe e questo mi ha fatto capire, quando ho dovuto scegliere cosa fare nella vita, che il mio desiderio di intrattenere le persone era troppo forte per non renderlo un lavoro. Ho sempre avuto questo desiderio, che non si ferma mai, di stupire gli altri, farli ridere, farli stare meglio. Chi è stato un mio compagno di classe può capire bene quello che intendo, perché non mi fermavo mai. Spesso il mio comportamento mi ha portato a prendere delle note, però almeno non sono mai stato un maleducato. Non tiravo sedie, facevo solo e sempre battute. I professori mi odiavano perché a volte attiravo l’attenzione più di loro, ma ho sempre cercato di emergere con l’umorismo invece che col casino prettamente fisico o con gesti goliardici.

Hai conservato gli amici del liceo?

Molti di loro sono ancora miei amici, altri si sono aggiunti negli anni dell’accademia di recitazione, altri con la musica. Adesso ho ristretto la mia cerchia perché, col tempo, ho cercato di circondarmi sempre di più delle persone alle quali voglio veramente bene e che vogliono bene a me. Credo che per un’artista avere l’affetto degli altri sia fondamentale per sentirsi apprezzati in quello che si fa.
Quindi sì, alcuni di loro sono ancora miei carissimi amici.

Intervista a Rocío Muñoz Morales: nella giuria per il miglior corto assoluto al Cortinametraggio

Si è conclusa con successo la 19° edizione di Cortinametraggio, il festival di riferimento per i corti, presieduto dalla fondatrice Maddalena Mayneri e diretto da Niccolò Gentili. In questa settimana Cortina è stata la cornice di una serie di eventi che hanno visto protagonisti i giovani registi dei film in gara e gli ospiti della manifestazione. Rocio Muñoz Morales era nella giuria di Cortinametraggio.

Rocío Muñoz Morales: «Nei corti ho trovato una cura che mi ha colpito molto. Ho notato una grande libertà di espressione»

Cosa pensi dei corti che stanno proiettando a Cortinametraggio?

Sono molto colpita, perché ho trovato una qualità alta. Alcuni mi sono piaciuti di più, altri di meno, ma tutti i corti che ho visto hanno una loro dignità e una pienezza nel racconto. Sarei curiosa di sapere i budget, perché mi sono sembrati molto curati a livello di fotografia, sceneggiatura, livello attoriale. Una volta, proprio perché erano progetti più piccoli con un budget ridotto, non avevi il tempo per dirigere gli attori nel modo che avresti voluto. Ho trovato invece una cura che mi ha colpito molto. Ho notato una grande libertà di espressione. Ci sono racconti di realtà più piccole che forse col linguaggio del lungometraggio, per il cinema o per la televisione, farebbero fatica ad essere rappresentate. Storie che, nonostante la loro dimensione più piccola, mi hanno toccato: ho visto rappresentate delle realtà forti.

Rocío Muñoz Morales al Cortinametraggio
Rocío Muñoz Morales, ph. Anna D’agostino

«Ho partecipato a diversi corti. Mi piace perché mi dà quella possibilità di sperimentare, di essere anche io più libera come attrice, di potermi esprimere»

Anche tu hai recitato in alcuni corti. Alcuni anni fa alla Festa del cinema di Roma eri nel corto Fuori Dal Finestrino

Sì, ma anche da ragazza, in Spagna, ho partecipato a diversi corti. Mi piace perché mi dà quella possibilità di sperimentare, di essere anche io più libera come attrice, di potermi esprimere, di poter anche frugare in cassetti meno conosciuti; e anche di essere ascoltata in maniera diversa. È la prima volta che sono in giuria e dare un giudizio è difficile. Però mi piace, è nutriente e sono davvero contenta di questi pochi giorni durante i quali mi sono riempita di storie.

«Ci sono grandi registi, grandi addetti ai lavori che sono rimasti colpiti dagli attori, dalle storie, da sceneggiature di ragazzi giovanissimi»

Cortinametraggio è un festival piccolo, ma molto partecipato dagli addetti ai lavori…

Mi piace il clima di questo Festival. Appena sono arrivata ho chiesto dei corti proiettati nei primi giorni e tutti li avevano visti, ognuno aveva la sua opinione, c’erano tanti pareri diversi. È questa la bellezza di essere qua. Ci sono grandi registi, grandi addetti ai lavori che sono rimasti colpiti dagli attori, dalle storie, da sceneggiature di ragazzi giovanissimi. Questo è fantastico e ci fa capire quanto sia potente il cinema.

Rocío Muñoz Morales al Cortinametraggio
Rocío Muñoz Morales, ph. Anna D’agostino

Rocío Muñoz Morales parlando della sua famiglia: «Ho due figlie femmine e credo sia fondamentale insegnare loro l’importanza di essere realizzate come individui, per poi nutrire tutto quello che creeranno»

Hai due figlie e sei qui per lavoro. Ti senti fortunata a poter essere qui, a poter vivere liberamente entrambe le realtà, come madre e come lavoratrice? Ancora oggi molte donne debbono scegliere. E poi: in Spagna è la stessa cosa, siete più sostenute o siamo noi che guardiamo sempre all’estero come se fossero tutti migliori di noi?

Non so perché ma all’essere umano piace sempre tirare fuori i panni dalla lavatrice quando non sono ancora puliti e puzzano di umido, mentre ci sembra che il vicino porti sempre i vestiti in tintoria. Il famoso discorso dell’erba del vicino che è più verde. È difficile essere una donna che lavora: lo è qua come in Spagna e nella maggior parte dei paesi del mondo. Ci sono sicuramente paesi dove sono più avanti, ma la strada è ancora in salita. Essere madre è difficile per qualunque donna: trovarsi di fronte a una bomba che esplode nella tua vita quando hai tra le mani un piccolo essere, una piccola nuova vita che all’inizio devi accompagnare nel percorso di crescita.

Devi essere te il faro che mostra loro quello che la vita è, e unire lavoro e maternità è difficile. Ma io non ho mai rinunciato. Non ho mai avuto l’ansia di dover rinunciare, per lavoro, alla donna che ero o alla donna che volevo essere. Quando ho sentito di essere madre, l’ho accolto con grande gioia. Anche felice delle rinunce che questa cosa significava, perché erano naturali. Non le ho vissute come una mancanza di qualcosa. Al contempo, non ho mai voluto smettere di sentirmi completa. E il mio lavoro mi riempie, mi rende una persona migliore, anche una mamma migliore, una donna migliore.

Credo sia giusto dare alla persona con la quale condivido la mia vita e alle mie figlie la versione migliore di me. Una me che sorride, una me completa. Io poi ho due figlie femmine e credo sia fondamentale insegnare loro, dal punto di vista femminile, l’importanza di essere realizzate come individui, per poi nutrire tutto quello che creeranno.

Rocío Muñoz Morales al Cortinametraggio
Rocío Muñoz Morales, ph. Anna D’agostino

«Quando il mio lavoro mi destabilizza, quando mi mancano le forze, l’ispirazione, so che lì c’è un punto fermo al quale posso chiedere aiuto anche senza dirlo»

Quanto è importante per te riuscire a tutelare le tue figlie e la tua vita privata? Le persone hanno un bisogno quasi patologico di entrare nella vita privata degli altri, senza rendersi conto che non è vero privato, che spesso è un finto privato creato ad hoc

Infatti non è vero. Per le mie figlie sono la madre. E sono anche una madre che sbaglia, sono una mamma molto forte, a volte fragile. Sono una persona che non ha paura di niente che in alcuni momenti è invece piena di paure. Questa è la vita vera. Il mio lavoro è solo una parte della mia vita vera. La fama e la popolarità non hanno cambiato chi sono. Sicuramente la realizzazione professionale ha comportato notevoli miglioramenti nella mia vita, ma l’essenza non è cambiata. Le fatiche, le fragilità, i momenti di tristezza, di sconforto, sono sempre gli stessi. Ci sono lo stesso, come le gioie per le piccole cose, come il non aver smesso di essere figlia dei miei genitori, non aver smesso di essere amica delle mie amiche di sempre, non aver smesso di essere sorella delle mie sorelle.

Tutto questo non è cambiato col mio percorso professionale. Anzi, tutte le cose che mi hanno riempito nella sfera personale, sono proprio quelle che mi hanno reso la professionista che sono. Tante volte, quando il mio lavoro mi destabilizza, quando mi mancano le forze, l’ispirazione, so che lì c’è un punto fermo al quale posso chiedere aiuto anche senza dirlo. Ed è bello. Per questo provo a tutelarlo, perché trovo che sia qualcosa di prezioso e di non scontato. Per questi aspetti della mia vita mi reputo fortunata

Rocío Muñoz Morales al Cortinametraggio
Rocío Muñoz Morales, ph. Anna D’agostino

Essere donna secondo Rocío Muñoz Morales: «Veniamo da anni dove abbiamo coltivato un aspetto più superficiale dell’essere donna. Invece la donna è qualcosa di molto più profondo e di molto più potente di quanto lo sia il nostro aspetto»

A volte sei stata anche modella. Alla Milano Fashion Week hanno sfilato donne over 40, 50, 60. La Rossellini, licenziata da Lancôme perché vecchia a 43 anni, oggi è di nuovo la loro testimonial. È una questione di marketing, perché oggettivamente le donne “over” stanno aumentando, o siamo noi donne ad iniziare ad accettarci così come siamo sdoganando il fattore invecchiamento?

Veniamo da anni dove abbiamo coltivato un aspetto più superficiale dell’essere donna. Invece la donna è qualcosa di molto più profondo e di molto più potente di quanto lo sia il nostro aspetto. Trovo che la donna sia un essere pieno di bellezza, pieno di luce, pieno di amore, pieno di forza, di empatia e con gli anni si diventa sempre più empatica, più forte, più dolce. Secondo me la società ha capito che una donna col tempo si impreziosisce sempre di più, come un gioiello che col passare del tempo diventa un pezzo unico.

«Sono molto legata alla mia famiglia, alle persone che amo»

Com’è Rocio lontano dai riflettori?

Non molto diversa da quella che sta parlando con te. Sono molto legata alla mia famiglia, alle persone che amo. Continuo a fare un percorso di scoperta e sono felice perché negli ultimi anni ho capito quanto sia un percorso lungo e che ci sono obiettivi che hanno bisogno di un percorso più lungo per essere raggiunti. Per questo sono diventata meno esigente con me stessa.

DA CORTINAMETRAGGIO, INTERVISTA A LUDOVICA COSCIONE

Pantaloni cargo, felpa, senza trucco. Capelli senza piega. Due occhi che ricordano il mare delle Flegree, quello che bagna Napoli, la sua città natale, la mattina presto quando il sole, ancora non alto nel cielo, danza sull’acqua. Mi guarda e mi rammenta il ritratto di Irène Cahen d’Anvers dipinto da Pierre-Auguste Renoir. Ludovica Coscione, 25 anni, napoletana: per tutti è Teresa di Mare Fuori. Parla sorridente, nessun divismo. Solo una ragazza felice di essere in giuria al festival dei corti Cortinametraggio, a Cortina dal 12 al 17 marzo.

Non ho mai frequentato una vera accademia – racconta Ludovica – Avevo fatto un workshop prima di iniziare a recitare e avevo anche vinto una borsa di studio in una scuola a Napoli. Ma una settimana dopo ho fatto il mio primo provino per Non dirlo al mio capo. Ho vinto il ruolo e la mia palestra formativa è stato il set. Mi piace lavorare con registi durante i workshop, con casting, con coach, ma non ho mai fatto una scuola di cinema.

Ludovica Coscione
Ludovica Coscione

Come si fa a recitare senza aver mai studiato?

Di pancia. Sono una persona molto razionale e analitica nella vita e mi rendo conto che, quando mi vengono imposte delle tecniche, comincio a ingabbiare i miei sentimenti e mi sembra di non essere più naturale, spontanea. Questo non è un invito a non studiare, anzi; è semplicemente il mio modo per lasciarmi andare, senza avere riferimenti troppo grandi. Il mio modo di lavorare col cuore anziché con la testa. Sembra una frase fatta, però è quello che funziona con me.

Conti di fare il percorso inverso: dal set ai corsi di recitazione?

Sì, ne frequento tanti. Sto studiando anche in America, fra New York e Los Angeles. Lo trovo un ottimo modo per aprire la mente e scoprire nuovi modi di recitare. Leggo anche tantissimi libri. Uno che è stato molto importante per la mia formazione è Il metodo dell’attore di Ivana Chubbuck, che spiega il suo metodo di recitazione. Appena possibile, mi piacerebbe fare un workshop con lei. Però non vedo nel mio futuro l’iscrizione a un’accademia: avrei timore di perdere la mia spontaneità.

In famiglia come hanno reagito?

I miei genitori, e anche mia sorella Lavinia, mi hanno sempre supportato. Non è scontato. All’inizio ne abbiamo parlato, perché mi dicevano: tu non sei figlia d’arte… noi non siamo artisti… è un mondo che non conosciamo… si sentono spesso storie poco rassicuranti… Poi mi hanno chiesto: sei sicura? ti senti abbastanza centrata? Hai solo 16 anni, stai ancora scoprendo te stessa. Però la mia passione, che chiamerei vocazione, per l’arte in generale, è stata più forte. Quindi mia mamma, santa donna, nonostante fossi minorenne, per i primi due anni mi ha accompagnata sui set, stava sempre con me. Praticamente si è ritrasferita a Roma con me, perché lei è romana, e mi ha accompagnata in questo grande salto nel vuoto. Che abbiamo fatto insieme. Oggi mi rendo conto che forse i miei genitori ci credevano più di me. Ora riconosco che sono stati coraggiosi.

«Anche queste sono le mie scuole: guardare come lavorano gli altri, la sensibilità che hanno nel raccontare le storie, come le raccontano»

Ho letto che la prima scena di sesso l’hai fatta con Matteo Paolillo sul set di Mare Fuori. Avete usato un intimacy coordinator?

Questo è un argomento che mi sta davvero a cuore. Proprio qualche giorno fa parlavo con Matteo, che sta lavorando su un set dove hanno questa figura, e dicevo: dovremmo parlarne di più. Purtroppo noi non avevamo un intimacy coordinator. Io dico sempre che sono stata fortunatissima, perché Matteo è un gentleman e insieme siamo riusciti a creare il tipo di intimità che serviva, restando rispettosi l’uno dell’altro. Noi non avevamo questa figura, ma trovo che sia fondamentale. È importante avere qualcuno che coordini e coreografi una scena. Matteo mi ha raccontato che l’intimacy coordinator sul suo set, ad esempio, si preoccupa di sapere se sei a tuo agio. A noi nessuno ha mai chiesto se lo fossimo. Soprattutto quando sei agli inizi, penso dovrebbe esserci sempre, quando ci sono scene del genere, questa figura. Negli Stati Uniti è ormai una figura obbligatoria. E non credo ostacoli la naturalezza. In realtà ritrovi spontaneità perché, nel momento in cui ti senti protetto, sai di poterti appoggiare a qualcuno, a una figura competente, riesci a lasciarti andare e acquisisci maggiore spontaneità.

Tempo fa sei stata al centro di una polemica sul body shaming. Cosa ne pensi della copertina che ritrae Chiara Ferragni deturpata come Joker?

Credo che ognuno sia libero di trarre le sue conclusioni sul mio caso con VF. Io però ho avuto la fortuna di potermi confrontare con chi aveva scritto quelle cose su Vanity e mi ha spiegato il suo punto di vista. Penso che prima di giudicare si dovrebbe capire cosa c’è dietro a quella scelta. A me, personalmente, non è piaciuta. L’ho trovata di poco gusto. Potrei dire tanto sull’argomento, ma preferisco limitarmi a dire questo, perché non conosco i motivi dietro alla scelta editoriale de L’Espresso.

Sei in giuria per il concorso Cortinametraggio. Hai visto i corti? Cosa ne pensi?

Sì li sto guardando tutti. Sono davvero emozionata per essere stata invitata a partecipare. Per me è anche un’occasione per imparare. Anche queste sono le mie scuole: guardare come lavorano gli altri, la sensibilità che hanno nel raccontare le storie, come le raccontano. E ho deciso che il mio giudizio non sarà tecnico, perché sicuramente c’è chi ha più competenze e capacità, ma sarà sul come mi è arrivato, cosa mi è arrivato di quello che registi e sceneggiatori vogliono raccontare. Giudicherò di pancia, come faccio sempre la maggior parte delle cose nella mia vita.

Ludovica Coscione
Ludovica Coscione

Mare Fuori cambia regista: Ivan Silvestrini lascia il posto a Ludovico Di Martino. Pensi sia iniziata la parabola discendente e che Mare Fuori abbia meno da dire?

Penso che alcuni personaggi abbiano raccontato tutto quello che potevano dire. Credo che Mare Fuori non inizierà la sua parabola discendente se arriveranno nuovi personaggi con nuove storie. Il mio è uno di quei personaggi che ha raccontato tutto quello che c’era da dire quindi, probabilmente, lascerei andare.

Sei pronta per un altro set?

Sì sì, assolutamente.

Potendo esprimere un desiderio, con chi chiederesti di lavorare?

Se devo proprio sognare in grande, mi piacerebbe fare un film con Margot Robbie. Recitare al suo fianco o partecipare a una sua produzione, visto che lei è anche produttrice. Questo è uno dei sogni più grandi.

Su Instagram ho visto che sei testimonial di Mac, Lancôme, L’Oreal. Ti consideri un’influencer?

Secondo me si è semplicemente creato un termine per qualcosa che già esisteva. Sono sempre stata influenzata da personaggi dello spettacolo, attori o cantanti che fossero. Sono anche influencer? Probabilmente sì, nella misura in cui c’è qualcuno che ha voglia di ascoltare quello che ho da dire.

Mattarella, in un recente incontro con un gruppo di youtuber non influencer, ha detto che, oltre ai follower, è importante capire che hanno delle responsabilità. Sei d’accordo?

Sì! E non solo mi rendo conto che ho una responsabilità, ma me la voglio prendere; contenta se posso usare i social per contribuire a creare qualcosa di buono.

L’attore Luca Cesa: tra insegnamenti, esperienze e il ruolo di Ettore Carniti in Folle d’amore – Alda Merini

Presentato fuori concorso al Torino Film Festival arriva su Rai1 il 14 marzo in prima serata Folle d’amore – Alda Merini, con Laura Morante, Federico Cesari, Rosa Diletta Rossi, Mariano Rigillo, Sofia D’Elia, Luca Cesa, Alessandro Fella, Giorgio Marchesi, Ludovico Succio. La regia è di Roberto Faenza.

Folle d’amore – Alda Merini racconta la vita straordinaria della grande poetessa Alda Merini: dal disagio psichico alla maternità, dagli amori impossibili fino all’accesso alla cultura e alla fama. Il ritratto di un’icona contemporanea inedito e appassionante.

Nel ruolo del marito di Alda, Ettore Carniti, Luca Cesa. Nato a Roma il 12 dicembre 1994, Luca si è diplomato al Centro Studi Acting di Lucilla Lupaioli, iniziando a lavorare sia nel cinema che in tv mentre era ancora in accademia.

Giovanissimo, il primo incontro di Luca con un grande del teatro italiano fu con Luca Ronconi. «Fui accettato per un corso propedeutico al Piccolo Teatro di Milano – racconta Luca – A volte ancora mi stupisco. Abbiamo lavorato insieme per una settimana poco prima che lui se ne andasse. È morto dopo un mese. Ero un novellino, non sapevo niente di teatro. Stavo facendo i primi test per entrare nelle accademie. Arrivo da lui, che era considerato un mostro del teatro ed ero teso, imbarazzato, spaesato. Lo guardavo e mi dicevo: questa è una persona importante. Aveva l’aura di una persona autorevole nel mondo del teatro. Pensa che poco fa sono passato davanti al Piccolo Teatro e mi sono ricordato di quando arrivai qui la prima volta, circa 9 anni fa. C’era scritto Piccolo Teatro di Milano – scuola Giorgio Strehler. Adesso è intitolata anche a Luca Ronconi. Mi sono sentito immensamente fortunato ad aver condiviso con lui anche solo una settimana. In quel poco tempo abbiamo provato qualche scena, nella mia totale ignoranza di questa materia che è il teatro. Mi sarebbe piaciuto poterci lavorare di più e, soprattutto, poterlo fare adesso con più esperienza. Era malato, a tratti aveva difficoltà a parlare e io non lo capivo. Ma non mi sarei mai permesso di chiedergli di ripetere o di dirgli che non avevo capito o sentito. Non sapevo cosa fare e lasciavo correre».

Roma ha tante accademie. Perché sei finito a Milano?

Avevo fatto la trafila di tutte le accademie in giro per l’Italia: il Piccolo, la Paolo Grassi, la Silvio D’Amico. Provai addirittura l’INDA di Siracusa, l’Accademia del dramma antico. Con mia grande meraviglia mi presero, ma ebbi paura di fare una scelta così impegnativa a soli vent’anni. All’ultimo momento ebbi paura che rientrare a Roma dopo tre anni a Siracusa sarebbe stato complicato. Amo il teatro, ma quello greco è un teatro molto particolare e in quel momento non me la sono sentita.

Luca Cesa: «Per me era tutto magnifico. Ma ero così eccitato che non riuscivo a rilassarmi: ero in continua tensione emotiva. Ero emozionato e non mi sembrava vero che stesse accadendo a me. Avevo sempre paura di sbagliare»

Hai frequentato anche un corso intensivo con John Strasberg…

Un’altra grande esperienza. Ha 86 anni ma ne dimostra 20 di meno. Ma per la mia formazione devo ringraziare Lucilla Lupaioli e i tre anni di formazione con lei. È stata la più completa che ho avuto.

Eri nel cast di “Una questione privata” dei fratelli Taviani. Paolo è appena morto. Che ricordo hai di lui?

Mi è dispiaciuto molto. Non ero neanche diplomato, ero tra il primo e il secondo anno di studi in Accademia. È stato come con Ronconi: mi sono ritrovato in un mondo enorme. Conoscevo i fratelli Taviani, ma soprattutto conoscevo Luca Marinelli. Era il periodo subito dopo “Lo chiamavano Jeeg robot”, “Non essere cattivo” e per me lui era un mito. Quando mi presero per quel ruolo sono impazzito. Abbiamo girato tra il Piemonte e la Francia. Vittorio Taviani non c’era perché già stava male. È morto circa un anno dopo. Ho lavorato più con Paolo. Per me era tutto magnifico. Ma ero così eccitato che non riuscivo a rilassarmi: ero in continua tensione emotiva. Ero emozionato e non mi sembrava vero che stesse accadendo a me. Avevo sempre paura di sbagliare. Ricordo che dopo una battuta arrivò l’aiuto regista e mi disse: “Luca, mi raccomando, Paolo ha detto che l’hai detta in romano. Mi raccomando alla B di bambino, non la spingere troppo. Parla italiano”. Volevo morire. Ricordo che pensai: sicuramente già mi odia.

Però non ti sei lasciato bloccare, non ti sei arreso…

Ero determinato e lo sono tutt’ora. Ho i miei periodi di debolezza, ma sono sempre di meno. La strada l’ho trovata e voglio che sia questa.

Tra poco sarai in Rai con Folle d’amore Alda Merini diretto da Roberto Faenza. Un regista coraggioso. Alla fine degli anni 70 Faenza scrisse un libro che fu subito ritirato per pressioni politiche: parlava degli Stati Uniti, dell’Italia, di Kennedy, Cuba, basato su documenti secretati conservati in archivi statunitensi…

Non lo sapevo! Ma mi hai fatto venire in mente che durante le cene alla fine dei set, una volta ci raccontò un aneddoto che riguardava gli anni in cui ha insegnato negli Stati Uniti. Ci raccontò della volta che fu arrestato, non ricordo se durante una manifestazione, di come, con il risarcimento ottenuto dopo aver vinto la causa, ci girò un film. Raccontava storie incredibili. Una persona che sembra aver vissuto mille vite. È fantastico quando parla: lo ascolteresti per ore. Lavorare con lui è stato fantastico. È un uomo che trasmette serenità, libertà. Una persona diretta che parla senza fronzoli. Sembra sempre con la testa fra le nuvole, invece sta pensando a mille cose. Quello per cui lo ringrazio è che mi ha dato la libertà di esprimermi come desideravo; ha rispettato la mia idea del personaggio, della storia. Il regista è lui, ma si confronta con gli attori e questa è una cosa che ho apprezzato.

Come ti sei trovato ad affrontare la storia di una donna così particolare come Alda Merini?

È un personaggio talmente iconico che abbiamo trattato tutto il materiale che avevamo con molta attenzione. Avevamo quasi paura di uscire fuori da quella che era la sua realtà, che volevamo rispettare profondamente. Penso che sia una delle figure femminili più rilevanti della letteratura contemporanea italiana. Le sue poesie sono piene di sentimenti, di paure, di amore. È una donna che viveva di emozioni.

Attore Luca Cesa
Total look Primordium Lab

Conoscevi già Alda Merini?

Poco. Appena ho saputo di essere stato scritturato per il ruolo di suo marito, Ettore Carniti, sono andato a comprarmi il libro. Volevo conoscerlo e ho letto il libro della figlia, Emanuela Carniti, Alda Merini, mia madre. Nel libro Emanuela descrive il rapporto tra i suoi genitori: era quello che mi interessava. Volevo capire il rapporto tra Ettore e Alda, due figure profondamente divergenti. Lui era per la famiglia classica, era un panettiere, lavorava di notte, voleva tornare a casa e trovare il pranzo pronto. Magari rientrava e lei stava fumando e scrivendo poesie, mentre le figlie disegnavano per i fatti loro. Alda era una donna impensabile per quell’epoca. E questo era il loro principale motivo di scontro. Non era la famiglia del mulino bianco che lui si aspettava.

Erano anni in cui i genitori e i mariti, potevano chiedere che una donna fosse internata in manicomio anche solo per stranezze personali. I manicomi erano pieni di donne sane ma artiste, anticonformiste, lesbiche…

Prima delle legge Basaglia, per qualsiasi debolezza mentale o caratteriale, alzavi il telefono, chiamavi la Croce Verde e ti facevano rinchiudere in manicomio. Sommando i vari ricoveri, Alda sarà stata rinchiusa almeno dodici anni.

Attore Luca Cesa
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Come vedi un uomo come Ettore?

Un uomo che ha sposato una donna che lo ha profondamente cambiato, che lo ha quasi fatto uscire fuori di testa. Un uomo che si è trovato da solo a fronteggiare una famiglia con quattro figlie, manicomi, litigi. Il biografo di Alda Merini ci raccontava che lei lanciò un armadio dalla finestra, sui Navigli. Avere a che fare con una donna così, per un marito, non è facile. Ettore ha vissuto una vita complicata. Anche le figlie si sono trovate con due genitori con caratteri completamente diversi. Lei era una donna libera, che ha avuto storie con altri uomini. Incontrò il marito un giorno al cinema, le piacque e si sposarono. Era una donna che si innamorava tutti i giorni .

Pensi di tornare in teatro?

L’ultimo spettacolo l’ho fatto due anni fa. Due fratelli di Fausto Paravitino al Tor Bella Monaca di Roma. Nasco in teatro e vorrei continuare a farlo ma, o trovi una produzione importante con un budget adeguato, oppure sei costretto a pagarti da solo tutte le spese per andare in scena. L’ho fatto con i compagni di studi, quando ci scrivevamo le commedie, le portavamo in giro per i teatri off di Roma, magari a Trastevere. Amo il teatro, ma fatto così è difficile. Cerchi di proporlo e non ti danno spazio, neanche lo leggono o lo guardano. Abbiamo provato a presentare tanti spettacoli, ma abbiamo sempre ricevuto rifiuti. Alla fine ti scoraggi. Vengono finanziati solo i teatri grandi e non c’è spazio per le piccole produzioni, non ci sono aiuti o sovvenzioni. Non voglio lasciarlo, ma alla fine ti costringono a farlo, perché non è che uno può fare spettacoli sostenendo tutti i costi solo per dire che hai recitato.

Attore Luca Cesa
Total look Primordium Lab

Credits

Photographer Gioele Vettraino

“Margherita delle stelle”: Cristiana Capotondi porta in scena il genio della scienziata che ha cambiato il mondo della fisica

Cristiana Capotondi torna in Rai dopo diversi anni e lo fa con un biopic su una delle grandi donne della storia moderna italiana, l’astrofisica Margherita Hack: Margherita delle stelle dal 5 marzo su Rai 1 e RaiPlay.

Con Cristiana Capotondi, Cesare Bocci, Sandra Ceccarelli, Flavio Parenti, regia di Giulio Base, Margherita delle stelle è una co-produzione Rai Fiction e Minerva Pictures.

Margherita delle stelle racconta la giovinezza di una grande scienziata che nasce a Firenze nel 1922 e cresce nell’Italia fascista e del dopoguerra; un mondo dove le qualità femminili erano limitate alla maternità e alla manodopera, non alla scienza. Parla di una donna che si è imposta in un mondo maschile e maschilista e che ha contribuito a fare la storia della fisica moderna italiana. Una donna non trasgressiva ma libera, con la sua ironia, la sua battuta sempre pronta, la sua capacità di analisi, che è riuscita a parlare a tutti. Margherita delle stelle è la storia di una grande divulgatrice alla quale dobbiamo molto, che ha insegnato a tante giovani donne dopo di lei come sia possibile, se aiutate da chi sta loro accanto, riuscire a rompere quel tetto di cristallo che relega bellissime menti a ruoli dietro le quinte.

«Nata e cresciuta durante il ventennio fascista – racconta Cristiana Capotondi, che incontriamo alla presentazione del film –  Margherita Hack era stata formata ed educata alla libertà da due genitori non convenzionali. Ha poi avuto la fortuna di incontrare un uomo che l’ha sostenuta e spronata a diventare divulgatrice e ad aprirsi al mondo, per essere conosciuta non solo nell’ambiente scientifico».

Da poco mamma, la Capotondi non si è sottratta a un set che ha richiesto anche uno sforzo fisico.

«Come Margherita – ammette Cristiana – ho portato tutti i mezzi di terra a disposizione: macchine, camion, camionette dell’esercito, partendo dalla bicicletta sulla quale ho avuto, devo ammetterlo, delle difficoltà. Ho anche saltato la corda. Tutto in una condizione fisica di ripresa dopo la maternità, quindi spero di aver dato dignità alla sportività di Margherita».

Margherita delle stelle
Cristiana Capotondi e Flavio Parenti sul set di Margherita delle stelle

Cristiana Capotondi, protagonista in Margherita delle stelle: «Quello che amo di Margherita è la sua schiettezza, questo spirito toscano tra l’ironico e il serio che le consentiva di dire anche cose che non erano concesse»

E cosa l’ha colpita di questa donna?

Quello che amo di Margherita è la sua schiettezza, questo spirito toscano tra l’ironico e il serio che le consentiva di dire anche cose che non erano concesse. Mi ha colpito il suo ateismo, che non le ha tolto la contemplazione, quel qualcosa di molto spirituale che ci unisce al tutto. Mi è piaciuto il suo spirito di ricerca che la spingeva a non accettare la risposta più scontata, che esiste un dio che ha acceso la miccia, ma ha cercato una risposta nella scienza.

«La donna deve essere, secondo me, messa nella condizione di fare una scelta sapendo che le è garantita la possibilità di realizzarsi»

Lei è una donna indipendente, che fa il lavoro che le piace, è madre. Ha molto in comune con la Hack. Si sente una privilegiata? Cosa pensa di un Paese che costringe le donne a scegliere non solo tra carriera e maternità, ma addirittura tra lavoro e maternità?

Il nostro Paese sicuramente non aiuta le donne a diventare madri e a proseguire nel mondo del lavoro con la stessa ambizione, ma da genitore mi sono resa conto che tante cose non sono più come prima. Per me la competitività, il desiderio e l’ambizione di realizzarmi professionalmente sono cambiati da quando sono diventata madre. I miei interessi e le mie priorità si sono ampliati. Questo è meraviglioso. Probabilmente qualcosa a terra nel mondo del lavoro lo lascio, anche se sono una privilegiata perché faccio un lavoro che mi consente di avere una vita abbastanza agiata, di avere degli aiuti ed è anche un lavoro saltuario. Tante cose di mia figlia me le posso godere perché non sono a lavoro tutti i giorni, 12 ore al giorno, magari lontana da casa.

Credo però che sia naturale: è come una persona che si dedica a venti cose. Le fai tutte bene? Forse no. Se ti dedicassi a cinque cose forse le faresti meglio, ma ne faresti solo cinque. Dipende da come decidi di impiegare le tue energie. Credo ci dovrebbe essere un welfare molto più attento alle mamme. Credo che le madri vadano aiutate perché sono un patrimonio pazzesco, perché credo sia più connaturato all’essere donna il desiderio di genitorialità che non all’uomo. Anche se ultimamente ci sono molti uomini che vogliono diventare papà e tante donne che non vogliono diventare mamma. Ma la donna deve essere, secondo me, messa nella condizione di fare una scelta sapendo che le è garantita la possibilità di realizzarsi. Non è importante solo per il sostentamento economico, ma anche in termini di realizzazione perché è un esempio che si dà alle figlie.

Cristiana Capotondi in Margherita delle stelle
Cristiana Capotondi sul set di Margherita delle stelle

«Penso che si sia arrivati in un’epoca in cui ognuno si deve disegnare la propria vita come la vuole, come la sceglie»

È una donna con un grande senso di spiritualità che vive una famiglia non tradizionale. Creare un ambiente positivo per i bambini trascende la forma della famiglia?

Penso che la famiglia tradizionale oggi sia in grande crisi per via dei modelli, ma anche perché noi abbiamo deciso di realizzarci e il nostro modo di stare in casa è cambiato. Questo mi fa immaginare che la famiglia era molto sulle spalle delle donne. Da questo punto di vista siamo un matriarcato. Con dei vizi di dipendenza, di sudditanza, nei confronti del maschio, ma siamo davvero un matriarcato. La famiglia tradizionale, proprio perché la donna si sta rivoluzionando, non esiste più.

È anche corretto che sia così, perché molto spesso queste storie sono racconti di gabbie, di sofferenza, di mancanza d’amore in contesti che sono rimasti in piedi perché c’era il sociale, c’era il sistema, c’era il fuori. Penso che si sia arrivati in un’epoca in cui ognuno si deve disegnare la propria vita come la vuole, come la sceglie, e un figlio, se viene educato alla verità, sarà educato bene perché molto spesso crescere in gabbie dorate, dove sei cresciuto protetto, non ti consente poi di affrontare la vita con la forza necessaria.

«Margherita diventerà una sportiva e una donna libera nel modo di pensare, responsabile fin da piccola delle proprie scelte»

Il successo di Margherita Hack si deve anche al tipo di educazione ricevuta. Quanto contano i genitori e il loro messaggio nella riduzione del divario tra uomini e donne?

Questo è un racconto che porta sullo schermo una parte della vita di Margherita meno conosciuta. È un romanzo di formazione e abbiamo scelto come punto centrale del racconto la formazione della giovane che poi diventerà Margherita Hack. I genitori sono due personaggi strani per il loro tempo: sono teosofi, un po’ cattolici un po’ buddisti, credono nella reincarnazione, sono vegetariani. Non sono preoccupati del fatto che la bambina sia irruente o vivace, diversa dalle altre bambine. Anzi, rispettano la sua libertà. Diventerà una sportiva e una donna libera nel modo di pensare, responsabile fin da piccola delle proprie scelte.

Anche io sono stata lasciata libera. Ho iniziato questo mestiere perché il mio padre spirituale, che era allora il parroco di Santa Maria in Trastevere, invitò la Rai per una giornata con i boyscout della parrocchia. Il regista della Rai si complimentò con don Vincenzo e disse che, secondo lui, ero un talento. Don Vincenzo lo disse a mio padre che mi chiese: «Sei stata bene, ti sei divertita questo pomeriggio?» Risposi di sì e che mi sarebbe piaciuto farlo ancora. Quindi don Vincenzo fu fondamentale. Nella mia vita ho sempre comunicato le cose importanti alla mia famiglia tramite don Vincenzo. Ogni volta gli dicevo: don Vincenzo devi parlare con i miei genitori. Faccio questo mestiere perché lui ha acceso la risposta positiva in mio papà. Altrimenti forse non sarebbe stato così.

Cristiana Capotondi
Cristiana Capotondi sul set di Margherita delle stelle

«Per una donna, la scienza è ancora un luogo che parla maschile. Molte fondazioni si occupano di promuovere materie scientifiche per le donne»

Collabora con alcune fondazioni. Quanto è cambiato il rapporto tra le ragazze e gli studi STEM dai tempi in cui studiava la Hack?

Lavoro con fondazioni che si occupano di promuovere le materie STEM e c’è un dato, che accomuna le giovani donne italiane, che credo sia un problema culturale. Molte giovani donne non riescono a immaginare di poter affiancare una vita privata realizzata con una vita da scienziato, magari all’estero, come è accaduto a Margherita Hack. I dati dicono che le giovani donne fino a 16 anni esprimono il desiderio di frequentare facoltà STEM e di lavorare in campo scientifico. Un anno dopo le troviamo che hanno fatto scelte in campo umanistico. Questo credo dipenda, in parte, dal fatto che l’Italia non sia un Paese per ricercatori e scienziati.

Un’altra ragione credo sia che, per una donna, la scienza è ancora un luogo che parla maschile. Molte fondazioni si occupano di promuovere materie scientifiche per le donne. Da Margherita Hack a Marie Curie ad Amalia Ercoli-Finzi, sono tante le donne che hanno lasciato il segno nel mondo della scienza. Queste fondazioni offrono borse di studio a giovani donne che, uscite dal liceo, non hanno i mezzi per continuare gli studi. Come cittadina sarei felice che nel mio Paese non ci fosse una simile perdita di cervelli, da aggiungere a quelli in fuga.

«Margherita delle stelle descrive Margherita anche con le sue imperfezioni»

Cosa risponde a chi pensa che Margherita Hack sia stata raccontata in modo troppo edulcorato, facendone quasi un santino?

Abbiamo rispettato il modo in cui lei si racconta, anche nelle interviste. Margherita delle stelle descrive Margherita anche con le sue imperfezioni. Si racconta studentessa svogliata. Quando deve scegliere se allinearsi al padre, che perde il lavoro e va in rovina perché rifiuta la tessera fascista, lei accetta di leggere il giuramento al duce in pubblico e lo legge perché lei ha voglia di quegli applausi. Non è una cosa da santino. L’eroina avrebbe detto: papà faccio come te e rinuncio al mio momento di celebrità; tu sei antifascista e lo sono anch’io.

Alle leggi razziali lei si ribella solo in un secondo momento. È una studentessa che se può non studia, fa fisica non per una vocazione intellettuale ma perché la fa la sua migliore amica. Raggiunge il successo sempre sdrammatizzando e mai da prima della classe. Se avessimo davvero voluto fare un santino, avremmo certamente evitato il giuramento al duce.

“BASILICO – L’INFINITO È LÀ IN FONDO”: IL DOCUFILM SUL MAESTRO GABRIELE BASILICO CHE CI INSEGNA A VEDERE

Martedì 13 febbraio alle 21.15 su Sky Arte e in streaming su NOW arriva, a undici anni dalla scomparsa di Gabriele Basilico, il primo documentario sull’opera del maestro della fotografia di architettura: Basilico – L’infinito è là in fondo.

Fotografo, architetto, urbanista. Per lui fu coniato il termine “fotografare alla Basilico”. Nelle sue foto l’assenza di esseri umani risuona come una folla invisibile; nelle sue strade vuote pulsa la vita delle città, i suoi muri non sono limiti ma sipari che celano l’infinito. Paesaggi che non ti fermeresti a guardare, diventano ipnotici e non smetteresti mai di fissarli. «Sono diventato un fotografo di luoghi»: così Gabriele Basilico racconta sé stesso.

Basilico – L’infinito è là in fondo, il docufilm sulla vita del maestro Gabriele Basilico
Basilico – L’infinito è là in fondo, il docufilm sulla vita del maestro Gabriele Basilico

Basilico. L’infinito è là in fondo ripercorre le tappe principali della carriera del maestro fotografo, dai primi scatti di reportage realizzati in gioventù negli anni dell’impegno politico, ai Ritratti di Fabbriche della fine degli anni Settanta, fino agli ultimi lavori nelle grandi metropoli degli anni 2000. A raccontare Basilico, voci di spicco del mondo della cultura, persone che gli sono state vicine e che ne custodiscono aneddoti, riflessioni e ossessioni. Per fare alcuni nomi: Stefano Boeri, Gianni Berengo Gardin, Oliviero Toscani, il regista Amos Gitai, la storica della fotografia Roberta Valtorta.

Tra queste, due in particolare guidano lo spettatore in un autentico viaggio: Toni Thorimbert, e la photo editor Giovanna Calvenzi, compagna di vita dell’artista.

Stefano Boeri racconta Gabriele Basilico
Stefano Boeri racconta Gabriele Basilico

Giovanna Calvenzi: «Gabriele ci ha insegnato l’empatia verso la mediocrità e l’astensione dal giudizio aprioristico»

Photo editor per riviste famose, membro della giuria del World Press Photo Contest, curatrice di mostre internazionali, direttrice artistica dei Rencontres Internationales de la Photographie di Arles, guest curator di Photo España, delegato artistico del Mois de la Photo a Parigi 23. Giovanna Calvenzi è stata la compagna di vita di Gabriele Basilico. Nel documentario racconta: «Vedo la sua prima foto e sono sicura che non sarebbe mai diventato un fotografo».

Perché?

Era una foto delle vacanze, come ne avevo viste in tutte le case, senza nessuna pretesa estetica.

Toscani le chiedeva «Stai ancora con quello che fotografa i deserti?». Cosa vedeva lei in quei deserti?

Ho lavorato spesso con Oliviero Toscani, che non si capacitava di come Gabriele preferisse fotografare le città senza persone piuttosto che fare ritratti alle persone, come piaceva a lui. Nei “deserti” io vedevo la straordinaria capacità di qualcuno che sapeva insegnare a vedere.

Lo definirebbe uno storico?

Uno storico dell’evoluzione del paesaggio, dello sviluppo delle città? Forse un testimone, consapevole.

Nella misura in cui Basilico faceva politica con le sue foto, quale messaggio politico ci ha lasciato?

Il concetto di “fare politica” è estremamente complesso. Basilico ha lavorato dalla metà degli anni Settanta al 2012 sulle città del mondo, sulle trasformazioni del territorio italiano, sulle periferie e le loro trasformazioni, a volte visitando e documentando ripetutamente gli stessi luoghi. Ci ha insegnato l’empatia verso la mediocrità e l’astensione dal giudizio aprioristico. Ci ha insegnato, e le sue opere ancora insegnano, a vedere.

Giovanna Calvenzi, compagna di vita di Gabriele Basilico
Giovanna Calvenzi, compagna di vita di Gabriele Basilico

Nel docufilm si parla dello “scatto lento” di Basilico. In un mondo pieno di immagini, come editor, questa inflazione di foto rende il suo lavoro più semplice? O siamo davanti a un fenomeno come il fast fashion: una forma di inquinamento da sovrapproduzione di qualità scadente?

Credo che la ricchezza o la sovrabbondanza di produzione delle immagini non siano un problema. La fotografia intelligente e colta continua per la sua strada. Si misura magari con le difficoltà del mercato, di reperire certi materiali, di farsi largo e di essere capita ma, dal mio punto di osservazione, che forse è privilegiato, non genera certo inquinamento.

Le foto in tempo reale da ogni parte del mondo non sembrano aumentare i reportage di denuncia. Penso a Letizia Battaglia, ad esempio, per la quale lei ha curato una personale. Cappuccini e gatti sono più interessanti per il pubblico?

I reportage di denuncia hanno bisogno di giornali che ci credono e che vogliano pubblicarli. Non li vediamo perché i giornali se ne disinteressano. Letizia Battaglia lavorava per un quotidiano di sinistra di Palermo, L’Ora, e tutto quello che realizzava, per alcuni anni, era immediatamente condivisibile. Mancano i giornali, mancano gli acquirenti dei giornali, manca l’interesse per un’informazione profonda. Cappuccini e gattini fanno parte della condivisione del proprio privato, non sono forme di comunicazione e sono alla portata di chiunque abbia un telefono accettabile.

A Roma ora c’è una mostra su Newton e Sky Arte lancia un docufilm su Basilico. Le foto, anche quelle di moda, raccontavano un’epoca. Le foto di Basilico fermano la nostra attenzione su paesaggi che non avremmo mai guardato. Da editor, cosa legge in tutto questo?

Credo che la diffusione nell’uso di tecnologie facili da utilizzare per realizzare immagini, abbia allargato l’interesse nei confronti della fotografia. Newton appartiene a un passato recente ma le sue foto, il suo modo di trattare la moda, i suoi ritratti, hanno sempre qualcosa da insegnarci, anche se fosse solo per migliorare le foto dei nostri gatti. Documentari dedicati ai fotografi italiani e al loro lavoro in questo periodo ne sono stati realizzati diversi: Gianni Berengo Gardin, Paola Agosti, Guido Harari, Paolo Roversi, Luigi Ghirri e naturalmente Gabriele Basilico. Ci vedo un interesse per la cultura dell’immagine e per le persone che alla fotografia hanno dedicato la loro vita.

Toni Thorimbert racconta il Maestro Basilico. «Gabriele, come molti di noi a quell’epoca, aveva un’idea della fotografia come strumento di denuncia sociale. Era uno straordinario fotoreporter»

Toni Thorimbert, reporter, ritrattista, affermato fotografo di moda e art director, inizia a fotografare giovanissimo, documentando le tensioni sociali e politiche degli anni Settanta. Con la sua reflex ha immortalato Jennifer Lopez, Willem Dafoe, Giuseppe Tornatore, Paolo Villaggio, Jovanotti, Marcell Jacobs.

Nel documentario, Thorimbert propone un confronto tra gli scatti di Basilico e la città contemporanea attraverso lo sguardo di cinque giovani fotografi chiamati a dialogare con l’eredità del Maestro. «Ci sembrava bello attualizzare il potenziale del linguaggio di Gabriele e non fare una documentario unicamente celebrativo» spiega Thorimbert. «Gabriele per me è stato un mentore. Nella Milano della metà degli anni 70 la fotografia era un’operazione intellettuale, politicamente schierata, e i fotografi erano intellettuali».

Toni Thorimbert
Toni Thorimbert

Dopo Milano. Ritratti di fabbrica fu coniata la definizione “fotografare alla Basilico”. Fotografo, architetto, urbanista ma, oggi, possiamo considerarlo uno storico, come Walter Evans o Dorothea Lange con i loro reportage sulla Grande Depressione?

Lo trovo un ottimo punto di vista. La sua cifra era allineata con i suoi tempi ed è vero che più il tempo passa, più le sue foto risultano un documento storico su come le città si sono evolute.

Gabriele, come molti di noi a quell’epoca, aveva un’idea della fotografia come strumento di denuncia sociale. Era uno straordinario fotoreporter. Aveva la capacità di trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Il suo impegno politico si è spostato quando ha scoperto che poteva tradurlo raccontando le contraddizioni dello spazio urbano.

Nel documentario lei chiede ai suoi allievi di mettersi nelle scarpe e nella testa di Gabriele. I suoi scatti richiedevano anche decine di minuti. Oggi, dove lo sviluppo non è più una scoperta, dove quando scatto già so che posso lavorare in post–produzione, c’è ancora lo stesso spirito di ricerca e la stessa responsabilità dietro a uno scatto? Cosa è cambiato?

Tutto. E di peggio in peggio. Ora sto seguendo dei fotografi che lavorano col digitale, ma che hanno deciso di apprendere quella lentezza di cui si parla nel documentario. Il problema è: con cosa sostituiamo quello che la tecnologia ci fa perdere in termini di approccio e di profondità? Molti fotografi digitali stanno riscoprendo un atteggiamento più lento. La digitalizzazione ha velocizzato tutto, poi però ci si accorge di quanto la lentezza plasmi una foto.

Basilico – L’infinito è là in fondo
Basilico – L’infinito è là in fondo

Basilico aveva la qualità di trovarsi nel posto giusto al momento giusto, ma forse anche capire l’attimo e come sfruttare quel qui e ora era frutto di una grande ricerca. Scattare in maniera ossessiva è lavorare all’inverso: prima scatto e poi vedo cosa ho prodotto?

È quello che io chiamo “pescare a strascico”. Una volta uscivi per pescare saraghi; oggi ragioni che, se hai pescato anguille, va bene lo stesso perché le facciamo diventare saraghi in post produzione. La qualità della fotografia contemporanea ha risentito molto di questo atteggiamento. Quando insegno, lavoro col digitale, ma cerco di recuperare i valori che erano alla base dell’intensità dell’operazione fotografica analogica.

Le mancano gli scatti che trovavamo su riviste patinate, una per tutte Vogue, l’originalità e la mano dei maestri della fotografia?

Spesso nelle conferenze cito Vogue: ma non cito un giornale quanto un mondo, un approccio, un arrivare a Vogue come una certificazione di qualità. Nella mia audience giovanile, questo cade nel vuoto. E giustamente, perché non essendoci una memoria storica particolarmente elevata, soprattutto in Italia, la parola Vogue oggi ha perso il significato che aveva una volta. Grazie alla moda ho fatto un percorso che mi ha dato grandi soddisfazioni, possibilità di viaggiare, di esprimermi, di creare. Newton diceva: «Se non facessi il fotografo di moda, chi mi darebbe tutti i soldi per andare dall’altra parte del mondo a fotografare?». La moda è anche una grande possibilità industriale. Oggi è diverso perché questa realtà industriale viaggia su media che non sono più i giornali. Per quelli della mia generazione, la carriera di un fotografo si basava sui giornali. Oggi sembra che uno stia parlando del medioevo.

La fotografia di moda era una grande forma d’arte…

Lo è stata. E anche una grande forma di reportage. In questo concordo con Oliviero Toscani quando dice: «Davvero il fotografo di guerra è l’unico reporter? La fotografia di moda non racconta i cambiamenti della società nei suoi aspetti umani, sociali, personali?». Secondo me la fotografia di moda, come noi la intendiamo, ha un valore di reportage importante.

Fabrique du Cinéma Awards: i premi ai film italiani giovani e innovativi

Si è svolta al Teatro Sala Umberto di Roma la 9° edizione dei Fabrique du Cinéma Awards. L’edizione di quest’anno è stata condotta da Francesca Valtorta e Riccardo Cotumaccio e si è conclusa con un after party da favola con Valerio Diggiu alla consolle. La mission rimane quella che ha contraddistinto il Premio sin dalla nascita: promuovere la cinematografia italiana indipendente, giovane e innovativa, all’interno di una cornice internazionale.

Tra i vari premiati presenti all’evento: l’attore Andrea Arcangeli per il film Come pecore in mezzo ai lupi; il regista Giuseppe Fiorello, emozionato mentre ritirava il premio per il film Stranizza d’amuri come Migliore Opera Prima; la giovane attrice Denise Tantucci e tanti altri. Ad accogliere i finalisti, insieme alla direttrice editoriale Elena Mazzocchi e al direttore artistico Davide Manca, il presidente Tommaso Agnese, intervistato da MANINTWON insieme a Denise Tantucci e Andrea Arcangeli.

Giuseppe Fiorello premiato ai Fabrique du Cinéma Awards
Giuseppe Fiorello premiato ai Fabrique du Cinéma Awards

Tommaso Agnese, presidente dei Fabrique du Cinéma Awards

Quali, tra i film selezionati, sono maggiormente innovativi?

Tutti i film che sono arrivati nelle quartine finaliste hanno qualcosa di innovativo nel proprio linguaggio. Il linguaggio cinematografico è fondamentale per un rinnovamento e noi guardiamo sia quello che la capacità di sperimentare all’interno di un film. Tra le categorie più importanti, miglior opera prima e miglior opera innovativa, Stranizza d’amuri di Beppe Fiorello, che ha vinto come Opera Prima, è un film originale perché racconta un tema difficile: quello dell’omosessualità in un ambiente di periferia, di degrado, di difficoltà, dove l’omosessualità tra due ragazzini giovanissimi non è accettata. Una sterminata domenica di Alain Parroni, vincitore come Opera Innovativa, è invece un film con una troupe composta tutta da giovani, che è un segno per il futuro.

Tommaso Agnese
Tommaso Agnese

«Siamo felicissimi di aver contribuito a creare un ambiente di cinema e di arte dove è bello ritrovarsi»

C’è stato qualche film dove la giuria si è trovata davanti a una maggior divergenza di opinioni?

La giuria è stata omogenea. C’è dietro un grande lavoro svolto dalla redazione della nostra rivista che ha selezionato, tra più di più di 800 film, le quartine finaliste. La giuria ha quindi un compito più semplice e, qualsiasi film scelga, è un successo.

Qual è il bilancio dopo nove edizioni dei Fabrique du Cinéma Awards?

La Sala Umberto era piena e Fabrique du Cinéma ha riscosso un successo di pubblico e di critica,
ma soprattutto c’è stato un grandissimo entusiasmo. Il successo del nostro premio sta crescendo fra i giovani, ma anche tra i produttori, i broadcasters e i distributori: per noi è un gradino importantissimo e siamo felicissimi di aver contribuito a creare un ambiente di cinema e di arte dove è bello ritrovarsi.

Andrea Arcangeli Miglior Attore per Come pecore in mezzo ai lupi e Denise Tantucci miglior attrice per Io e mio fratello: cosa vi ha colpito di questi due artisti?

Andrea Arcangeli ha fatto un bellissimo lavoro sul proprio corpo, un’importante lavoro attoriale di preparazione: si è messo alla prova, ha faticato e ha fatto quello che è proprio del mestiere dell’attore. In un panorama dove molti giovani prendono con superficialità questo mestiere, lui ha calcato quello che è il percorso che un attore deve fare: mettersi costantemente alla prova. Questo è il merito più grande, oltre a una grandissima interpretazione. Denise Tantucci è una attrice che ha iniziato da giovanissima e questo premio è un riconoscimento al duro lavoro che ha fatto per emergere fin da quando era piccola. È arrivata a ruoli da protagonista ancora in giovanissima età, e ci ha colpito tutti per la leggerezza e la profondità nella recitazione e per questo ha meritato il suo premio.

Intervista a Denise Tantucci, miglior attrice per Io e mio fratello

Cosa ti ha colpito della sceneggiatura e cosa ti ha fatto amare il tuo personaggio?

Quando ho letto la sceneggiatura mi ha colpito che il personaggio che avrei interpretato, Sofia, era una ragazza che, come me, era andata presto via da casa. Lei viene dalla Calabria, io sono marchigiana, ma prestissimo ho lasciato la mia regione per andare a Roma a lavorare. Quindi mi ritrovavo un po’ in tutte quelle dinamiche di famiglie che vogliono che spicchi il volo ma, allo stesso tempo, sono dispiaciute che te ne vai e, quando torni, c’è sempre quel dolce amaro del confronto tra due stili di vita diversi. Quello che ho amato del mio personaggio è la sua costante ricerca di affermazione, ma in modo buffo, divertente, irriverente. Sono aspetti del personaggio che la rendono una perfetta protagonista di una commedia.

Denise Tantucci ai Fabrique du Cinéma Awards
Denise Tantucci ai Fabrique du Cinéma Awards

Ti sei trovata a tuo agio nel ruolo?

Sì, mi sono sentita a mio agio. Poi ero contenta di diventare bionda per la prima volta per un personaggio.

Ti rispecchia? Ti sei mai sentita la pecora nera?

Anch’io, come Sofia, sono stata a Milano, solo che io la mia strada l’ho trovata subito: ho studiato Fisica, che era quello che volevo fare, e ho trovato subito i miei canali. Lei invece è un po’ più irregolare, va a zigzag, come dice in una battuta. È un sentimento che ho provato in qualche fase della mia vita quindi sì, mi ci sono rispecchiata. E anch’io ogni tanto mi sono sentita un po’ la pecora nera della mia famiglia, non per questioni lavorative ma magari per situazioni sentimentali.

Andrea Arcangeli, premiato come miglior attore ai Fabrique du Cinéma Awards

Il film Come pecore in mezzo ai lupi è uscito in sala insieme a due attesissimi kolossal in arrivo dagli Usa, pensavi che saresti stato notato e premiato?

Quando si parlava della data di uscita del film, sostenevo che il fatto che anche due grossi kolossal uscissero in sala in un periodo semi estivo, era la dimostrazione che i film possono uscire anche in periodi diversi. Poi io il mio lavoro lo faccio a prescindere dalla data d’uscita e sono stato contento
dell’accoglienza del film, nonostante in sala ci fossero anche
Barbie e Oppenheimer. “Come pecore in mezzo ai lupi” ha avuto la sua visibilità e il suo percorso e sono stato felice che i lati positivi del
film siano comunque emersi.

Andrea Arcangeli premiato ai Fabrique du Cinéma Awards
Andrea Arcangeli premiato ai Fabrique du Cinéma Awards


Temevi di non poter fare Baggio e invece ci sei riuscito. E quando hai letto questa sceneggiatura, come hai reagito? Quali sono state le maggiori difficoltà che hai affrontato?

Mi è capitato in passato di ritrovarmi di fronte a delle sfide che presentavano delle complessità apparentemente insormontabili, ma poi alla fine sono sempre riuscito a tirare fuori qualcosa di buono. Questo per me è diventato un po’ un’ancora alla quale mi aggrappo quando mi ritrovo di fronte a progetti impegnativi come quelli che sto affrontando ora. Nonostante le difficoltà, so che posso fidarmi quasi sempre del mio istinto creativo per riuscire a tirare fuori il meglio. La sceneggiatura di Come pecore in mezzo ai lupi aveva già delle basi solidissime e i rapporti erano già delineati. Il lavoro è stato quello di cercare di rendere giustizia alla sceneggiatura e poi portare il personaggio a un livello nuovo dandogli un’ulteriore anima. Le maggiori difficoltà sicuramente sono state dal punto di vista fisico: perdere 15 kg in quattro mesi non mi era mai capitato. È stato l’aspetto che ha richiesto più attenzione.

«Nel cinema italiano le risorse umane ci sono sempre. Il problema è trovare le figure giuste e metterle nelle condizioni di lavorare al meglio»

Groenlandia spesso ci regala film innovativi. Pensi che il nuovo cinema italiano abbia le risorse umane e le professionalità per affrontare i nuovi linguaggi cinematografici?

Credo che le risorse umane ci siano sempre: è impensabile ritenere che ci siano delle generazioni che non ne abbiano. Il problema è trovare le figure giuste e metterle nelle condizioni di lavorare al meglio. Quando gli sceneggiatori iniziano ad avere delle scadenze sempre più brevi, gli attori e i registi dei tempi di preparazione sempre più stretti, i produttori hanno le varie sovvenzioni che iniziano a chiedere sempre di più, si creano le condizioni sbagliate per lavorare. Questo porta inevitabilmente a uno stress generale che, a prescindere dalle risorse umane, rende difficile portare a termine i progetti con la cura e l’attenzione di cui avrebbero bisogno. Ma le figure professionali ci sono e io ho avuto la fortuna di lavorare con molti di loro.

La donna che riapriva i teatri: Drusilla Foer racconta la fiaba contemporanea di Roberta Betti

Dopo il Torino Film Festival, continuano gli eventi in sala per La donna che riapriva i teatri, diretto e sceneggiato da Francesco Ranieri Martinotti, prodotto da Capetown S.r.l. in collaborazione con Rai Cinema e il Teatro Politeama Pratese e con il sostegno di Patrizia Pepe. La donna che riapriva i teatri, il docufilm di Francesco Ranieri Martinotti sulla figura di Roberta Betti, è una storia d’altri tempi con un profumo che stimola i sensi e riscalda il cuore. È insieme una scoperta, una sensazione, un’emozione: un racconto che trasporta lo spettatore in un mondo lontano, dove tutto era possibile.

Drusilla Foer
Drusilla Foer

La storia di Roberta Betti, l’imprenditrice che salvò un teatro

È la narrazione vera e incredibile di Roberta Betti, l’imprenditrice pratese che negli anni ’90 salvò il Teatro Politeama di Prato, un gioiello dell’architetto Nervi, destinato a diventare un garage. Grazie al sostegno di una piccola impresa di pulizie e di molti cittadini, Roberta Betti acquistò il teatro dalla banca e lo riportò alla sua antica gloria, offrendo alla città uno spazio culturale.

La donna che riapriva i teatri è un meraviglioso omaggio a una donna straordinaria e a un teatro che ha saputo resistere alla crisi e alla speculazione, e che rappresenta un esempio di mecenatismo e di passione per la cultura.

Una storia di coraggio che ne racchiude un’altra: quella tenerissima tra Roberta Betti e la sua compagna di vita Elvira Trentini, raccontata da Martinotti con delicatezza e discrezione.

«Una storia d’amore detta e non detta che ho lasciato com’era – racconta Ranieri Martinotti –  perché non hanno mai fatto coming out, non hanno mai voluto rendere pubblica la loro storia di grande amicizia in una città come Prato, dove rischiava di diventare motivo di pettegolezzi. Vivevano in due appartamenti adiacenti sullo stesso pianerottolo, con due ingressi separati. Dentro la casa c’era una porta che faceva comunicare i due appartamenti. Sono state grandi amiche, ma la vita privata appartiene a loro». L’intervista.

«Volevo raccontare una storia quasi sconosciuta, ma che è stato un fiore all’occhiello del nostro Paese; di quando ci si impegnava in prima persona»

Perché un docufilm su Roberta Betti?

Perché quando un autore incontra una storia che lo stupisce, lo sorprende, credo che abbia il dovere di condividerla con il pubblico che immagina di avere. E in un’epoca in cui a occuparsi del patrimonio culturale sono le fondazioni bancarie, gli sponsor, gli stilisti e i grandi marchi, mi sembrava importante raccontare la storia di due donne normali, addirittura due donne del popolo. Perché la Betti era figlia di un muratore e la Trentini era una immigrata istriana a Firenze che ha cominciato facendo le pulizie; poi hanno messo su un’impresa di pulizie che è diventata una società con 300 dipendenti.

Volevo raccontare una storia quasi sconosciuta, ma che è stato un fiore all’occhiello del nostro Paese; di quando tutti sentivano propria una città con i suoi beni, le proprie tradizioni culturali; di quando ci si impegnava in prima persona. Ecco, loro hanno sacrificato anni della loro vita: invece che andare in vacanza, sono rimaste lì a salvare questo teatro e a mandarlo avanti.

Francesco Ranieri Martinotti e Roberta Betti presentano "La Donna che riapriva i teatri"
Francesco Ranieri Martinotti con Roberta Betti e Elvira Trentini

«C’è un legame profondo tra queste due donne: Roberta Betti ha ospitato i primi spettacoli di Drusilla Foer»

Hai scelto come portavoce Drusilla Foer, una diva d’altri tempi. Si avverte la mancanza di queste figure?

Evidentemente c’è un filo che lega questi personaggi, queste persone, la loro sensibilità, la loro visione del mondo, e non a caso si sono ritrovate in questo documentario, in questa storia. Drusilla Foer è stata valorizzata e incoraggiata dalla Betti a insistere su un personaggio che, agli inizi, non era scontato che sarebbe diventata una personalità del mondo dello spettacolo e, oserei dire, della cultura italiana.

Perché quando Drusilla sale sul palcoscenico di Sanremo o presenta i David di Donatello, non è che fa la presentatrice e basta, ma esprime un pensiero, delle opinioni. C’è un legame profondo tra queste due donne. Agli inizi Drusilla era uno dei tanti attori che cercavano la propria strada e ha trovato la Betti che le ha detto: “Vai avanti così, ti incoraggio e soprattutto ti do la scena”. Perché è stata la Betti a ospitare i suoi primi spettacoli. Per questo Drusilla non poteva non essere dentro questo documentario e non poteva non aiutare a raccontare questa storia.

I documentari sono un prodotto in forte crescita e la Rai è uno dei maggiori produttori del settore. Mancano i racconti degli anziani che ci trasmettevano la loro memoria? Quel ruolo oggi lo svolgono i biopic?

Oggi diventano record di ascolti documentari dove vengono raccontati gli amori tra un calciatore e la sua ex moglie, mentre questa è una storia particolare, legata a un territorio. In giro per l’Italia è pieno di queste storie, ma bisogna andarle a cercare e bisogna saperle ascoltare.

Io l’ho incontrata per caso e ho deciso di farne un documentario. Non so perché poi hanno successo anche dei documentari tipo quello del rapporto tra un cantante tatuato e sua moglie che fa l’influencer. Quello che so è che difficilmente documentari come questo usciranno nelle sale.

«C’è un punto in cui Roberta Betti dice che ha suscitato l’orgoglio cittadino… il carattere di questa donna incontrava quello di una cittadina industriale»

Quella del Politeama è stata una raccolta di crowdfunding che ha avuto successo. Guardando il docufilm sulla Betti e il Politeama di Prato non si può non pensare a storie come quella del Valle di Roma abbandonato a se stesso…

Oggi lo chiamano crowdfunding, all’epoca era un azionariato popolare diffuso: vendere azioni una ad una alle poche o tante persone appassionate che ancora pensavano che la cultura fosse un valore primario. C’è un punto in cui la Betti dice che ha suscitato l’orgoglio cittadino. Roma è una città sorniona. Prato è una di quelle piccole città operose, dove c’erano tante fabbriche di tessile; e il carattere di questa donna incontrava quello di una cittadina industriale dove la gente si prendeva il proprio telaio, se ne andava a casa e si metteva a lavorare e rischiava.

Poche chiacchiere e tanti fatti. Lei a un certo punto ha smesso di fare chiacchiere e ha convocato le banche, ha convocato gli industriali, è andata alla Consob. Se chiude il teatro Valle i romani vanno in un altro teatro. Nel docufilm c’è la storia di quel vecchietto che dice: “Guardi io vorrei comprare cinque azioni ma devo anche comprare il latte, ne posso comprare solo tre?

Francesco Ranieri Martinotti, Roberta Betti e i giovani protagonisti del musical
Francesco Ranieri Martinotti, Roberta Betti e i giovani protagonisti del musical

«La perfezione non ti commuove, non ti emoziona»

La donna che riapriva i teatri è un progetto artigianale…

Sì e ha tutti i difetti dell’artigianato, che ha l’orlo imperfetto, con la cucitura leggermente storta, però la perfezione non ti commuove, non ti emoziona. Quindi uno deve accettare anche di fare dei film indipendenti, artigianali, con più lavoro di manodopera e meno di tecnologia per cercare di raggiungere il cuore del pubblico. Ho pensato addirittura di fare un circuitazione diversa, persino nelle sale teatrali, evitando il cortocircuito delle uscite in sala tra grandi debutti, magari stranieri, ed eventi vari.

Credi che l’AI avrebbe dato un simile cuore a questo docufilm?

Il punto è che poi si arriverà a un’intelligenza artificiale così sofisticata che dirai: Mi fai un prodotto artigianale con questi difetti. E magari arriveremo a un livello di tecnologico tale per cui, mettendo le indicazioni, ci si arriva pure a quel risultato. Rimane il fatto che sì, forse la macchina si potrà avvicinare il più possibile, ma gli mancherà l’anima, quel qualcosa di umano che ora arriva credo… spero. Gli mancherà l’urgenza che nasce da una sofferenza. Soprattutto credo che, essendo “intelligente”, non avrebbe l’incoscienza di un autore di fare progetti dettati dalle emozioni.

“The Art of Soul, Electrified”: cinque artisti per un’auto. Stefano Guindani celebra la Porsche Taycan

Porsche Taycan: The art of Soul, Electrified. Questo è il tema del progetto artistico di Stefano Guindani per Porsche Italia. Per Massimiliano Cariola, Direttore Marketing di Porsche Italia, «Questo progetto è stata una sfida entusiasmante e la naturale continuazione di Dreamers.On. Abbiamo voluto che gli artisti si lasciassero ispirare dal sogno e proponessero la loro visione di The art of Soul, Electrified con il loro lavoro. Il progetto è un importante capitolo della storia che vogliamo raccontare verso una mobilità sempre più sostenibile».

La mostra itinerante, partita dalla Soho House Roma, toccherà i Centri Porsche d’Italia nel 2024. Il progetto nasce dalla collaborazione tra Porsche Italia e Stefano Guindani, fotografo e direttore creativo, già ambassador di Dreamers.On, l’iniziativa che celebra i visionari, coloro che aprono nuove strade e immaginano il futuro. I cinque artisti coinvolti sono Andrea Frazzetta, Elisa Seitzinger, Giuseppe Ragazzini, Alberto Ponticelli e Katetheo, ciascuno con uno stile e un’estetica unici, ma uniti da una forte carica espressiva e sensibilità.

La mostra The Art of Soul, Electrified
La mostra The Art of Soul, Electrified

«Arrivare dove nessuno si è mai spinto prima. Aprire nuove strade. Superare ogni ostacolo. Immaginare ciò che gli altri ancora non vedono»

«La curiosità di vedere come avrebbero interpretato, ognuno con la propria arte, la Taycan e i concetti che rappresenta, ovvero potenza, futuro, rivoluzione, eleganza, bellezza, mi ha accompagnato dall’inizio alla fine di questo percorso. Il risultato ha svelato mondi diversi, caratterizzati dal personale modo di immaginare e di raccontare le cose» dice Stefano Guindani.

Il pensiero di Stefano Guindani, fotografo di respiro internazionale, è racchiuso in poche, preziose righe: «Arrivare dove nessuno si è mai spinto prima. Aprire nuove strade. Superare ogni ostacolo. Immaginare ciò che gli altri ancora non vedono».

E negli spazi esclusivi della Soho House di Roma, Stefano Guindani ha raccontato a MANINTOWN come seguire un sogno voglia dire continuare a cercare nuove visioni.

«Sono stato protagonista di una delle puntate del progetto Dreamers.On ispirato alle storie dei sognatori. E io ero uno dei sognatori. Da lì è nata la mia collaborazione con Porsche e l’idea di mettere insieme cinque artisti di formazione completamente diversa: un collagista, un’illustratrice, una creativa che usa solo Photoshop senza intelligenza artificiale, un fotografo che collabora con New York Times e National Geographic e un fumettista che ha lavorato anche con la Marvel. L’input che è stato dato loro? Interpretare la Taycan, l’unica Porsche elettrica al 100 % che è la rivoluzione per il futuro Porsche».

Porsche Exhibition Soho House, Ph Ernesto S. Ruscio/Getty Images
Porsche Exhibition Soho House, Ph Ernesto S. Ruscio/Getty Images

«Il trittico di opere richiesto ai nostri artisti, rappresenta il viaggio di Porsche verso una mobilità più sostenibile, attraverso tre pilastri: sostenibilità, elettrificazione e Taycan»

«Ogni artista aveva carta bianca e poteva usare qualunque tecnica. Doveva solo presentare un trittico finale con una parte anche senza auto, una con almeno un dettaglio della macchina e una con l’auto. Spesso le tre opere sono collegate tra loro, come quella di Elisa, una delle artiste più famose presenti alla mostra, che ho conosciuto perché disegna tarocchi bellissimi. Elisa Seitzinger è un’illustratrice contemporanea che ha appena esposto alla Cavallerizza di Torino, dove è allestita la mostra Sacro Fuoco, e che negli ultimi anni ha raggiunto importanti riconoscimenti nazionali e internazionali.
Ragazzini è un collagista che ha creato Mixerpiece, una app creativa ed educativa per bambini e adulti, con oggetti e forme che puoi combinare per creare nuove opere d’arte mentre impari la storia dell’arte, che ha vinto numerosi premi. Ognuno degli artisti presenti ha una sua particolarità e ha declinato a suo modo la filosofia Porsche che è alla base della Tycan.

Il trittico di opere richiesto ai nostri artisti, rappresenta infatti il viaggio di Porsche verso una mobilità più sostenibile, attraverso tre pilastri: sostenibilità, elettrificazione e Taycan».

Gli artisti di The Art of Soul, Electrified che hanno partecipato al progetto artistico di Stefano Guindani per Porsche Italia, sono Andrea Frazzetta, Elisa Seitzinger, Giuseppe Ragazzini, Alberto Ponticelli e Katetheo

Porsche Exhibition Soho House, Ph Ernesto S. Ruscio/Getty Images
Porsche Exhibition Soho House, Ph Ernesto S. Ruscio/Getty Images

Elisa Seitzinger: l’illustratrice che unisce arte medievale e innovazione

Elisa Seitzinger è un’artista torinese che si ispira alle miniature medievali, creando opere bidimensionali e simboliche. Per il progetto artistico di Porsche Italia The Art of Soul, Electrified, ha realizzato un trittico dal titolo Energia che nasce dall’incontro tra scienza e leggenda, usando la tecnica del disegno a china su carta e la colorazione digitale.

“Parto da Zeus – racconta Elisa – perché è il dio dell’energia primigenia. Ha in mano delle saette e, da una di queste, parte un collegamento che è il fil rouge che collega il trittico. Porsche e Stefano Guindani hanno commissionato tre opere, ma io volevo che fosse un unicum: da Zeus nasce Atena che si collega poi con Gaia. Zeus è la parte istintiva, energia potente che si sprigiona; Atena, la dea della Sapienza, rappresenta la tecnologia, la perfezione, la scienza e si ricollega a Gaia, che invece rappresenta la natura, la dea madre, perché la Taycan è comunque un’auto elettrica attenta all’ambiente. Il mio lavoro vuole mettere insieme questi tre aspetti. E poi la Porsche è un mito e questo mi ha acceso la scintilla».

The Art of Soul, Electrified
Energia che nasce dall’incontro tra scienza e leggenda

Alberto Ponticelli: il fumettista che esplora il reale e il virtuale

Alberto Ponticelli è un artista noto al pubblico italiano e statunitense che crea storie attraverso le sue tavole. Per il progetto artistico di Porsche Italia The Art of Soul, Electrified, ha rappresentato la sua visione dell’elettrificazione e della mobilità sostenibile con una Tempesta che si fa strada. Il suo trittico è un’opera grafica che combina il disegno manuale con la postproduzione digitale usando texture originali.

«Io sono un fumettista – spiega Alberto – Nel mio lavoro ho inserito la forza, l’aggressività e il controllo. La mia opera nasce dal bisogno fisico di rappresentare queste caratteristiche. La Porsche mi sembrava fondesse la potenza della macchina da corsa per eccellenza, con la sua storia, e l’ordine dato dall’elettricità che per me è un segno di speranza, anche se viviamo un periodo di declino. Per Porsche un’auto da corsa elettrica è sicuramente una sfida estrema, ma credo fermamente che si debba partire sempre da noi per arrivare a cambiare la società tutta. E con Tycan Porsche fa il suo passo verso un cambiamento che ci auguriamo sia epocale».

The Art of Soul, Electrified
Tempesta che si fa strada

Katetheo: la graphic designer che crea mondi surreali e colorati

Katetheo (Caterina Theocharidou) è una fotografa che crea universi paralleli; un’artista che racconta personaggi che si muovono in scenari fantastici e vivaci. Caterina è un’artista greca che ha lasciato l’architettura per dedicarsi alla fotografia. Le sue opere sono caratterizzate da colori vivaci e un’estetica minimale ma surreale. Per il progetto artistico di Porsche Italia, ha creato un trittico dal titolo Correre veloci verso un futuro sostenibile usando la grafica digitale. Il suo lavoro mostra il movimento in diverse forme, in un immaginario onirico che è invaso dalla potenza di Porsche Taycan.

«Con la mia arte amo creare contesti che non esistono – spiega Caterina – mondi surreali, immaginari, colorati. Le mie immagini sono create da zero: non c’è nulla di fotografato, è tutto digitale. Lavoro solo con Photoshop e Illustrator. Sono un architetta passata alla grafica. E forse la pulizia dei miei disegni nasce proprio dalla mia impostazione come architetta. In questa creazione ho messo dei gatti neri che si vedono e non si vedono. Li amo e li inserisco spesso nei miei lavori.  Un’altra mia caratteristica? Unire colori pastello e colori vivaci: è una soluzione cromatica strana, ma che amo».

The Art of Soul, Electrified
Correre veloci verso un futuro sostenibile

Giuseppe Ragazzini: lo scenografo che crea collage digitali

Giuseppe Ragazzini è un artista visivo che ha realizzato proiezioni pittoriche per spettacoli in prestigiosi teatri italiani come il Piccolo Teatro di Milano e La Fenice di Venezia. Per il progetto The Art of Soul, Electrified, ha usato la sua tecnica personale di collage digitale, che combina animazione pittorica e scenografia digitale. Il suo trittico ultra-pop, dal titolo Sinergia tra anima e creatività, esprime la sua visione dell’elettrificazione e della mobilità sostenibile.

«Sono tre collage digitali – racconta Giuseppe – Io nasco come pittore analogico, quindi per lavorare mi sporco le mani. Ma ho anche un filone digitale dove uso tecnologie. Qui ho usato questa tecnica che chiamo della metamorfosi, che ho già usato per spettacoli teatrali e musicali, quando ho lavorato per gli Avion Travel, Ornella Vanoni, Lucio Dalla. Creavo questi sfondi animati dove i miei disegni si sviluppavano raccontando delle storie. Faccio anche animazioni pittoriche stile Lele Luzzati. Questi creati per Porsche sono uno stadio di una metamorfosi digitale che a un certo punto si è evoluta e ne è stato stampato il frame digitale. È un’opera che ha una matrice pittorica e materica la cui natura è digitale.
Lavorare con Porsche è stato divertente perché ci hanno dato libertà. La mia paura era che cominciassero a mettere dei paletti alla nostra creatività, cosa che spesso i brand fanno snaturando l’opera originaria dell’artista. Invece con Porsche è stato tutto molto naturale e piacevole e questo, secondo me, ha portato a dei risultati autentici».

The Art of Soul, Electrified
Sinergia tra anima e creatività

Andrea Frazzetta: il fotografo che racconta l’energia sostenibile

Andrea Frazzetta è un fotografo che collabora con prestigiosi media internazionali come New York Times, Guardian, National Geographic e l’Espresso. Per il progetto artistico di Porsche Italia, ha realizzato un trittico fotografico con tecnica infrared, che esprime il concept Energia, in armonia con il pianeta. La tecnica a infrarossi gli ha permesso di catturare una realtà invisibile a occhio nudo, con una lunghezza d’onda superiore ai 700 nm: una metafora che mostra quanto possiamo spingere il nostro immaginario verso una mobilità elettrica e sostenibile.

The Art of Soul, Electrified
Energia, in armonia con il pianeta

Natale 2023: 5 Hotel dove vivere le feste natalizie in modo diverso e divertente a Roma

Ma chi l’ha detto che il Natale va trascorso rigorosamente in famiglia e a tavola? Quante volte abbiamo sentito dire “vorrei che fosse già il 7 gennaio”? Uscire fuori dagli schemi, senza necessariamente dover fuggire ai Caraibi, non è da Grinch. È reinterpretare le feste in modo leggero. E per chi cerca un modo per vivere le feste senza dover sopravvivere alle feste, Roma è una città da scoprire.

Aleph Rome Hotel: per vivere la meraviglia del Natale 2023 tra SPA e tradizioni

Un luogo dove vivere la magia del Natale in tutto il suo splendore è l’Aleph Rome Hotel. A pochi passi da Via Veneto, conserva ancora il fascino e il prestigio di un palazzo storico, un tempo sede della Banca d’Italia. Ma, varcata la soglia dell’austero edificio, l’Aleph Rome si trasforma in un mondo di calore, gioia e tradizioni senza tempo.
E quale posto migliore per iniziare la giornata del 25? Una festa in piccolo da dedicare ad amici o amiche speciali? Un primo appuntamento da ricordare negli anni? Un Natale in coppia meno impegnativo dei pranzi natalizi? Un altro momento felice con i figli prima di accompagnarli dall’altro genitore? Una mattinata da dedicare a se stessi in gioiosa solitudine?

La colazione di Natale all’Aleph è il momento ideale per condividere la gioia delle festività con la famiglia e gli amici. Un’esperienza culinaria unica, progettata per deliziare i sensi e far immergere nell’atmosfera festosa di questa stagione. Un evento in miniatura dove gustare una varietà di pietanze tipiche; come il panettone, il pandoro, i torroni, i biscotti, le marmellate, il salmone affumicato, il prosciutto, i formaggi, le uova, le frittelle, i succhi di frutta e le bevande calde. Il tutto servito in una sala elegante e accogliente, decorata con addobbi natalizi e accompagnata da una musica di sottofondo che vi farà sentire come in una favola.

E se la colazione continuasse in SPA? Le festività, all’Aleph Rome Hotel, sono anche l’occasione per dedicarsi al proprio benessere, a Le Caveau by Narducci Hair & SPA. Un vero e proprio rifugio di bellezza e tranquillità, dove la piscina interna e il rituale dell’Hammam orientale permettono di ritemprare il corpo e lo spirito. Molti i trattamenti adatti a questo periodo dell’anno a disposizione degli ospiti. Tra questi il trattamento corpo a base di olio di mandorla e oli essenziali di cannella e arancio dolce; una miscela avvolgente che crea un’atmosfera dal vero sapore natalizio.

Natale e Capodanno al The St. Regis Rome: arte, musica, gastronomia e SPA di lusso

The St. Regis Rome: ecco la destinazione di lusso per trascorrere le feste natalizie in un’atmosfera ricca di arte, musica e gastronomia. Situato tra piazza della Repubblica e via del Quirinale, l’hotel fa dell’arte di ricevere, ospitare e far sentire a casa il suo punto di forza.

Il The St. Regis Rome è il luogo perfetto dove vivere tutto il periodo delle feste. Il LUMEN Cocktails & Cuisine, il ristorante dell’albergo, diventa la piazza italiana del buon vivere, dove gustare le specialità della cucina italiana e internazionale, accompagnate da cocktail raffinati e musica dal vivo. Il calendario di eventi è ricco di appuntamenti per tutti i gusti e per tutte le occasioni: dalle Jazz Night del lunedì con Roberta Vaudo Trio, alle Lumen Society Nights, con live dj set, del martedì e giovedì. E ancora, dal Piano show con Max Massaroni del mercoledì e domenica, alle Acoustic Dinner del venerdì con il Metropolitan String Quintet. Infine la Swing Sould Band Night del sabato con Four Seasons Quintet.

Per il brunch di Natale del 25 Dicembre e per il quello di Capodanno il 1 Gennaio, il LUMEN Cocktails & Cuisine propone un ricco buffet con angolo salumi e formaggi, insalata di polpo, salmone affumicato, lasagne, cannelloni, tortellini, zuppa di lenticchie, arrosto di agnello, carciofi, caponata e filettini di orata. Per chiudere in dolcezza il giorno di Natale, un’ampia selezione di dessert, tra cui panettoni artigianali, crostate, strudel, bignè e tiramisù.

Molte le proposte dell’hotel per il periodo natalizio alle porte, prima fra tutte la possibilità di rilassarsi rigenerando mente e corpo. The St. Regis Roma Spa è l’oasi fuori dal tempo per riprendersi dal tour de force di dicembre: anche a Natale e Capodanno trattamenti termali di lusso e un centro fitness perfettamente attrezzato, con bagno turco e saune, restano aperti per godere di un’esperienza esclusiva, all’insegna del savoir faire, a cura del marchio Sisley Paris.

Brunch di Natale, The St. Regis Rome Hotel
Brunch natalizio, The St. Regis Rome Hotel

Hotel Eden: brunch, SPA e relax per iniziare il nuovo anno in bellezza

Il primo brunch del 2024 presso il Giardino Ristorante dell’Hotel Eden vuole essere un augurio per il nuovo anno, in un tempio dell’alta cucina dove varietà e ricchezza di proposte sicuramente non mancano. Tra queste: croissant ripieni, una selezione di formaggi e marmellate, pane e panelle, baccalà in pastella e i grandi classici della pasticceria italiana, come tiramisù e cannoli siciliani. Nei giorni di festa non possono mancare i grandi classici della tradizione come panettone e pandoro; tante poi le sorprese che gli chef de il Giardino Ristorante hanno in serbo per stupire il palato degli ospiti.

E per iniziare in nuovo anno liberandosi dalla stanchezza del 2023 che si chiude, The Eden SPA è il rifugio dove isolarsi anche solo per poche ore.
Per una pausa di benessere e relax nel cuore della Città Eterna, The Eden SPA è un’oasi di tranquillità, dove è possibile scegliere tra una serie di esperienze e terapie olistiche, personalizzate in base alle proprie esigenze e desideri. E quale regalo migliore per Natale che immergersi nell’atmosfera soffusa e accogliente delle sale per i trattamenti, dotate di tutti i comfort e di una vista mozzafiato sulla città. Il modo ideale per iniziare il nuovo anno potendosi rilassare, rivitalizzare, godere di un momento per te stesso e calmare i tuoi sensi. Magari in una suite privata, con bagno e vasca idromassaggio, per vivere un’esperienza di lusso e intimità. The Eden SPA è il posto dove ritrovare l’armonia tra corpo e mente, per affrontare le prossime sfide con energia e vitalità.

Natale e Capodanno 2023 all’Anantara Palazzo Naiadi Rome Hotel: brunch e SPA in una cornice incantevole

Se vuoi vivere le feste in modo indimenticabile, l’Anantara Palazzo Naiadi Rome Hotel ha offerte esclusive; primo fra tutti il brunch di Natale e del primo dell’anno, organizzato presso il ristorante La Fontana. Inoltre trattamenti di coppia nell’esclusiva SPA e una location da favola con vista sulla fontana delle Naiadi. È il posto dove rendere il soggiorno anche di un solo giorno un’esperienza di benessere e serenità, tra sapori, aromi e sensazioni.

Il 25 dicembre e il primo dell’anno, il brunch dell’Anantara Palazzo Naiadi Rome Hotel è un appuntamento gastronomico unico; la perfetta combinazione tra portate tipiche della tradizione romana e prelibatezze locali e internazionali. La Fontana è il ristorante giusto dove ogni gusto o abitudine alimentare è soddisfatto, per un Natale in armonia solo da godere. Impossibile non trovare la propria tentazione: le insalate, taglieri di salumi regionali e nazionali, selezioni di formaggi locali da abbinare a miele e marmellate.

Tra gli antipasti, sfiziosi e raffinati, hummus e baba ganoush, per chi ama i sapori orientali. A seguire primi con pasta fresca fatta in casa e secondi di carne e pesce. E per concludere in dolcezza, le proposte del pastry chef: panettone e pandoro da gustare con crema al mascarpone o cioccolato, panpepato, gingerbread, torte e dolci al cucchiaio, torroni e frutta secca, per chi ama sapori intensi e croccanti. Ma non finisce qui. Il ristorante offre angoli sfiziosi, con ampolle di vetro colme di biscotti, meringhe, caramelle e lollies natalizie, per rendere il 25 dicembre ancora più goloso e divertente.

Brunch di Natale, Anantara Palazzo Naiadi Rome Hotel
Brunch natalizio, Anantara Palazzo Naiadi Rome Hotel

E perché non approfittare del brunch per regalarsi anche un momento di relax e benessere? Magari un trattamento di coppia per immergersi nel più profondo spirito natalizio. Il “candle massage” è perfetto per risvegliare i cinque sensi: rilassa e calma la mente in un’atmosfera intima e calda, illuminata da luce soffusa e candele; un’esperienza rigenerante dove gli aromi natalizi trasportano in un viaggio polisensoriale. Quale posto migliore dell’Anantara SPA per ritrovare benessere e spirito natalizio? Magari mentre mani esperte combinano estratti botanici di arancio amaro, olio al pino e anice stellato per rivitalizzare le cellule, con finalità riparatrici, idratanti e antinfiammatorie.

Il Brunch di Natale del Rome Cavalieri Hilton: un’esperienza di lusso e tradizione anche per i bambini

Natale in famiglia o con gli amici, in modo elegante ma informale, senza impazzire in cucina?
La perfetta soluzione c’è: il brunch di Natale dell’hotel Rome Cavalieri Hilton, uno dei più prestigiosi e raffinati della Capitale. Un appuntamento imperdibile per celebrare il 25 dicembre presso il ristorante Uliveto; una splendida location che offre una meravigliosa vista sul parco secolare dell’hotel e sulla Città Eterna.

Il Brunch di Natale del Rome Cavalieri Hilton vi sorprenderà con le live station, dove poter assistere alla preparazione di piatti ricchi, dai sapori autentici che richiamano la tradizione culinaria italiana. La tradizione natalizia sarà assolutamente rispettata: cappelletti in brodo di cappone, crema di zucca con crumble di mandorle e amaretti e il cappone ripieno in casseruola. Una particolarità? Il corner dedicato al Primo Natale, la tavola ai tempi di Gesù, con pane azimo, capretto, zuppa di carciofo di Gerusalemme, felafel e verdure alla brace. Non mancheranno le irresistibili prelibatezze dolci, create dal pastry chef Dario Nuti: la sua pigna caprese al pralinato nocciola, il tronchetto Mont Blanc ai frutti di bosco, il riccio meringa cocco e lime, l’assoluto di panpepato, il Christmas pudding e una varietà di panettoni e pandori artigianali.

Il Brunch di Natale del Rome Cavalieri Hilton sarà anche un’occasione di divertimento e magia per i più piccini, che potranno incontrare Babbo Natale sulla slitta e ricevere meravigliosi regali. E per i genitori che vorranno godersi il pranzo del 25, tante attività ludiche e creative, organizzate dallo staff dell’hotel per intrattenere i bambini.

Con il brunch del nuovo anno del ristorante Uliveto, il 2024 inizierà all’insegna della bontà. Tra prelibatezze, sapori dolci e salati tipicamente italiani, musica dal vivo e il consueto intrattenimento per bambini, l’appuntamento al Rome Cavalieri Hilton si conferma un evento imperdibile.

Installazioni di Natale presso l'hotel Rome Cavalieri Hilton
Installazioni di Natale presso l’hotel Rome Cavalieri Hilton

Roma, i Papi e le sartorie: il costumista Carlo Poggioli svela i segreti dei set a FraMmenti Club

Pietre come i frammenti di sculture romane, fregi, capitelli, portali di travertino e altri reperti archeologici, che spaziano dalla Roma imperiale al Rinascimento, per un palazzo quattrocentesco edificato su una struttura preesistente di epoca romana. Una sede storica, tra Piazza Navona e il Pantheon, ristrutturata mescolando elementi antichi, come la collezione di “pietre” di famiglia, ed elementi di design, e trasformata in una dimora d’epoca con otto suggestivi appartamenti di lusso.


Da affittare, ma soprattutto da vivere: non come semplici turisti, ma come viaggiatori. Una residenza di charme per chi vuole avere la sua casa nella città eterna, per pochi giorni o per una permanenza transitoria. Con spa, palestra, servizi dedicati: dalla spesa a domicilio al maggiordomo, al personal trainer. E, soprattutto, assoluta privacy. Per chi, in fondo, in albergo non riesce a sentirsi a casa propria.
In questa dimora d’arte unica, FraMmenti Club è un’occasione per un dialogo partecipativo per raccontare la Città Eterna, la sua inesauribile cultura e la sua rara bellezza, recuperando la formula degli antichi circoli letterari. Nascono così iniziative che coinvolgono artigiani, galleristi e artisti chiamati a raccontare la loro Roma in un contesto dove l’arte si respira in ogni sua forma. Nell’incomparabile cornice di Palazzo delle Pietre, Clara Tosi Pamphili ha dedicato la serata a Carlo Poggioli, costumista e presidente dell’ASC – Associazione Italiana Scenografi Costumisti e Arredatori.

I costumi di Carlo Poggioli

Un’occasione per parlare di una Roma che ospita le sartorie di costume più importanti del mondo, dove sono stati realizzati migliaia di abiti, dai film epici alle serie contemporanee, da Ben Hur a Il Trono di Spade. Carlo Poggioli ha ripercorso la sua carriera di costumista, dalla formazione con Maurizio Millenotti, Piero Tosi, Gabriella Pescucci, alle collaborazioni con registi come Terry Gilliam, Paolo Sorrentino (Youth, The Young Pope e The New Pope, Loro 1 e 2 e il suo ultimo film, ancora in post produzione), Roman Polanski (The Palace). Fino ai costumi per Terrence Malick e per la nuovissima serie Netflix tratta da Il Gattopardo.

Jude Law in The Young Pope, nei vestiti disegnati da Carlo Poggioli
Jude Law in The Young Pope, nei costumi disegnati da Carlo Poggioli

Carlo Poggioli: «I film che vincono gli Oscar coi costumi delle nostre sartorie»

Poggioli ha intrattenuto e divertito gli ospiti di Palazzo delle Pietre raccontando con gioiosa convivialità il suo rapporto con Roma, con il cinema e il mondo delle sartorie romane legate ai set cinematografici e teatrali. Un settore ricchissimo di storia e un patrimonio da proteggere, che spesso è affidato all’amore e alla memoria di chi, negli anni, ha lavorato per crearlo. Un archivio dal valore inestimabile che va regolamentato perché «ci sono film che vincono gli Oscar con i vestiti presi nelle nostre sartorie, fatti da sarte che non vengono neanche menzionate» ha raccontato Poggioli.


«Sto preparando i costumi per Antonio e Cleopatra per il Piccolo di Milano e avevo bisogno di abiti che avevo fatto in passato per una serie televisiva su Tutankhamon. Sono andato alla sartoria Tirelli, dove erano conservati, ed era stato tutto preso per una Aida. Abiti che avevo fatto fare in Marocco. Significa che un costumista ha preso i miei abiti e li ha venduti al produttore come suoi. È inammissibile. Uno dei nostri obiettivi è quello di riuscire ad apporre etichette digitali ai costumi di scena. Per fare un buon prodotto servono tre o quattro settimane e dietro a ogni costume c’è un grande lavoro di ricerca. Tutto questo lavoro va tutelato».

Carlo Poggioli
Jane Fonda in Youth, regia di Paolo Sorrentino costume design Carlo Poggioli

Com’è stato lavorare sul set con Terrence Malick?

Con Terrence Malick è stata una grande esperienza. È un’artista geniale che crea mentre gira. Le sue sceneggiature sono poche pagine. Ne ho alcune dove si legge: “I vecchietti entrano nella stanza e arriva Robertino, che era Benigni (La vita è bella – nda), che si siede e parla con i vecchietti. Chissà cosa si diranno? Lo scopriremo poi”. Erano spunti, idee messe su carta che non avevano ancora uno sviluppo. È stata una bellissima esperienza anche il film su Gesù (A hidden life – La vita nascosta – nda). Abbiamo girato tra Marocco, Malta, Turchia, Roma, Israele, Islanda, con location pazzesche. Malick la sera tardi ti telefonava e ti chiedeva i costumi per il giorno dopo.

Quando ci conoscemmo, lui mi disse: «Io ti chiederò tante cose e tu mi dovrai dire ogni volta cosa è possibile fare. Però sappi che il mio motto è che, se c’è un ostacolo, noi siamo come l’acqua: aggiriamo l’ostacolo e continuiamo». Ricordo quando dovevamo fare i costumi per i diavoli. Tutti diversi. La sera prima mi chiamava e mi diceva come farli. Viaggiavamo tantissimo e ogni volta dovevi scaricare camion, mettere a posto la sartoria, tenendo presente che sono posti isolati dove non è che vai a comprare le stoffe: devi avere tutto l’occorrente, comprese le tinture. All’inizio, anche per soggezione, dicevo: «Vedo quello che riesco a fare». Col tempo, quando mi chiamava e mi diceva: «Io domani vorrei fare questo diavolo», avevo imparato a rispondere: «Guarda, oggi mi sento molto acqua». Lui rideva e accettava.

Come ha pensato il costume da bagno iconico di The Young Pope?

L’idea è stata di Paolo Sorrentino. Paolo vuole che gli abiti siano senza tempo, mai troppo descrittivi. Sul set, poi, tutto può cambiare all’improvviso: è programmata una scena e la sera ti dicono che il giorno dopo se ne gira un’altra e tu non sei pronto perché il vestito non è finito. Ma devi risolvere il problema o metti in difficoltà una produzione. Non girare un giorno ha un costo elevato, per cui cerco sempre di fare in modo che le cose funzionino.
Adoro Jude Law. Per The Young Pope abbiamo girato in agosto. Lui era il Papa e doveva entrare nella Cappella Sistina indossando dei mantelli: avevo cercato di farli leggerissimi, ma pesavano 10 chili perché erano ricoperti di pietre. Per evitare il peso della colla, le avevo fatte cucire a mano.
Migliaia di pietre cucite a mano. Ogni volta mi scusavo perché doveva indossare quegli abiti con un caldo torrido. Non li levava neanche durante le pause. Alla fine gli chiesi perché e lui mi rispose: “Tu non sai come è utile per me il peso di questi costumi, perché mi fanno capire il peso della Chiesa che un Papa ha sulle spalle”. Una frase che non dimenticherò mai.
La tiara era fatta di sughero, ma pesava lo stesso perché era piena di fili metallici e ricoperta di pietre. Ci fu un momento allucinante. Stavamo per girare. Jude era sulla sedia gestatoria. Paolo Sorrentino mi dice che Jude, sulle spalle dei portantini, deve alzare lo sguardo al soffitto affrescato e chiede se la tiara avrebbe retto. E gridava: “ma lo può fare?”. Tremavo, perché avevamo una tiara sola e pensavo: se la tiara cade da quell’altezza, abbiamo finito di girare. Ho afferrato del biadesivo e ho attaccato la tiara sulla testa di Jude mentre lui diceva: “2 millimeters left”… Nel frattempo Paolo da lassù che urlava: “giriamo!”. Jude mi guarda e dice “don’t worry”. È bello quando hai la collaborazione di queste star. È difficile quando hai quelli antipatici.

Chi sono gli attori antipatici?

Ho incontrato poche persone antipatiche o che mi hanno fatto problemi. Uno è John Cusack: non ho più parlato con lui. Il lavoro del costumista è quello di aiutare gli attori a entrare nel personaggio. Prima di incontrarli mando sempre i disegni, il campione dei tessuti, per far sì che siano preparati a quello che poi indosseranno.
Con John Cusack è stata la prima volta che ho litigato con un attore. Lui ha una sorta di claustrofobia e non sopporta le giacche. Il problema è che doveva fare un film dell’Ottocento. Lamentò che le spalle erano troppo strette. Avevamo già ingrandito la giacca: se continuavamo, diventava un modello anni ‘70. Dovevamo girare il giorno dopo e rifare la giacca daccapo era impensabile. Decido di mettere della lycra sotto le braccia usando una tecnica che usano i ballerini. Il primo giorno di girato, Cusack esce dalla roulotte e mi fa chiamare dicendo: “guarda, si è rotta la giacca”. L’aveva rotta lui. Chiamo il regista e il produttore e dico loro: “nella scena precedente, che non abbiamo ancora girato, lui deve avere una colluttazione. Facciamo che durante la colluttazione la giacca si è rotta. È tutto realistico”. E lo abbiamo lasciato così per gran parte del film.

Si è mai sentito in soggezione con gli attori?

Un attore che mi preoccupava era Michael Caine. Per Youth dovevamo fare la prova costume e gli abiti erano molti. Andai nel suo appartamento a Londra. Trovarsi davanti a una icona del cinema di quella levatura mette in soggezione. Michael Caine è un grande professionista e, nonostante la sua età, è stato in piedi per ore. Durante la prova non proferiva parola. Annuiva col capo. Rimaneva davanti allo specchio. Ero preoccupato che non gli piacesse nulla. Io sudavo freddo. All’ultimo costume gli mostro gli accessori, tra i quali il cappello che ha tenuto nel film, e mi dice: “Grazie Carlo perché finalmente, mentre tu mi provavi tutti questi abiti, io capivo che cosa dovevo diventare. Pensavo alle scene che dovevo girare”.

Molti stilisti creano abiti di scena. Qual è la differenza tra stilista e costumista?

Noi collaboriamo con la moda. Ho appena collaborato con Saint Laurent. La differenza fondamentale è che la moda pensa sempre a donne iconiche, che anche in cucina indossano abiti meravigliosi, come nei film degli anni ‘50. Il cinema crea dei personaggi. la moda è rivolta a un’ideale di bellezza. Noi vestiamo uomini e donne di ogni età, grassi o magri: dobbiamo fare dei caratteri. Comunque il cinema ha aiutato la moda e la moda ha aiutato il cinema. Pensiamo ai film degli anni ‘40 con i costumi di Adrian. Se disegnava degli abiti per un film, si innescava un meccanismo industriale per produrli per i grandi magazzini. Guadagnavano vendendo le copie degli abiti di scena nei grandi magazzini tipo Harrods. Ci sono stati casi dove i gli abiti hanno guadagnato più del film. Io però penso che i due mestieri vadano tenuti separati. Nel film di Sorrentino ho avuto a che fare con Saint Laurent, ma hanno rispettato le mie indicazioni per gli abiti della protagonista. Se però arriva uno stilista che vuole imporre il suo modello perché altrimenti non è distintivo della sua maison, allora la collaborazione sul set non funziona.

Chi si rivolge a un costumista del suo calibro, pretende l’aderenza alla realtà storica o le chiede creatività?

Dipende. Ad esempio ci sono registri giovani ai quali non devi parlare di costume. Però riesco a farli ragionare e dico loro: se tu affronti questo periodo, ad esempio fai Il Gattopardo, racconti un momento dell’Italia, un pezzo di storia. Puoi uscire fuori da un certo territorio, ma entro certi limiti.
Quello che oramai sono tremende sono le piattaforme. Hanno gli algoritmi che dicono: questi costumi non attirano i giovani, perché magari sono troppo gonfi. Allora ambientate la serie in un’altra epoca dove gli abiti sono più aderenti. Devi rispettare il periodo storico, non puoi raccontare il falso ai nostri giovani. Come mettere la nobiltà con neri americani nel ‘700. Questo vuol dire insegnare il falso. Ci sono registi che mi chiedono di allontanarmi dalla realtà. So che sbaglio, ma sbaglio come dico io, con una libertà creativa nella misura in cui è possibile averla. Ma se devo fare una cosa storica come Il Gattopardo non è che gli posso mettere le minigonne.

Carlo Poggioli
Una scena di Cold Mountain: i costumi sono opera di Ann Roth e Carlo Poggioli

Il primo Natale dell’hotel The Rome Edition: albero, cocktail e menù vi lasceranno a bocca aperta

The Rome EDITION, inaugurato quest’anno nell’edificio degli anni ’40 realizzato dagli architetti razionalisti Cesare Pascoletti e Matteo Piacentini, illumina il suo primo albero di Natale. L’hotel di lusso e design nel cuore di Roma è la scelta perfetta per trascorrere le feste natalizie. Per la cena della Vigilia, il pranzo di Natale, il cenone di Capodanno o anche solo per un punch pomeridiano.

The Rome EDITION e il suo primo albero di Natale firmato Dylan Tripp

Dylan Tripp è un artista e flower designer che ha iniziato la sua carriera nella moda, lavorando per marchi come Valentino e Fendi. Dal 2012 ha seguito la sua passione per la natura e il mondo floreale, creando piccoli mondi botanici; scenari con un’estetica contemporanea dove spontaneità, eleganza e poesia si incontrano.

L’artista prende spunto dall’Impero Romano e dal periodo Barocco, progettando una scultura metallica che ospita ventagli dorati fatti di carta, simili a origami, ed elementi secchi e terrosi. Tripp ha anche mescolato motivi vegetali e forme geometriche, ispirandosi ai raggi delle aureole dei santi, alle spirali e alla pienezza delle chiese barocche per cui la Città è nota.

Albero di Natale progettato da Dylan Tripp per l'hotel The Rome EDITION
Albero di Natale progettato da Dylan Tripp per l’hotel The Rome EDITION

«Per il primo Natale del The Rome EDITION – racconta Dylan Tripp – ho creato una sovrapposizione di strati dorati che ricorda le chiese barocche, ricche di volute e di forme sinuose. Sono tutte enormi foglie di loto essiccate. Un albero pieno ma leggero, che si sposa con un ambiente importante, ma che non si perde nello spazio nonostante l’altezza dei soffitti. Ho poi aggiunto tante piccole code di topo verde smeraldo che escono dall’albero dandogli movimento».

«Faccio allestimenti floreali nel mondo della moda, eventi, set design, shooting fotografici e floral workshops in giro per il mondo – continua Dylan Tripp – Lavoravo nella moda come stilista e, a un certo punto, mi sono licenziato da Fendi. Volevo recuperare ritmi più umani e una strada più personale. Il mio, oggi, è un lavoro che a volte trovo terapeutico: un lavoro creativo, manuale, che vivo come una sessione di yoga».

Dylan Tripp

Le proposte per le festività di The Rome EDITION

The Rome EDITION non è solo un hotel di lusso e design, ma anche un luogo dove vivere le festività in modo speciale. In collaborazione con l’head bartender di The Rome EDITION, Dylan Tripp ha ideato due esclusivi cocktail: il Red Christmas Punch, a base di scotch e cordiale di vin brûlée con anice, chiodi di garofano, cannella, mela, noce moscata, burro e zucchero, e l’Anima Noel, a base di bourbon whisky con shrub di fragole, aceto balsamico e soda. Gli elementi secchi e gli accenti dorati dell’albero si riflettono nei cocktail, che celebrano la stagione delle feste coinvolgendo tutti i sensi.

Ogni martedì, per tutto il mese di dicembre, The Rome EDITION invita a immergersi nel calore della Punch Room per delle esclusive degustazioni settimanali, sotto la guida dei suoi eccezionali barmen. Un incantevole viaggio alla scoperta dei punch cocktails e dei segreti per creare il perfetto punch festivo, l’esclusivo Red Christmas Punch, arricchito da proposte di food pairing.

Red Christmas Punch
Red Christmas Punch

Qualsiasi sia il motivo che vi porta qui, il The Rome EDITION offre raffinatezza, attenzione ai dettagli, ricercatezza ed estetica di alto livello. È il luogo ideale per romani e viaggiatori che vogliono vivere un’esperienza unica e indimenticabile. A pochi passi da via Veneto, il The Rome EDITION è la scelta perfetta anche per festeggiare il 24 o il 25 dicembre nell’accogliente cornice di Anima, signature restaurant dell’hotel, con un menù di piatti dell’amata chef partner Paola Colucci.

Per la Vigilia, Natale e Capodanno menù speciali dalle portate ricercate

Per la sera del 24 dicembre, la chef romana propone un menù di pesce composto da quattro portate di spicco: l’immancabile salmone selvaggio affumicato arricchito da caviale, crème fraiche e melograno; un sashimi di ricciola accompagnato da insalata russa scomposta; un gustoso cacciucco di mare di pasta mista guarnito da bufala affumicata; una spigola arrosto servita con patate sfogliate e dressing bernese. Il menù comprende anche aperitivo di benvenuto e dolci natalizi.

La degustazione del pranzo di Natale è un omaggio alle tradizioni culinarie del Bel Paese. Inizia con una prima portata di uovo poché servito con crema di patate affumicate alle erbe, cardoncelli e bottarga di partner faraona con castagne, melograno, salsa al brandy e balsamico. Aperitivo di benvenuto e piccola pasticceria aprono e chiudono il prelibato menù.

The Rome EDITION è anche la location adatta per accogliere il nuovo anno nella Capitale. Per l’occasione, il signature restaurant Anima propone una rivisitazione del menù tradizionale di Capodanno offrendo quattro gustosi piatti a base di ingredienti ricercati: tataki di tonno rosso con puntarelle, mela verde e maionese alle alici; baccalà in tempura con finocchio e gel di arancia; tagliolino all’uovo con burro, limone e caviale; filetto di ricciola con burro e alici. Immancabile l’aperitivo di benvenuto a base di ceviche di spigola e ostriche e un calice di champagne per il brindisi di mezzanotte, accompagnati, come vuole la tradizione, da lenticchie e cotechino.

IL SOGNO DI NATALE DI ROSENTHAL E WESTIN EXCELSIOR ROME: PORCELLANE, MAGIA E MUSICA

Storia, arte, alta cucina e calde atmosfere si uniscono per celebrare il Natale del Westin Excelsior Rome. Con le festività alle porte, l’esclusivo hotel si illumina di magia e bagliori dorati grazie all’albero di Rosenthal.

Il sontuoso edificio in barocco francese che si erge all’angolo tra via Veneto e via Boncompagni, inaugurato nel 1906 come il primo hotel internazionale della storica via romana, ha infatti acceso un altro albero di Natale. Quello di quest’anno è firmato Rosenthal, storico marchio tedesco, oggi di proprietà italiana, i cui manufatti (piatti, coppe e vasi) si distinguono per la loro unicità. Caratterizzati da un design che armonizza forma, funzione, qualità e artigianalità, le porcellane Rosenthal sono frutto di collaborazioni con importanti designer e stilisti. Per citare alcuni nomi ricordiamo Walter Gropius, Andy Warhol, Gianni Versace e Zaha Hadid.

Quello che troneggia nell’elegantissima hall in stile Belle Époque, circondata da grandi chandelier di cristallo, specchi originari d’epoca e pregiati mobili d’antiquariato, non è un semplice albero. Si tratta di un’esclusiva installazione firmata dallo Studio Thesign Gallery di Roma, che ha voluto evocare un’atmosfera magica e suggestiva. L’imponente “Christmas Snowball” Rosenthal è infatti un’opera artistica a tutti gli effetti, ubicata al centro del foyer. Un vero gioiello curato dagli interior designer Salvo Nicosia e Stefano Liardo in collaborazione con il celebre marchio di home decor.

Per l’occasione l’Executive Chef James Foglieni ha proposto ricette tradizionali italiane e regionali pronte a sorprendere e deliziare anche i palati più esigenti. Il tutto con un piacevole accompagnamento musicale dal vivo.

Dolci natalizi serviti pressi l'hotel Westin Excelsior Rome
Dolci natalizi serviti presso l’hotel Westin Excelsior Rome

The Westin Excelsior Rome e Rosenthal celebrano Natale 2023 con “Christmas Snowball”

L’hotel, scelto da attori e attrici di Hollywood, come Greta Garbo, Errol Flynn, Clark Gable, Madonna, George Clooney e Brad Pitt, e da personalità quali Edoardo VIII e Winston Churchill, è da sempre sinonimo di lusso ed esclusività. E proprio qui è possibile ammirare la “Christmas Snowball”, installazione unica nel suo genere, che custodisce non semplici tazze di Rosenthal, ma vere e proprie opere d’arte decorative. Tazze trasformate in elementi scenografici e festosi; decorazioni per l’albero di Natale a dir poco esclusive. Porcellane, simboli di eleganza, raffinatezza e prestigio, che fregiano le tavole e gli ambienti più ricercati, diventano qui opere d’arte, da ammirare e collezionare.

"Christmas Snowball" firmata Rosenthal, hotel Westin Excelsior Rome
“Christmas Snowball” firmata Rosenthal, hotel Westin Excelsior Rome

L’accostamento di questi iconici elementi Rosenthal alla suggestione di un magico paesaggio invernale crea un’immagine dall’incantevole fascino. Le collezioni di Studio Line e Rosenthal meets Versace suggeriscono una varietà di stili e design; insomma gli ingredienti perfetti per rendere l’installazione natalizia particolarmente distintiva e memorabile.

Un omaggio all’arte del ricevere

Il Westin Excelsior Rome quest’anno omaggia un’iconica espressione dell’arte del ricevere, che da oltre un secolo impreziosisce dimore private e ospitalità di prestigio. L’albergo si augura così di far sentire i propri ospiti a casa, magari degustando un aperitivo all’ORVM Bar o al Doney Restaurant & Café.

Simbolo indiscusso della Dolce Vita felliniana, il Westin Excelsior Rome, grazie all’iconico Café Doney, ha da sempre rappresentato un punto di riferimento per i viaggiatori internazionali. Con le sue 316 camere, 35 suite e l’esclusiva Villa La Cupola, che per le sue dimensioni (1.100 metri quadri) e i sontuosi arredi è tra le suite più prestigiose d’Europa, l’hotel garantisce una vera esperienza di lusso.

E per questo Natale, l’albergo si appresta ad essere il luogo magico ideale dove trascorrere le feste più gioiose dell’anno. Con amici preziosi e con gli affetti più cari, il Westin Excelsior Rome è pronto a far assaporare i pregiati menù creati dallo chef per la cena del 24, il pranzo del 25 e la magica sera del 31 dicembre. Ovviamente da Doney.

Il Natale firmato Westin Excelsior Rome
Il Natale firmato Westin Excelsior Rome è una vera esperienza di lusso

A Natale, ma non solo: tutti i segreti del Pampepato, il dolce dell’inverno

Ma perché solo a Natale? A Terni, in Umbria, si è svolto Sweet Pampepato: un evento interamente dedicato al dolce della tradizione dove si incontrano le migliori realtà produttive, per far scoprire e degustare tutto il meglio della produzione di pampepato di Terni IGP. L’evento (in programma dal 22 al 24 Novembre 2024) è stato l’occasione per scoprire la ricchissima varietà di dolci della tradizione Umbra.

Showcooking, degustazioni guidate, disfide gastronomiche: tante opportunità per scoprire il pampepato di Terni IGP e gli altri dolci della tradizione in modo innovativo, divertente e inaspettato, con grandi cuochi e importanti nomi della pasticceria nazionale che prepareranno per il pubblico presente le loro creazioni e le loro interpretazioni del dolce tipico di Natale.

Il pampepato
Il pampepato

Pampepato, il dolce che racconta la tradizione umbra

È così che Terni condividerà con tutti gli ospiti che arriveranno una delle sue più antiche tradizioni: quella del pampepato. L’antico dolce, perfetto equilibrio tra dolce e amaro, che la leggenda vuole fosse diffuso già in pieno Rinascimento. Nato come Panpepato, ha ceduto alle regole grammaticali della nuova lingua perdendo la n. Si tratta infatti di un pane speziato, fatto con frutta secca, canditi, cacao e spezie, che veniva preparato nelle case dei contadini della zona di Terni.

Il pampepato è un dolce antico e profumato, che racconta di luoghi e tradizioni diverse. Un dolce che si offre ad amici e parenti, come segno di affetto e di buon augurio; che, grazie alle spezie, si conserva a lungo, come un tesoro da custodire e da assaporare nei momenti speciali.

Le origini del pampepato

L’antico “pan pepato” veniva regalato a Natale, nel periodo del solstizio d’inverno. Ed è il valore simbolico degli ingredienti che lega il dolce natalizio alle tradizioni dell’impero romano. Le noci dei Saturnalia, le feste dedicate a Saturno che cadevano a dicembre. Le nocciole che, come le noci, avevano il potere di proteggere dai veleni. Dal medioevo si aggiungeranno spezie, come il pepe, che, provenienti dai mercati orientali, profumavano le feste. Dal tardo rinascimento, dopo la scoperta del nuovo mondo, il cacao. Ma fino al XVIII secolo, zucchero, cacao e spezie saranno solo nei pani speziati dei ricchi e dei prelati.

Fu la pregevolezza degli ingredienti a caratterizzare il pampepato come un dolce delle feste ed è a Terni che si trova la sua prima ricetta. Porta la data del 1851 e contiene “méle, zuccaro e amandole, nocchiole e noci, fior di farina e candito d’arancio, cannella, pepe nero e pepe garofonato”.

Nei secoli il pampepato diventa il dolce principe della tradizione natalizia delle famiglie di Terni e della sua provincia. Le ricette, familiari e, come tali, segrete, venivano gelosamente trasmesse da una generazione all’altra.

La preparazione del pampepato
La preparazione del pampepato

Il dolce delle feste natalizie umbre

Durante le feste natalizie non c’è famiglia o forno che non prepari il pampepato. In resoconti tardo ottocenteschi si legge che l’8 dicembre è il giorno dedicato alla sua preparazione. Alla ricetta originaria, Nel frattempo si erano aggiunti altri ingredienti: pinoli, mosto cotto, uva passa, cioccolato, noce moscata, cannella, caffè, a seconda dell’economia familiare.

Nel 1939 a Spartaco Pazzaglia, fondatore dell’omonima pasticceria, verrà addirittura concesso lo Stemma Reale per il suo pampepato, con la dicitura “Brevetto della Real Casa”.
Nel 2020 il pampepato di Terni ha ottenuto la denominazione IGP come riconoscimento della sua qualità e tradizione.

Ma perché solo a Natale?

Il pampepato è una coccola che scalda l’inverno. È un equilibrio di contrasti. Con la morbidezza del cioccolato fondente sciolto nel miele, dei canditi e dell’uvetta, e la croccantezza della frutta secca, che deve rigorosamente restare intera. Un perfetto bilanciamento tra dolce e amaro, con note piccanti di fondo.

Un dolce dall’aromaticità complessa. Il carattere del cacao: intenso e amaro. Il gusto del cioccolato: cremoso e vellutato. Le note del pepe: piccante, pungente, esotico. Ogni morso è un’esplosione di sapori e una sinfonia di sensazioni. Una mescolanza equilibrata di forza, carattere e passione.

Un dolce per chiudere un pasto o uno sfizio da gustare sul divano, avvolti da una calda coperta durante un pomeriggio invernale. Magari accompagnandolo con un passito o con distillati che possano bilanciarne la dolcezza e la piccantezza esaltandone le sfumature: una grappa, un rum o un whisky, Irish o Single Malt.

La preparazione del pampepato
La preparazione del pampepato

«Sweet Pampepato è un evento culturale e di valorizzazione del territorio, che vuole trasmettere il forte valore sociale che da sempre sta dietro alla preparazione collettiva di questo dolce familiare»

Come ha ricordato Stefano Pelliciardi di Sgp Grandi Eventi, tra gli organizzatori di Sweet Pampepato, «Terni è una città conosciuta per l’acciaio, ma anche per le chiese, le opere d’arte e le cascate delle Marmore. Con questa manifestazione vogliamo sottolineare come Terni sia una delle sole sei città italiane che vanta un dolce IGP. Con Sweet Pampepato – conclude Stefano Pelliciardi – il pampepato verrà celebrato nelle strade della città con un grande evento di marketing territoriale, per promuovere questo antico tesoro cittadino e per far emergere Terni come una delle capitali della pasticceria nazionale.
Sweet Pampepato è un evento culturale e di valorizzazione del territorio, che vuole trasmettere il forte valore sociale che da sempre sta dietro alla preparazione collettiva di questo dolce familiare. Tra le attività più divertenti e coinvolgenti previste nei giorni di Sweet Pampepato, il pubblico processo al Pampepato come dolce: scopriremo se sarà assolto o condannato, anche confrontandolo con altri prodotti simili italiani».

La preparazione del pampepato
La preparazione del pampepato

Guida per attori emergenti (e non): “I 400 Giorni – Funamboli e Maestri” racconta il cinema italiano

«L’intento è quello di descrivere il cinema e lo scenario underground che lo anima non solo come un mondo di finzione e messa in scena, bensì come un nastro di Moebius dove la fiction si fonde con la vita, rendendo evidente l’ossimoro pirandelliano delle Maschere Nude, in cui è proprio la vita reale a creare la maschera, mentre la finzione scenica la libera». Queste le parole con le quali Emanuele Napolitano, uno dei due registi, descrive I 400 Giorni – Funamboli e Maestri.

Ventiquattro aspiranti attori per un viaggio lungo 400 giorni che si trasforma in una road map per attori emergenti. Un docufilm che parte dal progetto DO Tour Casting, che ha portato alla creazione di un vivaio di talenti emergenti under 30 presentato al Torino Film Fest fuori concorso. Il repertorio del documentario include anche filmati e testimonianze dell’Archivio storico Istituto Luce e della Cineteca di Bologna.

Un grande coro a più voci, un esperimento che vede da un lato attori e attrici del panorama cinematografico italiano come Anna Foglietta, Claudio Amendola, Stefania Sandrelli, Luca Marinelli, Paolo Genovese. Dall’altro giovani attori in formazione, alcuni dei quali hanno già avuto l’opportunità di sperimentare set importanti.

“I 400 giorni” è un modo per raccontare il cinema con lo spirito delle parole pronunciate da Alberto Sordi nelle prime scene: «Il nostro cinema italiano è un cinema del quale si dicono tante cose. Lasciamo pure che le dicano, noi continuiamo a lavorare nel nostro piccolo».

Gli attori del docufilm I 400 Giorni - Funamboli e Maestri
Gli attori del docufilm I 400 Giorni – Funamboli e Maestri

Adele, Sarah e il loro percorso nel docufilm

Adele Cammarata, 23 anni, romana e diplomata all’Accademia Silvio D’Amico. È uno dei volti principali della prima stagione della serie Disney I leoni di Sicilia e la ritroveremo anche nella seconda. 

Sarah Short, 23 anni, di Torino. Ha studiato in Inghilterra e all’Accademia dei Filodrammatici di Milano. Sarà nel cast delle serie Rai Marconi e al cinema come protagonista nel film Clorofilla, presentato in concorso ad Alice nella Città durante la Festa del cinema di Roma.

Giovani attori e solo 5 minuti per un provino che potrebbe cambiare la loro vita. Inizia così il percorso di Adele e Sarah.

«Anche nella frattura di un breve silenzio può riverberare l’unicità della comunicazione»

Pensate davvero che 5 minuti siano sufficienti per capire e per farsi capire, per dare un’opportunità unica?

AdeleLa misura del tempo impone un certo limite. La sfida è pensare di non avere nulla da dimostrare, ma qualcosa da far accadere. La semplicità di questo grande compito pone di fronte al rischio di essere spogli, privi di sostegni. E a volte la paura di questo vuoto spinge le proprie capacità oltre i confini prefissati. Cinque minuti non sono certo sufficienti alla comprensione; per questo cavalcare l’imbarazzo e il disagio può essere la chiave. Anche nella frattura di un breve silenzio può riverberare l’unicità della comunicazione. 

SarahCome in qualsiasi provino, ci sono sempre tanti elementi che sono al di fuori del mio controllo. Per questo, l’unica cosa che mi limito a fare è concentrarmi su quello che ho preparato e sul mio lavoro, che è l’unica cosa che posso controllare. Durante il provino ho fatto così, nella speranza che emergessero, per vie traverse, la mia passione e la mia professionalità. Adesso mi sento di dire che 5 minuti possano bastare per capire se ci si può fidare di qualcuno. Mal che vada ci si sbaglia.

«Da spettatrice, penso che ogni attore e attrice abbia la sua modalità di esistere e ogni modo di recitare funzioni rispetto a un determinato progetto»

Luca Marinelli nel docu dice: “Che cos’è il talento? Non ne ho la più pallida idea. Anche se poi accenna a una spiegazione. Per voi cos’è? 

Adele: Mistero. È qualcosa che non si sa di avere: è, e basta. Possederlo altro non è che un illusione. A volte si sente poggiando l’orecchio sull’orlo del proprio abisso, quel confine sottile da cui echeggia un frastuono lontano, rapsodico, celato tra le pareti di un innato dono. 

Sarah: Non esiste un talento riconoscibile universalmente. Da spettatrice, penso che ogni attore e attrice abbia la sua modalità di esistere e ogni modo di recitare funzioni rispetto a un determinato progetto. Come attrice, riconosco in me stessa una necessità di fare questo mestiere: non so se abbia a che fare col talento.

«Non penso di poter fare la differenza. Spero di poter essere differente»

In 400 giorni vediamo alternati mostri sacri del cinema italiano e giovani ragazzi poco o affatto conosciuti: attori all’inizio e all’apice della loro carriera. Quale contributo pensi di poter dare al cinema italiano? Dove credi di poter fare la differenza? 

Adele: Il cinema italiano può sopravvivere, anche senza il mio contributo. Non penso di poter fare la differenza. Spero di poter essere differente, che la mia proposta sia sempre nuova, diversa, inconsueta, inaspettata, unica, metamorfica. 

Sarah: È molto difficile rispondere in qualità di attrice. Penso che la differenza si faccia attraverso l’insieme, quindi vorrei continuare a crescere, confrontarmi con tante menti e anime diverse. Ho avuto la fortuna di lavorare con registe e registi giovani. Mi piacerebbe molto continuare su questa linea, affrontando tanti personaggi e spaziare il più possibile.

Il consiglio di Stefania Sandrelli ai giovani è di iniziare dal teatro. È un consiglio datato o ancora valido?

Adele: Il teatro non è solo un punto di partenza, ma un luogo di arrivo. Oggi più che mai è necessario condividere la potenza di un rito antico quanto la nostra specie, per ritrovarci e riconoscerci animali nella compresenza dei corpi, nella vibrazione elettrica di un qui e ora, l’immediatezza più autentica che possa esistere. 

Sarah: Consiglio validissimo! Io lo pratico quando non lavoro nel cinema e non potrei vivere senza.

«L’errore è il più grande maestro. Concedersi la libertà di sbagliare permette di imparare a rinnovarsi, cambiare, grazie all’esperienza del fallimento»

Francesco Scianna consiglia a chi inizia di trovare dei grandi maestri. Ne avete trovato almeno uno

Adele: L’errore è il più grande maestro. Concedersi la libertà di sbagliare permette di imparare a rinnovarsi, cambiare, grazie all’esperienza del fallimento. Fallire clamorosamente, fallendo meglio. 

Sarah: Una grande persona con cui ho la fortuna di lavorare in teatro è Filippo Renda. Sono cresciuta moltissimo a livello recitativo grazie a lui. Non riesco a definirlo maestro perché non si pone mai come tale, anzi. Forse è proprio per questo che lo stimo, perché nel lavoro con lui non si ha paura di dire quello che si pensa. Ci si può permettere di sbagliare e quindi, inevitabilmente, di crescere.

«Maya è stato un viaggio difficile, che ha richiesto molta costanza e volontà di mettersi in dubbio. Proprio per questo però è stato un regalo»

Il ruolo che maggiormente vi ha messo alla prova finora e che vi ha fatto dire “non sono più a scuola, qui si fa sul serio”?

Adele: EVA, Entità Virtuale Analitica. Il ruolo più stimolante e altrettanto complicato che fino ad ora ho interpretato. Timshel è stato il primo spettacolo a cui ho preso parte dopo la formazione accademica. La richiesta da parte dei registi – Massimiliano Burini e Matteo Fiorucci – era di fornire alla drammaturgia inedita un apporto autorale, personale. Non essendo fisicamente presente in scena in quanto corpo, tutto il lavoro era incentrato sul tentativo di riprodurre una voce digitale, che conservasse il sé un perturbante sentore umano. La magia di esserci senza essere visti.

Sarah: Tutti i lavori mi hanno messa alla prova in maniera diversa. Sicuramente il ruolo più totalizzante è stato quello di Maia, nel film Clorofilla. Maia è una ragazza che riesce a malapena a parlare, è spaventata persino della sua voce e non riesce a comunicare con gli altri. Io tendo ad affrontare il dolore con molta ironia. In un certo senso ho più schermi, mi nascondo facendo rumore. Il suo silenzio invece è assordante e violento, sia per se stessa che per gli altri. Per questo ho dovuto lavorare su un tipo fragilità che nella vita non mi permetto di vivere. È stato un viaggio difficile, che ha richiesto molta costanza e volontà di mettersi in dubbio. Proprio per questo però è stato un regalo.

Il vostro sogno? 

Adele: Sognare il proibito, tramite l’arte di sparire, scivolando riflessa nel corpo di un altro. 

Sarah: Continuare a vivere questo mestiere in equilibrio tra leggerezza e gravità.

La vostra paura? E come la superate?

Adele: L’invadente timore di non essere all’altezza. Quando questo sentire si fa insopportabile, provo a guardarmi indietro, rendendomi di nuovo testimone di ciò che ho costruito per arrivare dove sono. È sempre una sorpresa riscoprirsi ancora in ciò che così sapientemente non so fare

Sarah: La perdita di controllo. La supero perdendo il controllo.

Un Natale di eleganza, tradizione e armonia: Brunello Cucinelli “veste” l’Hotel Eden

L’eleganza classica e sartoriale di Brunello Cucinelli veste l’albero dell’Hotel Eden. Una coccola che va oltre il cashmere e che avvolge dolcemente la pelle nelle fredde giornate invernali, e che si trasforma in esperienza sensoriale. Le candele bianche nel camino della Sala Lettura di uno degli hotel più preziosi della Dorchester Collection, la magia delle Feste che si tinge delle iconiche tonalità del bianco e dell’oro. È “Winter in White”, il ton-sur-ton firmato Brunello Cucinelli per avvolgere i luoghi del cuore con un’atmosfera accogliente.

Brunello Cucinelli firma le decorazioni natalizie dell'hotel Eden
Brunello Cucinelli firma le decorazioni natalizie dell’Hotel Eden

Le decorazioni dell’Hotel Eden sono firmate Brunello Cucinelli

Dalle raffinate decorazioni festive agli accessori in pregiato legno d’ulivo fino ai soffici Plaid e Cuscini: creazioni che trasmettono agli ambienti sensazioni di serenità. Candele artigianali che scaldano La Libreria con dettagli dalla bellezza quasi celata e creazioni uniche che rendono il Natale all’Hotel Eden Roma un momento raffinato da scoprire insieme ai propri cari.

Ispirati alle caratteristiche del borgo di Solomeo, gli addobbi rivestiti in cachemire e sottili fiocchi di neve in legno arricchiscono, fino al 7 gennaio, La Libreria e la lobby di Hotel Eden con dettagli raffinati, svelando un mondo in cui ogni elemento trasmette comfort e armonia.

Per celebrare l’unione di due brand accomunati dall’amore per le tradizioni, e in omaggio all’Umbria di Cucinelli, presso La Libreria sarà possibile gustare un menù di delizie umbre che prevede specialità del territorio sia dolci che salate. Il Natale all’Hotel Eden è stato inaugurato con un pranzo per pochi selezionati ospiti presso La Terrazza, degustando carpaccio di branzino e limone amalfitano, risotto con zucca, taleggio DOP e aceto balsamico invecchiato, calici di Kikè Fina Vini e Morellino di Scansano dell’Azienda Agricola Terenzi.

Le decorazioni natalizie dell'hotel Eden
Le decorazioni natalizie dell’Hotel Eden

Il menù di Natale e della Vigilia: la tradizione con un twist

Familiarità e convivialità: queste le caratteristiche del Natale al ristorante La Terrazza dell’Hotel Eden. Sofisticato il menù della Vigilia: Capesante, tartufo nero pregiato e arancia, Scampo con dressing allo Champagne, Ravioli ripieni all’astice e dragoncello, Dentice e mandorle, Yogurt, carota e pompelmo, Panettone e Pandoro e una selezione di delizie di Natale.

La grande famiglia Dorchester è felice di accogliere i propri ospiti anche per il Pranzo di Natale. Mont Blanc di foie gras e prugne, Tortellini in consommé di manzo, Coda di rospo e Lardo di Colonnata IGP in alternativa ad Agnello e funghi porcini, Come una ricotta e visciole, Panettone e Pandoro e una selezione di delizie di Natale sono nel menù scelto dallo chef de La Terrazza. Atmosfere più rilassate si possono godere presso Il Giardino Ristorante.

L'hotel Eden a Roma
L’Hotel Eden

La cena di Capodanno con vista su Roma

Per chi ama vivere anche il Capodanno in modo sofisticato e discreto, Hotel Eden quest’anno ha una proposta che renderà l’arrivo del nuovo anno un’esperienza indimenticabile. Il Cenone sarà servito anche all’interno della suite più esclusiva di Hotel Eden, la Suite Penthouse Bellavista, che aprirà per la prima volta le sue porte dando la possibilità di cenare con amici in uno spazio intimo e riservato, circondati da una delle viste più belle di Roma.

Una scelta esclusiva che coniuga, in perfetta armonia, raffinatezza senza tempo e panorami mozzafiato. Brunello Cucinelli e Hotel Eden Roma: un Natale di eleganza, tradizione e armonia, indimenticabile come la città eterna.

Brando Pacitto, dalla serie tv Baby al cinema: “Amo cambiare”

Brando Pacitto era alla Festa del cinema di Roma in due produzioni: Troppo azzurro di Filippo Barbagallo con Martina Gatti e Valerio Mastandrea, e The cage di Massimiliano Zanin, presentato ad Alice nella città, con Aurora Giovinazzo e Valeria Solarino.

Romano, a dieci anni interpreta Gesù bambino accanto ad Alessandro Gassmann nella fiction tv La Sacra Famiglia. L’anno dopo recita accanto a Pierfrancesco Favino e Isabella Ferrari in Liberi di giocare. Poi due serie acclamatissime: Braccialetti Rossi e la serie Netflix Baby. Sul suo profilo IG c’è un video dove lo si vede uscire soddisfatto da un barile (quando l’onda si ripiega su se stessa formando un tunnel che i surfisti attraversano). «Il Point Break di Fregene è della mia famiglia. Ho sempre surfato. Sono stato anche in nazionale».

Inizia così la chiacchierata con Brando, parlando dei luoghi storici di Fregene e scoprendo conoscenze comuni.

Brando Pacitto, foto di Onda Pacitto
Brando Pacitto, foto di Onda Pacitto

«Avere la possibilità di cambiare spesso è la cosa che mi interessa di più di questo lavoro, anche a rischio di stare fermo per periodi prolungati»

Tre anni di Braccialetti rossi e tre anni di Baby. Hai mai temuto di rimanere intrappolato in un certo tipo di produzioni?

Sono sempre stato attratto dal cinema, ma sono orgoglioso del modo in cui ho iniziato a fare questo mestiere. Per me due scuole importantissime, perché avere materiale su cui lavorare per tre anni di fila è un po’ come fare un’accademia. Avere la possibilità di cambiare spesso è la cosa che mi interessa di più di questo lavoro, anche a rischio di stare fermo per periodi prolungati. Ma amo il cinema, la recitazione, e il fatto di non avere responsabilità familiari o pesi economici mi permette di avere ancora una visione romantica di questo lavoro. Riesco ancora ad essere libero di rifiutare ruoli che non sento adatti a me.
Ad esempio sono una persona che a volte è in difficoltà con l’utilizzo dei social e con l’uso dell’immagine che è collaterale al ruolo dell’attore. Questo aspetto un po’ mi spaventa
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Ci sono giovani attori che vengono preferiti ad altri in base al numero dei follower che hanno…

È un aspetto del mio lavoro con cui ho difficoltà a relazionarmi. Del mio lavoro amo andare sul set a recitare. La sponsorizzazione dell’attore esiste dagli inizi dell’industria cinematografica, ma ora è aumentata in modo esponenziale e ti si chiede di essere bravo nell’utilizzo di certi canali per venderti. Ma quello non è il mio campo. I miei attori e registi preferiti sono persone che non si fanno vedere se non nel momento in cui recitano.

Brando Pacitto, foto di Gabriele Saladino
Brando Pacitto, foto di Gabriele Saladino

«È stato molto interessante lavorare con Gabriele Muccino perché ha un’energia folle, mentre io ero un ragazzo estremamente timido. Relazionarci è stato particolare: lui esigeva tanto e io ero molto introverso»

Molti produttori si lamentano del fatto che tanti attori vanno obbligati addirittura a prendere parte alle premiere. Questo dovrebbe rientrare nel loro lavoro

Quello è giusto, come presentare i film ai festival, essere i film in sala durante alcune proiezioni, parlare con la platea, essere a disposizione del pubblico e accettare un confronto con loro. Tutto questo è meraviglioso e credo debba far parte del lavoro dell’attore. Mi sta benissimo essere utilizzato dalla produzione per la sponsorizzazione del film, ma non i social. Io voglio fare bene l’attore: questo è il mio lavoro. Farmi foto e video da solo e postarli no. Voi di MANINTOWN pubblicate bellissimi shooting, ma realizzati da fotografi professionisti. Io ho studiato per fare l’attore non il media manager. Se no studiavo strategie di marketing.

Qual è stata la tua esperienza con Gabriele Muccino nel film L’estate addosso?

Con Muccino è stato assurdo. Avevo 19 anni, stavo facendo la maturità e mi sono ritrovato su quel set. Ho girato negli Stati Uniti e a Cuba con tre ragazzi americani più grandi di me. Due mesi e mezzo fuori casa, dall’altra parte del mondo, da solo: è stata un’esperienza pazzesca. È stato molto interessante lavorare con Gabriele perché ha un’energia folle, mentre io ero un ragazzo estremamente timido. Relazionarci è stato particolare: lui esigeva tanto e io ero molto introverso. A volte ci siamo anche scontrati: io avevo difficoltà a tirare fuori certe emozioni, lui si scontrava con certi miei meccanismi. Gabriele ha comunque un marchio di fabbrica nell’utilizzo degli attori e in me evidentemente aveva visto un bagliore, ma io ero un ragazzino titubante e a volte ho sofferto.
Sono però contento che, anche se attraverso l’uso di una certa forza verbale, sia riuscito a farmi muovere su canali diversi rispetto a quelli ai quali ero abituato
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Brando Pacitto, foto di Giorgia Tognoli
Brando Pacitto, foto di Giorgia Tognoli

«Abel Ferrara lo definirei un impressionista: è uno che lancia le indicazioni e coglie quello che gli restituisci. Senza grandi tecnicismi e preparazione prima del set»

E Abel Ferrara?

Abel Ferrara è stato una di quei regali che questo mestiere a volte ti fa. Mai mi sarei aspettato di poter lavorare con una leggenda simile, in un momento come quello immediatamente successivo al Covid. Non era certo il periodo in cui avevo molte speranze di finire sul set di un grande film. Invece, nel giro di due settimane, mi sono ritrovato a girare con Abel. Lui ha un modo di dirigere completamente diverso da tutti gli altri. Lo definirei un impressionista: è uno che lancia le indicazioni e coglie quello che gli restituisci. Senza grandi tecnicismi e preparazione prima del set.
La sceneggiatura di Padre Pio era di venti pagine: il resto è stato tutto estremamente freestyle.
Padre Pio era interpretato da Shia Labeouf, che è uno dei miei attori preferiti. Per me è stato incredibile e assurdo allo stesso tempo.

Tra Abel Ferrara e Muccino, come è stato essere diretto da giovani registi alla loro opera prima come Filippo Barbagallo e Massimiliano Zanin?

Dopo Baby, a parte Abel Ferrara, ho fatto quattro opere prime ed è una cosa che rivendico con gioia, perché mi piace lavorare con persone che si mettono in discussione per la prima volta. Filippo l’ho conosciuto facendo dei provini. Lavorare con lui è stato meraviglioso per il tono del film, fresco e moderno. Una sorta di chiacchierata tra amici. Poi abbiamo avuto la fortuna di avere sul set Gianni Di Gregorio, regista di Pranzo di Ferragosto e sceneggiatore di Gomorra.
Con Massimiliano Zanin, quello che mi ha spinto ad accettare
The cage è stato il tema del film e la possibilità di lavorare con Aurora Giovinazzo. È un’attrice della mia generazione che stimo molto, una delle mie preferite. È un’attrice con una grande presenza scenica. E di Massimiliano mi incuriosiva anche che era stato sceneggiatore per Tinto Brass.
Mi è piaciuto essere alla Festa del cinema di Roma con due film molto diversi e in due ruoli diametralmente opposti, una commedia coming of age giovane e uno sport movie cupo.

Brando Pacitto durante le riprese di The cage
Brando Pacitto durante le riprese di The cage

«In The cage è stato difficile riuscire a immaginare quel modo di relazionarsi, di vivere. Ma in questa difficoltà ho riscontrato il fascino di questo mio lavoro»

È stato difficile interpretare il personaggio di Alessandro in The cage? Ti è pesato essere un ragazzo che manipola la compagna in un simile momento? Siamo a 106 vittime di femminicidio quest’anno, più tutte le donne che quotidianamente sono vittime di violenza domestica…

Per me è stata un’opportunità per crescere lavorativamente. C’era la possibilità di interpretare una figura negativa, consapevole che ci sono persone che vivono in queste situazioni di disagio, di paura e di pericolo costante. È stato un lavoro estremamente delicato e al contempo affascinante, perché di indole sono molto diverso da Alessandro. È stato difficile riuscire a immaginare quel modo di relazionarsi, di vivere. Ma in questa difficoltà ho riscontrato il fascino di questo mio lavoro. È stato bravo Massimiliano Zanin a dirigermi, ma c’era anche una buona scrittura. È stato fondamentale anche il lavoro con Aurora e la possibilità di avere un’attrice disponibile e attenta con cui relazionarmi. Avere un partner collaborativo con cui creare una sinergia è fondamentale.

Brando Pacitto durante le riprese di The cage
Brando Pacitto durante le riprese di The cage

«Amo i registi che raccontano storie»

Gaber cantava: vorrei essere libero come un uomo. In The cage sei un uomo nudo, dentro una gabbia, davanti a una tigre. Che sensazione hai provato?

Prima di girare quella scena ho fatto un training in un posto meraviglioso che si trova a Padova, dove vengono accuditi grandi felini sottratti al traffico illegale. Tigri, puma, leopardi presi da situazioni borderline, da circhi, da venditori illegali. Abbiamo avuto la fortuna di trascorrere del tempo lì con gli addestratori. Le tigri in realtà sono degli animali meravigliosi e dolcissimi, tranne che nel momento in cui mangiano. Amano ricevere attenzioni ed essere coccolate. Tirano fuori la loro aggressività quando le metti nella gabbia e tiri loro pezzi di carne. Credo sia una cosa che non mi capiterà più nella vita e probabilmente, se non fosse stato per questo film, non mi sarebbe mai accaduto.

I registi o gli attori che ti hanno segnato?

In realtà chi mi ha fatto innamorare della recitazione è un’attrice, Marion Cotillard. Amo i registi che raccontano storie e in questo momento, se proprio dovessi chiedere di finire nel racconto di qualcuno, mi piacerebbe fosse un film di Alice Rohrwacher. Quindi due donne.

Brando Pacitto durante la presentazione del nuovo numero NEXT GEN, foto di Ruben Quaranta
Brando Pacitto durante la presentazione del nuovo numero NEXT GEN, foto di Ruben Quaranta

Il viaggio di Blu Yoshimi tra il set, l’impegno per gli altri e l’amore verso se stessi

Quest’anno si è divisa tra il Festival di Cannes e la Festa del Cinema di Roma. È Blu Yoshimi, nata a Roma il 5 aprile 1997, figlia d’arte – sua mamma è l’attrice Lidia Vitale – abituata ai set fin da piccola, da quando, a soli quattro anni, debuttò in uno spot pubblicitario. MANINTOWN l’ha intervistata per parlare del suo percorso e delle nuove avventure professionali.

Yoshimi significa bella e buona: e già il nome è una storia…

«È un nome che adoro – racconta raggiante Blu – e ho scelto di portarlo con me nella mia vita lavorativa. Mi è stato affidato da Daisaku Ikeda, con il quale ho un legame spirituale. Da ragazza mi ha creato dei complessi perché non mi sentivo bella e neanche buona. Anzi, mi sentivo anche abbastanza antipatica. Mi chiedevo che senso avesse questo nome nella mia vita. Un giorno, al liceo, stavamo leggendo la Vita Nova e Dante di Beatrice dice che lei, con la sua bellezza e la sua bontà, riesce a portare gioia in ogni luogo. Ho pensato che fosse il significato del mio nome. Forse Ikeda stava parlando di una bellezza e di una bontà diverse, di qualcosa che può emergere dall’interno di una persona. Non mi sento sempre bella e buona, ma in questa imperfezione sto cercando di accogliermi e di apprezzarmi così come sono. Penso che per noi giovani donne sia molto importante non essere troppo severe con noi stesse».

Blu Yoshimi, foto di Clotilde Petrosino
Blu Yoshimi, foto di Clotilde Petrosino

«Vedevo la recitazione come un gioco. Accompagnavo mia mamma sui set e sono cresciuta osservandola. Non mi ha mai spinta a recitare, ma la guardavo nei backstage»

A otto anni reciti nella miniserie La freccia nera, famosa serie che portò fortuna a Raffaella Carrà. Segui le orme di tua mamma?

Non lo sapevo! Facevo Martina Stella da piccola. Ricordo che è stato divertente, come tutto quello che ho fatto da piccola. Vedevo la recitazione come un gioco. Accompagnavo mia mamma sui set e sono cresciuta osservandola. Non mi ha mai spinta a recitare, ma la guardavo nei backstage. La ricordo sul set di La meglio gioventù: mi ha ispirato tantissimo. Quando ho deciso, mi ha detto: vai, trova la tua strada e cerca di capire se ti rende felice. Mi affascina vederla con i registi o gli attori più giovani. Collabora tantissimo con loro: ha fatto tutti i primi cortometraggi di Mainetti prima di Jeeg Robot.

Sei già stata due volte a Venezia: nel 2016 con Arianna e poi col tuo primo ruolo da protagonista, Piuma di Roan Johnson.

Sono stata a Venezia anche con un cortometraggio di Andrea De Sica. Piuma è stata un’emozione strepitosa. Senza accorgermene mi sono ritrovata in tutti i Festival europei: Berlino da piccola, Venezia, Locarno con Likemeback e, quest’anno, Cannes con il film di Moretti, e Roma. Cannes era il mio sogno nel cassetto.

Blu Yoshimi, foto di Clotilde Petrosino
Blu Yoshimi, foto di Clotilde Petrosino

«Spesso si tende a essere un po’ generalisti per assicurarsi di piacere a tutti. Non penso che sia quello lo scopo di chi fa film. Non puoi piacere a tutti: quello che conta è riuscire a dire qualcosa»

Con Nanni Moretti hai recitato nel 2008 in Caos calmo e ora ti ha diretta in Il sol dell’avvenire. Com’è il tuo rapporto con lui? È una di quelle figure che o ami o odi…

La prima volta ero una ragazzina, ma ero consapevole che stavo lavorando con un attore importante. Nanni ha una grande determinazione e va sempre fino in fondo. Spesso si tende a essere un po’ generalisti per assicurarsi di piacere a tutti. Non penso che sia quello lo scopo di chi fa film. Non puoi piacere a tutti: quello che conta è riuscire a dire qualcosa. Credo che questo sia un suo grande pregio, ma anche il motivo per cui risulta divisivo. Ho una stima enorme per lui e un grande affetto. Crede molto nei giovani. Non ho mai sentito il peso di lavorare con un personaggio del suo calibro. E poi a me i caratteri cinici piacciono, adoro le persone che dicono le cose in maniera diretta. Preferisco le personalità spigolose ai buonisti, a quelli che ci girano intorno e non si capisce cosa vogliano dire.

Hai collaborato con Every Child Is My Child. Di cosa si occupa?

È una onlus per sostenere i diritti dei bambini vittime della guerra in Siria e di altre situazioni di emergenza umanitaria. Il suo motto è “Ogni bambino è il nostro bambino” e il suo presidente è l’attrice Anna Foglietta, che ha coinvolto molti altri artisti e personaggi dello spettacolo da Genovese a Tosca, Edoardo Leo, Pesce, Andrea Bosca, Livia Vitale, Fabia Bettini e tanti altri. Abbiamo raccolto fondi per la costruzione di scuole e ospedali in Siria, collaborato con Banco Alimentare per aiutare i minori in difficoltà in Italia, letto favole in diretta su Instagram durante il lockdown.

Ritratto di Blu Yoshimi, foto di Luca Carlino
Ritratto di Blu Yoshimi, foto di Luca Carlino

«Vorrei lasciare alle generazioni future un mondo dove non si ripetano le stesse cose che accadono da millenni, con le stesse guerre»

E cosa sono le tue attività con la Soka Gakkai?

Sono buddista e sono membro della Soka Gakkai, che porta avanti i valori del buddismo di Nichiren Daishonin. È un’organizzazione religiosa laica. Il nostro scopo principale è la pace nel mondo e la felicità di ogni individuo. Non una felicità basata sulla bellezza, la ricchezza o su fattori esterni, ma una felicità che costruisci giorno per giorno all’interno di un processo che noi chiamiamo rivoluzione umana. Partecipiamo a riunioni dove ci scambiamo le nostre esperienze realizzate basando la nostra vita su questa pratica. A volte ci sono delle giornate aperte al centro culturale buddista di Roma. Una che si è appena svolta parlava di violenza di genere o del conflitto in atto cercando di darne una lettura in chiave buddista. Un’altra è stata Senzatomica, che fa parte di ICAN (Premio Nobel per la Pace 2017 – nda) che ha l’obiettivo di creare un trattato internazionale per l’abolizione totale delle armi nucleari.

Blu Yoshimi, foto di Rosapaola Lucibelli, styling di Lorenza di Gennaro
Blu Yoshimi, foto di Rosapaola Lucibelli, styling di Lorenza di Gennaro

«Tutti i conflitti hanno un’origine complessa, ma qualunque cosa accada io sarò sempre alla parte dell’essere umano, indipendentemente dalla sua religione o idea politica»

Noi costruiamo le armi atomiche ma nessun topo costruirebbe mai una trappola per topi…

È Einstein. Tutti i conflitti hanno un’origine complessa, ma qualunque cosa accada io sarò sempre dalla parte dell’essere umano, indipendentemente dalla sua religione o idea politica. Vorrei lasciare alle generazioni future un mondo dove non si ripetano le stesse cose che accadono da millenni, con le stesse guerre. È importante capire il passato, ma anche decidere cosa fare da qui in poi.
Quello che è successo, per quanto atroce, è passato e non possiamo fare nulla per cambiarlo. Ma possiamo capire cosa farne per mettere cause nuove per un futuro migliore.

A scuola i tuoi coetanei ti consideravano diversa da loro?

Che ero quella strana l’ho capito dopo, però strano può significare anche meno noioso. Ero più strana perché mi piacevano i Beatles e Rino Gaetano in quinta elementare, che non per il fatto che fossi buddista. Avevo anche altri amici che praticavano. La mattina, prima di andare a scuola, recitavo Daimoku, che è il nostro mantra, e arrivavo a scuola con un sorriso gigantesco e uno stato vitale altissimo.
L’armonia che c’era nella mia vita in quegli anni era il risultato della mia pratica. Gli anni del liceo sono stati difficilissimi perché io e mia madre stavamo affrontando delle difficoltà economiche fuori dal comune, ho perso un’amica a 16 anni e ho subito sofferenze veramente grandi per la mia età. Ma in quel periodo ero sostenutissima sia dai miei compagni di fede che dagli scritti che leggevo dei miei maestri.

Blu Yoshimi, foto di Rosapaola Lucibelli, styling di Lorenza di Gennaro
Blu Yoshimi, foto di Rosapaola Lucibelli, styling di Lorenza di Gennaro

«Spielberg consigliava agli aspiranti registi di prendere una cinepresa in mano e iniziare a girare. Quando ho preso questa handicam in mano, ho realizzato che stavo facendo una regia»

Una come te immagino abbia non un cassetto, ma un baule di progetti?

Tanti! Da febbraio sono in tournée con Silvio Orlando con Ciarlatani, dove sono protagonista. Poi c’è un progetto che deve uscire in televisione di cui non si può parlare, ma del quale sono davvero felice, e il film Ho visto un re di Giorgia Farina che attendiamo in sala per il 2024. Altri due progetti: uno spettacolo che ha già debuttato, L’isola che non c’è scritto insieme a Gemma Costa, che vogliamo portare in tournèe.
Poi la regia di un cortometraggio che parla della dipendenza da porno. In realtà è un’occasione per parlare del senso di solitudine della nostra generazione. A metà dicembre, poi, entrerò in sala di montaggio per un lavoro nato spontaneamente: ho preso una handicam e ho seguito un progetto discografico che era di due miei amici, uno dei quali ha perso la vita due anni fa in un incidente stradale. Spielberg consigliava agli aspiranti registi di prendere una cinepresa in mano e iniziare a girare. Quando ho preso questa handicam in mano, ho realizzato che stavo facendo una regia.

Blu Yoshimi durante le riprese di Resvrgis
Blu Yoshimi durante le riprese di Resvrgis

«Resvrgis è un horror che segue delle regole ben precise, dove è interessante vedere la mostruosità che dilaga. In questo caso c’è realmente un animale, ma il messaggio riguarda il sopravvento che può prendere l’animalità che è dentro di noi sulla nostra umanità»

Alla Festa del cinema di Roma è stato presentato Resvrgis, dove sei tra i protagonisti, e che sarà in sala nel 2024. Immagino abbia richiesto un grande sforzo fisico…

Ho amato stare un mese in un bosco, ma girare Resvrgis è stato fisicamente impegnativo. È un film che si situa in un momento molto complesso della mia vita, per cui ringrazio di aver avuto l’opportunità di canalizzare tante energie nel lavoro. Ho ricordi di grande difficoltà, ad esempio le notti: abbiamo girato molto in notturna e io soffro quando mi si scombina il ciclo del sonno. Ma ringrazio il team perché è stato super unito e questa cosa non è scontata. Siamo stati una squadra molto potente forse perché nella difficoltà ci siamo uniti.
La sceneggiatura di
Resvrgis mi ha colpita appena l’ho letta. Mi sono subito innamorata del personaggio di Gaia per la sua purezza e per i suoi ideali. Mi intrigava la voglia di sperimentare di Francesco Carnesecchi, il regista, e il suo modo visionario di rimettere insieme in pezzi di una storia adrenalinica. Anche il fatto che nella storia c’è un mostro, ma il film parla della mostruosità. Il mostro non è mai come appare: la mostruosità è latente in ognuno di noi e tutti dobbiamo farci i conti. Ed è curioso parlare di mostruosità proprio in un momento simile, con quello che sta accadendo in questi giorni. Stiamo iniziando a prendere una nuova consapevolezza, anche grazie all’omicidio di Giulia (Cecchettin – nda), che un lato mostruoso può albergare in ognuno di noi. Molto spesso, però, lo nascondiamo, fingiamo di non vederlo, perché siamo educati a fare i buonisti.

Resvrgis è un horror che segue delle regole ben precise, dove è interessante vedere la mostruosità che dilaga. In questo caso c’è realmente un animale, ma il messaggio riguarda il sopravvento che può prendere l’animalità che è dentro di noi sulla nostra umanità.

Blu Yoshimi durante il talk per presentare il nuovo numero NEXT GEN, foto di Ruben Quaranta
Blu Yoshimi durante il talk per presentare il nuovo numero NEXT GEN, foto di Ruben Quaranta

GABRIELE FALSETTA: UN ANIMO TEATRALE AL CINEMA

Diplomato alla scuola del Piccolo di Milano diretta da Luca Ronconi, del quale è stato allievo, Gabriele Falsetta smette di fare teatro nel momento in cui inizia a fare cinema. Confermato nella seconda stagione di Monterossi (diretta da Roan Johnson e ora tra i contenuti più visti su Amazon Prime), è Farinacci in M. Il figlio del secolo diretto da Joe Wright e il 14 dicembre sarà in sala nel cast di Finalmente l’alba di Saverio Costanzo presentato alla Mostra del Cinema di Venezia.

Vidi Gabriele a Roma alle Carrozzerie N.O.T. nell’ultimo spettacolo che fece in teatro. Mi colpì per la sua fisicità. «Quello spettacolo – racconta Gabriele come un fiume in piena – è stato uno spartiacque a livello esistenziale e professionale. È coinciso con una crisi profonda, ma è stato l’inizio di quello che sono adesso. Venivo da dieci anni di Piccolo di Milano, dieci anni di Ronconi. Per me quello spettacolo è stato una sorta di atto di disobbedienza civile. Ma da lì sono rinato».

Ritratto di Gabriele Falsetta, ph. Gioele Vettraino
Ritratto di Gabriele Falsetta, ph. Gioele Vettraino

Gabriele Falsetta tra teatro e cinema

Hai smesso di fare teatro nel momento in cui hai iniziato a fare cinema. Perché?

Vengo dal teatro e credo nella teatralità all’interno del cinema. Credo che vada riconquistata la nostra attitudine teatrale al cinema: è nel nostro DNA. I nostri grandi sceneggiatori, registi, attori, attrici, vengono dal teatro e lo traducevano per il cinema. Mi riferisco alla grande sceneggiatura, da Flaiano a Pasolini, da Zavattini a Pirro e con loro tutti i registi che li hanno portati sullo schermo.

Quest’anno ho terminato la più grande esperienza professionale che ho fatto finora: M dal romanzo di Scurati, con la regia di Joe Wright, che ha diretto la metà degli attori che vorrei essere. Al primo colloquio abbiamo parlato per un’ora solo di teatro. Joe ha messo in scena il testo al cinema. Il suo approccio è teatrale. Quando ci siamo conosciuti abbiamo parlato di Visconti, Petri, Rosi, Mani sulla città, Il conformista, La caduta degli dei. Siamo partiti da un cinema che parla di teatro. Magari la mia è una crociata contro i mulini a vento, ma questo è il cinema che ci ha reso famosi nel mondo. Il minimalismo non ci appartiene, come stile. Noi siamo estremamente teatrali.

Nel teatro ho sofferto molto. Mi ha disciplinato nella vita, nello studio, nel procedere per step. Ma come attore ho cominciato a fare l’attore quando ho cominciato a fare cinema. Credo di funzionare meglio nel caos del cinema. I mezzi che utilizzo, l’analisi del testo, la mappatura dei personaggi, viene dal teatro. Poi scegli lo stile. Come dice Nicolas Cage, puoi scegliere il realismo, il naturalismo, l’iperrealismo, l’astrazione, puoi essere Einaudi o Stockhausen, ma a teatro questo per me era difficile. Forse è un mio limite o forse non ho incontrato le persone giuste o non le ho cercate abbastanza.

Gabriele Falsetta e l’esordio a teatro con Luca Ronconi

Sei stato diretto diverse volte da Ronconi e anche da altri registi. Può accadere che un maestro, per quanto valido, non sia adatto a tirare fuori il sacro fuoco da quell’allievo…

Immagina un ragazzo che, approcciando il teatro, incontra Luca Ronconi, un uomo di 74 anni ma che ne dimostrava 50, non ancora malato e con una forza fisica impressionante. A scuola andavo male e lui mi ha salvato perché, non sapendo chi fosse, ho cominciato a giocare con lui e lui con me. Non sapevo cosa volesse dire fare stare sul palcoscenico. Luca mi ha dato tantissimo in termini di struttura, disciplina, analisi del testo, spazialità, vocalità. Poi però con lui diventavi una sorta di sintetizzatore di suoni e di gesti: uno strumento potentissimo e meraviglioso, ma dovevi accettare la sua visione e, quando ho iniziato a prenderne coscienza, ci sono stato stretto. Ma non finirò mai di ringraziarlo. Mi manca tanto e vorrei poter avere con lui un dialogo maturo oggi. Ronconi aveva un intelletto magmatico, ma a vent’anni non puoi renderti conto di quello che ti sta dicendo.

«Attualmente mi sento più un animale da set che da palcoscenico. Tornerò a fare teatro quando potrò farlo come dico io»

Sei Farinacci nella produzione M di Joe Wright per Sky… Come hai vissuto questa esperienza?

Stanno finendo la fase di montaggio e doppiaggio. Stare sul set con un regista che ha fatto film come Atonement, L’ora più buia, Anna Karenina, ti fa sentire in un sogno. Essere dentro quella macchina ti dà una sicurezza che non immaginavo e diventa paradossalmente tutto più facile.

Hai incontrato Ronconi in un momento in cui eri troppo giovane, ora Joe Wright, un premio Oscar. Dov’è la diversità nei due rapporti: è solo una questione di età?

La cosa che hanno in comune è la cura ossessiva del dettaglio e la responsabilità di rispettare la sceneggiatura. La differenza sostanziale è che io sono cresciuto, mi sono rassicurato. All’epoca era difficile arrivare a fare quello che Luca ti chiedeva. Adesso non c’è più la difficoltà tecnica ma la sfida è incontrare la visione dell’altro. Paradossalmente, sul set di M io ho fatto il venti percento del lavoro, l’ottanta l’hanno fatto il regista e tutta quella macchina perfetta e meravigliosa che gira intorno a un simile set. Quando la regia e la sceneggiatura sono alte, il lavoro dell’attore si riduce. Anche con Ronconi era così, ma tecnicamente era complesso. Mi sento più animale da set che da teatro.

Amo il teatro e tornerò a fare teatro ma come voglio io, non da scritturato, non con un’idea borghese. Il teatro per me deve essere una provocazione, deve spezzare le gambe a chi lo guarda.

ph. Gioele Vettraino
ph. Gioele Vettraino

«Tutti i ruoli mi mettono in crisi ed è questo che mi piace delle parti che ho interpretato finora»

In Monterossi, Finalmente l’alba, M fai sempre la parte del cattivo. Non vorresti uscire da questo ruolo?

Ora sto facendo un omosessuale. Non volevo accettare: mi spaventava. È con Maria Sole Tognazzi ma non posso dirti altro. È la prossima produzione Paramount con Castellitto.

Il ruolo che ti ha messo maggiormente in crisi?

Tutti i ruoli mi mettono in crisi ed è questo che mi piace delle parti che ho interpretato finora: lo sforzo che devi fare per immaginare il personaggio, il lavoro sulla voce, lo sguardo, l’aspetto emotivo, fisico. Mi piace tantissimo lavorare col corpo. L’idea di aver fatto un ultra fascista filo nazista come Roberto Farinacci in M e di passare subito dopo con Maria Sole a interpretare un omosessuale ironico, spigliato, cinico, mi fa impazzire e non cambierai tutto questo per nessuna cosa al mondo. Mi mettono in crisi i ruoli che sono scritti male.

Il teatro non ti manca neanche un po’?

Collaboro con i miei amici Ivan Aloisio e Lucrezia Guidone (Fedeltà, Mare fuori) a Point Zero, una scuola di formazione a Roma. Io mi occupo della parte cinema però lavorare al loro fianco mi sta facendo riavvicinare al teatro. Prendermi cura dei ragazzi della scuola sta rimettendo in moto qualcosa dentro di me che si era un po’ spento, anche solo guardandoli lavorare. È una bella sensazione. È il mio modo di chiudere il cerchio, almeno in questo momento, tra cinema e teatro. e grazie alla partnership con l’agenzia Volver, vengono moltissimi attori per delle masterclass. Lo spirito della scuola è quello di mettere al servizio le nostre esperienze, come attori di teatro o di cinema, per offrire una formazione che non sia fine a sé stessa. Vogliamo che Point Zero sia un hub e che diventi anche un hub produttivo.

Un Professore 2: Alessandro Gassmann torna in tv nei panni del docente che tutti vorremmo

Il 23 novembre torna in prima visione su Rai 1 (dal 14 novembre in anteprima su RaiPlay) la seconda stagione di Un professore con Alessandro Gassmann, Claudia Pandolfi, Nicolas Maupas, Damiano Gavino, Domenico Cuomo, regia di Alessandro Casale. Un professore è una coproduzione Rai Fiction – Banijay Studios Italy. Il primo episodio, originariamente previsto per il 16 novembre, è stato posticipato in seguito a un cambio di programmazione dell’emittente.

Alessandro Gassmann torna così a vestire i panni di Dante, il docente di filosofia che tutti avremmo voluto avere. Dante e suo figlio Simone convivono nella loro villa con Anita (Claudia Pandolfi) e Manuel (Damiano Gavino). Ben presto il loro equilibrio avrà uno scossone: tornerà a casa Floriana (Christiane Filangieri), la mamma di Simone (Nicolas Maupas), Nicola (Thomas Trabacchi) apparirà dal passato di Anita e al liceo Leonardo Da Vinci arriveranno nuovi alunni, Mimmo (Domenico Cuomo), Nina (Margherita Aresti), Viola (Alice Lupparelli) e Rayan (Khadim Faye).

Alla conferenza stampa di presentazione abbiamo incontrato alcuni dei protagonisti.

Il cast di Un Professore 2 (foto Ufficio Stampa RAI)
Il cast di Un Professore 2 (foto: courtesy of Ufficio Stampa RAI)

«Una tv finanziata dallo Stato, come la Rai, ha la funzione di informare e intrattenere tutti. Credo che Un Professore 2 sia una serie che si avvicina a tutti e, in questo senso, sia utile e necessaria»

In una Rai sotto fuoco incrociato, le serie prodotte riscuotono invece un notevole successo. Serie come Un Professore 2 rispecchiano maggiormente uno dei ruoli fondamentali della Rai?

Alessandro Gassmann: Credo che questa serie sia giusta per questo momento storico. Una serie edificante, non superficiale, che tratta la filosofia in maniera intelligente e che avvicina le famiglie. Questo è quello che, in teoria, una televisione pubblica dovrebbe sempre fare. Una televisione finanziata dallo Stato, come la Rai, ha la funzione di informare e intrattenere tutti, a prescindere dal credo politico o religioso. E credo che Un Professore sia una serie che si avvicina a tutti e, in questo senso, sia una serie utile e necessaria.

Un Professore è anche una serie che scommette su nuove leve…

Alessandro Gassmann: Abbiamo attori bravissimi che hanno ottenuto i ruoli perché hanno fatto i provini migliori e che dimostrano la loro bravura anche nella seconda serie, dove crescono anche professionalmente. Auguro loro una carriera lunga almeno quanto la mia.

Alessandro Gassmann in Un Professore 2 (foto Anna Camerlingo/Ufficio Stampa RAI)
Alessandro Gassmann in Un Professore 2 (foto di Anna Camerlingo/Ufficio Stampa RAI)

Nel cast anche Nicolas Maupas e Damiano Gavino.

Parliamo di rapporti al di fuori del set: siete quelli che speriamo diventino gli attori di riferimento del futuro che a loro volta apriranno la strada ad altri giovani

Nicolas Maupas: Ho avuto la fortuna di lavorare con colleghi estremamente disponibili e molto simili a me… che non sono una persona particolarmente complicata. A partire da Mare Fuori ho lavorato con persone bellissime, con le quali trascorrere anche momenti privati fuori dal set. Spero che questo gruppo continui a essere unito, perché sarebbe bello vedere, un domani, quali possibilità si apriranno nelle nostre carriere, decidere cosa fare nel nostro settore, nel nostro cinema italiano. Farlo insieme sarebbe stupendo, perché vorrebbe anche dire arrivare con un bagaglio di esperienza conoscitiva l’uno dell’altro, saper lavorare come una squadra.

«Una tv pubblica che fa dei buoni prodotti, soprattutto per un pubblico giovane in formazione, è sicuramente una bella eredità da costruire».

Le serialità Rai sono un prodotto di qualità che sta avendo molto successo. Siete attori giovani che stanno riportando i giovani a vedere la Rai. Vi sentite coinvolti in questo processo di rinnovamento della tv pubblica?

Effettivamente che anche io ho iniziato a guardare la Rai. Quando ho iniziato, a 18 anni, non avevo idea di un meccanismo che potesse riportare un nuovo pubblico sulla tv pubblica. Riuscire a farlo avendo successo, vuol dire che, a prescindere dalla piattaforma, il progetto sta funzionando e il nostro è un lavoro di qualità. Le mosche in genere vanno sul miele, quindi vuol dire che stiamo creando un buon miele. Spero che la Rai continui su questa strada e che questa progettualità possa svilupparsi nel migliore dei modi. Una tv pubblica che fa dei buoni prodotti, soprattutto per un pubblico giovane che è in formazione, e che sarà quello che andrà a creare contenuti nel futuro, è sicuramente una bella eredità da costruire.

Una scena di Un Professore 2 (foto di Anna Camerlingo/Ufficio Stampa RAI)
Una scena di Un Professore 2 (foto di Anna Camerlingo/Ufficio Stampa RAI)

Domenico Cuomo è Mimmo in Un Professore 2

Al centro di produzione Rai, anche una delle new entry di Un professore 2 Domenico Cuomo, che interpreta il ruolo di Mimmo: «Ringrazio i miei amici del cast che mi hanno permesso di entrare in questo gruppo facendomi sentire subito a casa. È stato bello portare in scena un rapporto che è più quello con un padre che con un professore. Mimmo, il mio personaggio, ha carenze affettive, familiari, di istruzione, tipiche di un ragazzo che viene da un istituto di detenzione. Quello che mi ha motivato sul set è stato il poter portare in scena lo spirito di redenzione che può avere un ragazzino che vive in una condizione di semilibertà.

Quello che può regalare la semilibertà è poter accarezzare una nuova vita. La possibilità di tornare a relazionarsi con coetanei al di fuori di un ambiente che non è quello del regime penitenziario, ma è una scuola. Un rapporto che non è sicuramente il semplice rapporto alunno professore, ma un rapporto tra persone, tra esseri umani. È questo il grande concetto che, credo, il professor Dante porta a questi ragazzi, scendendo dalla cattedra e aiutandoli. Spesso quello che manca all’interno dei rapporti è l’umanità. Quella non dovrebbe mai mancare. Spero che il messaggio del mio personaggio arrivi a tutti i ragazzi che nella vita reale hanno questo problema di redenzione: a loro auguro di riprendersi la propria vita e di riprendere quel filo di umanità che lega tutti noi».

Mimì. Il Principe delle Tenebre: Il film horror di Brando De Sica è la fuga dalla realtà di due sognatori

Mimì. Il principe delle tenebre, lungometraggio d’esordio di Brando De Sica prodotto da Indiana Production, Bartlebyfilm e Rai Cinema e distribuito in Italia da Luce Cinecittà, arriva al cinema il 16 novembre.

Una favola nera, quella di Brando De Sica, che celebra l’aspetto immaginifico del cinema e la sua capacità di interpretare l’attualità attraverso la lente del fantastico e dell’horror. Un film che miscela le fascinazioni gotiche del primo Tim Burton al realismo di autori italiani come Matteo Garrone.
Nel cast i giovanissimi Domenico Cuomo (Mare fuori) interprete di Mimì e Sara Ciocca (Improvvisamente Natale e Una famiglia mostruosa) nel ruolo di Carmilla. Il regista e sceneggiatore Brando De Sica racconta a MANINTOWN perché non è un film sui vampiri.

Brando De Sica e Domenico Cuomo
Brando De Sica e Domenico Cuomo

«L’horror in realtà è una continuazione del comico, è un Giano bifronte. La cosa più vicina a un comico è un horror»

A parte pochi casi, in Italia l’horror è un genere meno frequentato. Hai avuto difficoltà a realizzare questa pellicola e come mai ti sei allontanato così tanto dallo stile di famiglia?

L’horror in realtà è una continuazione del comico, è un Giano bifronte. La cosa più vicina a un comico è un horror. Entrambi hanno bisogno dei tempi giusti, entrambi hanno bisogno di maschere, entrambi lavorano sul dionisiaco dell’animo umano. In qualche modo sono simili. La passione per l’horror è stata, per fortuna, colpa di mio padre, perché da piccolo fu il primo che, a 5 anni, mi fece vedere Dracula il vampiro di Terence Fisher e poi La notte dei morti viventi di George Romero. Mio zio Manuel e papà sono dei grandi fan del cinema horror. Fui folgorato e ho continuato nel tempo a ricercare questa emozione.

Per quanto riguarda il finanziare un film horror in Italia, io ho avuto un altro genere di problemi. Circa dieci anni fa la sceneggiatura di questo film era pronta. Purtroppo ha avuto una gestazione lunghissima perché incontrai una produzione con cui si crearono delle situazioni spiacevoli. Ma, alla fine, sono riuscito a salvare il film che avevo scritto e a farlo nonostante le persone cercassero di seppellirmi: solo che non avevano considerato che io ero un seme.

Nel cast c’è Domenico Cuomo: lo hai visto in Mare Fuori

Quando scelsi Domenico, aveva appena cominciato a fare Mare fuori e aveva pochissime pose rispetto agli altri ragazzi del cast. L’ho scelto tre anni fa, quando non era ancora conosciuto.

Domenico Cuomo in Mimì. Il principe delle tenebre
Domenico Cuomo in Mimì. Il principe delle tenebre

«A parte la scrittura, la fotografia, il sound design, il lavoro con gli attori è forse una delle cose che amo di più in assoluto»

Come mai hai scommesso su attori alle prime armi?

Nella mia testa, per questo tipo di storia, servivano degli attori non troppo conosciuti per immedesimarsi di più. E poi cercavo dei preadolescenti. Mimì. Il principe delle tenebre è un film che parla anche del passaggio dalla pubertà all’adolescenza. Domenico, al tempo, aveva 17 anni e Sara 13. Li ho scelti perché ho trovato il personaggio nel loro sguardo, nella loro anima, nei loro cuori puri. Io scelgo così gli attori: per il carattere che hanno, per il tipo di personalità, perché percepisco quali caratteristiche hanno e come lavorare con loro all’interno del personaggio. È un qualcosa di energetico. Domenico aveva quest’aria così aristocratica, principesca, esattamente com’era Mimì nella mia testa.

Dieci anni fa, invece, avevo pensato a Ciro Petrone, che in
Gomorra faceva Pisellino. Ma era diventato troppo adulto e ho dovuto rifare il cast. Non ci poteva essere un Mimì migliore di Domenico Cuomo. Quando lo vidi mi innamorai immediatamente. Decisi anche di usare gran parte del budget del film, che era piccolissimo, per il casting, per avere più tempo, per consultare più casting director che mi facessero vedere più attori. Alcuni li abbiamo presi dalla strada nonostante, a causa del Covid, fosse difficile fare street casting. Era un momento in cui era difficile anche incontrare l’attore personalmente; dare – alle comparse come ai protagonisti – il tempo necessario per potersi esprimere; iniziare il casting con la ginnastica come faccio di solito, per buttare via le energie elettrostatiche.

La fase del casting per me è importante: non resto seduto dall’altro lato di una scrivania, altrimenti diventa una cosa tipo polli in batteria. Venendo da una famiglia di attori, e avendo io stesso recitato, amo moltissimo gli attori. A parte la scrittura, la fotografia, il sound design, il lavoro con gli attori è forse una delle cose che amo di più in assoluto.

Domenico Cuomo e Sara Ciocca in Mimì. Il principe delle tenebre
Domenico Cuomo e Sara Ciocca in Mimì. Il principe delle tenebre

«Ormai è tutto nice and easy, usiamo sempre gli stessi attori anche se il pubblico è stanco»

Tu ami fare i casting e molti attori si lamentano del self taping…

I video sono stati utili per fare una grande scrematura quando eravamo tutti in lockdown. Pur di andare avanti è stato usato quel metodo. Nel mio caso, però, le ho volute incontrare personalmente dedicando loro del tempo. In questo viaggio picaresco che è Mimì, con tanti personaggi, era importante che tutti fossero giusti per la parte. Dovrebbe essere sempre così e il casting non dovrebbe essere un’eccezione. Gli attori sono l’elemento più importante di un film dopo la storia. È vero però che ci sono due problemi. Il primo è che alcune produzioni prendono gli attori per fama e non per bravura. Oppure per numero di follower. Altri perché sono raccomandati.

Ma la cosa peggiore è che ci sono molti registi che magari non hanno gusto. Arriva una persona che non avevano preventivato e che fa un provino bellissimo, ma hai paura, preferisci giocare sul sicuro e prendi quello che ha già lavorato e porta pubblico al film. Alla fine, però, hai sempre gli stessi attori. Sono in tutti i ruoli e non scegli più un volto poco conosciuto perché ci credi. Ci sono tanti attori e registi che conosco e che non lavorano nonostante siano più bravi di quelli che stanno lavorando. Ci sono anche gli attori che preferiscono non rischiare con il nuovo regista arrivato. Ormai è tutto ‘nice and easy’, usiamo sempre gli stessi anche se il pubblico è stanco. Poi vengono premiate quelle situazioni che sembrano del tutto nuove, quando semplicemente si tratta di persone che hanno rischiato.

Brando De Sica durante le registrazioni del film
Brando De Sica durante le registrazioni del film

«Mimì è un film ricco di simboli, un film sulla ricerca di identità, sull’importanza dei sogni e sulla fuga dalla realtà»

Come ti sono venuti in mente i vampiri visto che oramai li abbiamo visti un po’ in tutte le salse?

Questo non è un film con i vampiri, ma un film visto nell’ottica dei fan dei vampiri . Quando ho scritto il soggetto, non lo sapevo. Io scrivo inconsciamente e, finito il film, dopo il montaggio e il sound design, realizzo che è come se fosse stata una grande seduta di psicanalisi. Solo alla fine capisco quello che ho fatto.
Mimì è un film ricco di simboli, un film sulla ricerca di identità, sull’importanza dei sogni e sulla fuga dalla realtà. Sul momento del passaggio dalla pubertà all’adolescenza. I vampiri sono simbolici perché i vampiri non esistono: non riflettendosi allo specchio, non sono, e per essere devono bere il sangue e prendere il DNA di una persona.

Domenico Cuomo, Sara Ciocca e Brando De Sica, sul red carpet del Locarno Film Festival con Mimì. Il principe delle tenebre
Domenico Cuomo, Sara Ciocca e Brando De Sica, sul red carpet del Locarno Film Festival con Mimì. Il principe delle tenebre

«Il lavoro più nobile che un essere umano può fare, è quello di nobilitarsi e cercare di essere un uomo migliore»

Tu quanto hai faticato per trovare la tua identità?

Parlerei più di centralità e di organizzazione dei vari io che abbiamo dentro di noi. Per organizzare i vari io e trovare una centralità, c’è stato un percorso molto faticoso e difficile. Sono stato aiutato dall’analisi e, soprattutto, dallo yoga e dalla meditazione trascendentale. Con tutti questi strumenti ho lavorato su tutti gli io della mia persona e nell’anima. Perché alla fine, il lavoro più nobile che un essere umano può fare, è quello di nobilitarsi e cercare di essere un uomo migliore. Non solo non per se stesso, ma anche per tutti gli altri che beneficiano del tuo cambiamento. Cercare di trovare la centralità è importante per essere giusti, onesti e buoni.

Quando sei andato a studiare negli Stati Uniti sei riuscito a trovare un ambiente dove essere ‘figlio di’ o ‘nipote di’ era meno pesante?

Negli Stati Uniti non sentono questo peso. È tutto molto normale. Questo peso l’ho trovato soltanto in Italia. Ma se ci pensi bene, solo la categoria artistica viene additata o viene attaccata. Conosco figli di notai che fanno i notai, figli di chirurghi che fanno i chirurghi, figli di tassisti che fanno i tassisti. Una categoria molto rispettata, ad esempio, sono i figli dei ristoratori: se leggo “ristorante aperto dal 1915”, vuol dire che si deve mangiar bene, che è un posto che ha delle tradizioni. Poi, se ci pensi, il figlio ha ereditato le mura, ma se non capisce niente di carbonara è un disastro.

Per i figli di attori, registi, cantanti, che fanno il lavoro dei genitori, è diverso. Ma noi non siamo come i figli dei politici, non possiamo occupare posti dove facciamo danni alle persone. Come dicono gli americani, al massimo facciamo due ore di popcorn e Coca Cola. Se poi il mio film è una schifezza, non me lo faranno rifare. Poi io sono il meno aiutato, perché mio padre ha lavorato sempre e solo con un produttore: Aurelio De Laurentiis. Non ha fatto lobbismo nel tempo. Io in qualche modo, sono il figlio del clown e sono fiero di esserlo. Quando mio padre ha cercato di aiutarmi con il film che si bloccò, rifiutai perché volevo farcela da solo.

MATTIA CARRANO, STAR (DUE VOLTE) DI PRISMA: «E IO CHE NON VOLEVO NEANCHE FARE L’ATTORE…»

Mattia Carrano, senza aver mai studiato recitazione, viene catapultato da sua madre ai casting per la serie Amazon Prime Prisma, firmata da Ludovico Bessegato, già autore di Skam Italia. «Mi hanno selezionato per interpretare addirittura due gemelli, Marco e Andrea. Io che sono figlio unico!», scherza l’attore. In attesa della seconda stagione di Prisma, Mattia Carrano è stato premiato da MANINTOWN ai Next Generation Awards, in occasione della Mostra del Cinema di Venezia ed è la cover story di questo mese.

Nato a Roma il 13 maggio 2000, ha frequentato le scuole superiori all’ITS Rossellini e studia come montatore. «Purtroppo non l’ho finito», racconta Mattia. «Andai un anno in Ungheria con mamma, che è nata lì. Parlo ungherese madrelingua, ma ho difficoltà a scriverlo. Fui costretto a ricominciare dal primo anno. Lo supererai ma, tornato in Italia, dovevo ricominciare daccapo. Lasciai. Rifare più volte le stesse classi senza essere mai stato bocciato, mi sembrò un po’ too much. È andata così. Non ho avuto belle esperienze a scuola. Ero iperattivo. Stare seduto? Volevo morì…  Mi hanno anche mandato dallo psicologo della scuola. Io volevo solo fare cose sempre diverse, per questo facevo tanto sport. Non penso che la scuola sia brutta, questa è la mia esperienza. Altri si sono trovati bene». 

Total look Valentino Mattia Carrano
Total look Valentino

«Per uno come me era complicato anche studiare la parte. Però riuscivo a vivere quel ruolo e Ludovico evidentemente lo ha notato»

Partiamo dall’inizio: quindi non eri formato come l’attore quando hai passato il provino…

No. Zero. E non volevo neanche fare l’attore! Ma ci ho messo anima e corpo, ho provato ed è andata, anche se non sapevo niente. Mi chiedo sempre cosa Ludovico Bessegato abbia visto in me. Gliel’ho chiesto spesso, ma non mi ha mai risposto. Per uno come me era complicato anche studiare la parte. Però riuscivo a vivere quel ruolo e Ludovico evidentemente lo ha notato. Da lì mi sono dovuto mettere sotto

Per studiare recitazione, intendi?

Esatto! Ho sempre amato il cinema, ma pensavo di fare il regista o lavorare dietro la macchina da presa in altri ruoli. Era mia mamma a dirmi fin da piccolo «devi fare l’attore». 

In Prisma, Andrea vuole partire ma la madre non è d’accordo, mentre per Marco lei decide che deve fare nuoto. Cosa pensi delle aspettative dei genitori dei figli? Tua madre ha fatto più o meno la stessa cosa con te?

Sì, è vero. Credo che i genitori ti dicono sempre cosa vorrebbero che tu facessi. Vanno ascoltati, ma poi devi avere la ‘cazzimma’ di fare quello che vuoi. 

«Mi è cambiata la vita. Faccio più o meno le stesse cose, ma con un lavoro che mi permette di viaggiare e mi apre un sacco di porte»

Prisma è uscito un anno fa: un bilancio?

Mi è cambiata la vita. Faccio più o meno le stesse cose, ma con un lavoro che mi permette di viaggiare e mi apre un sacco di porte. Ho gli amici di prima. Conosco tantissime persone, ma l’amicizia è altro. Non sono una persona che si fida tanto. Sarebbe una cavolata dire: «Sono la stessa persona di prima, non mi è cambiato niente, perché io ho i piedi per terra». Sì, puoi anche avere i piedi per terra, ma vai sui red carpet, agli eventi, i fan ti scrivono, ti riconoscono per strada. Poi dipende da come lo vivi. Io resto più o meno lo stesso: ho iniziato che avevo 21 anni, ora ne ho 23. Cresco, imparo, maturo… almeno spero. Ero fidanzato, purtroppo non lo sono più. 

In Prisma interpreti due gemelli con due caratteri opposti. Come ti sei sentito alla fine delle riprese, dopo essere passato in continuazione da un ruolo a un altro?

Ho lavorato tanto sul linguaggio del corpo. Il cambiamento era istantaneo. Faccio sempre un esempio: se mi siedo sul divano, di lato, a gambe chiuse, braccia conserte, do una certa impressione. Se mi metto in mezzo al divano con le gambe aperte, spavaldo, ne do un’altra. Quello era il punto di partenza. Non avendo studiato recitazione, mi è venuto in mente di partire da là. Poi aggiungevo una voce diversa, un linguaggio diverso e tutto ciò che richiedeva il ruolo. Dopo il set cerco sempre di distaccarmi, mentre tanti colleghi fanno l’opposto: restano nel personaggio. Io non ce la facevo. Durante le riprese vivevamo a Latina, la sera tornavo in albergo e studiavo la parte per il giorno dopo. La mattina di nuovo sul set. In hotel c’erano gli altri del cast e la troupe, quindi alla fine non stacchi mai completamente

Prisma nasce da un’idea di Alice Urciuolo e Giovanna Cristina Vivinetto, licenziata dal liceo Kennedy di Roma perché trans. A gennaio ha vinto la causa perché il licenziamento non era per giusta causa, ma per discriminazione di genere. Cambierebbe qualcosa, per te, nell’avere una docente trans?

No, perché? L’importante è che tu sappia insegnare, che ti prenda cura di me come alunno..

Total look Fendi Mattia Carrano
Total look Fendi

«Mi chiedo sempre perché dobbiamo darci delle etichette. Si ha paura della libertà di essere chi si vuole e si cerca il proprio posto»

La contestazione era il modo di rompere gli schemi negli anni ‘60 e ‘70. Ora ci siete voi, una generazione a volte definita apatica: è così o semplicemente il cambiamento lo vivete e basta? Prisma può essere considerato un manifesto politico?

Prisma non l’ho mai visto come un progetto politico, ma avrebbe le carte per esserlo. In realtà racconta la vita quotidiana dei ragazzi. Una volta mi chiesero perché stavano esplodendo le serie teen. Perché, secondo me, hanno smesso di fare serie per ragazzi e incominciato a fare serie che parlano di ragazzi. Per strada mi fermano più quarantenni che ragazzi e ragazze. Evidentemente è un progetto che smuove le acque. 

La vostra generazione viene descritta come fluida. Sentite il bisogno di definirvi?

Non l’ho mai capita questa cosa. Mi chiedo sempre perché dobbiamo darci delle etichette. Si ha paura della libertà di essere chi si vuole e si cerca il proprio posto. E poi si va in cerca della libertà di essere se stessi, di fare ciò che si vuole, di essere felici. A me non sono mai piaciute le etichette.

Alcuni anni fa su Netflix c’era una serie che si chiamava Living with yourself, dove il protagonista si ritrova a vivere con il suo doppelgänger. Interpretare due gemelli, ti ha fatto scoprire un Mattia con cui non vivresti neanche pagato?

Io con Mattia non vivrei proprio! Avendo un carattere abbastanza forte, due Mattia sarebbero un po’ “too much”. 

Total look Dior Mattia Carrano
Total look Dior

«Sono così: se riesco a vedere il punto di arrivo ho bisogno di cambiare, di fare qualcosa di più difficile che non so fare»

Nel tuo recente passato ci sono i mondiali di un’arte marziale coreana. Perché hai lasciato?

Quando tornai da Los Angeles dopo i mondiali di Hwa Rang Do mi ruppi i crociati. Sono stato ingessato per tre mesi dall’anca alla caviglia, fui costretto a una lunga riabilitazione, ma non recuperavo. Mi dissero di allenarmi in vasca, ma su e giù dentro una vasca non fa per me. Scoprii la pallanuoto, che è un po’ un MMA del nuoto. È stato un periodo molto particolare della mia vita. Sono così: se riesco a vedere il punto di arrivo ho bisogno di cambiare, di fare qualcosa di più difficile che non so fare

Total look Fendi, shoes Hogan
Total look Fendi, shoes Hogan

Dopo Prisma, progetti per il futuro?

Non se ne può parlare. Abbiamo girato la seconda stagione di Prisma, ma non so quando andrà in onda. 

Si parla tanto di AI. Hai paura di essere sostituito da un computer?

È una cosa che mi fa venire i brividi. Credo che l’arte cinematografica morirebbe. Fellini diceva: non esistono film belli o brutti, esistono film vivi o morti. Con l’intelligenza artificiale, secondo me, i film nascono morti. Non c’è un’emozione, non c’è una persona che un giorno ha detto: “Cavolo che idea!” Ed è corsa a parlarne con altre persone per farne un film. Manca l’enfasi, l’amore per quello che si fa, l’emozione di raccontare agli altri quello che hai in testa

Total look Alexander McQueen
Total look Alexander McQueen

Credits:

Editor in chief Federico Poletti

Photographer Davide Musto

Stylist Sara Castelli Gattinara, Vanessa Bozzacchi – Other Agency

Make-up Eleonora Mantovani – Simone Belli Agency

Hair Elena – Contestarockhair

Photographer assistant Valentina Ciampaglia

Maledetta Primavera: un corto per dare un calcio alle differenze di genere

Tra le produzioni presentate ad Alice nella Città, ha riscosso notevole successo di pubblico Maledetta Primavera, cortometraggio che celebra il primo anno di professionismo del calcio femminile. Per “Maledetta Primavera” Carolina Morace, emblema italiano del calcio femminile, ha ricevuto il premio WomenLands di Alice nella Città, sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma.

Ma per Carolina il successo era già arrivato il 1° luglio 2022, quando il calcio femminile è stato proclamato “professionistico”. Proprio da questo epocale passaggio il regista Daniele Frontoni ha realizzato il corto “Maledetta Primavera”, che vede la Morace tra le prime testimonial. Nel cast le attrici Dodi Conti, Roberta Pompili, Valeria Altobelli, anche autrice della colonna sonora originale.

Una scena di Maledetta Primavera, cortometraggio sul calcio femminile presentato alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Alice nella città
Una scena di Maledetta Primavera, il corto sul calcio femminile

Il doppio ruolo di Valeria Altobelli nel film: attrice e compositrice

Compositrice e docente di international cyber law, Valeria Altobelli è presente alla Festa del cinema di Roma con due progetti. Uno è Maledetta Primavera, corto del quale firma la colonna sonora e al quale partecipa come attrice, l’altro e Paradox Effect, con Harvey Keitel, per il quale ha scritto parte della colonna sonora.

Intervistata da MANINTOWN, Valeria Altobelli ha raccontato la storia dietro a un corto che è stato accolto a Roma con un successo al di là di ogni aspettativa. “Vedere la sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica stracolma – esordisce Valeria – ha lasciato tutti noi senza parole. Milleduecento persone che applaudivano. Non ce l’aspettavamo. Siamo stati orgogliosi che il corto abbia fatto parte del progetto WomenLands sulla parità di genere, che è stato promosso da Alice nella Città in collaborazione con Roma Expo2030. Definirei “Maledetta Primavera” un cine-progetto che vuole dare “un calcio alle differenze”.

Valeria Altobelli
Valeria Altobelli

«Tante persone si sono trovate insieme per raccontare una storia vera, una storia di donne»

«Alla base di questo progetto c’è la fiducia di tutte le persone che hanno contribuito alla sua realizzazione in un momento in cui nessuno parlava di calcio femminile. Sicuramente – continua la Altobelli – è un progetto che si è trovato nel posto giusto al momento giusto, grazie anche ai mondiali di calcio femminile di quest’estate.

C’era una grande sinergia tra i giovani che hanno preso parte al film al cortometraggio e tutti coloro i quali hanno, a vario titolo, partecipato. Strepitose le atlete dalle squadre giovanili alla serie A, fino alla Nazionale con le Azzurre che hanno portato l’Italia all’ultimo Mondiale.


Ho scritto la colonna sonora in tre ore insieme al mio pianista. È andato tutto a ritmo grazie all’energia bellissima creatasi durante i lavori, dove tante persone si sono trovate insieme per raccontare una storia vera, una storia di donne, di un lascito e di una testimonianza. Il sogno di diventare una calciatrice era della madre, Bruna, ma poi è la figlia Carolina che riesce a coronarlo.

Una scena di Maledetta Primavera, cortometraggio sul calcio femminile presentato ad Alice Nella Città, sezione autonoma della Festa del Cinema di Roma
Una scena di Maledetta Primavera

«Maledetta Primavera è una storia di quartiere ambientata nel mondo del calcio femminile, ma che potrebbe essere il sogno di una donna che vuole fare la cantante, la notaia, l’astronauta»

Maledetta Primavera racconta non solo un passaggio di consegne, ma di sogni. Il corto parla di una storia di quartiere, ambientata nel mondo del calcio femminile, ma che potrebbe tranquillamente essere il sogno di una donna che vuole fare la cantante, la notaia, l’astronauta. Perché, a volte, ci si trova a sognare semplicemente in epoche sbagliate. Questa è la storia di Bruna.

In un momento in cui il calcio non era affatto appannaggio delle donne, un sogno così non poteva essere realizzato. Ci sono poi momenti in cui la realtà supera la fantasia e a realizzare questo sogno è una figlia che porta avanti un discorso che le è stato trasmesso dalla passione di un nonno e dall’amore di una madre».

Il cast di Maledetta Primavera, cortometraggio sul calcio femminile presentato ad Alice Nella Città
Il red carpet di Maledetta Primavera a Roma

Valeria Altobelli sul red carpet: “Un sogno non mi basta”

«Per il red carpet ho addirittura indossato una giacca con su scritto il titolo della mia canzone per il corto “Un sogno non mi basta”. E anche noi, con questo corto, abbiamo tutti realizzato un sogno.

Nessuno si aspettava che l’avremmo chiuso in tempo, che saremmo riusciti a proiettarlo alla Festa del cinema di Roma, in una sala importante come la Sinopoli. Le riprese del corto sono state effettuate i primi di settembre 2023. Pochi giorni, ma molto intensi, per la troupe guidata da PMR Studio e dal suo capitano di ventura, Daniele Frontoni, alla prima esperienza di tale portata.

Quando sono stata contattata per questo progetto per scrivere una canzone, non esisteva il cast, non c’erano patrocini, non c’erano le risorse.

Ma c’era una bella storia e quando ci sono belle storie vanno raccontate, in modo che ognuna di noi ci si possa ritrovare. Sono impegnata da moltissimi anni sul fronte femminile e mi sono appassionata così tanto al progetto di “Maledetta Primavera” che sono stata felicissima di contribuire alla sua realizzazione patrocinandolo con la mia Onlus mondiale, Mission, e coinvolgendo associazioni come il Coni e la Figc.

«La potenza di Maledetta Primavera è quella di mostrare che, con impegno e sacrificio, ce la puoi fare»

Il passo a far parte del cast, poi, è stato breve. Credo fermamente che se noi continuiamo a raccontare belle storie, di rivalsa, di resilienza, di persone che ce l’hanno fatta, riusciremo a dare ai giovani un respiro maggiore e a consentire loro di raggiungere sogni sempre più elevati. Le brutture saranno così sempre di meno.

Sono un’artista, quindi è ovvio che sono una sognatrice. E la potenza di “Maledetta Primavera” è proprio mostrare che con impegno e sacrificio ce la puoi fare. È questo il bello di una storia nella quale si crede veramente: quando gli ostacoli sono tanti e si trova la forza per superarli, significa che, forse, quel sogno è quello giusto.

La famiglia, le scelte, il teatro: “Dall’alto di una fredda torre” raccontato da Filippo Gili

Alla Festa del cinema di Roma, tra lo scintillio di gioielli veri e bigiotteria, c’è una perla: Dall’alto di una fredda torre, scritto da Filippo Gili, con la regia di Francesco Frangipane, prodotto da Lucky Red e Rai Cinema.


Dall’Alto di una Fredda Torre, ovvero come si può recitare in maniera contemporanea una classicità.
Il classico “chi butti giù dalla torre? chi scegli tra mamma e papà?” tradotto per la sala. Nel film la collaudata squadra nata vent’anni fa sulle assi del teatro Argot di Roma, formata da Filippo Gili, Francesco Frangipane, Vanessa Scalera e Giorgio Colangeli, alla quale si aggiungono Edoardo Pesce, Anna Bonaiuto, Elena Radonicich e Massimiliano Benvenuto, crea un gioco di scatole cinesi emotive ed emozionali. Un gioco di specchi tra personaggi, figure archetipiche, voci dell’anima.

Scena del film 'Dall’alto di una fredda torre', ph. Arianna Lanzuisi
Scena del film ‘Dall’alto di una fredda torre‘, ph. Arianna Lanzuisi


Il film ha la brillante sceneggiatura di Filippo Gili

Gili scrive, e Frangipane dirige, la storia di un universo che si sgretola un frammento dopo l’altro. Di un mondo di affetti, paure, silenzi, bugie bianche che ipocritamente mettono a tacere la nostra morale. Di una coperta sempre più corta che cerca di nascondere una verità sempre più ingombrante. Alla Festa del cinema – dove Francesco Frangipane ha ritirato il premio come Miglior Opera Prima presso lo spazio Lazio Terra di Cinema – abbiamo incontrato Filippo Gili per affrontare i temi del film.

«In questo momento storico la morte è furbescamente elaborata in maniera esterna a noi, giornalistica. Nella migliore delle ipotesi narrativa. Ma mai come centro fondamentale della nostra esistenza»

Elena (Vanessa Scalera) e Antonio (Edoardo Pesce) in un momento in cui anche la morte è spettacolarizzazione, a cosa ci riportano?

Al fatto che la morte è un patrimonio della spiritualità e non degli eventi. In questo momento storico la morte è furbescamente elaborata in maniera esterna a noi, giornalistica. Nella migliore delle ipotesi narrativa. Ma mai come centro fondamentale della nostra esistenza. La morte è il fondale davanti al quale ogni cosa assume una forma. In questo film, la forma che assume la loro vita è radicale, tremenda, ma è il paradigma di una situazione che, in un’altra epoca, si sarebbe vissuta in maniera più autonoma, più personale. Oggi sono i conflitti in Palestina, in Ucraina, gli atti di terrorismo e gli atti di crimine generalizzato, le tragedie attraverso le quali noi facciamo, superficialmente e comodamente, i conti con la categoria più importante che esista: la morte.

La dottoressa (Elena Radonicich) a un certo punto dice ad Antonio, uno dei figli: «Scegli di pancia, quindi d’istinto». Ma cuore e mente sono così scollegati? Possiamo davvero tirar su un muro all’interno di quella che in realtà è la vita? E poi perché la parte più vera di noi dovrebbe essere quella “di pancia”?

La dottoressa secondo me agisce con dei parametri alla fine quasi scorretti, perché per lei pensa che almeno uno vada salvata. E secondo me gioca d’azzardo, sia con Elena che con Antonio. Lei fa il suo gioco. Dire “agisci di pancia” è dare voce allo strano ricatto che all’improvviso la vita mette davanti ai due fratelli ed è un ricatto che, oggettivamente, crea una forbice tra razionalità e irrazionalità. Perché, attraverso la razionalità, la scelta non è perseguibile. Attraverso la pancia, un indice infantile, istintuale, la risposta a chi è meglio tra papà e mamma, a chi butti giù dalla torre, in teoria si può dare.

Scena del film 'Dall’alto di una fredda torre', ph. Arianna Lanzuisi
Scena del film ‘Dall’alto di una fredda torre‘, ph. Arianna Lanzuisi

«Scrivere per il cinema, per me, è un po’ un tornare a casa. Il teatro mi ha però dato la possibilità di approfondire alcune tematiche»

Cosa perde e cosa guadagna il testo passando da una drammaturgia a una sceneggiatura? E qual è stata la parte più difficile da tradurre? In teatro anche il respiro trasmette qualcosa…

Se il montaggio è fatto bene, il respiro si può trovare anche al cinema, in una sapiente cura della dinamica espressiva e temporale della scena. Quello che mi sono perso è la possibilità di andare fino in fondo nella spiegazione della perversità, ricorrendo però a un linguaggio infantile, violento, onirico, per poter arrivare alla stessa conclusione alla quale la razionalità arriverebbe molto prima ma con meno coraggio. Perché non si può salvare la vita né all’uno né all’altro.


La possibilità che dà la dialogalità lunga, estesa, di una scena teatrale, l’ho persa. Ma ho guadagnato, in termini di paradigmi visivi, la capacità di raccontare l’esistenza di due genitori, il fatto che abbiano capito, la leggerezza filosofica con cui si avvicinano alla catastrofe presentita e non domandata perché si fidano. Il padre si fida dei figli: non ha capito la malattia ma ha capito che una catastrofe sto arrivando. O a lui o a lei. E, se ci si ama, è la stessa cosa. Però rispetta in maniera meravigliosa questa educazione dei figli nei loro confronti: questi figli che diventano padri e i padri che diventano figli. Il padre accetta questo ribaltamento dei ruoli con amore, ridiventa un bambino che passivamente accetta la realtà. E questo è un guadagno nella trasposizione cinematografica.

Molti pensano che tu sia un drammaturgo prestato al cinema…

La perversità delle storie che scrivo è che sono tutte nate come sceneggiature trasformate per il teatro. Scrivere per il cinema, per me, è un po’ un tornare a casa. Il teatro mi ha però dato la possibilità di approfondire alcune tematiche.

Scena del film 'Dall’alto di una fredda torre', ph. Arianna Lanzuisi
Scena del film ‘Dall’alto di una fredda torre‘, ph. Arianna Lanzuisi

«Il film ti dice che è ridicolo tentare di scegliere quello che non si può scegliere»

La scena che ami di più?

Quando Elena sta in macchina con Antonio e cerca di scendere dalla macchina in corsa. E Dario, il cavallo bianco, taglia loro la strada. Dario è la sostituzione del problema, è la malattia che corre, ma è anche l’amore che questa malattia fa emergere, perché la malattia rigenera l’affettività. Dario è il super ego che in qualche modo colloca definitivamente Antonio nella situazione di non ritorno.


Perché, anche se dovessero scegliere di non scegliere nessuno dei due genitori, è comunque una scelta. Dario è quello che li guarda da lontano alla fine del film, che torna ma non rientra, li ama ma non li riaccoglie. Ho amato scrivere questa scena perché è la chiave che mi ha consentito di aprire la pièce teatrale trasportandola nel paesaggio cinematografico. Sono soluzioni che in teatro non hai.

Chi ha deciso quel finale? A teatro si è avvezzi a finali aperti. Al cinema pensi che lo spettatore si sentirà un po’ abbandonato?

L’ultima scena è stata pensata da entrambi. Qui Francesco ha avuto un ruolo importante. Il pubblico cinematografico è sicuramente più abituato ad essere accompagnato, mentre quello teatrale è più allenato a dover fare i conti con le proprie elaborazioni, ad affrontare una specie di transfer con il testo. Secondo me, i margini per evadere in maniera occidentalmente soddisfacente, non c’erano. Il finale è chiaro e anche la decisione dei figli si legge benissimo.


Il film ti dice che è ridicolo tentare di scegliere quello che non si può scegliere. Pretendere che il film dica chi muore, lo trovo volgare. Il punto è: come vivi la tragedia che si scatena se arriva l’archetipo nella quotidianità? Che sia complesso di Elettra o complesso di Edipo, che facciamo?

Dilemma morale di famiglia: Francesco Frangipane racconta il film “Dall’Alto di una Fredda Torre”

Dall’Alto di una Fredda Torre è il film di Francesco Frangipane presentato alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Grand Public che sarà prossimamente in sala. Nel cast Vanessa Scalera, Anna Bonaiuto, Edoardo Pesce, Giorgio Colangeli, Elena Radonicich e Massimiliano Benvenuto.

Prodotto da Lucky Red in collaborazione con Rai Cinema e Sky Cinema, Dall’Alto di una Fredda Torre è stato premiato come Miglior opera prima italiana al Rome Film Fest «per la forza con la quale ha saputo mettere in scena al tempo stesso un dramma familiare e un dilemma morale e per l’intelligenza con la quale ha valorizzato tutti gli attori che hanno partecipato al film».

Una scena del film Dall'Alto di una fredda torre di Francesco Frangipane
Una scena del film Dall’Alto di una Fredda Torre

Il film Dall’Alto di una Fredda Torre ha la forza di una tragedia contemporanea

Dall’alto di una fredda torre è un film corale, che mostra la sventura di un uomo e una donna ai quali viene dato un potere divino: decidere della vita e della morte di altri esseri umani. Nella fattispecie, della vita o della morte di un genitore. O di entrambi. Una sceneggiatura dove lo stile di Filippo Gili emerge con la forza di una tragedia contemporanea. Un film pieno di domande che restano insolute nella misura in cui lo spettatore non abbia voglia di approfondire un testo ricco di paradossi, di ossimori, e decida di non addentrarsi nelle piaghe dell’anima dei personaggi. Un viaggio esistenziale dal quale i due gemelli tornano, dopo aver attraversato l’inferno, a riveder le stelle.

«Dall’alto di una fredda torre non è un film sulla malattia, ma sulla scelta, sul viaggio; un film verso gli inferi che fanno questi personaggi»

Perché hai scelto di dirigere Dall’Alto di una Fredda torre e cosa ti lega così tanto alla scrittura di Filippo Gili?

Ho una lunghissimo sodalizio con Filippo Gili, Vanessa Scalera, Giorgio Colangeli e Massimiliano Benvenuto, che nello spettacolo faceva il fratello e nel film fa il dottore. Il nostro gruppo è nato anni fa al teatro Argot di Roma. Il primo progetto fu “Prima di andar via”, da cui Michele Placido ricavò una trasposizione cinematografica.

Io, pur essendo profondamente teatrante, ho fatto spesso incursioni nel cinema, perché sono stato aiuto di Marco Risi. Ho scritto diverse sceneggiature di film e da anni avevo voglia di realizzare la mia opera prima. Ho scelto una sceneggiatura di Filippo, perché la sua è, già in teatro, una drammaturgia potente, intelligente, mai didascalica. Una scrittura che non racconta il dramma ma racconta il tragico. Filippo Gili scrive tragedie contemporanee.

Quello che principalmente mi affascina è partire dalla quotidianità di una famiglia, che poi viene rotta da una notizia improvvisa che rompe quella normalità. E, da quella notizia, andare a indagare sulle micro rotture di ogni singolo personaggio.

Dall’alto di una fredda torre non è un film sulla malattia, ma sulla scelta, sul viaggio; un film verso gli inferi che fanno questi personaggi. È questo quello che mi affascina di più: come si fa a scegliere? Quali sono i parametri? La salute? L’età? O bisogna spingersi più in fondo e dire a chi voglio più bene? E se abbiamo un’idea diversa, come la mettiamo? Tiriamo la monetina? A me interessava raccontare il tema della scelta e aprirsi a delle domande. Non mi interessano le risposte, perché non ci sono risposte. Soprattutto non c’è una risposta giusta, perché salvare uno significa uccidere un altro. Quindi qualsiasi risposta è sbagliata. Le sceneggiature di Filippo permettono questo tipo di lavoro: toccare lo spettatore e lasciarlo tornare a casa con le stesse domande che si fanno i personaggi.

Una scena del film Dall'Alto di una Fredda Torre presentato alla Festa del Cinema di Roma
Una scena del film Dall’Alto di una Fredda Torre

Il fatto che foste già, in parte, una compagnia rodata, quanto ha contribuito al film? E come è stato inserire attori nuovi?

Per me è stata una risorsa. L’idea di lavorare con un gruppo di attori, e considero anche Filippo, con i quali siamo abituati a parlare lo stesso linguaggio, ad avere gli stessi gusti, le stesse visioni, è stato fondamentale. Con Anna Bonaiuto avevo già fatto Giusto la fine del mondo di Lagarce: un’altra drammaturgia, ma vicino al mondo di Filippo. Per me è stato fondamentale averli, umanamente ma anche artisticamente. Vanessa non è più la stessa del 2011, quando Prima di andar via iniziò ad andare in scena: nel frattempo ha fatto una carriera straordinaria. A mio avviso è l’attrice della sua generazione più talentuosa che abbiamo in Italia. Ed è riuscita a mantenere la sua formazione anche all’interno di una fiction come Imma Tataranni che le ha dato una grande popolarità mediatica, ma all’interno della quale ha conservato il suo graffio.

La grande novità per me è stata Edoardo Pesce, un attore con il quale non avevo mai lavorato e che non ha un background teatrale. È stata una scommessa, ma mi piaceva l’idea di usare lo straordinario talento di Edoardo in un ruolo diverso da quelli che ha sempre fatto. Ero convinto che potevo calarlo in un ruolo con una fragilità, figlio di una famiglia borghese, un orsacchiotto buono con tanti smottamenti interiori.

Era una scommessa in senso lato, perché è un attore eccezionale, e sono stato sempre convinto che fosse la scelta giusta.

Franceso Frangipane: «Dal lato cinematografico abbiamo deciso di non dare una risposta, perché non si può dare una risposta»

Molte domande esistenziali lasciate apparentemente aperte. In teatro lo spettatore ha un approccio diverso, è più avvezzo a simili tecniche. Questo tipo di lavoro, al cinema, rischia di lasciare lo spettatore disorientato?

È la scommessa che dovremmo capire come andrà. Su questo finale io e Filippo abbiamo discusso molto, ma io ho voluto che rimanesse il più aperto possibile. Teatralmente funzionava, ma anche dal lato cinematografico abbiamo deciso di non dare una risposta, perché non si può dare una risposta. Spero che non scateni quel nervosismo da spettatore che vuole sapere cosa succede, come va a finire. Preferisco scommettere sul fatto che gli spettatori escano portandosi a casa una domanda e spero, come succede in teatro, che tutti provino a immedesimarsi in questi due fratelli, a chiedersi “ma io che avrei fatto?”. Io che tipo di rapporto ho con mia madre, mio padre, mio fratello? Spero di farli tornare a casa con delle domande che magari non arrivano la sera stessa, magari dopo qualche giorno. Il finale è chiaro. Quello che rimane di non detto è solo perché o in che modo.

Valeria Solarino racconta il film The Cage: “Gli ostacoli aumentano le possibilità”

The Cage è il film scritto e diretto da Massimiliano Zanin presentato Fuori Concorso nella sezione Panorama Italia ad Alice nella città, kermesse che affianca la Festa del Cinema di Roma. Con Aurora Giovinazzo, Valeria Solarino, Brando Pacitto, Desirée Popper, Alessio Sakara, Patrizio Oliva e la partecipazione di Fabrizio Ferracane.

Un film forse poco riuscito se ci si aspetta un action movie sul WMMA, l’MMA femminile. The Cage è un lavoro che, nella cornice di un racconto sui combattimenti WMMA, allarga l’obiettivo alla battaglia delle donne all’autodeterminazione.

Valeria Solarino in The Cage lotta contro le gabbie sociali

The Cage, la gabbia. In realtà le gabbie raccontate da Massimiliano Zanin nel suo film sono tante.
La gabbia del nostro passato, quella di una relazione tossica nella quale ci ritroviamo incapaci di uscirne; quella della morale cristiana, subdola, soffocante, che ci vuole madri, mogli, sottomesse; quella dei traumi che viviamo e che possiamo usare come massi sui quali arrampicarci per scalare una montagna o come pietre sepolcrali che ricordano il nostro nome, la nostra immagine, ma sotto le quali giacere già morte nonostante siamo ancora in vita. Il film si avvale di validi attori come Brando Pacitto (Alessandro), Aurora Giovinazzo (Giulia) e della bravissima Valeria Solarino (Serena), con noi su MANINTOWN.

Una scena del film The Cage
Una scena del film The Cage

In The Cage due frasi aprono e chiudono la parte centrale del film. Il prete che dice: «Aiutala a fallire» e il ragazzo che dice: «Io c’ho provato a farla fallire». Spesso i falsi amici sono i più difficili da riconoscere quelli che, uomini o donne che siano, fanno finta di aiutarti sperando che tu fallisca. Ne hai mai affrontati?

Ho avuto un’educazione alla libertà e ho sempre cercato di fare le cose nelle quali credevo, che mi rispecchiavano, e ho avuto attorno persone che accoglievano questo mio aspetto. Questa frase è terribile. “Aiutala a fallire” è emblematica, perché la vittoria di qualcuno ci spaventa. Ci mette di fronte alle nostre possibilità, ma se una persona fallisce è meglio anche per me, perché non mi devo sforzare. Invece, se una persona vince, è un problema, perché allora devo vincere anch’io o comunque devo sforzarmi per arrivare a un livello superiore a quello al quale sono. Quindi è sempre meglio il fallimento dell’altro, nella competizione becera, e non solo sportiva. Anzi, nello sport c’è un grandissimo rispetto dell’avversario, che diventa colui che mi permette di realizzare il mio obiettivo. Paradossalmente, l’avversaria più temuta, il nemico numero uno di Giulia, è la sua migliore amica perché le permette di realizzare il suo sogno. Giulia ha vinto tutti gli incontri, ma le manca quello e, finché l’avversaria non dice: «Ok, tu questa rivincita te la meriti», Giulia non riesce a uscire dal suo incubo. Riesce a superarlo soltanto grazie a colei che dovrebbe essere il suo nemico. È una situazione emblematica.

Valeria Solarino in una scena del film The Cage
Valeria Solarino nel film The Cage

«Ci sono spesso ostacoli che ci vengono posti, qualcosa che ci fa superare il nostro limite»

C’è una frase del film dove dici a Giulia che ci sono due tipi di fighter: quello che è imbattibile in allenamento ma poi non regge in gara e quelli che hanno il coraggio di entrare nella gabbia e affrontare le proprie paure. C’è una gabbia nella quale sei entrata?

Ci sono spesso ostacoli che ci vengono posti, qualcosa che ci fa superare il nostro limite. Il mio personaggio, ad esempio, si arrabbia con Giulia perché lei combatte sempre in piedi. Giulia potrebbe anche vincere combattendo così, ma lei vuole che Giulia combatta a terra perché quello è un ostacolo che va superato e gli ostacoli aumentano le tue possibilità.

«Ancora una volta, la donna è vista esclusivamente come generatrice di vita, quindi non nella sua complessità. Ovvio che la maternità rappresenti un aspetto meraviglioso, ma non esaurisce, e non deve esaurire il ruolo di una donna»

Il prete ricorda più volte a Giulia l’importanza di essere madre, moglie, di avere una famiglia. È un pensiero strisciante che continua ad essere inculcato alle donne. Adozione, affido, nipoti, creano famiglie di serie B?

I messaggi che riceviamo continuamente sono in quella direzione. Ultimamente la presidente del Consiglio ha anche parlato di detassare quelle donne che danno, con due figli, il loro contributo alla società. Innanzitutto come se i figli fossero un affare solo femminile. Può accadere, ma molto spesso c’è anche un uomo che partecipa alla messa al mondo di un figlio. E poi, ancora una volta, la donna è vista esclusivamente come generatrice di vita, quindi non nella sua complessità. Ovvio che la maternità rappresenti un aspetto meraviglioso, ma non esaurisce, e non deve esaurire il ruolo di una donna. È vero che viene continuamente riproposto questo modello, ma, secondo me, la società civile, che è più pronta a ricevere i messaggi che vengono dal mondo della cultura, può fare molto nell’educare le nuove generazioni.

«La vera parità si ha quando non c’è una disparità data da qualcosa che è indipendente da te»

Alla Festa del Cinema riceverai il premio Q-cultura per il tuo impegno sociale e artistico a difesa dei diritti dell’uomo e della donna. È bella la motivazione: diritti dell’uomo e della donna…

Sì, iniziamo a chiamare le cose con il loro nome. È molto bella questa motivazione. Dare un nome a una cosa le dà una dignità, la fa esistere, le dà una struttura. È un concetto che era stato ripreso anche da Michela Murgia, che amavo e continuo ad amare moltissimo. Ci sono tante professioni che troviamo strano declinare al femminile, preferiamo continuare a chiamarle al maschile, ma semplicemente perché sono ruoli che prima non erano occupati solo da uomini. Adesso che le cose stanno cambiando, diamo dignità a quelle professioni. Non esiste solo il presidente, esiste la presidente o presidentessa, come più ci piace. Sono semplicemente cose che prima le donne non facevano e ora, fortunatamente, fanno.

Forse dovremmo anche smetterla di dire “è un mondo maschile” o “è un campo femminile”…

Il problema è dare a tutti le stesse possibilità di partenza. La vera parità si ha quando non c’è una disparità data da qualcosa che è indipendente da te, come il ceto sociale o il genere. Le stesse possibilità si danno quando due persone vengono messe nelle stesse condizioni di poter concorrere per un ruolo e scegliere un tipo di vita.

«Quando c’è una gabbia, da una parte e dall’altra, c’è un problema di paura»

Nella gabbia a volte veniamo messe, a volte ci mettiamo da sole. Indipendentemente da come ci siamo finite, mettere o tenere una donna in gabbia può essere un modo che gli uomini hanno per non affrontare qualcosa di cui hanno paura?

Quando c’è una gabbia, da una parte e dall’altra, c’è un problema di paura: anche chi ti mette nella gabbia, in realtà ha paura di dominarti. Perché mettiamo la tigre in gabbia? Perché abbiamo paura di essere divorati.

È bellissima la scena dove Brando Pacitto è nudo nella gabbia davanti alla tigre. Alla fine chi è nudo, inerme, è lui…

Io in quella scena ho visto anche un’altra cosa: lui vuole risolvere tutto, ma non riesce a risolvere la sua vita e l’unica soluzione che trova è farla finita. Ma non ce la fa neanche lì. Lo vedi agire in quel modo e ti viene da dire: no non si risolve così, esci da questa gabbia e combatti davvero.

«Nel settore del cinema la disparità è ancora profondissima»

Alla Festa del cinema si sta parlando tanto di cinema al femminile. In realtà i dati dell’osservatorio del Mic parlano di un rapporto uomini – donne alla regia di 1 a 10; tra il 10 e il 16% sono le donne direttrici della fotografia o che si occupano di musiche o effetti speciali, settori prevalentemente tecnici. Le donne sono la maggioranza tra le costumiste o le truccatrici. C’è una certa manipolazione nel modo di raccontare i numeri?

Sicuramente ci sono tante registe donne, che è il ruolo principale sul set, però c’è ancora una grande differenza. Nel settore dell’audiovisivo è un discorso complesso, dove c’è anche un grande divario nei compensi, perché vieni pagato in base a quanto contribuisci al film in termini di incassi al cinema. La disparità è ancora profondissima.

Per arrivare dove sei, hai rotto il “soffitto di cristallo”?

Sicuramente sono stata fortunata, ho incontrato bei ruoli, importanti, ma ho scelto io in quali ruoli cimentarmi.

CENTO DOMENICHE: L’URLO DI RABBIA DI ANTONIO ALBANESE ALLA FESTA DEL CINEMA DI ROMA

Applausi a scena aperta per la prima stampa del film di Antonio Albanese Cento domeniche, presentato oggi alla Festa del Cinema di Roma e al cinema dal 23 novembre. Cento domeniche è un atto d’accusa su una vergogna italiana. Un film, come dichiarato in chiusura, dedicato alle vittime dei crac bancari che hanno bruciato decine di miliardi di euro, e dove i privilegiati si sono salvati.

L’opera di Albanese è un gioiello, un pugno nello stomaco, un urlo di rabbia impotente. Uno sguardo semplice, lucido, su quel mondo incomprensibile ai più che è il sistema bancario. «Ma l’hai mai visto un contratto tu?», urla Albanese all’ex moglie.

Un film su ‘una vergogna nazionale’: i risparmiatori traditi dalle banche

Una finestra su una vergogna nazionale vista dalla parte del tessuto connettivo dell’economia italiana, fatta di lavoratori, di risparmiatori, di gente che si è costruita casa da solo, lavorandoci “cento domeniche”. Albanese, firmando probabilmente il miglior film della Festa del Cinema, sbatte in faccia al pubblico il mondo amorale delle banche, di quella finanza che ha da decenni soppiantato l’economia, eliminando ogni considerazione dell’essere umano in nome di ingenti profitti nelle mani di pochi.

«Sono io il coglione o sono loro i delinquenti?» è l’urlo di dolore di un Albanese che dice: «Volevo solo pagare il matrimonio di mia figlia». Cento domeniche è la storia di un tradimento, di un’Italia colpita al cuore, dove la parola famiglia è solo uno slogan per vendere. La storia di uno che ne racconta mille. Ma è anche il ritratto impietoso di un’Italia cieca, dove ci si racconta che tutto si aggiusta, che adesso passa. Un’Italia che si fida delle persone sbagliate, con uno Stato che si volta dall’altra parte ed è di fatto connivente.

Standing ovation per Cento domeniche al Rome Film Fest

Cento domeniche è un grande atto di denuncia, un film meravigliosamente politico, sulla manipolazione, sul risparmiatore che si ritrova azionista solo perché non in grado di capire cosa firma, su un mondo dove la vittima viene raccontata come carnefice. Su un’Italia ormai incapace di fare squadra, dove si va troppo spesso in solitaria, dove regna una profonda solitudine. Dove chi sta in alto neanche si sporca le mani: arma vigliacchi che, per paura di perdere il posto, fanno il lavoro sporco in giacca e cravatta. Un film da standing ovation che sembrava non smettere, con i bravissimi, tra gli altri, Sandra Ceccarelli, Elio De Capitani, Bebo Storti, Maurizio Donadoni e Giulia Lazzarini.

Il red carpet di Cento Domeniche al Rome Film Fest (foto Luca Dammico)
Il red carpet di Cento Domeniche al Rome Film Fest (foto Dammico)

Le origini di Antonio Albanese nel film

«Questo film – racconta Antonio Albanese – rappresenta le mie origini, la mia estrazione operaia ma, soprattutto, è la rappresentazione di un’ingiustizia, di una sopraffazione». E poi continua dicendo: «Con Piero Guerrera, mentre scrivevamo la sceneggiatura, mi sono reso conto che è immensa e di una crudeltà incredibile. Volevamo raccontare questa vergogna, sottolineare i danni che possono creare anche poche persone. Ci sono state scene emotivamente faticose da girare. Era importante rispettare tanto dolore. Sono grato agli attori e alle attrici che hanno accettato questa sfida coraggiosa, dove abbiamo raccontato cosa può provocare la malvagità. E la storia di un uomo onesto che non ha il coraggio di ribellarsi, che si dà la colpa di quello che è accaduto. Viviamo in un mondo dove anche se reagisci non si risolve niente, dove non si sa mai chi è il colpevole».

Antonio Albanese alla Festa del Cinema di Roma, foto di Luca Dammico
Antonio Albanese alla Festa del Cinema di Roma (foto: Luca Dammico)

Il regista: «Cento domeniche è un film necessario»

«Desideravo da tempo lavorare sul mondo operaio: milioni di persone definiti come “gli ultimi”. È una cosa che mi fa venire il nervoso! Sono “i primi” perché sono loro che sostengono questo Paese. Ma da decenni sono abbandonati da una politica che non si gira mai da questa parte. Sento Cento domeniche come un film necessario», incalza Albanese dal palco della Festa del Cinema di Roma.

«Mentre lavoravamo al film, abbiamo scoperto storie incredibili di esseri umani che sono usciti dopo mesi sentendosi in colpa, che si vergognavano di questa loro condizione, di questo tradimento. Dove sono i colpevoli? Chi ha provocato questo crimine puro? Questa malvagità è incredibile e non si deve più ripetere!».

«Una delle battute che amo di questo film – conclude Albanese – riguarda un tema che trovo che si stia sottovalutando. È quando lui dice: “Finiremo tutti in fondo a un fondo”. È una frase tragicamente comica, ma è un argomento del quale sentiremo parlare».

Vent’anni senza il Signor G: ‘Io, noi e Gaber’ alla Festa del Cinema di Roma

Scritto e diretto da Riccardo Milani, Io, noi e Gaber è un ritratto vivido del “Signor G”, Giorgio Gaber, protagonista di una delle pagine più preziose della storia culturale del nostro Paese, genio libero e artista
indimenticabile. Il documentario è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Proiezioni Speciali.

Festa del Cinema di Roma 2023 -  Red Carpet - Io Noi e Gaber, foto di Luca Dammico
Festa del Cinema di Roma 2023 – Red Carpet – Io Noi e Gaber

La carriera di Gaber, dall’esordio al Teatro Canzone

Girato tra Milano e Viareggio, nei luoghi cari a Gaber, il documentario è un viaggio esclusivo che attraversa tutte le fasi della sua carriera artistica: dai primissimi esordi nei locali di Milano al rock con Adriano Celentano, dal sodalizio artistico e surreale con l’amico Jannacci agli iconici duetti con Mina, alle canzoni con Maria Monti, dagli anni della popolarità televisiva al teatro, con l’invenzione, insieme a Sandro Luporini, del Teatro Canzone, piena espressione del suo impegno politico e culturale. Sullo sfondo, come locus amoenus che tutto muove e in cui tutto converge, si staglia il Teatro Lirico di Milano, simbolo del vicendevole amore tra Gaber e il pubblico milanese, e che oggi porta il suo nome Teatro Lirico Giorgio Gaber.

Il ricordo della figlia Dalia

Riccardo Milani racconta Gaber attraverso il ricordo personale della figlia Dalia Gaberscik e delle persone
storicamente a lui più vicine, ma anche con le testimonianze di colleghi e artisti che lo hanno
vissuto e amato. Una galleria di personaggi che comprende Gianfranco Aiolfi, Massimo Bernardini,
Pier Luigi Bersani, Claudio Bisio, Mario Capanna, Francesco Centorame, Lorenzo Jovanotti
Cherubini
, Ombretta Colli, Paolo Dal Bon, Fabio Fazio, Ivano Fossati, Dalia Gaberscik, Ricky Gianco,
Gino e Michele, Guido Harari, Paolo Jannacci, Lorenzo Luporini, Roberto Luporini, Sandro Luporini,
Mercedes Martini, Vincenzo Mollica, Gianni Morandi, Massimiliano Pani, Giulio Rapetti – Mogol,
Michele Serra.

Festa del Cinema di Roma 2023 -  Red Carpet - Io Noi e Gaber, foto di Luca Dammico
Il red carpet di Io, Noi e Gaber a Roma (foto: Luca Dammico)

Riccardo Milani racconta il documentario Io, Noi e Gaber

«Giorgio Gaber – dice Riccardo Milani – è stato una persona importante della mia vita. Da piccolo
mi ha divertito con l’allegria di Goganga, Il Riccardo o La Torpedo blu, e dal liceo in poi mi ha fatto
alzare la testa e avere uno sguardo sul mondo segnando il mio percorso di formazione. Raccontarlo per me è stato soprattutto un modo per ringraziarlo per tutto quello che nei decenni mi ha dato e, soprattutto, ha dato a tutti noi. E stata una voce importante per tutti noi anticipando tutto quello che in questi decenni si è avverato, prevedendo che l’ideologia del mercato avrebbe schiacciato oggi tutte le altre, segnando una disperata continuità tra lui e Pier Paolo Pasolini. Per questo, tra le rarissime certezze della vita, ce n’è sicuramente una: Gaber ci serve ancora e ci serve adesso».

Riccardo Milani alla Festa del Cinema di Roma (foto: Luca Dammico)
Riccardo Milani alla Festa del Cinema di Roma (foto: Luca Dammico)

«È stato un lavoro lungo e intenso, al quale la Fondazione – aggiunge Paolo Dal Bon, Presidente
della Fondazione Gaber
– ha partecipato rimanendo sempre vicina al regista e alla troupe. Abbiamo
avuto il privilegio di assistere ad un vero e proprio lavoro cinematografico, il vero cinema applicato
al racconto della storia artistica e della vita di Giorgio Gaber, che ci auguriamo possa restare a
disposizione di tutti per sempre, proprio come i film classici. Un’opera realizzata con grande
passione, rispetto e ammirazione per la figura di Gaber, come se fosse in qualche modo sempre
presente, come se aleggiasse sul lavoro di tutta l’equipe».

La proiezione speciale del 22 ottobre alla Festa del Cinema di Roma è stata il grande preludio ad
una serie di nuove iniziative realizzate e supportate dalla Fondazione Gaber a coronamento di un
anno di straordinarie celebrazioni. Io, noi e Gaber, docufilm prodotto da Atomic in coproduzione con Rai Documentari e Luce Cinecittà e distribuito da Lucky Red, sarà disponibile nelle sale cinematografiche il 6, 7 e 8 novembre.

Due coppie e un sospetto: il regista Emiliano Corapi racconta il film Suspicious Minds

Suspicious Minds è il film di Emiliano Corapi presentato in concorso nella sezione Alice nella Città alla Festa del Cinema di Roma. Nel cast del film, scritto e diretto dallo stesso Corapi – con le musiche di Giordano Corapi – Francesco Colella, Amanda Campana, Matteo Oscar Giuggioli e l’attrice olandese Thekla Reuten.

Quando un uomo e una ragazza rimangono bloccati nell’ascensore dell’hotel in cui soggiornano, nei rispettivi partner, rimasti fuori, s’insinua il dubbio che nel tempo trascorso dentro sia accaduto qualcosa. Tuttavia, il sospetto del tradimento genera nelle coppie, che vivono fasi diverse della vita, reazioni opposte, innescando dinamiche sempre più pericolose.

Amore, gelosia e fragilità nel film Suspicious Minds

Suspicious Minds: due coppie di età diversa, un ascensore e uno scherzo del destino, come quelli
tanto cari a Woody Allen. Quegli eventi apparentemente insignificanti che cambiano delle vite. Due coppie come tante, due giovani innamoratissimi e una coppia di mezza età che vive serenamente la propria routine, quando tutto procede, sempre nello stesso modo, tra ricordi cristallizzati di un passato che non c’è più.

In realtà due coppie che Corapi obbliga a fare i conti con le proprie fragilità. Entrambe in vacanza, i loro destini si scontrano, per caso, in un albergo romano. Un incidente innesca quanto di più lontano sembrava potesse contaminare le due coppie: la gelosia

Intervista al regista Emiliano Corapi

Corapi, alla sua terza prova registica, qui anche in veste di sceneggiatore e costruisce il film come una sorta di divertente thriller, regalando allo spettatore una ritmata sequenza di repentini cambi di scena, oscillando continuamente tra leggerezza e dramma e riaprendo la storia ogni volta che sembra questa sia stata chiarita. 

La sceneggiatura, scritta dallo stesso Corapi, è ben costruita e offre dei dialoghi brillanti e credibili. Il cast è composto da attori noti e meno noti, ma tutti efficaci nel loro ruolo. Thekla Reuten e Francesco Colella interpretano la coppia più matura, che cerca di ravvivare il loro rapporto con un gioco pericoloso. Amanda Campana e Matteo Oscar Giuggioli sono i due giovani innamorati, che devono affrontare il dubbio e la paura di perdere l’altro.

Il film è stato presentato in concorso alla sezione Alice nella Città della Festa del Cinema di Roma 2023, dove ha ricevuto un buon riscontro da parte della critica e del pubblico. Suspicious Minds è un film che sa divertire e commuovere, ma anche far riflettere sulle dinamiche dell’amore e della fiducia. Un film che merita di essere visto e apprezzato.

Di nuovo relazioni tra persone di differente età, dalle vite assopite, che riscoprono ciò che avevano dimenticato. Che tornano giovani, anche solo per il tempo di una fugace relazione o una notte. Vede la generazione degli over 50 così scontata?

In realtà non credo che il film parli di relazioni tra persone di età diverse, o della voglia di sentirsi ancora giovani, quanto piuttosto della fragilità dei legami e dei sentimenti, anche quando questi sono forti. Sebbene infatti i due cinquantenni del film possano desiderare un’avventura, alla base del loro dramma c’è il timore segreto di essere al capolinea della loro storia. Per questo sfruttano l’incidente inziale e la situazione di dubbio che ne deriva, per fare una verifica dei loro sentimenti che, dopo anni di relazione e intrappolamento nei ruoli genitoriali, non sono più così chiari.

«Gli incontri casuali posso generare situazioni e dinamiche che di norma, nella routine di una persona, non si verificano. Credo sia per questo che sono ricorrenti nelle storie»

In Amore a domicilio avevamo due estranei messi insieme dal caso. Qui quattro. Cosa la affascina di queste situazioni?

Gli incontri casuali posso generare situazioni e dinamiche che di norma, nella routine di una persona, non si verificano. Credo sia per questo che mi attirano e che sono ricorrenti nelle storie. 

In Suspicious Minds le due coppie del film, nelle loro diversità, hanno un tratto in comune: nella difficoltà scoprono di essere estranei. Siamo tutti perfetti sconosciuti?

Non proprio. Quello che i personaggi della storia si trovano a sperimentare sono comportamenti non abituali, ma accidentali, dovuti alla situazione del momento che li mette alle corde. Nessuno di loro ha una natura che tiene segreta. Più che sconosciuti tra di loro, mi sentirei di dire che ognuno scopre aspetti estranei dentro di sé. I ragazzi, ad esempio, scoprono debolezze e desideri che fino a poco prima non immaginavano e che mettono in crisi l’idea che hanno di loro stessi e del loro amore. Come a dire che improvvisamente il vero sconosciuto è dentro di loro. Un cambiamento che non riescono ad accettare.

“Preferisco non sapere, basta che la smettiamo” è una battuta del film. Siamo così fragili? 

Non credo che la battuta indichi fragilità o paura di accettazione della realtà. Il personaggio che la pronuncia ha appena compreso che tra lei e il marito c’è ancora qualcosa da salvare e cerca di focalizzare il discorso su questo piuttosto che sul male che si sono appena fatti per arrivare a scoprirlo.

«La maturità, oltre a stemperare alcuni eccessi, ci dà la possibilità di concentrarci meglio su ciò che conta veramente»

L’età rende più saggi o si ha solo più paura della solitudine, perché il tempo che abbiamo davanti è di meno o perché pensiamo non si possa più costruire qualcosa di nuovo?

Bella domanda, per la quale probabilmente non c’è una risposta che vale per tutti. Ognuno vive il tempo che diminuisce a modo suo, così come la capacità o meno di fare compromessi. Penso però che la maturità oltre a stemperare alcuni eccessi, ci dia la possibilità di concentrarci meglio su ciò che conta veramente e di guardare con più indulgenza alle nostre disfunzioni e ai nostri errori. È quello che tentano di fare i due personaggi adulti di Suspicious Minds.

Tra le due figure maschili, dov’è Emiliano Corapi?

In realtà si trova in tutti e quattro i personaggi. Sia negli uomini che escono da questa storia abbastanza “ammaccati”, sia nelle donne che dimostrano al dunque più forza e coraggio

IO E IL SECCO ALLA FESTA DEL CINEMA DI ROMA: UN FILM SUL SENSO D’ESSERE UOMINI

Io e il Secco è l’opera prima di Gianluca Santoni in concorso nella sezione Alice nella città alla Festa del Cinema di Roma. L’opera di Santoni è un fiore che sboccia nel fango. Una favola realistica, un film di speranza più che di denuncia. Ma una speranza alla portata di molte. Un film che parla di famiglia e di come la famiglia sia un qualcosa che va al di là dei legami di sangue.

Scena dal film Io e Secco.
Scena dal film Io e il Secco

La colonna sonora è firmata da Davide Pavanello, in arte Dade, e include anche un classico della musica italiana, Sere Nere di Tiziano Ferro, re-interpretata dai Santi Francesi, duo vincitore di X Factor composto da Alessandro De Santis e Mario Francese.

Protagonista è “Denni con la i”, un ragazzino di dieci anni e una missione da compiere: salvare sua madre dalla violenza di suo padre. Piccolo com’è, da solo non ce la può fare e chiede aiuto a un super-killer. La persona scelta è il Secco, che non è un criminale ma un innocuo sbandato con un disperato bisogno di soldi. L’incontro tra Denni e Secco dà vita a un’avventura che oscilla tra dramma e commedia, un buddy movie ad altezza bambino, in bilico tra la fantasia e una realtà anche troppo cruda. Un film sul senso dell’essere uomini.

Di Io e il Secco ne parliamo con il regista Gianluca Santoni alla Festa del Cinema di Roma.

«Io e il Secco è un film che mi assomiglia»

Gionatan con la G era il titolo del suo corto del 2016. Ora c’è “Denni con la i”. Sempre due bambini e sempre, sullo sfondo, situazioni di disagio. Che relazione c’è tra i due progetti?

Gionatan con la G era il cortometraggio con cui mi sono diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. È stata la prima volta che abbiamo trattato questa tematica assieme alla sceneggiatrice Michela Straniero. Per Io e il Secco siamo ripartiti dalla stessa premessa, ma abbiamo lavorato su personaggi completamente diversi, calati in un altro contesto. In questo film, ad esempio, ci sono l’ironia e la fantasia, che non avevamo in Gionatan con la G. Voglio molto bene a quel corto, ma in un certo senso Io e il Secco è un film che mi somiglia di più.

I protagonisti: "Denni con la i" e il Secco.
I protagonisti: “Denni con la i” e il Secco

Punto di partenza: la violenza domestica. Qui però c’è un pezzo in più: la violenza assistita. Chi è Denni per Gianluca? Perché le preme lo sguardo dei bambini sulla loro infanzia rubata?

In Denni c’è sicuramente qualcosa di me. Anche se la sua storia non è ricalcata sulla mia, anche se i suoi genitori non sono i miei, anche se non ho vissuto quello che lui vive nel film, abbiamo ugualmente molto in comune. O meglio, Denni ha qualcosa in comune con il bambino che sono stato. Penso che la storia di Denni abbia a che fare con tutte le storie di molte e molti di noi, perché tutte e tutti, in un modo o nell’altro, abbiamo avuto a che fare con modelli di mascolinità tossica. Dentro o fuori casa. Parlo di quei modelli che oggi possiamo e dobbiamo mettere in discussione.

Io e il Secco racconta la possibilità di una vita diversa per le donne vittime di violenza

La sceneggiatura è firmata anche da Michela Straniero. Una donna entra meglio nelle pieghe, e nella piaga, della violenza sulle donne?

Crescendo ho capito che purtroppo le donne hanno a che fare con molte situazioni negative, a volte terribili, che raramente noi uomini siamo costretti ad affrontare. Ma quello che mi ha spinto a lavorare con Michela, per questo film come per i cortometraggi precedenti, è stato il suo talento e la sua grande sensibilità.

Di nuovo la violenza e il degrado delle periferie metropolitane, ma senza una morale. Oggi la denuncia passa meglio con le immagini nude e dirette? O semplicemente la morale non interessa più?

Semplicemente non sono interessato alla morale, perché non penso di avere nulla da insegnare, specie a chi vive queste situazioni difficili. Però credo che il cinema abbia lo straordinario potere di far sentire meno soli e di portare delle carezze. Quindi più che di morale mi piace pensare che abbiamo cercato di raccontare delle possibilità. La possibilità di una vita diversa per le donne che vivono quello che vive Maria, la mamma del protagonista, e la possibilità per i ragazzi come Denni e Secco di diventare uomini diversi rispetto a quelli che li hanno cresciuti.

A differenza di Gionatan, che era ambientato nella periferia Romana, per Io e il Secco l’ambientazione scelta è quella della provincia del centro Italia. Per la precisione siamo a Ravenna, anche se alcune scene sono state girate a Cesenatico. Abbiamo voluto raccontare quella provincia dove la nebbia abbraccia i campi coltivati, dove d’inverno le folle di persone in vacanza lasciano le spiagge e si portano via i colori. Trovo questi luoghi suggestivi e affascinanti.

Ho usato come mappa le fotografie di Luigi Ghirri, in cui l’ordinario diventa straordinario, e sembra che sia lì, alla portata di tutti. Sono luoghi in cui sembra quasi che “la vera vita è altrove”. Ma non è così. Basta avvicinarsi all’umanità per capire che anche in questi luoghi ci sono delle avventure da raccontare.

"Denni con la i".
“Denni con la i”

L’equilibrio delicato della scuola di cinema

Si è formato al Centro Sperimentale di Cinematografia. Cosa pensa del cambiamento del CdA e del Comitato Scientifico voluto dal nuovo Governo? E del fatto che il Ministero dell’Università entri nella gestione di una scuola di alta formazione che non fa parte delle università?

Devo molto di quello che so di questo mestiere all’esperienza al Centro Sperimentale. Frequentare lì il corso di regia per me è stato bellissimo. Comprendo la preoccupazione degli studenti, perché credo che la scuola di cinema sia un equilibrio delicato e credo basti poco per rovinarlo. Sicuramente il CSC non è un’università e ha esigenze molto diverse. Mi auguro che il nuovo CdA ne tenga conto.

Castellitto nuovo preside del CSC fa ben sperare?

Penso che sia molto positivo che ci sia ancora una persona di cinema, con un profilo come il suo, a ricoprire questo ruolo. Credo sia ancora presto per capire come sarà la sua gestione.

John Galliano: alla Festa del Cinema di Roma un biopic sull’ascesa e il declino dello stilista

Alla Festa del cinema di Roma arriva anche il biopic su John Galliano High & Low – John Galliano diretto dal regista premio Oscar Kevin MacDonald. Tanti sguardi diversi per un Galliano che diventa espediente per leggere in un mondo tanto scintillante quanto opaco: quello dell’alta moda. Il Galliano di Kevin MacDonald è gentile, creativo, anaffettivo, narcisista, bisognoso di affetto, amato, usato, geniale, infantile, sognatore, autolesionista, privo di empatia, manipolativo.

La storia di un Paradiso perduto e di un angelo che brucia le sue ali con il suo stesso fuoco; di uno dei più influenti fashion designer al mondo cancellato dall’industria della moda. Ma il biopic del regista britannico è anche una testimonianza del settore dopo Dior, dopo Coco, dopo i grandi creatori e le grandi creatrici che realizzavano sogni per pochi; della moda dell’alta finanza, di gente come Bernard Arnault, per i quali non ci sono artisti ma fattori di produzione.

Interessanti i primi piani che inquadrano un Galliano che parla guardando dritto nella telecamera, a volte confuso, apparentemente spaesato, che fissa ogni singolo spettatore per convincerlo che vuole essere perdonato, ma dove emerge il distacco tra uno sguardo privo di empatia e le parole di scuse appena accennate. Più giustificazioni che scuse.

La forza del lavoro di MacDonald è nell’aprire tante porte senza chiuderne alcuna, nel lasciar raccontare versioni contrastanti a personaggi famosi lasciando fluire gli interventi, mostrando un John vittima dei suoi genitori, che fagocita il suo assistente Steven che per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa, amato da modelle che sfileranno per lui gratis quando non aveva soldi, che distrugge hotel, che si lamenta del troppo lavoro. Il maggior pregio del lavoro del regista britannico è aver firmato una regia scevra da moralismo. Alla Festa del Cinema di Roma abbiamo incontrato il regista premio Oscar Kevin MacDonald.

 High and low – John Galliano sul red carpet della Festa del Cinema di Roma
High and low – John Galliano sul red carpet della Festa del Cinema di Roma

«Ho voluto fare un film che non avesse un finale, ma tante questioni lasciate aperte, sulle quali si può discutere e avere opinioni diverse»

Dopo il licenziamento da Dior, nessuno ha più parlato di Galliano. È come se fosse morto. Non ha pensato che fosse un’operazione rischiosa riesumare un ‘dio ucciso’ per le sue dichiarazioni razziste e antisemite?

Pericoloso per chi?

Per lei…

(Ride, ndr) Non credo che ci fosse un rischio per me. Credo che sia una storia affascinante e non ancora completamente raccontata. Una delle prime storie di cancel culture. Ora sono più frequenti, ma lui sicuramente è stato uno dei primi ad essere beccato in video in una situazione scomoda e a essere additato per quello che aveva fatto. Per me è solo una storia affascinante dove si possono avere tante opinioni diverse. Non mi sento di avere un’opinione definita. Ritengo siano tutte situazioni non ancora chiarite. Per questo ho voluto fare un film che non avesse un finale, ma tante questioni lasciate aperte, sulle quali si può discutere e avere opinioni diverse.

«Lo scopo fondamentale di John Galliano è quello di essere capito, di far capire la sua personalità e, soprattutto, dare speranza a chi ha problemi di dipendenza»

Galliano dice di aver bisogno di essere perdonato, ma per lui potrebbe essere solo un’operazione di marketing. Si è mai sentito manipolato da Galliano?

Quando un regista fa un film su una celebrità, deve sempre tener presente il fatto che le persone famose hanno uno scopo per far quel film. Ma ce l’hai anche tu. Io avevo ben chiaro il mio scopo. Posso garantirti che questo è un film assolutamente indipendente: non ci sono soldi messi dal mondo della moda e non è un film per riabilitare John in qualche modo. John voleva veramente potersi spiegare. Lui vuole essere perdonato. È una cosa che lo renderebbe immensamente felice. Non vorrebbe che nel momento della sua morte, il suo necrologio iniziasse con: John Galliano l’artista controverso per aver fatto questa cosa.

Il suo scopo fondamentale è quello di essere capito, di far capire la sua personalità e, soprattutto, dare speranza a chi ha problemi di dipendenza. Perché questo film parla anche delle dipendenze. Il suo desiderio è mostrare che si può cambiare e si può riuscire a trasformare le situazioni. Ti garantisco che non c’è un film, in questo Festival, che parli di persone famose, più indipendente di questo.
Le persone famose che appaiono nel mio film, Naomi Campbell, Kate Moss, Penelope Cruz, Charlize Theron, loro sì hanno corso un rischio ad apparire nel mio film, ma lo hanno fatto per amore, per affetto nei confronti di John.

«Quello che ho trovato interessantissimo sono state le reazioni estremamente diverse del pubblico. È quello che volevo creare con questo film»

Quali sono state le reazioni del pubblico?

Il mio è un film che nasce con l’idea di promuovere un dibattito. Questa è la quarta o quinta volta che lo porto in un Festival e quello che ho trovato interessantissimo sono state le reazioni estremamente diverse del pubblico. È quello che volevo creare con questo film. Non avevo nessuna intenzione di dare una soluzione chiusa: bianco o nero. È un film dal quale deve nascere un dibattito sul personaggio. Se questa persona deve essere perdonata, in che modo e, soprattutto, se e come possiamo o dobbiamo distinguere l’arte dall’artista.

Galliano ha esagerato, anche se era una persona con disturbi e vittima di dipendenze. Perché tanto moralismo, tanta ostilità? Il mondo della moda non è etico. Il problema sono state le idee di Galliano o il fatto che, rese pubbliche con un video, facevano perdere denaro alla maison Dior?

Il mondo della moda è un mondo molto particolare, che in realtà spesso, e soprattutto in passato, non si è fatto molte domande e ha lasciato correre molte cose che nel mondo, in generale, non verrebbero tollerate. Però bisogna dire che non si dovrebbe essere giudicati per i peggiori cinque minuti della nostra vita. Lui ha avuto la sfortuna di essere registrato in un video. Se la cosa fosse successa magari cinque anni prima, sarebbe finita da qualche parte in un trafiletto di giornale, e nessuno se la sarebbe poi ricordata.

Kevin MacDonald e John Galliano
Kevin MacDonald e John Galliano

«Per John Galliano fare questo film è stato un atto coraggioso. Non aveva bisogno di me per riabilitarsi. Perché tirare fuori di nuovo questi discorsi?»

Alla fine del film c’è una frase della giornalista del Washington Post Robin Givhan: «Non sarebbe stato perdonato se non avesse avuto buone relazioni nel mondo della moda e se non fosse stato un uomo bianco». Quella frase è la sua firma?

L’ho messa nel film perché sono parzialmente d’accordo e perché credo rappresenti l’opinione di molti. Ma non c’è una verità oggettiva. Personalmente, posso dire che a me John Galliano piace come persona e credo che nella vita non abbia altro che la moda. È bravo nel suo lavoro. Per cui mi chiedo: perché bisognerebbe impedirgli di fare lo stilista? Prima discutevamo sulle motivazioni che ha una persona per fare un film come questo. Per John fare questo film è stato un atto coraggioso. Non aveva bisogno di me per riabilitarsi. Perché tirare fuori di nuovo questi discorsi? Ha voluto fare questo film per esplorare la propria personalità e dare speranza alle persone con delle dipendenze. La speranza che ci può essere di nuovo un futuro.

Possiamo almeno considerarlo un narcisista?

Io l’ho incontrato e ho creato un legame con lui. È una persona molto complicata. Ma chi non ha mai fatto qualcosa di sbagliato? Quelli del video sono probabilmente cinque minuti importanti, ma non è tutto quello che è. Sicuramente è narcisista, sono d’accordo con te, anche sul fatto che non è una persona che piace facilmente. Ma non voglio che nessuno dica che sono stato manipolato. Questo è probabilmente il film più indipendente di questo Festival.

Il regista Kevin MacDonald
Il regista Kevin MacDonald

Zucchero Sugar Fornaciari: ritratto (struggente) di un mito alla Festa del Cinema di Roma

Zucchero “Sugar” Fornaciari, “il Cappellaio Matto dalla voce di cuoio”, come lo definì la stampa inglese, arriva per la prima volta al cinema il 23,24,25 ottobre con il film documentario Zucchero – Sugar Fornaciari, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma.

Il film documentario, con la regia di Valentina Zanella e Giangiacomo De Stefano, racconta lo straordinario artista attraverso le sue parole e quelle di colleghi e amici come Bono, Sting, Brian May, Paul Young, Andrea Bocelli, Salmo, Francesco Guccini, Francesco De Gregori e Roberto Baggio. Un viaggio dell’anima che, grazie a immagini provenienti dagli archivi privati di Zucchero e dal “World Wild Tour”, il suo ultimo e trionfale tour mondiale, va oltre il ritratto di un musicista di successo, arrivando fin dentro i dubbi e le fragilità dell’uomo.

Zucchero al Roma Film Fest (foto Emanuele Manco/Luca Dammico)

Il film “Zucchero Sugar Fornaciari” racconta l’uomo oltre l’artista

Quello di Valentina Zanella e Giangiacomo De Stefano non è una star, non è un divo. È un uomo schivo, timido, semplice, umile. Un uomo della Bassa che, dietro al soprannome con cui è famoso nel mondo, resta Adelmo, nato a Roncocesi, una frazione del comune di Reggio Emilia. Che viene da un altro luogo, un’altra solitudine, dove è tornato quando è stato male. E da dove ha gridato il suo Miserere per annunciare la sua rinascita.

Un artista immenso che parla con delicatezza della depressione che lo colpì dopo la separazione: «Leggevo Bukowski perché stava peggio di me», «ero così depresso che solo l’idea di stare meglio mi spaventava». Che scrive Miserere «perché mi sentivo misero».

Un gigante che protegge ancora il piccolo Sugar, come lo soprannominò la maestra della scuola a Forte dei Marmi, che custodiva nello zaino un vasetto di plastica con un po’ di terra emiliana raccolta prima del trasferimento con la famiglia: «In classe lo tiravo fuori, lo aprivo e lo annusavo».

Alla Festa del cinema di Roma, Zucchero è arrivato con i registi Valentina Zanella e Giangiacomo De Stefano che ci raccontano la genesi di un progetto che è un viaggio nella memoria di tanti sparsi nei cinque continenti.

Zucchero sul red carpet della Festa del Cinema di Roma (foto Luca Dammico, dal sito)

Chi ha dato il via a questo progetto?

 Valentina: Noi. Sapevamo che altre produzioni si erano proposte. Noi abbiamo presentato un progetto scritto in tre, insieme a Federico Fava, sceneggiatore che ha firmato opere come Il Signore delle Formiche diretto da Gianni Amelio. Abbiamo così dato un taglio cinematografico a questo lavoro. È stato accettato e siamo partiti.

«Il film “Zucchero – Sugar Fornaciari” non è l’apologia di Zucchero, ma un racconto onesto, nel quale lui si rispecchia. Non volevamo un documentario celebrativo, ma che mostrasse il percorso di un grandissimo cantante»

Zucchero quanto vi ha lasciato carta bianca e quanto ha partecipato alla scrittura o alla direzione?

Giangiacomo: Nei documentari che io e Valentina abbiamo scritto insieme abbiamo sempre cercato di lavorare con i personaggi di cui parlavamo. Per noi è importante confrontarci con loro senza ingannarli. È chiaro che con Zucchero c’è stato un rapporto di fiducia, di confronto, su quello che noi raccontavamo. Ma è il nostro punto di vista, la nostra regia, che ha indirizzato il prodotto. Zucchero ha avuto modo di vedere gli step di questo lavoro. E, a volte, anche di rompere certi schemi. All’inizio può esserci stata una certa diffidenza, che piano piano è stata infranta.

“Zucchero – Sugar Fornaciari” non è l’apologia di Zucchero, ma un racconto onesto, nel quale lui si ritrova e si rispecchia. Non volevamo un documentario celebrativo, ma che mostrasse il percorso di un grandissimo cantante dal respiro internazionale. Lo facciamo raccontando le radici della sua musica, le ragioni che sono alla base della sua poetica, le sue origini emiliane. Il suo mescolare tutto con gli echi della musica americana che arrivavano negli anni Sessanta, quando era un ragazzo giovanissimo. Da quel mix Zucchero ha creato il suo stile e il suo modo di fare musica, che lo ha portato a girare tutto il mondo. Questo è “Zucchero – Sugar Fornaciari”.

Valentina: Zucchero ci ha dato molto materiale  proveniente dai suoi archivi. La carta bianca c’è stata e non è scontata.

«C’è un’energia che lui ha e che comunica agli altri, che arriva sottopelle. Non c’è calcolo, non recita. Credo che sia questo il misticismo di cui parlano»

C’è un aggettivo che ricorre spesso nel docufilm ed è “mistico”. Avete percepito questo misticismo di cui parlano in molti?

Valentina: Lo dicono Sting, Bono e altri. Quando abbiamo iniziato a conoscerlo, mi sono venute in mente le parole di Leonard Cohen: «C’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra la luce».  Nelle sue ferite abbiamo percepito di avere davanti qualcuno che ha davvero uno “spirito divino”. Lo definirei così. Era tangibile.

Noi non abbiamo fatto un prodotto che dovesse supportare un disco o altro: lo abbiamo sì seguito mentre stava facendo la tournée, ma solo per conoscerlo. Per vedere il tipo di fama che ha in giro per il mondo e per fare delle registrazioni. Poi ci siamo resi conto che, sia che fossimo a Roma, a New York, a Barcellona o in Norvegia, lui riceve sempre lo stesso tipo di affetto. C’è un’energia che lui ha e che comunica agli altri, che arriva sottopelle. Non c’è calcolo, non recita. Credo che sia questo il misticismo di cui parlano.

Nell’ultima parte affrontate il tema della depressione. È un tabù che sempre più persone famose tendono ad infrangere, ma qui non c’è spettacolarizzazione. Viene usata più come un punto di partenza per raccontare una rinascita. Da chi è partita l’idea?

Giangiacomo: Zucchero ne aveva già parlato in altre occasioni. Vorrei però soffermarmi su un aspetto importante che accomuna molti artisti: partono sempre da una sofferenza. Questo, secondo me, vale nella musica come in ogni forma d’arte. Bisogna avere la necessità di esprimersi e questo, di solito, nasce da un disagio.

Anni fa, un personaggio americano di un mio progetto, usò la locuzione “dysfunctional celebration of life”: celebrazione disfunzionale della vita. Anche in Zucchero c’è quel disallineamento interiore, quella diversità che, nel progredire, ti stimola la necessità di creare. Ma tutto parte da una sofferenza, altrimenti è un’arte istituzionale. I grandi artisti partono sempre da qualcosa che rompe uno schema, personale o all’interno della società.

Penso che tante persone si rivedano in quello che vedono, perché tutti noi attraversiamo delle fasi di cambiamento. Credo che Zucchero abbia sofferto durante quelle fasi di transizione, che sono quelle che fanno soffrire ognuno di noi. È il cambiamento che ci genera sofferenza, il perdere qualcosa. E il cercare quel qualcosa ti dà l’urgenza di creare. E questo, secondo me, in Zucchero c’è tantissimo.

«Zucchero ha toccato il cuore di milioni di italiani. Non è un’operazione nostalgia, è il racconto di qualcosa che ha un valore, restituito attraverso uno strumento contemporaneo»

I docufilm, i biopic, stanno avendo molto successo. Portano sullo schermo l’aspetto umano delle grandi star che fanno parte della storia della musica. C’è il bisogno di cristallizzare delle storie al passato?

Giangiacomo: Penso di no. Penso che il documentario piaccia perché è un genere che permette di essere estremamente creativi. Il documentario ha finalmente la ribalta che merita perché lo puoi fare in tutte le maniere. Noi lavoriamo sull’immaginario. Quando si guarda il passato, dobbiamo risvegliare qualcosa che ci riporta a un tempo che non deve essere per forza nostalgico, ma che ci risveglia delle sensazioni, delle immagini, dei ricordi.

C’è un punto del documentario che è emblematico del nostro punto di vista: quando parte Rispetto tu vieni catapultato nella metà degli anni Ottanta. Il nostro immaginario ci riporta indietro nel tempo, anche se tu non sei un suo fan. Ma quella musica fa comunque parte del tuo trascorso. Zucchero ha toccato il cuore di milioni di italiani. Non è un’operazione nostalgia, è il racconto di qualcosa che ha un valore, restituito attraverso uno strumento contemporaneo. Di documentari se ne vedono tanti perché è un linguaggio che funziona.

Cosa avete amato di Zucchero conoscendolo privatamente? Cosa portate con voi di questa esperienza?

 Valentina: La magia, l’umanità. La simpatia. E anche il suo misticismo. Zucchero è sempre stato molto riservato, di lui si è sempre saputo poco. Mi ha colpito il grande amore e affetto che grandi star hanno per lui. Rapporti iniziati per lavoro, che poi sono diventati delle grandi amicizie. Per lui Bono è un amico, Sting è un amico, Brian May è un amico. Questa è una cosa che noi non dimenticheremo.

 Alessandro: Aver avuto la possibilità di entrare nella vita di un personaggio così importante. Per me è una necessità quella di entrare nelle storie. E se a me rimane qualcosa, è proprio di essere potuto entrare in un mondo così importante e di aver potuto dare il mio punto di vista. Per me è un privilegio dal punto di vista personale: raccontare dall’interno è la mia urgenza. Da qui nasce la mia creatività. E questo documentario, secondo me, arriva in un momento in cui c’era un’urgenza anche nella vita di Zucchero.

Diabolik – Chi sei? L’ultimo film della trilogia sul ladro più famoso di sempre arriva alla Festa del Cinema di Roma

Alla Festa del Cinema di Roma 2023 arriva anche Diabolik – Chi sei?, terzo e ultimo capitolo della trilogia sul famoso ladro delle sorelle Giussani, diretta dai Manetti Bros. Nel cast Giacomo Gianniotti, Miriam Leone, Valerio Mastandrea e Monica Bellucci.
Diabolik – Chi sei? arriva in sala il 30 novembre distribuito da 01 Distribution. Alla presentazione del film Monica Bellucci, Miriam Leone e i Manetti Bros.

Il cast di Diabolik chi sei
Il cast di Diabolik – Chi sei?

Il terzo capitolo della trilogia si immerge negli anni ’70

Nel terzo episodio della trilogia, non cambia solo il periodo storico, dagli anni ’60 a gli anni ’70, ma Ginko non è più il nemico di Diabolik, non ne è più ossessionato. Anzi, i due si ritrovano dallo stesso lato a combattere una banda di ladri che terrorizza Clerville.

«A lavoro finito possiamo ammettere che è una trilogia – dichiarano i Manetti Bros – Fare dei film è diverso dal realizzare un fumetto seriale, quindi abbiamo cercato di dare a ogni film un’impronta diversa. In ciascuno abbiamo raccontato Diabolik attraverso gli occhi di qualcun altro. Nel primo film attraverso gli occhi di Eva Kant, poi tramite quelli di Ginko, suo avversario e, nel terzo, la narrazione procede dal punto di vista di Diabolik. Il primo film è stato anche un esercizio sullo stile, sulla moda, sul ricostruire l’ambiente degli anni ‘60. Era la prima volta che facevamo un film in costume. Ci siamo divertiti e appassionati, ma è stato un lavoro impegnativo. In questo terzo film siamo negli anni ‘70, con tante musiche funk. Abbiamo giocato su un terreno più nostro, più personale dei Manetti. Siamo degli appassionati della cultura anni ’70, che sia cinema, musica o fumetti. Quel periodo che è a cavallo tra la fine degli anni ‘60 e gli anni ’70 ha cambiato la società e anche noi».

Valerio Mastandrea diabolik chi sei
Valerio Mastandrea

Diabolik – Chi sei? e il ruolo della donna

Il terzo capitolo della saga ha una particolarità: è un film molto femminile, dove Eva e Altea mettono in ombra Diabolik e Ginko. «In realtà – rispondono i Manetti Bros – questa storia è stata scritta dalle sorelle Giussani. Noi seguiamo solo il loro percorso. Analizzando la loro scrittura, ci siamo resi conto che c’è qualcosa nei personaggi di Eva e Altea che le accomuna. Ci troviamo di fronte a quattro personaggi: Ginko, Diabolik, Eva e Altea. Sono super intelligenti, hanno un carattere fortissimo. Una cosa che li distingue: Eva e Altea sanno porre l’intelligenza e la forza al servizio del sentimento, Diabolik e Ginko no.

L’apporto dato da Eva e Altea in questo film, a livello simbolico, forse rappresenta l’insegnamento che cercano di dare ai loro uomini senza riuscirci. Diabolik, infatti, non riesce mai a essere compassionevole. Ginko, d’altro canto, non riesce mai a essere innamorato come Altea vorrebbe, perché pensa: «Io sono un poliziotto e non posso amare una duchessa». Qui crediamo sia racchiusa la forza femminile dei personaggi delle Giussani. «Un mondo governato da uomini – concludono i Manetti Bros – stiamo vedendo dove ci sta portando. Per questo sarebbe bello che donne come Eva e Altea, donne che nel mondo vero ci sono, uscissero di più allo scoperto».

Film non particolarmente convincente. Lungo il prologo, bella la fotografia e la scelta del bianco e nero. Più che Diabolik – Chi sei? forse il titolo avrebbe dovuto essere “Diabolik – Dove sei?”. Troppo tempo trascorre senza il famoso ladro: in fondo è lui che il pubblico vuole vedere.

Il film WIDOW CLICQUOT alla Festa del Cinema di Roma, la storia della donna che inventò lo champagne

Con Widow Clicquot la storia della Grande Dame della Champagne arriva alla Festa del cinema di Roma. A presentarlo il regista Thomas Napper, Haley Bennett (Barbe-Nicole Cliquot), Tom Sturridge (François Clicquot), Anson Boom, i produttori Joe Wright e Christina Weiss Lurie.

Widow Clicquot è la donna che creò lo Champagne. La storia sconosciuta di un grande marchio che molti di noi pensavano fosse legato a qualche azienda familiare francese. Il racconto di una delle tante donne che la storia si è dimenticata di tramandare.

Widow Clicquot al Festa del Cinema di Roma 2023, ph. Emanuele Manco
Widow Clicquot alla Festa del Cinema di Roma 2023, ph. Emanuele Manco

Widow Clicquot: una donna contemporanea in un film d’epoca

È il 1805, Barbe-Nicole Ponsardin, a soli 27 anni, rimane vedova del marito, François Clicquot. Erano stati innamorati, nonostante il loro fosse stato un matrimonio combinato, e insieme avevano lavorato per sviluppare metodi innovativi nella produzione vinicola dell’azienda di famiglia. Nonostante l’ostracismo del codice napoleonico alle attività imprenditoriali femminili, l’invadenza del suocero, l’ostilità di uomini potenti e l’embargo napoleonico dei prodotti francesi, Barbe-Nicole si ostina a proseguire l’attività, dalla coltivazione alla vendita. E crea il Veuve Clicquot, lo champagne più famoso del mondo.

Widow Cliquot è un film ben riuscito, con un’ottima fotografia, che risente fortemente della presenza di Joe Wright. La storia di una donna contemporanea racchiusa in un film d’epoca. Un film dallo svolgimento non lineare che procede su due binari paralleli: presente e passato, creazione di un futuro impero e vita privata. Madre, moglie, e imprenditrice. Una donna moderna che finalmente esce dal fondo di una cantina, dove era stata dimenticata, e ci ricorda che il metodo con cui si crea uno champagne che abbia bollicine piccole e non grandi “come occhi di rospi” è l’ennesimo contributo femminile a un mondo saccheggiato dagli uomini.

Le parole del regista Thomas Napper

Come racconta il regista Thomas Napper, la storia si svolge tra il 1789 e i primi anni del Ottocento. «Quando ho letto la sceneggiatura – esordisce Napper – mi ha stupito vedere personaggi dell’epoca così moderni. Mi colpì la scena, durante la prima notte di nozze, quando lui le propone che il loro matrimonio sia di qualità, di viverlo insieme, lavorare insieme e condividere pienamente le loro vite. Quella non sarebbe una sorpresa, se non fosse che siamo nel 1789. È una frase che ha in sé tutta l’idea della rivoluzione francese, i principi dell’uguaglianza che si andavano diffondendo nella Francia all’epoca. E, a partire da quel punto, loro evolvono: lavorano insieme, fanno squadra, lui le insegna e lei apprende più rapidamente di quanto lui forse vorrebbe. Sono moglie e marito che costruiscono insieme i loro futuro».

Il regista Thomas Napper
Il regista Thomas Napper, ph. Emanuele Manco

«Il film – continua Thomas Napper – mostra il viaggio intrapreso da una donna, la sua autorealizzazione che non avviene tramite un uomo. È incredibilmente moderna se pensiamo all’epoca, alla letteratura di autrici come Emily Bronte o Jane Austen. Le donne all’epoca cosa potevano fare, se non sposarsi presto, fare figli e abbellire la vita del marito? Non potevano possedere delle proprietà, conti in banca o gestire imprese. Il film vede il mondo attraverso gli occhi di una donna, che prende il possesso dei vigneti, li gestisce, comincia a interessarsi di contabilità, a capire come dovesse essere il sapore di un vino».

Il film è uno sguardo su una donna non solo che assume un simile ruolo, ma che eccelle in quel ruolo. E, soprattutto, mostra il duro lavoro e gli sforzi fatti per diventare la grande imprenditrice e innovatrice che è stata. Nonostante tutto. E che rifiuta di risposarsi per non perdere il diritto, garantito eccezionalmente dal codice napoleonico alle vedove, di essere imprenditrici dei beni ereditati dal marito.

LA SCARPETTA NYC: UN’ESPERIENZA IN STILE DOLCE VITA NEL CENTRO DI ROMA

La scarpetta, quella cosa che nessuno farebbe mai fuori casa, dà il nome a uno dei ristoranti newyorkesi più glamour. E quella striscia tipica che la scarpetta lascia sul piatto, si accompagna al logo di esclusivi hotel di lusso.

Dal primo maggio di quest’anno, anche Roma ha la sua Scarpetta. Dopo New York, Miami, Londra, Doha, Philadelphia, Las Vegas, Tokyo e negli Hamptons, il ristorante del gruppo alberghiero statunitense LDV Hospitality ha aperto all’interno del nuovo InterContinental Rome Ambasciatori Palace.

Un cuore italiano che batte a New York e la cui eco torna dove tutto è nato, nella via Veneto della Dolce Vita, nel centro di Roma. Un sogno che si realizza, quello del CEO di LDV – La Dolce Vita – John Meadow. Lontane origini italiane, amante della nostra cucina, Meadow non si è lasciato sfuggire l’apertura nel nuovo hotel a 5 stelle di fronte all’ambasciata americana di Roma, nel palazzo che nacque all’inizio del secolo scorso per ospitare gli ambasciatori in visita nella capitale.

Interior of Scarpetta NYC Restaurant
Interior of Scarpetta NYC Restaurant

Scarpetta NYC: un progetto unico nel cuore di Roma

Grazie al lavoro dell’interior designer Anton Cristell, Meadow ha potuto realizzare a Roma un progetto unico. Scarpetta NYC e Charlie’s: il ristorante al piano terra e il rooftop bar all’ultimo piano del prestigioso InterContinental, per un pre e un post dinner che nessun altro Scarpetta al mondo può vantare.

Un progetto azzardato quello del fondatore della LDV: la cucina italiana è sempre andata da oriente verso occidente e mai era accaduto il contrario. Ma Meadow ha una filosofia vincente: «Secondo me – ripete sempre – in cucina bisogna lasciar fare agli italiani. Non bisogna pasticciare le loro ricette. Agli italiani va dato atto che con tre ingredienti fanno una ricetta che diventa famosa in tutto il mondo: come la carbonara, la cacio e pepe, l’amatriciana».

Nemico della cucina “Italian American style” sostiene che: «Dove si può lavorare per mettere insieme il meglio dei due mondi, è sull’atmosfera dei ristoranti, portando in Italia la dining experience statunitense».

L’autentica cucina italiana incontra la sofisticata dining experience statunitense

Nasce così Scarpetta NYC, un felice connubio tra la cucina italiana e l’atmosfera sofisticata e intima dei ristoranti newyorkesi degli anni Sessanta dal design essenziale. Luci soffuse e musica di sottofondo per un ristorante, quello dell’InterContinental Rome Ambasciatori Palace, che si tinge del bordeaux, del blu cobalto e del verde bottiglia del velluto dei divani, profondi e avvolgenti, in grado di creare un’atmosfera intima e conviviale. E poi il legno dei tavoli, da due o più grandi, ma quadrati, «perché sono più social rispetto a quelli rettangolari», sottolinea Pia Carminelli, direttrice marketing dell’InterContinental Rome Ambasciatori Palace. Un posto chic ma familiare, dove l’ospite a fine pasto, e a fine pasta, può fare la sua scarpetta: per assaporare un pasto fino all’ultimo assaggio.

Un locale unico che fonde steakhouse newyorkese e cucina homemade italiana: sicuramente una nota che mancava nella ristorazione della Città Eterna.

Le proposte culinarie di Scarpetta NYC: antipasti e primi

A Roma, il vessillo della cucina italiana è tenuto alto dallo chef Riccardo Ioanna, aiutato da un valido team e dal Restaurant Manager Samuel De Luca.

Prima tentazione irrinunciabile: il pane. Rigorosamente fatto in casa, nella filosofia di Meadow il pane deve essere buono, altrimenti svilisce la salsa.

Tra gli antipasti il pregiato Wagyu giapponese in smoke, che arriva su un piatto di sale rosa dell’Himalaya coperto da una boule di vetro: avvolto nel fumo, regala una presentazione di sicuro effetto. Ma anche polenta accompagnata da fricassea di funghi tartufati o il cocktail di mazzancolle con salsa speziata alla newyorkese.

Tra i primi piatti, con pasta fatta a mano, troviamo i famosissimi Spaghetti Scarpetta con tre soli ingredienti: pomodoro, basilico e parmigiano. Due piatti di pasta ripiena: i cappellacci cacio e pepe e gli agnolotti short rib e midollo.

Carni, vino e dessert tra Italia e gli States

Le carni sono quelle che noi italiani cerchiamo negli States e che arrivano dall’altro ristorante della famiglia LDV, American Cut: la NY Strip Steak, il Pastrami Rib-Eye marinato con paprica, cumino, aglio, zucchero. E ancora il Porterhouse e il Tomahawk, una costata servita con l’osso e nappata al burro, da abbinare a contorni tipicamente americani.

Una raffinatezza firmata Scarpetta NYC? Accompagnare le carni con il vino rosso La dolce vita: un Chianti aretino, ottantacinque percento Sangiovese quindici percento Merlot. È così chiamato in onore della holding che detiene il marchio Scarpetta, e la cui etichetta richiama la famosa striscia del pane sul pomodoro.

Infine una nota dolce. Ardua è la scelta tra l’immancabile New York cheesecake e una super coppa di Cracker Jack Sundae, irriverente proposta di gelato alla vaniglia sormontato da panna montata, popcorn caramellati, caramello salato e cialda alle arachidi. Servita con un Barolo chinato Pio Cesare, si rivela un’accoppiata improbabile dai risvolti inaspettati: il profumo inebriante dell’assenzio e il retrogusto della miscela di genziana, rabarbaro, cardamomo, cannella, esalta la vaniglia del gelato e il salato del caramello.

Anita’s e Charlie’s: un degno dopocena che unisce Dolce Vita e atmosfera jazz

Per terminare l’esperienza di una cena da Scarpetta NYC, Anita’s è il bar al piano terra. In omaggio ad Anita Ekberg de La Dolce Vita, la sua peculiarità è la forma stondata, sempre all’insegna della convivialità.

All’ultimo piano, invece, Charlie’s fonde la Roma degli anni Sessanta con i jazz club dell’East Harlem. Appena le porte dell’ascensore si aprono su una galleria di vecchie foto in bianco e nero della Dolce Vita, e si accede al rooftop. Il termine breathtaking rende l’idea della sensazione: sembra di camminare verso il cielo che sovrasta la città. Aperto tutto l’anno, è il posto giusto per un cocktail, una serata in discoteca o per festeggiare in compagnia un’occasione speciale.

L’InterContinental accoglie una selezionata clientela nordamericana. Loro sono i primi a prenotare almeno una cena da Scarpetta NYC, prima di scoprire le innumerevoli proposte gastronomiche della capitale. Il motivo? È un consiglio di John Meadow in persona: «In Italia la cucina non può essere che migliore di quella che io faccio a New York. Perché hanno gli ingredienti freschi e perché l’executive chef e il team sono tutti italiani. Chi meglio di loro può fare questo lavoro?».

Rooftop Charlie's
Rooftop Charlie’s

Belgrado: viaggio alla scoperta di una città dal carattere autentico

Pensi a una breve fuga autunnale? A circa un’ora e mezza dall’Italia, con voli giornalieri da Roma e Milano e collegamenti diretti Air Serbia con i maggiori aeroporti italiani, Belgrado (“la città bianca” in serbo) è una città tutta da scoprire appena fuori dall’Unione Europea. Unica capitale europea all’incrocio tra due fiumi, la Sava e il Danubio, crocevia di importanti rotte commerciali, fondata dai Celti nel VII sec a.C., la Singidunum romana, divenuta Belgrado in epoca bizantina, è stata conquistata da oltre quaranta eserciti e distrutta trentasei volte. Sempre ricostruita, è il simbolo del carattere determinato e volitivo del popolo serbo.

Belgrado, la "città bianca" a un'ora e mezza di volo dall'Italia.
Belgrado, la “città bianca” a un’ora e mezza di volo dall’Italia

Camminare per le strade di Stari Grad (la Città Vecchia) è un viaggio tra influenze diverse. Ricostruita nei secoli, ha mantenuto ogni volta gli edifici sopravvissuti alle distruzioni, trasformandosi in una sorta di coperta patchwork, calda come l’accoglienza dei suoi abitanti. Palazzi liberty si alternano a edifici degli anni del comunismo, residenze in stile austroungarico, palazzi che recano ancora le ferite della guerra degli ultimi anni Novanta. Una caotica armonia che spazia dalla fortezza di Belgrado, di epoca romana, ai moderni grattacieli del Water Front.

Cosa vedere a Belgrado

La “Barcellona dell’Est“, come viene a volte chiamata Belgrado, è una meta visitabile in un fine settimana e offre uno stile europeo a prezzi contenuti. Una città dove le sue anime, romana, bizantina, austriaca, ungherese, bulgara, turca, gitana, si trasformano non solo in stili architettonici, ma in sapori, ricette, ristoranti, musiche. Con le sue chiatte sul fiume Sava trasformate in locali notturni, le centinaia di bar, kafana e ristoranti, la capitale serba è una destinazione perfetta per un viaggio fuori dalle solite rotte. Ecco alcune mete da non perdere.

1. Fortezza di Belgrado e Parco Kalemegdan

Polmone verde della città, la spettacolare fortezza di Kalemegdan, che domina la confluenza dei fiumi Danubio e Sava, si trova alla fine della strada pedonale Knez Mihajlova. Di epoca romana, è una delle più grandi fortezze d’Europa. Il parco Kalemegdan, che la circonda, è il più grande di Belgrado. La vista dal bastione occidentale, affacciato sui fiumi Danubio e Sava, è un’esperienza da provare. All’ingresso di questo spazio verde troviamo il Dino Park Jura Avantura, un parco divertimenti con dinosauri a grandezza reale per bambini dai 3 anni in su.

Fortezza di Kalemegdan, Belgrado.
Fortezza di Kalemegdan
2. Cattedrale di San Sava

La Cattedrale di San Sava è una delle più grandi e imponenti chiese ortodosse del mondo. È dedicata a San Sava, fondatore della Chiesa ortodossa serba e santo patrono della nazione. La cattedrale sorge nel luogo dove, nel 1594, i Turchi ottomani bruciarono le reliquie di San Sava, in segno di repressione della rivolta serba.

La costruzione della cattedrale iniziò nel 1935 e non è ancora terminata: fu interrotta più volte a causa delle guerre e delle difficoltà economiche. La navata centrale è sormontata da una cupola alta 70 metri e con un diametro di 40, che domina il panorama della città. Il progetto originale dell’architetto Aleksandar Deroko prevedeva una cupola centrale alta 96 metri e quattro cupole minori alte 60 metri ciascuna. Ha una capacità di 10mila persone ed è considerata il simbolo della fede del popolo serbo. Il mosaico della cupola centrale, che rappresenta l’ascensione di Cristo, è il più grande del mondo, con una superficie di 1.230 metri quadrati e un peso di 40 tonnellate.

Vista sul fiume della cattedrale di Belgrado.
Cattedrale di Belgrado
3. Museo Nikola Tesla

Belgrado ha il museo più grande d’Europa dedicato a un solo personaggio: il Museo Nikola Tesla, che celebra la vita e le opere del geniale inventore serbo. Qui, all’interno di una sfera d’oro, sono conservate le sue ceneri. Il museo espone poi oltre 160mila documenti, 5.700 oggetti personali, 1.200 libri e riviste e mille planimetrie relative alle sue scoperte.

Belgrado: guida ai ristoranti e alla cucina locale

Belgrado offre svariati ristoranti, bar e caffetterie adatti a tutti i gusti.

1. Skadarlija

È il quartiere bohémien di Belgrado, la sua Montmartre. Collega Piazza della Repubblica con il mercato di Skadarlija. La caratteristica via Skadarska lastricata di ciottoli, ospita alcuni dei ristoranti e caffè più famosi di Belgrado, gallerie d’arte, negozi di antiquariato e souvenir e band che suonano canzoni popolari. I prezzi sono più alti che altrove, ma molto lontani da quelli della Montmartre parigina. La sua anima bohémien è ancora in luoghi come la vecchia taverna I tre cappelli, aperta dal 1864.

Piazza della Repubblica, Belgrado.
Piazza della Repubblica
2. Zavičaj Skadarlija

All’ingresso del quartiere bohémien si trova il ristorante Zavičaj Skadarlija. Conosciuto per i piatti alla griglia, il ristorante è noto per le sue famose specialità della cucina serba, tra cui il boemski ćevap e altre specialità della casa che sono uniche nel ristorante. Imperdibile la loro torta alle noci. Una nota caratteristica del locale sono i musicisti, che con il loro repertorio colorato contribuiscono a creare l’atmosfera tipica dei vecchi ristoranti serbi. Un’esperienza unica, a patto che amiate mangiare con chitarre, violini e trombe nelle orecchie.

Ristorante Zavičaj Skadarlija.
Ristorante Zavičaj Skadarlija
3. Lorenzo&Kakalamba

«Tesoro, posso prometterti una cosa: non avrai mai fame!». Da questa dichiarazione di un innamorato alla sua dolce metà, nasce Lorenzo&Kakalamba: il più divertente, originale, creativo, pazzo ristorante che si possa trovare a Belgrado… ma anche in Europa. Lorenzo&Kakalamba è famoso per i suoi arredi eclettici: statue di personaggi dei cartoon e di film di fantascienza, lampade dai corpi umani, riproduzioni eccentriche di quadri famosi. Lorenzo&Kakalamba offre proposte culinarie che sono un connubio di cucina toscana e serba. I piatti, preparati con ingredienti freschi e di qualità, comprendono pasta fatta in casa, gulasch, sarma, prosciutto affumicato e formaggio kajmak. L’ottima carta dei vini spazia dalle etichette italiane a quelle serbe. Sicuramente il ristorante più instagrammabile della città.

Interni del ristorante Lorenzo&Kakalamba.
Interni del ristorante Lorenzo&Kakalamba
4. Vuk

Vicino alla strada principale dell’area pedonale, in una posizione defilata, Vuk è un ristorante classico dove gustare in pace i piatti della tradizione culinaria serba. Formaggio grigliato, prebranac, a base di fagioli bianchi e cipolla, zuppa di manzo e zuppa di ortica. Imperdibile l’arrosto di vitello: la carne è morbida e succosa ed è servita con deliziose patate al forno. Anche le salsicce sono eccellenti, così come kebab, hamburger, spiedini, cotolette, grucce, setole, fegato arrotolato… Se a fine pasto avete ancora un po’ di spazio per un dolce speciale, il loro schnenokle è tra i migliori di Belgrado. Se non siete amanti della meringa, potete optare per torte al cioccolato o per la tufahija e la torta secca, dolci della tradizione che Vuk custodisce per clienti alla ricerca dei vecchi sapori.

5. Ambar

Tra la lunga fila di ristoranti e locali aperti fino a tarda notte, lungo le rive del fiume Sava, il ristorante Ambar è un locale moderno e raffinato che propone una cucina balcanica rivisitata in chiave contemporanea. Premiato con il Travellers’ Choice 2023 di Tripadvisor, Ambar offre diverse opzioni di menu, tra cui una formula all you can eat che permette di assaggiare varie portate di carne, verdure, salse e dolci tipici. Il ristorante ha anche una vasta scelta di rakija, la grappa balcanica, e di vini locali e internazionali.

I piatti da ordinare nelle kafane (trattorie tipiche) o nei ristoranti di Belgrado

Fondamentale è avere tempo: pranzi e cene, nei ristoranti di Belgrado, non sono “fast”. Non ci si va per “mangiare qualcosa”; sono momenti di socialità, occasioni per ritrovarsi, stare insieme, festeggiare anche solo il fatto di essere ancora vivi (qui le cicatrici della guerra degli anni Novanta sono ancora aperte, anche se nessuno ama parlarne).

La cucina serba è un tripudio di carni, formaggi e verdure: ćevapi (polpette di carne dalla forma simile a una salsiccia),  pljeskavica (mega hamburger), ražnjići (spiedini di carne), klobasica (una salsiccia speziata e leggermente piccante), kajmak (formaggio a pasta morbida piuttosto grasso, simile al mascarpone) e ajvar (salsa a base di peperoni grigliati).

Tagliere con prodotti tipici.
Tagliere con prodotti tipici

Tra le verdure, non mancano mai peperoni (paprike) e patate (krompir). I peperoni grigliati ripieni di kajmak e fritti sono l’antipasto che non può mancare, come un tagliere di affettati misti (di solito affumicati) e formaggi locali. Da assaggiare la čorba, minestra di carne o verdure, o il prebranac, minestra di fagioli bianchi e cipolle al forno al quale si possono aggiungere un paio di klobasice. Nella cucina serba la carne non manca mai, ma anche i vegetariani non rimarranno delusi. Nel cestino del pane proja, pane a base di farina di mais, e pita sono una tentazione irrinunciabile.

Gli eventi da non perdere a Belgrado

1. Belgrado Beer Festival

Il Belgrado Beer Fest in Serbia, nato nel 2003, è il più grande festival della birra dell’Europa sud-orientale. Si svolge ad agosto ed è l’evento più visitato di Belgrado. Qui gli amanti della birra possono provare più di 500 birre locali, regionali e internazionali. Le più grandi aziende birrarie nazionali sono sponsor dell’evento, quindi l’ingresso è gratuito.

Belgrado Beer Festival.
Belgrado Beer Festival
2. Festival del Cinema italo-serbo

Giunto quest’anno alla sua nona edizione, il Festival del Cinema italo-serbo è uno dei più prestigiosi eventi cinematografici della regione. Fondato e diretto da Gabriella Carlucci, il festival è il punto d’incontro per autori, produttori, distributori, giornalisti e attori e mira a promuovere le produzioni cinematografiche della Serbia in Italia e viceversa. Tra i numerosi ospiti durante le varie edizioni, Johnny Depp, Andrea Iervolino, Paolo Genovese, Edoardo Leo, Matteo Rovere, Goran Paskaljevic, Andrea Bosca.

3. Settimana Internazionale dell’Architettura di Belgrado – BINA

Il BINA è un evento annuale nato per promuovere l’architettura serba. BINA coinvolge architetti, urbanisti, designer, artisti, istituzioni ed è una kermesse per sostenere la cooperazione internazionale nel mondo dell’architettura. Il tema dell’edizione del 2023 è stato “Architettura e Turismo”, focalizzato sul rapporto tra l’architettura e il turismo sostenibile. È una delle manifestazioni culturali più importanti e seguite in Serbia e in tutta la regione balcanica.

4. Belgrado vista dai fiumi

Belgrado è diversa se vista dai fiumi. A bordo dei battelli si possono ammirare gli otto ponti della città, i sei sulla Sava e i due sul Danubio, la fortezza Kalemegdan, la torre Nebojša, la bellissima città di Zemun, la confluenza dei due fiumi, gli edifici del Water Front, la torre del millennio, l’ex palazzo del comitato centrale del partito comunista jugoslavo. Le minicrociere migliori, della durata di un’ora e mezza, sono quelle al tramonto e di sera.

Ponti sul fiume Sava, Belgrado.
Ponti sul fiume Sava, Belgrado

Paesaggi in continua evoluzione, acqua scintillante tutt’intorno, il sole all’orizzonte o le stelle che brillano in un cielo che si scioglie nell’acqua. La brezza dei fiumi. La città con le sue luci che fa da sfondo a un’esperienza dove il tempo si ferma. E navigare nelle pittoresche acque della Sava e del Danubio diventa un’occasione per una gita romantica e rilassante con la propria dolce metà, ma anche un’idea diversa per organizzare una festa che di certo non si farà dimenticare.

5. Vojvodina

Se si decide di restare un giorno in più, una scampagnata nella Vojvodina è un modo per passare una giornata fuori dal tempo. Per chi ama la natura, i paesaggi della Vojvodina sono eccezionali. Qui si trovano anche una quindicina di monasteri. Sono attivi e possono essere visitati. Tra questi Krusedol, Sisatovac e Novo Hopovo.

Monastero di Krusedol, fuori Belgrado
Il monastero di Krusedol

Dopo il pranzo in una salas (agriturismi dove gustare cucina tradizionale con ingredienti a km zero), la cittadina di Novi Sad merita una visita. Costruita sulle rive del Danubio, Novi Sad è la capitale della provincia della Vojvodina. Nella sua storia, si sono susseguiti numerosi popoli: Celti, Romani, Unni, Bizantini, Ottomani e Serbi. Da vedere la fortezza di Petrovaradin, che domina il Danubio e ospita ogni luglio il famoso festival musicale Exit, il centro storico con i suoi edifici in stile barocco e neoclassico, le numerose chiese e i monasteri ortodossi e cattolici.

Novi Sad è anche una città vivace e cosmopolita, con molti caffè, bar, ristoranti e locali notturni dove si può gustare la cucina locale e ascoltare la musica tradizionale o moderna. Nell’ampia zona pedonale si trovano la chiesa cattolica del Santo Nome di Maria (Mária Neve katolikus templom) in stile neogotico, e la cattedrale ortodossa di San Giorgio. Il suo ritmo calmo e tranquillo, completamente diverso da quello di Belgrado, la rende una perfetta “città della domenica”.

Novi Sad, capitale della provincia della Vojvodina.
Novi Sad, capitale della provincia della Vojvodina

Un’esperienza gastronomica da non perdere, se si visita Novi Sad, è Salas 137, un ristorante tradizionale situato a Cenej, in Vojvodina. Salas 137 offre piatti tipici della cucina serba, come il gulasch, il sarma, il prosciutto affumicato e il formaggio kajmak. È immerso in un parco con alberi secolari e animali da fattoria. Una particolarità? Nella zona del maneggio c’è un cavallo che si mette in posa per i selfie facendo smorfie. Ma fatelo senza farvi vedere dai proprietari.

5 ROOFTOP BAR DA SCOPRIRE NEGLI HOTEL DI ROMA

Roma dei Cesari e dei Papi, delle ville, delle chiese, dei fori e delle fontane. Giornate miti e tramonti unici fanno da sfondo a ineguagliabili aperitivi su terrazze, fruibili fino all’inizio della stagione invernale. A volte persino oltre. Sono i rooftop bar della Capitale: godono di viste ogni volta diverse, offrono una ricercata selezione di cocktail e vantano un’atmosfera elegante per una serata unica all’ultimo piano, spesso di un hotel a 5 stelle.

Ma cosa rende speciale un rooftop bar? E poi: barman o mixologist? Si può pasteggiare con un cocktail al posto del vino? Perché andiamo a mangiare da uno chef ma molto spesso non sappiamo da chi andiamo a bere? Le risposte arrivano da chi, dietro al bancone, interpreta ogni sera un ruolo reso famoso da film come Cocktail. A chi sa che, se il suo cliente è James Bond, il Martini lo prende «agitato, non mescolato».

A Roma i rooftop bar sanno regalare viste mozzafiato.
Nella Città Eterna i rooftop bar sanno regalare viste mozzafiato

1. ORGANICS SKY GARDEN – ALEPH ROME HOTEL, Hilton: Lorenzo Politano

All’Organics Sky Garden dell’Aleph Rome Hotel, mixology e green sono le parola d’ordine. Incastonato nel cuore di quella Roma che per Sordi era un salotto da attraversare in punta di piedi, tra Piazza Barberini e Via Veneto, l’Organics Sky Garden ti permette di “lasciar giù” marciapiedi brulicanti di turisti e strade trafficate per fuggire nel cielo dei tetti della capitale. Cullati dal chiacchiericcio della cascata che si riversa nella piscina dell’hotel, è il luogo ideale per sorseggiare le creazioni di Lorenzo Politano.

Niente vista su monumenti o cupole, ma l’abbraccio di una Roma intima, dove i colori cambiano al trascorrere delle ore, mentre il rooftop diventa un luogo senza tempo per i romani e non. È all’Organics dell’Aleph Rome Hotel che Politano, dopo aver peregrinato per alberghi di lusso ai quattro angoli del globo, firma l’innovativa lista dei signature cocktail.

Cocktail servito presso Organics Sky Garden.
Cocktail servito presso Organics Sky Garden

Drink dall’equilibrio perfetto, bevande bio con ingredienti di origine naturale. Coloratissimi nell’aspetto e nel nome: come il Green, a base di Rum Flor De Cana 12y, Mediterranean Shrub, menta, lime e Organics Bitter Lemon. O il Purple con Malfy Gin, Campari, Red Fruit & Roses Cordial e Organics Purple Berry. Non mancano i grandi classici con un twist contemporaneo: una sezione è dedicata al cocktail più iconico di tutti i tempi, il Martini, declinato in varie versioni.

Imperdibile poi la Negroni Session. Ad accompagnare i cocktail, piatti della tradizione italiana reinterpretati in chiave contemporanea dallo chef Carmine Buonanno: sapori mediterranei, materie prime d’eccellenza abbinate al pragmatismo anglosassone e al food design più creativo. Creazioni che spaziano dalla caponata di melanzane con polpo all’insalata, al maritozzo, pastrami, cetriolini, senape e cavolo viola. E ancora, dai bucatini alla amatriciana con guacamole croccante alla frittatina di pasta con provola affumicata.

2. GIARDINO BAR all’Hotel Eden: Stefano Briganti

Al Giardino Bar, presso l’hotel Eden, Stefano Briganti è il bartender che ha racchiuso il rosa caldo di un tramonto romano nel suo cocktail La Grande Bellezza. Ma nessun protagonismo: «La mia firma la trova nel gruppo» mi risponde sorridendo timidamente. «Il Giardino è aperto 365 giorni l’anno, dalla mattina fino all’una di notte. Non posso esserci sempre e quindi abbiamo creato una squadra. Il nostro segreto è fare gruppo, dalla creazione dei cocktail al servizio, alla cura del cliente».

Nonostante Stefano Briganti venga dalla vecchia scuola (come lui stesso afferma), al Giardino le nuove tendenze non spaventano. Anzi.

Stefano Briganti, bartender al Giardino Bar, hotel Eden di Roma.
Stefano Briganti, bartender al Giardino Bar, hotel Eden

«In Italia, per tradizione, la cena si accompagna con un buon vino. Nonostante ciò, tra i grandi barman nel mondo la maggior parte sono italiani e servono cocktail. Ci sono cocktail storici creati in Italia, come il Bellini e il Negroni, e cocktail creati all’estero fatti con distillati italiani. Il Giardino dell’hotel Eden ha una clientela internazionale e, soprattutto gli americani, sono abituati ai cocktail.

Curiosamente è più facile abbinare il famoso apericena a un cocktail che a un vino. I cibi sfiziosi sono spesso grassi, come il fritto, e uno Spritz, un Negroni o un Americano “sgrassano”. Ad esempio il Moscow Mule, con Vodka, lime e Ginger Beer, si sposa bene con il sushi. Il Negroni va benissimo con i formaggi, oppure con un Americano, più leggero. Il cocktail è più impegnativo di un bicchiere di vino per il suo grado alcolico, ma un tagliere si può provare con un Hugo, con Saint Germaine, soda, liquore di sambuco e un po’ di menta, che esalta i sapori del formaggio.

Per la nostra riapertura nel 2017, abbiamo creato una nostra signature, La Grande Bellezza. Quando Sorrentino è venuto a trovarci lo ha apprezzato: Rosè Martini, Vermouth, infuso al tamarindo, Tequila, Mezcal e Bitter al mandarino».

Un motivo per tornare al Giardino dell’hotel Eden? L’ambiente elegante, sobrio e riservato, l’accoglienza gentile e discreta e… un Genovese. Mentre il cielo si tinge della veloce fantasmagoria di colori del tramonto, questo rooftop bar offre l’atmosfera ideale per un cocktail, nato per assecondare i gusti di un cliente, rivisitazione del Margarita. Tequila, succo di lime, sciroppo d’agave e un mix di tè freddo Earl Grey e English Breakfast al bergamotto. Una creazione imperdibile, degustabile solo al Giardino dell’hotel Eden.

3. SEEN BY OLIVIER all’Anantara Palazzo Naiadi

Da un’ampia terrazza che spazia sull’antica piazza dell’Esedra, con la sua fontana delle Naiadi, e sulla basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, ricavata da Michelangelo in un’ala delle antiche terme di Diocleziano, il Seen by Olivier domina il rooftop dell’Anantara Palazzo Naiadi.

Rooftop Anantara Palazzo Naiadi, Roma
Rooftop Anantara Palazzo Naiadi, Roma

Ad accogliere gli ospiti, fin dall’apertura delle porte dell’ascensore, una squadra giovane e affiatata. Dietro al bancone, Gianluca e Alan amano essere sia bartender che mixologist. «Tutto dipende dal tipo di miscelazione. Parliamo di mixology quando i cocktail nascono in laboratorio; al banco shakeriamo sciroppi, infusioni e coloranti naturali. In Italia la cucina fa da padrona, ma a Roma abbiamo il 16º miglior bar al mondo. È la capitale italiana della miscelazione e supera anche Milano.

L’accostamento cibo – cocktail è ancora lontano, ma uno spaghetto con le vongole non va bene solo con un bianco. Posso abbinare una carne grigliata con un Vermouth o un Campari. È una questione culturale. Ci sono accoppiate tecnicamente giuste che non rientrano nei nostri canoni.

I clienti del Seen cercano la qualità delle nostre materie prime. La clientela statunitense ama i nostri cocktail fatti con Mezcal e Tequila Casamigos (marchio fondato da George Clooney), prodotti solo da agavi Blue Weber, coltivate per sette-nove anni».

Al Seen, Alan e Gianluca mi hanno coccolata con Sashimi new style abbinato al drink Orange Dreams. La freschezza e la morbida consistenza della ricciola hiramasa arrivano al palato, esaltate dalla salsa ponzu agrumata. Un trionfo di sapori: dalle note amarognole della misticanza, condita con dressing al miso, alla croccantezza della cipolla e del ravanello. L’Orange Dreams (Aperol, cordiale homemade al mandarino e sciroppo al pepe bianco), per me rivisitato con tequila al posto del mezcal, con le sue note amarognole, fruttate e speziate, sgrassa la ricciola esaltandola.

Celestiale il Banana & Peanuts pairing con signature Le Roi (cognac, albume d’uovo pastorizzato, cordiale homemade con passion fruit, sciroppo di vino Gewurztraminer e infuso al tè roibos). L’aroma caldo delle banane mature del pan di banana, servito appena tiepido, si scontra armoniosamente con il gelato al cocco. La sua morbidezza si arricchisce poi grazie all’incontro con il crumble del gelato. Il salato della cialda di cioccolato croccante alle arachidi vivacizza la dolcezza del mou. Un tripudio di sapori che fluiscono uno nell’altro come leggere onde di un mare caraibico.

4. ALTO all’Hotel The First Music: Ettore De Salvia

Al 6º piano del boutique hotel The First Music, Alto è un rooftop bar a picco sul Tevere, la cui vista spazia dall’Altare della Patria alla cupola di San Pietro. «Un posto dove il dress-code è importante, ma dove vogliamo che il cliente torni perché si sente a casa» sottolinea Ettore De Salvia. Per Ettore essere chiamato barman o mixologist non è rilevante. «Il punto focale del nostro lavoro è il customer care: interagire con il cliente e far sì che viva un’esperienza».

Vista mozzafiato presso il rooftop bar Alto.
Vista mozzafiato presso il rooftop bar Alto

«In Italia abbiamo una grande cultura culinaria. Si va a “mangiare da”, a mangiare pesce, carne. Non fa ancora parte della nostra cultura uscire per andare a bere. Oppure si va a bere qualcosa per chiudere la serata. Ma stiamo cambiando. Far capire la differenza tra un bitter, un sour, un dolce, un agrodolce, un amaro, uno speziato vuol dire contribuire a educare il palato dei bevitori. Se un nostro cliente non trova qualcosa all’interno della drink list, cerchiamo di capire cosa gli piace bere e creiamo un drink personalizzato. Lavorare così richiede tempo ma crea valore.

Da Alto proponiamo di pasteggiare bevendo un’Asia (Vodka vanilla, miele Sichuan, limone, liquore spicy al lychee) o un’America del Sud (Zacapa, anacardi salati e fave di cacao, lime, liquore alle ciliegie, bitter al cioccolato).

Cocktail Asia, rooftop bar Alto.
Cocktail Asia, rooftop bar Alto

La nostra filosofia è quella di proporre plateau di crudo, ostriche, carpaccio di cernia, spigola e gambero rosso, accompagnati a Martini, Margarita o Daiquiri. Ma anche fritti espressi, Patanegra, bufala, burrate hanno i loro abbinamenti».

5. 47 CIRCUS GARDEN al 47 Boutique Hotel: Dario Campanella

Tra la chiesa di Santa Maria in Cosmedin, la Bocca della Verità e il tempio di Ercole Vincitore,  il 47 Circus Roof Garden è totalmente en plein air, per godere della Roma dei Cesari quasi tutto l’anno. Alloggiato al 6° piano del 47 Boutique Hotel, il cocktail bar offre una vista impareggiabile sui templi del Foro Boario, il Circo Massimo, il fiume Tevere e il teatro di Marcello.

Qui il restaurant manager e chef sommelier è Dario Campanella, che collabora con il barman Costel Banu. La loro cifra stilistica? Un menù stagionale con materie prime offerte dal territorio. «La nostra è una ricerca continua che comincia “in casa”» racconta Dario Campanella. «Erbe e spezie provengono dal nostro orto verticale o da fornitori locali, mentre sciroppi ed estratti per i cocktail a base di frutta fresca vengono preparati sul momento».

Il punto d’orgoglio del 47 Circus Garden è la selezione del gin corner: 52 etichette provenienti da tutto il mondo per creare cocktail e gin tonic personalizzati. La cantina vanta una selezione di vini italiani e stranieri, abbinati sapientemente dallo chef sommelier Dario Campanella: una wine list importante ed elegante con più di 200 referenze, principalmente nostrane (Sassicaia, Tignanello, Ornellaia e molti altri), con qualche incursione francese.

Per Campanella scegliere il cocktail adatto al cliente è come scegliere un profumo. «Per noi capire il cliente è il primo passo per fare un buon lavoro. All’arrivo del cliente si vedono subito il mood e il modo di fare (aperto, allegro, introverso, vivace): ci si fa quindi un’idea della sua personalità.

Poi aiuta l’olfatto. Sentire il suo profumo aiuta a capire i suoi gusti, se apprezza note floreali, fruttate, esotiche, secche. Questo ci fa instaurare un gioco basato sul feeling che poi si confermerà nel dialogo con il cliente. Si cerca di capire quali siano i suoi gusti partendo dalla base (distillato o vino che sia) in base ai criteri di acidità, note fruttate, dolcezza o secchezza, corposità o leggerezza. Si lavora inoltre sui concetti di consistenza, tannicità, note in uscita: more e tabacco per dirne alcuni. Infine, l’idea definitiva sarà data dalla scelta del cibo, perché è da qui che parte il wine pairing.

In occasione di un evento con il Gambero Rosso per Olio di Puglia on Tour, abbiamo creato un menù abbinato a una selezione di olii, ma anche a una buona lista dei vini. La nostra scelta per il dessert è stata azzardata ma apprezzata: un dolce a base di banana e cioccolato, affiancato dal drink White Sensation (Gin London dry, succo di limone, liquore lici, liquore ai fiori di sambuco), in modo che il sapore estremamente fresco e fruttato vada a contrastare la dolcezza».

Intervista a Jetsun Pema, la sorella del Dalai Lama a Venezia 80

Jetsun Pema, sorella del Dalai Lama, è arrivata alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia in occasione delle Giornate degli Autori. A Venezia Jetsun Pema, una delle più importanti figure femminili del nostro tempo, ha presentato in anteprima italiana il documentario Amala – La vita e la lotta della sorella del Dalai Lama. Ha poi partecipato all’evento Jetsun Pema, la madre del Tibet. Una vita per l’istruzione e la libertà organizzato da WIFTMI – Women in Film, Television & Media Italia, Isola Edipo, Fandango e dall’Unione Buddisti Italiani. All’incontro era presente anche l’attrice Kasia Smutniak e il regista del docufilm Geleck Palsang.
Jetsun Pema è stata a lungo presidente del Tibetan Children’s Villages, organizzazione di beneficenza per la cura e l’educazione di orfani, indigenti e bambini rifugiati dal Tibet con sede a Dharamsala, nell’India settentrionale.
In occasione dell’evento, abbiamo avuto il piacere di rivolgere alcune domande a colei che i bambini del Tibet chiamano affettuosamente Ama-La: Jetsunma Pema, la madre del Tibet.

Jetsun Pema  a Venezia 80
Jetsun Pema a Venezia 80

«L’istruzione che ho ricevuto dalle suore in queste scuole era davvero completa. Le loro priorità erano quelle di aiutare coloro che ci circondano e imparare ad essere compassionevoli»

Nata a Lahsa, in Tibet, nel 1950 si rifugia in India, dove ha studiato al Convento di St. Joseph e poi al Convento di Loreto. Com’è stato mantenere le sue radici in un contesto cattolico?

Ho studiato in queste due scuole perché le suore cattoliche forniscono un’ottima educazione. Anche se l’istruzione che impartiscono è basata sulla religione cattolica, ho trovato ci fosse una forte connessione tra questa e la mia religione e cultura. Durante quegli anni offrivano anche lezioni di tibetano due volte a settimana, facendoci sentire ancora più legati alla nostra identità.
L’istruzione che ho ricevuto dalle suore in queste scuole era davvero completa. Le loro priorità erano quelle di aiutare coloro che ci circondano e imparare ad essere compassionevoli, entrambi pensieri fortemente condivisi anche dalla religione buddhista.

«La lingua è alla base di qualsiasi cultura, in quanto gioca un ruolo fondamentale nella conservazione della propria formazione e identità»

È possibile conservare le proprie tradizioni se si è obbligati a usare una lingua diversa dalla propria?

La lingua è alla base di qualsiasi cultura, in quanto gioca un ruolo fondamentale nella conservazione della propria formazione e identità. Per questo motivo, nelle nostre scuole, troviamo sia molto importante istruire i bambini rifugiati del Tibet nella loro lingua. Se si insegna ai bambini usando la loro lingua madre, capiscono meglio e, di conseguenza, riescono a sfruttare pienamente tutto ciò che apprendono. Dopo la scuola elementare, infatti, tutte le materie, dalla matematica alle scienze sociali, vengono insegnate in lingua tibetana.

Alla morte di Mao, lei ha fatto parte della delegazione mandata da suo fratello in Tibet, dove è stata accolta come se lei fosse il Dalai Lama in persona. Nella sua cultura una donna ha diritto a così tanto rispetto?

Nella cultura tibetana, se una persona è imparentata con il Dalai Lama, guadagna automaticamente un certo livello di rispetto agli occhi di tutta la popolazione. Quando sono arrivata io, sua Santità era in esilio e gran parte della popolazione non lo vedeva da diverso tempo.
Nel 1981 andai anche in Cina, dove i contatti tra la popolazione tibetana in esilio e quella rimasta nella propria terra erano interrotti da lungo tempo. Vedermi, dopo tutti quegli anni, li ha resi molto felici perché ha dato loro la speranza che le cose, un giorno, potessero migliorare. Al nostro arrivo, tutti noi membri della delegazione fummo accolti con grande rispetto dal popolo cinese, perché eravamo inviati di Sua Santità. Per questo motivo non ho mai pensato che mi ritenessero inferiore in quanto donna; qualsiasi persona in contatto con il Dalai Lama era automaticamente rispettata da tutti.

Jetsun Pema e Kasia Smutniak  a Venezia 80
Jetsun Pema e Kasia Smutniak a Venezia 80

«Nella cultura tibetana le donne vengono considerate allo stesso livello degli uomini e vengono trattate con lo stesso rispetto»

Nel docufilm si vedono donne ricoprire posti di responsabilità. Qual è il ruolo della donna nella cultura tibetana?

Nella cultura tibetana le donne vengono considerate allo stesso livello degli uomini e vengono trattate con lo stesso rispetto. Crediamo che la figura materna in una casa sia la più importante, in quanto è lei che, nella maggior parte delle famiglie, ne gestisce l’organizzazione. Nelle famiglie nomadi, per esempio, mentre gli uomini si prendono cura dei pascoli, sono le donne a rimanere a casa per cucinare e accudire i figli. Anche nel caso dei commercianti che viaggiavano fino in Cina e in India, erano le donne ad avere il compito di restare a casa per gestire tutti gli affari di famiglia.
Oggi, in Tibet, si trovano donne che amministrano monasteri e che sono molto rispettate per la forte influenza religiosa che hanno sul nostro popolo.

Papa Francesco sta aprendo un importante dialogo con la Cina, mentre i Tibetani vengono strettamente controllati nella pratica della loro religione. Senza un supporto politico esterno così forte, come quello che lo Stato Vaticano dà ai cittadini cinesi di religione cattolica, crede davvero che tibetani potranno da soli fare qualcosa?

Qualsiasi cosa stia facendo Papa Francesco è gestita dal Vaticano e io non ne sono a conoscenza.
Nel nostro caso, Sua Santità il Dalai Lama ed io ci siamo impegnati per mantenerci in contatto il più possibile con il popolo tibetano. Il contesto, al momento, è molto complesso poiché il governo cinese sta mandando migliaia di bambini in scuole cinesi per imparare la loro lingua e cultura.
Nonostante ciò, noi siamo fiduciosi che la situazione possa migliorare e non ci arrenderemo mai.
Credo che, finché il mondo continuerà a parlare del Tibet, il Tibet continuerà a vivere. Facendo da portavoce a quelli che sono stati silenziati, continueremo a fare proprio questo: terremo viva la cultura e l’identità tibetane.

Jetsun Pema
Jetsun Pema

«La nostra speranza è che il governo cinese, vedendo l’approccio di Sua Santità, si sentirà spinto ad aprire un dialogo con lui»

La Cina ha problemi con Taiwan, Hong-Kong, la popolazione Uiguri. Il Tibet non sarà indipendente. Quale prospettiva vede realmente per il Tibet?

Il mondo in cui viviamo oggi non ha confini e, in una situazione del genere, Sua Santità ha avuto sempre un approccio molto pragmatico. Lui ha introdotto un metodo basato sulle vie di mezzo, così da poter trovare una soluzione che porti benefici sia al popolo tibetano sia a quello cinese.
Sono diversi anni che continuiamo a usare il dialogo come metodo e abbiamo fiducia nel fatto che, prima o poi, porterà a dei risultati. La nostra speranza è che il governo cinese, vedendo l’approccio di Sua Santità, si sentirà spinto ad aprire un dialogo con lui.

«Parlare del Tibet è già un qualcosa che aiuta enormemente il nostro Paese. È necessario che più persone si rendano conto della situazione in cui il mio popolo si trova»

Cosa può fare l’Occidente per il Tibet e cosa non sta facendo?

Come ho spiegato prima, parlare del Tibet è già un qualcosa che aiuta enormemente il nostro Paese. È necessario che più persone si rendano conto della situazione in cui il mio popolo si trova e di quello che sta provando a fare per migliorare le sue circostanze attuali. È fondamentale impegnarsi di più per diffondere questi dati al maggior numero di persone possibili. Il film sull’esilio dei tibetani, che i giovani nel nostro villaggio stanno realizzando, per esempio, dovrebbe essere sponsorizzato maggiormente in Occidente. È necessario sfruttare di più le tecnologie moderne che ci permettono di essere collegati a persone in ogni angolo del mondo, per poter aumentare la consapevolezza riguardo a questa situazione anche nel mondo occidentale.

In Ucraina i russi hanno rapito e deportato circa 13.400 bambini per trasformarli in russi. Il suo popolo conosce la pulizia etnica. Cosa la gente non comprende di questo dramma?

Sono diversi anni che il governo cinese sta forzando migliaia di bambini tibetani a spostarsi in scuole cinesi per insegnare loro la loro cultura e religione. Ritengo che questa sia una forma di “genocidio culturale,” proprio come quello che sta accadendo in Russia. Qualsiasi persona che apprezza l’avere diritto alla propria libertà, alla propria lingua e alla propria cultura, dovrebbe capire la gravità di questa situazione. Il popolo ucraino sarà un portavoce di grandissima importanza riguardo a questo argomento, sia in Europa che nel mondo Occidentale in generale. La nostra speranza è che presto il mondo capirà che questi eventi, al giorno d’oggi, non dovrebbero più accadere.

Locandina del docufilm Amala - La vita e la lotta della sorella del Dalai Lama
Locandina del docufilm Amala – La vita e la lotta della sorella del Dalai Lama

«La compassione va oltre la religione e questa è una delle lezioni più importanti che ci insegna il Buddha»

Il buddhismo è arrivato da noi attraverso libri e film. Anche chi non sa nulla della religione buddhista sa che esiste un uomo chiamato Dalai Lama. Qual è il messaggio che l’Occidente dovrebbe imparare dalla religione buddhista?

Sua Santità ha sempre diffuso messaggi di pace e compassione e ancora oggi parla spesso dell’unità tra le persone. Questa unità non cambia tra persone di religione o etnia diverse. La compassione va oltre la religione e questa è una delle lezioni più importanti che ci insegna il Buddha. In Europa, per esempio, ci sono centri buddhisti tibetani, così come ce ne sono altri indiani e di diversi altri Paesi. Penso che questo abbia ampliato la visione che abbiamo delle religioni e del mondo in generale. Un tempo, il Buddhismo non era accettato come religione di Stato, ma negli ultimi 20/30 anni è stato riconosciuto come tale.

Da questo punto di vista quali cambiamenti ha visto in Europa da quando arrivò la prima volta?

Rispetto a quando sono venuta in Europa le prime volte, ho notato che oggi ci sono molte più persone che intraprendono corsi sul buddhismo, il che dimostra che c’è un maggior interesse e una maggiore comprensione a riguardo.

«Ho sempre creduto che nascere essere umani sia una delle fortune più grandi che si possa avere. Ogni vita umana dovrebbe essere vissuta con uno scopo specifico»

Ognuno di noi ha una missione. In questa vita lei ha diretto il Tibetan Children’s Villages. Ma qual è la sua vera missione?

Ho sempre creduto che nascere essere umani sia una delle fortune più grandi che si possa avere.
Ogni vita umana dovrebbe essere vissuta con uno scopo specifico. Credo che uno dei più importanti sia quello di occuparsi dei bambini e della loro istruzione e di assistere i malati. Ci sono un’infinità di cose che si possono fare per aiutare coloro che ci stanno attorno e, ogni volta che ne facciamo una, mettiamo in atto uno dei pilastri fondamentali del buddhismo.

Per la religione buddhista le persone creano il loro Karma. Lei si è mai chiesta quale retribuzione
karmica subisce il popolo tibetano?

Nella religione buddhista crediamo che ognuno è padrone di sé stesso. Allo stesso tempo, però, crediamo nel Karma collettivo ed è per questo che la sofferenza è inevitabile. Nonostante ciò, il Karma collettivo è anche la legge che ci permetterà di accumulare Karma positivo tutti assieme, per poter un giorno migliorare le nostre condizioni di vita.

MAX3MIN – Very Short Film Festival: torna il cinema “impaziente” in 3 minuti

Dall’11 al 17 settembre a Milano torna la terza edizione MAX3MIN – Very Short Film Festival, 70 film da 37 Paesi per esplorare la cultura del corto: tre giorni di festa nel capoluogo lombardo tra cinema, musica, incontri e una programmazione in streaming gratuita in tutto il mondo. La manifestazione, dedicata ai cortometraggi di breve durata per un massimo di 3 minuti, sarà ospitata nei bellissimi spazi della Cineteca Milano MIC, a partire da venerdì 15 settembre.

Cos’è MAX3MIN – Very Short Film Festival


MAX3MIN è l’occasione per vedere video senza alcuna distinzione di genere, categoria, classificazione, etichetta. Anzi: più sono fluidi, sfuggenti, inclassificabili, più sono MAX3MIN. Documentari di battaglia politica, automobili parlanti, video-monologhi interiori, autobiografie collettive, ASMR d’autore, storie d’amore tra sistemi di videosorveglianza, reel collage, enigmi. Tra le animazioni: stop motion, sand animation, 3D, pastelli, vetrini da scienziato che diventano personaggi fantasy, memorie inclassificabili eppure vere. Cinquanta visioni per cinquecento generi: frullati e fatti a schegge, condensati in – regola tassativa – non più di 180 secondi.

Insieme ad essi, le scommesse di NEXT GEN, il concorso dedicato agli studenti delle scuole di cinema e delle accademie. 20 proposte da tutto il mondo, ideate da chi deciderà il nostro modo di raccontare le storie domani, e intanto muove i primi passi.

Absent Presence, Giorgia Ponticello, Jody Amadeo Hinterleitner
Absent Presence di Giorgia Ponticello, Jody Amadeo Hinterleitner

Elogio della brevità: il cinema che vuole dire tutto subito

Quello di MAX3MIN è cinema impaziente, che ha urgenza di dire tutto subito. Che non vuole lasciarti il tempo di meditare, che mira a provocare una reazione immediata: puntare, fuoco! Intollerante e insofferente alle categorie, alle limitazioni, ai comparti di genere. Rapido come un battito di ciglia, come un haiku, un reel di Instagram.

Dal formato stream-only pensato apposta per i tempi pandemici nel 2021, MAX3MIN ha testato il modello di festival ibrido “online + sala” nel 2022, (ri)scoprendo il piacere e l’eccitazione della proiezione dal vivo. Con una sua unicità: la forma brevissima, immersa nel buio della sala, diventa un attivatore sensoriale senza precedenti, un viaggio frenetico e iperstimolante in cui in pochi minuti si attraversano le storie del mondo.

Forte di questi esperimenti, MAX3MIN nel 2023 si espande ancora: online, dall’11 al 17 settembre, con l’intero programma disponibile sul sito; in presenza, nel weekend 15-17 settembre, nel contesto inedito e simbolico della Cineteca di Milano MIC. Tre giorni per un programma mai così ricco: insieme al concorso anche talks, masterclass, incontri con i registi, interviste, rendez-vous. Una formula più ricca e nel segno della multicanalità, attenta così a intercettare le tipologie di pubblico più disparate, da chi difende la resistenza del “buio in sala” alle fasce d’età più giovani e già abituate a fruire di contenuti super brevi, che hanno già dimostrato grande seguito nei confronti di MAX3MIN (nel 2022 il 37% del pubblico è da racchiudere nella fascia tra i 18 e 35 anni).


Tutto sempre all’insegna della brevità, del flash, del micro-racconto, lontano dagli schemi dei festival tradizionali, ma con in più il piacere dell’incontro fisico (e carnale) con chi il micro-cortometraggio lo ha scelto come forma espressiva.

Il concorso MAX3MIN 2023 è contro il buon senso

MAX3MIN cerca le storie di un mondo che si trasforma nel momento in cui esso sta cambiando sembianze. Lo scopo della sua ricerca è la sua natura: il cinema breve, rispetto al lungometraggio, ha il potere di essere istantaneo, di cogliere il cambiamento mentre accade. Perché non richiede per forza grandi risorse, perché i dispositivi mobili hanno “democratizzato” la produzione, perché Instagram Reels e TikTok ci hanno fatto scoprire che si può raccontare subito, qui ed ora, con niente in mano (quasi niente, chiaro: uno smartphone è la base).

E così nel 2023 il team di programmazione ha deciso di stringere ancora le maglie del concorso riducendo il numero dei selezionati da 100 a 50 e cercando in maniera stringente e categorica storie che colgono il presente e soprattutto vedono il futuro. Via le storie levigate, corrette, “carine”, “giuste”. I film ben fatti e confezionati: sì, ma solo se sono veri. Altrimenti meglio racconti sfocati, soggettive traballanti, frammenti rubati, sequenze sconnesse.

Storie che arrivano da Paesi fuori dallo scopo occidentale e patriarcale del sistema-cinema: quale storia ha bisogno di raccontare oggi un’animatrice ucraina di 24 anni? Che fiction fa un regista siriano con uno
smartphone e due amici che si prestano a fare gli attori? Quante immagini del reale potete vedere oggi dall’Uzbekistan? E dall’Iran? E dall’Italia? Contro il “buon senso”, che è il vero nemico del futuro: un cinema così breve che non ti dà il tempo di mentire, ti elettrizza prima che tu voglia staccargli la spina, ti dice la verità prima di diventare pura estetica, vetrina, (esercizio di) stile. Un cinema che vede il domani, ma solo se è onesto: magari sbagliato e imperfetto, ma autentico.

Fear, Ali Hegazy
Fear di Ali Hegazy

I corti dell’edizione 2023 di MAX3MIN avranno per soggetto i corpi, le relazioni, il rapporto con i social media, l’adolescenza e il passaggio all’età adulta, gli sguardi sulle città, ma anche riflessioni sulla contemporaneità che spaziano dalla geopolitica al cambiamento climatico. Video che incrociano i generi più disparati, dal documentario al videoclip, dall’animazione alla fiction. Un viaggio nel cinema corto e cortissimo che offre uno spaccato sul mondo in maniera istantanea.

Drumoh, Armando López Castañeda
Drumoh di Armando López Castañeda

Il programma del Festival a Milano

MAX3MIN trasporterà la magia del cinema in formato breve in città, con proiezioni, eventi e molto altro, per tre giorni di vera e propria festa. Oltre alle proiezioni dei cortometraggi in concorso, arricchiranno il programma gli incontri con gli ospiti e gli appuntamenti musicali. Il concerto/masterclass Un’anima divisa in trio (venerdì 15 ore 19.00) con Giovanni Venosta, Alberto N.A. Turra, Daniele Moretto e Sarah Stride, le playlist musicali a cura di Giraffe e un imperdibile appuntamento sabato 16 in serata, con il party di Discosizer con i live set di Psycho_Mind_Transmission, Dove Quiete e Walter Prati e djset a seguire.

Nella tre giorni milanese troveranno spazio anche incontri con i registi, talk tra cui un appuntamento realizzato con il media partner Rolling Stone Italia. Saranno inoltre esposte 3 opere per 3 artisti: Oliviero Fiorenzi, Paola Citterio e Lara Ilaria Braconi. La giuria del Concorso Internazionale di MAX3MIN 2023 sarà composta da: Giacomo Abbruzzese, regista e vincitore dell’Orso d’Argento alla Berlinale 2023 con il suo primo lungo Disco Boy; Martina Melilli, regista e artista multidisciplinare; Luca Pacilio, giornalista e curatore; Simone Angelini, fumettista e illustratore; Lara Casirati, festival strategist per la casa di distribuzione Varicoloured, nonché festival programmer e selezionatrice. Verranno assegnati anche il Premio del Pubblico, scelto dagli utenti tramite votazione on-line e in sala, e una menzione speciale attribuita dalla redazione di Rolling Stone Italia.

Locandina del Torna la terza edizione MAX3MIN - Very Short Film Festival
Locandina del Torna la terza edizione MAX3MIN – Very Short Film Festival

Tutti i film di MAX3MIN sono disponibili gratuitamente online su questo sito.

‘È il sesso bellezza!’ il podcast di Giulia Di Quilio rompe i tabù al Festival di Venezia 2023

È il sesso bellezza! è il podcast dell’attrice e performer burlesque Giulia Di Quilio presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e che dal 25 settembre sarà su tutte le piattaforme digitali.
Divina, Giulia Di Quilio è sbarcata allo spazio Hollywood Celebrities Lounge e su MANINTOWN chiacchieriamo di…sesso, bellezza!

«La vittimizzazione secondaria rafforza gli stereotipi e i pregiudizi che creano il problema culturale del nostro Paese»

Giulia, la nostra Presidentessa del Consiglio, donna, difende il compagno. «Io non leggo, in quelle parole: Se tu giri in minigonna ti possono violentare. Leggo più quello che mi diceva mia nonna: occhi aperti e testa sulle spalle. Purtroppo gli stupratori esistono». Ti esibisci seminuda in pose provocanti. Stai dicendo che sei disponibile ad essere aggredita perché gli stupratori, è un dato di fatto, esistono? Non avevi una nonna che ti dava consigli?

Beh, non mi rifarei ai consigli di mia nonna, una donna degli anni ’20 del Novecento, cresciuta rigidamente durante il fascismo e vissuta in un mondo patriarcale e maschilista: un sistema di valori che oggi, per fortuna, si va sgretolando, visto che stiamo assistendo all’inizio della fine del patriarcato. Mia nonna non avrebbe potuto capire o vivere le esperienze che noi donne di oggi affrontiamo: sono passati più di cento anni e l’essere umano è portato a evolvere invece che a involvere, grazie a Dio!

Fosse stato per mia nonna, una donna non sarebbe nemmeno potuta andare in giro con una maglietta a mezza manica. Io ho dovuto lavorare molto su me stessa in psicoanalisi per imparare a non giudicarmi e a sentirmi libera di esprimermi. Per questo trovo assurde queste dichiarazioni e che si debba ancora scaricare le responsabilità sulla vittima e non su chi mette in atto certe dinamiche.

La vittimizzazione secondaria rafforza gli stereotipi e i pregiudizi che creano il problema culturale del nostro Paese. Sottovalutare la gravità di alcuni ragionamenti concorre a creare la cosiddetta “cultura dello stupro”. “Te la sei cercata, sei così bella e sensuale che non posso non provarci con te…”: quante volte mi sono sentita rivolgere questa frase.

Giulia Di Quilio, foto di Gianluigi Di Napoli
Giulia Di Quilio a Venezia, foto di Gianluigi Di Napoli

«La grande latitante del nostro tempo è proprio l’educazione sessuale ed emotiva delle persone»

Perché è così difficile parlare di sesso?

Nella nostra cultura concetti come corpo, sessualità, nudità, identità di genere, sono ancora pervasi da un senso di disagio profondo: un insieme di vergogna e fastidio che affonda le radici nella paura e nell’ignoranza. Mi rendo conto che parlare di sesso, da donna, neutralizzando i sensi di colpa e la vergogna, è ancora raro. A volte è difficile anche per me quando le risatine e le battutine diventano grevi.

Mi batto affinché queste tematiche siano normali e quotidiane. O meglio: lo sono, ma c’è sempre qualcuno che li legge sotto una lente morbosa e malsana. Prima mi sentivo in colpa, oggi so che è dell’altra persona il disagio, perché davvero non c’è nulla di male. Anzi, penso che la grande latitante del nostro tempo sia proprio l’educazione sessuale ed emotiva delle persone.

Noi impariamo guardando. Per il sesso vige l’omertà. Quali sono le idee più sbagliate che circolano sulla sessualità, femminile e maschile?

Ce ne sono talmente tante che non saprei da dove cominciare. Ho sentito dire cose di ogni tipo. «Le femmine non guardano il porno, le femmine hanno meno voglia degli uomini di fare sesso, le donne non cercano la notte di sesso ma la relazione». Potrei andare avanti per ore. Ma non è che ai maschi vada meglio. Il machismo nuoce anche a loro: «I maschi vogliono solo scopare, i maschi non mostrano le emozioni, i maschi hanno paura di impegnarsi».

Siamo sempre nell’ambito dei pregiudizi, quindi dell’ignoranza. Io non penso che maschi e femmine siano uguali, ma nemmeno troppo diversi e spero, in cuor mio, che si possa superare il patriarcato. Ma non per farlo sostituire dal suo opposto, il matriarcato. L’obiettivo è arrivare a una parità di opportunità, di rispetto delle diversità e di emancipazione da diktat sociali imposti da un’astratta morale comune fuori dal tempo.

«Le fantasie sessuali nascono da esigenze psicologiche profonde che hanno urgenza di esprimersi, perché parlano di noi e dei nostri bisogni»

Cosa le presone vogliono sapere sul sesso? Cosa fanno più difficoltà a chiedere?

Mi colpisce che tante persone si chiedano se i loro gusti sessuali siano “normali”: alcuni mi scrivono dicendomi che tengono segreti i loro desideri, addirittura non ne parlano neppure in coppia per paura di essere giudicati. Lo stesso accade con certe fantasie, che vengono auto-censurate ancor prima di essere espresse. Eppure le fantasie sessuali nascono da esigenze psicologiche profonde, che hanno urgenza di esprimersi, perché parlano di noi e dei nostri bisogni, delle direzioni verso le quali si vorrebbe andare, sia in maniera individuale che in coppia.

Aprirsi all’altro nelle proprie fantasie porta a una maggiore intimità; farlo con noi stessi porta a una maggiore conoscenza di sé. Nel mondo delle fantasie tutto è possibile e questo spaventa, ma sublimarle attraverso il racconto è un modo per viverle e agirle diversamente che nella realtà: quindi hanno un potere taumaturgico. Reprimerle, invece, è il modo migliore per farle uscire fuori senza controllo, e si sa “il sonno della ragione genera mostri”: tutto quello che viene ricacciato nell’inconscio ci agisce nel modo peggiore.

Perché credi ci sia più vergogna a parlare di sesso che di violenze sessuali, raccontate invece nei loro aspetti raccapriccianti?

Credo sia a causa della nostra cultura cattolica: il dolore è più accettato e ritenuto giusto rispetto al piacere. Godere fa sentire in colpa, come se non stesse bene: “non si fa e non si dice”. Anche quando si parla di educazione sessuale, non si parla mai di piacere, ma di come prevenire le gravidanze o le malattie sessuali: va benissimo, ma non ci sofferma su come dare piacere o come riceverlo, come sintonizzarsi e comunicare con l’altr*.

Hai due figli in età scolare. L’ora di religione non si tocca, ma l’educazione sessuale nelle scuole è un
argomento divisivo. Cosa noti parlando con altre madri?

Sì è proprio così. Volevo esonerare i miei figli (gemelli di 7 anni) dall’ora di religione, ma sarebbero stati gli unici a non farla su più di 40 bambini (vanno in due sezioni diverse!). Avrebbero rischiato di venire discriminati al contrario: curioso, se si pensa che, teoricamente, abitiamo in uno stato laico.
Quando si parla di educazione sessuale, poi, le cose vanno anche peggio. Le poche volte che ne ho parlato con le altre mamme sono stata guardata malissimo. Mi sono sentita dire “Cosa??? Educazione sessuale ai bambini di questa età???”. Si tende a pensare che ai bambini debbano essere nascosti temi come sesso o morte, mentre loro sono sensibilissimi e capiscono tutto, soprattutto i non detti. Purtroppo, se sono gli stessi genitori ad essere irrisolti nella propria vita intima, come si può pensare che siano in grado di guidare i più piccoli?

Giulia Di Quilio, foto di Gianluigi Di Napoli
Giulia Di Quilio, foto di Gianluigi Di Napoli

«Dobbiamo parlare di sesso e relazioni, consenso e confini personali, incoraggiare e interrogare i nostri desideri»

Rocco Siffredi propone di chiudere i siti porno perché trasmettono il sesso in modo errato. È così?

Rocco Siffredi non ha capito che non abbiamo bisogno di criminalizzare il porno, che può essere un esempio per i ragazzi, ma non l’unico. Paradossalmente servirebbe migliorarlo e ampliarlo. Sono necessarie più narrazioni possibili per dare maggiore spazio alle fantasie, ai desideri, senza ridurre la sessualità a stereotipi, a corpi perfetti con orgasmi infallibili, in modo performativo e ginnico. Dobbiamo parlare di sesso e relazioni, consenso e confini personali, incoraggiare e interrogare i nostri desideri, ed allenarci a dare e ricevere piacere senza sensi di colpa. La repressione, la paura, i divieti, portano a commettere le peggiori azioni e continuano a veicolare il messaggio che il sesso sia qualcosa di sporco o negativo, allontanando la possibilità di trovare benessere nella propria sfera privata.

Nella prima serie del podcast i temi caldi sono stati il tradimento, il calo del desiderio, il sesso in gravidanza, i sogni erotici, la masturbazione, le insicurezze legate al corpo e i sex toys. Che feedback hai avuto?

Non immaginavo tanto clamore: il podcast ha superato i 100.000 download. Non mi aspettavo il Premio come Miglior podcast Benessere agli Italian Podcast Award! Abbiamo aperto la strada a tutti gli altri podcast sul sesso: mi sento una pioniera. Le puntate più apprezzate: “Fantasie”, “Sesso dopo i 40” e “Sante e Puttane”.

Gli argomenti che sono maggiormente dei tabù?

Dal punto di vista femminile, una delle puntate meno ascoltate è stata quella sul sesso in gravidanza. Basta guardare i social di Chiara Ferragni per farsi un’idea di cosa si pensa delle mamme: ogni volta che lei si mostra in maniera sexy, arriva qualcuno che le ricorda che “È una mamma… Dio Santo!”. È il cliché dal quale non riusciamo a liberarci di “Santa o Puttana”: quando diventi madre in Italia diventi Santa, quindi il sesso e la sessualità sono temi che ormai non ti appartengono più. E quando ne parli trovi sempre resistenze o malcelato fastidio.

Nell’immaginario collettivo omosessuali e bisex hanno meno tabù. È vero?

Non credo. Anche qui ci sono parecchi pregiudizi, per esempio la promiscuità: avere gusti sessuali diversi non significa per forza avere tanti partner.

Uno degli argomenti della seconda serie è il poliamore. Cosa hai scoperto?

Mi ha stupito scoprire che la monogamia non viene solo da un costrutto sociale, ma è una vera e propria esigenza evolutiva: non è la vergogna o la paura a tenerci in una relazione stabile. Quindi non è strano avere bisogno della coppia per evolvere e conoscere altro da sé, ma è altrettanto vero che la coppia non basta a soddisfare il bisogno di conoscenza ed esperienza che molti di noi avvertono. E sono sempre di più le persone che scelgono modelli alternativi di relazione. La risposta al solito: “Ma allora non ami veramente il tuo partner!”, sono andata a cercarla nell’antica Grecia…ed è davvero molto interessante quello che ho scoperto.

Cosa?

Lo trovate nel mio podcast!

Giulia Di Quilio, foto di Gianluigi Di Napoli
Giulia Di Quilio, foto di Gianluigi Di Napoli

Quanto voglia c’è di conoscere la propria sessualità, di vedere il sesso come un gioco?

L’interesse è forte e, credo, comune a tutti. Più difficile è trovare gli strumenti adatti per esplorare quell’interesse in cui il desiderio del gioco condiviso ricopre un ruolo fondamentale. A volte si ripiega su una fruizione meccanica del sesso, in cui l’ansia dell’orgasmo la fa da padrona. Purtroppo è difficile mettersi o rimettersi in gioco, emancipandosi da certi obblighi quasi rituali privi di una vera curiosità per sé stessi e per l’altro.

Un modo per trasformare una conversazione sul sesso da imbarazzante in divertente?

L’ironia e, soprattutto, l’autoironia aiutano. Il sarcasmo, che a volte scade nella volgarità goliardica, spesso nasconde dei seri blocchi psicologici e culturali. La si butta a ridere perché si ha paura di raccontarsi e di svelarsi sul serio. Parlare della propria sfera sessuale senza falsi pudori, al contrario, trasforma l’imbarazzo in verità. E la verità, con tutta la sua inafferrabile complessità, può essere molto erotica.

Una donna è sessualmente libera se fa sesso come un uomo?

Una donna è sessualmente libera quando fa ciò che vuole, ciò che la fa star bene, chiaramente nei limiti del consenso reciproco.

E quando un uomo è sessualmente libero?

Quando riesce a esprimersi davvero, senza ridursi alla caricatura di un archetipo, di un “voler essere”
imposto da modelli che, ormai, hanno perso senso e aderenza al reale.

Strani ma veri: la rivelazione ‘Miss Agata’ di Anna Elena Pepe a Venezia 80

Una dramedy per raccontare una tragedia e solo 20 minuti per farlo. È Miss Agata di Anna Elena Pepe e Sebastian Maulucci che, alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, ha vinto il Premio Starlight International Cinema Award per la migliore sceneggiatura (scritta da Anna Elena Pepe e Nicola Salerno). Un corto che arriva, colpisce e termina. Veloce, gentile, feroce.

Dopo essere stato proiettato allo Short Film Market del Clermont – Ferrans International Film Festival, al Golden State Film Festival di Los Angeles, al Queens Underground Black History Month Film Festival a NY, Miss Agata chiude a Venezia il suo percorso festivaliero.

Miss Agata è un corto che fonde due pregiudizi completamente diversi: quello verso gli stranieri e quello verso le donne che chiedono aiuto per essere protette. In realtà una donna strana, come Agata, e uno straniero come Nabil (Yahya Ceesay), sono molto più simili di quanto non sembri. Entrambi i termini, strano e straniero, provengono dal latino ‘extraneus’, che indica una persona diversa dal normale.

Agata è strana. È una donna fuggita da un compagno violento. «Le vittime di violenza domestica possono sviluppare un disturbo post traumatico da stress (DPTS), simile a quello dei reduci di guerra. Il trauma ripetuto può portare a distorcere la realtà, ad agire irrazionalmente e a non vedere più le opportunità che la vita può dare. Questo film è dedicato a tutte le vittime imperfette». Questa didascalia chiude il corto di Anna Elena Pepe che, con MANINTOWN, abbiamo incontrato a Venezia.

Anna Elena Pepe vincitrice del Premio Starlight International Cinema Award
Anna Elena Pepe vincitrice del Premio Starlight International Cinema Award

«Le vittime imperfette sono quelle che non agiscono, o non reagiscono, secondo il copione che la società impone alla vittima»

Cosa sono le vittime imperfette?

Le vittime imperfette sono quelle che non agiscono, o non reagiscono, secondo il copione che la società impone alla vittima. Che è quello di subire e basta o di fare la scelta giusta, di comportarsi “bene”. In questo caso Agata cerca di reagire, ma facendo la scelta sbagliata.

Gli eventi che possono causare il DPTS sono la guerra, ma anche l’aggressione a sfondo sessuale. Un soldato ha diritto a soffrirne mentre una donna è vista come una che esagera. Nel corto la donna se lo sente dire sia dall’ex compagno che dalla collega d’ufficio…

Sì, è molto triste e complicato. Per questo ho deciso di fare un film al riguardo. Si pensa che una volta che il perpetratore della violenza non è più presente, non ci sia più il problema. Invece queste persone non riescono a rifarsi una vita, ad avere una carriera o un’altra storia. Ma questo ovviamente non fa notizia, non se ne parla. Anzi la persona in questione diventa anche un problema con cui la società non vuole avere a che fare.

Picchiare la moglie per “correggerla” è stato un diritto del marito fino al 1963. Quanto è ancora radicata nella società italiana la “violenza di diritto” di un uomo sulla compagna?

È una deriva molto malata dell’ossessione del “rispetto dei ruoli”: le donne storicamente facevano certe cose, gli uomini altre. Ai maniaci del controllo, chi agisce diversamente fa perdere la testa. Ma purtroppo non è una realtà solamente italiana.

Scena del film Miss Agata
Scena del film Miss Agata

«Il corto ha due anime forti, quella che parla di violenza di genere e quella che parla di integrazione»

Nel corto il personaggio interpretato da Andrea Bosca dice: «Lo vedi cosa mi fai fare?». Cosa impedisce a molte donne di vedere che non è colpa loro se sono picchiate?

Premetto che è difficile capire gli esatti meccanismi, che variano da storia a storia. Molte donne sono vittime del cosiddetto “Trauma Bond”. Un legame traumatico che le lega al perpetratore, da cui non riescono a staccarsi, e che è stato costruito nel tempo, gradualmente. La persona inizialmente si pone come anima gemella, che fa sentire la vittima al sicuro, capita e amata come mai prima. Poi piano piano cominciano le cosiddette “red flags”, episodi preoccupanti che la vittima spesso ignora, e quando comincia a capirli, purtroppo è già nel vortice dell’abuso da cui è difficile staccarsi.

Il corto è già stato proiettato in festival stranieri. Reazioni che ti hanno colpito?

Quello che mi ha colpito è che il corto arrivi agli spettatori indipendentemente dalla lingua. È girato in italiano, ma le razioni sono state istantanee e molto forti in Francia, In Inghilterra e in America.
Cosa non scontata perché chi fa comedy sa che lo humour non è sempre facilmente traducibile.
Diciamo che il corto ha due anime forti, quella che parla di violenza di genere e quella che parla di integrazione. Per la violenza ho avuto molte donne che mi hanno approcciato dopo le proiezioni, dicendomi che si sono sentite capite e si sono riviste; che hanno riso con Agata, ma si sono anche commosse. Da una parte mi fa piacere, ma al contempo mi preoccupa vedere quante persone abbiano in qualche modo vissuto un abuso, fisico o psicologico.

Scena del film Miss Agata
Scena del film Miss Agata

«La responsabilità della violenza è di chi la infligge, punto»

Quanto noi donne siamo responsabili di tramandare il patriarcato?

La responsabilità della violenza è di chi la infligge, punto. Detto questo sicuramente un lavoro di prevenzione alla base va fatto, profondo e che abbraccia tutta la società, donne e uomini. È per questo, per esempio, che un film come Barbie è stato importante. Perché è arrivato alle masse, ha creato consapevolezza. Molte persone la parola ‘patriarcato’ non la conoscevano bene e soprattutto non la riconoscevano.

Lavori con le immagini. Il corto, per la sua brevità e il suo linguaggio, arriva meglio a un pubblico giovane?

La brevità aiuta sicuramente. Però i giovani di oggi sono molto sensibili e non vanno sottovalutati. Mio nipote è adolescente e guarda la Corazzata Potëmkin senza batter ciglio.

Il cinema, anche il corto, può essere uno strumento per fare politica?

Secondo me sì. È un po’ quello che si faceva nella Commedia Italiana di una volta, cercare di usare il cinema e lo humour per dare messaggi importanti. Ci tengo però a puntualizzare che un cortometraggio cinematografico non è una pubblicità progresso. La narrativa è differente, gli elementi sono costruiti ad arte in modo che il messaggio arrivi in maniera trasversale.

Nel film Chiara Sani è Giulia, una donna che si spaccia per emancipata, aperta di vedute, invece si rivela piena degli stereotipi più beceri.

Giulia rinchiude molti stereotipi di pregiudizio contro gli immigrati. Quando abbiamo presentato il film a New York, mi hanno detto che era la “perfect italian Karen”. Karen è un termine usato negli Stati Uniti per indicare questo tipo di persone, che sono così comuni che hanno persino una parola apposta che li definisce!

Scena del film Miss Agata
Scena del film Miss Agata

Festival del Cinema di Venezia, l’attrice Demetra Bellina si racconta: la musica, il cinema e l’amore

Classe 1996, originaria di Udine, Demetra Bellina è alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia con il film Non credo in niente, opera prima di Alessandro Marzullo. Demetra l’abbiamo vista anche in Youtopia (di Berardo Carboni), Comedians (di Gabriele Salvatores), Non uccidere 2 e Tutta colpa di Freud – la serie. In Non credo in niente è una hostess in un film gotico dove una Roma decadente fa da sfondo a una generazione di trentenni che vivono vite frammentate, riflesso, più che della società liquida di Bauman, di uno sgretolamento interiore di sogni e valori.

Il suo account Instagram racconta la Demetra pubblica, attrice, modella. Scatti artistici. Ma la Demetra fuori dal set com’è? In cosa crede? Tra un red carpet e uno shooting, il festival di Venezia è un buon momento anche per conversazioni informali: l’intervista di MANINTOWN.

Demetra Bellina, ph. Gianluigi Di Napoli
Demetra Bellina, ph. Gianluigi Di Napoli

«Credo che oggi più che mai ci sia bisogno di credere in qualcosa, perché sembra talmente facile lasciarsi andare al nichilismo»

Alla Mostra con Non credo in niente. Anche Demetra Bellina non crede in niente?

No, io credo in tante cose. Anzi, credo che oggi più che mai ci sia bisogno di credere in qualcosa, perché sembra talmente facile lasciarsi andare al nichilismo, al pensiero che vale solo oggi, essendo il domani così incerto. Credo che oggi più che mai si debba essere fedeli alle proprie convinzioni e ai propri ideali.

Crede in dio? Qual è il suo rapporto con la religione?

Credo che la percezione della religione sia cambiata molto negli ultimi 50 anni. Sono cresciuta con la religione cristiana, ma non posso dire di essere osservante. Sicuramente credo in qualcosa, ma difficilmente gli si potrebbe dare un nome assoluto.

Crede nell’amore? Nel film recita: «L’amore, quello eterno, è per i poveri. I ricchi cambiano amanti tutta la vita. I ricchi si risposano». Cosa ne pensa Demetra?

Io credo ciecamente nell’amore! La reputo la cosa più importante che c’è. Può essere eterno oppure no, ma è prezioso in ogni caso. Il “vero” amore è quello che ti arricchisce la vita, che ti fa stare bene quando ci pensi e che ti fa desiderare le cose migliori possibili per qualcuno che non sei tu stesso o la tua famiglia d’origine. Ti porta a desiderare di fare delle rinunce, pur di sapere che la persona che ami è felice. Per me questo è l’amore: condividere sé stessi e i propri desideri con l’altro. Sicuramente la società di oggi spinge a porsi continue domande: se valga la pena stare con una persona sola per tutta la vita. Io credo di sì. Credo che se si è felici con qualcuno… perché mai bisognerebbe cambiare? Per essere “più felici con qualcun altro”? Ma che significa?

E nell’amicizia? Com’è Demetra amica?

Non ho mai avuto molti amici, anche se avrei voluto. Guardo con molta ammirazione da sempre quelle compagnie di amici, che riescono a rimanere unite nel tempo. Io solitamente scelgo una persona o due, sperando che loro facciano lo stesso con me.

Crede nella sorellanza? Qual è il suo rapporto con le donne?

Dipende quali. Sono cresciuta in una famiglia dove la maggioranza erano donne, ho una sorella e solo cugine femmine con cui siamo cresciute insieme. Abbiamo un rapporto meraviglioso. Non ho mai avuto però un gruppo di amiche donne, tendevano un po’ ad escludermi, ho sempre avuto più amici maschi o un’unica amica del cuore.

Demetra Bellina, ph. Gianluigi Di Napoli
Demetra Bellina, ph. Gianluigi Di Napoli

«l regista Alessandro Marzullo è riuscito a rappresentare la frustrazione e le speranze schiacciate di molti giovani di oggi»

Il film apre con la citazione di Bauman “Nella nostra epoca il mondo intorno a noi è tagliuzzato in frammenti scarsamente coordinati, mentre le nostre vite individuali sono frammentate in una successione di episodi mal collegati fra loro”. Il film racconta di vite frammentate o di vite alienate? Senza generalizzare, questi giovani rappresentano un paradigma della generazione alla quale appartengono? È davvero tutto così brutale, dissacrante, privo di regole, reciprocamente offensivo? La violenza, fisica e verbale, fa così parte del linguaggio quotidiano?

Secondo me sono vite frammentate. Noi vediamo solo le notti dei personaggi, vediamo e sentiamo la loro fatica e sì, anche la loro alienazione. Il regista Alessandro Marzullo è riuscito a rappresentare la frustrazione e le speranze schiacciate di molti giovani di oggi, che, dopo tanto studio, si ritrovano magari a lavorare in nero nella cucina di un ristorante. Cercando ancora, nonostante le difficoltà, di raggiungere i loro sogni. Io non trovo il film violento: sarà che lo vedo così somigliante alla realtà che ci sono assuefatta. Anzi, trovo che sia stata tirata fuori una poesia e una luce laddove spesso non si riesce a vederla, cioè nella quotidianità sfilacciata in cui ci troviamo.

Secondo me è vero che la società di oggi è molto più faticosa rispetto a trent’anni fa, ma credo anche che sia nel nostro potere di rendere le nostre giornate migliori, a partire dalle piccole cose. I personaggi spesso ballano, cantano, suonano… Queste sono cose che possono rendere felici, a prescindere che sia il proprio lavoro o meno, a prescindere che uno sia bravo o meno. Tra i miei ricordi più belli ci sono musica e allegria, non successi.

Tra i problemi dei personaggi c’è sicuramente il fatto di essere tutti così divisi, infatti quando sono insieme va sempre un po’ meglio. Credo che il modo per migliorare la nostra società sia stare insieme agli altri, parlare senza prevaricare e tollerare le nostre differenze, capire che non siamo gli unici a sentirci in un certo modo, molto spesso gli altri hanno i nostri stessi pensieri, ma stando ognuno per conto nostro, non lo sappiamo!

Demetra Bellina, ph. Gianluigi Di Napoli
Demetra Bellina, ph. Gianluigi Di Napoli

«La mia soluzione personale è cercare sempre nuove cose, nuove idee e ricordarsi che il tempo è fatto per andare avanti e non indietro, e che si può decidere di lasciarsi andare fingendo di essere eterni adolescenti o prendere in mano la situazione e fare quello che c’è da fare in quanto, ormai, adulti»

Crede che due persone debbano completarsi a vicenda per essere felici? Accoppiati male è meglio che soli?

Credo proprio di no, però è opinabile il male e il bene all’interno di una relazione: a qualcuno piace stare con una persona opposta a sé, a qualcuno con la persona più simile possibile. Non credo si possa giudicare, ognuno sa di sé che cosa vuole e che cosa no. Anche stare insieme per non stare da soli, se è una scelta di entrambi. Non mi sento di giudicarli. Certo è che io non potrei mai.

«Non ce la faccio più. Ogni cosa che facciamo non funziona. Non abbiamo più vent’anni» è una frase del film. Questa può essere una constatazione o una lamentela. Se la frase fosse la sua, quale sarebbe il suo passo successivo?

Non credo che sia una lamentela. C’è, e c’è stata, molta pressione sui giovani. Non ho vissuto altre epoche, ma dai racconti di persone più grandi una volta era diverso, oggi questa retorica del “successo”, che cerca di convincerti che se non ce l’hai sei un fallito già a 25 anni, sta distruggendo le speranze dei giovani. Anche io tra qualche anno non avrò più vent’anni, ci sono momenti in cui viene lo sconforto a pensare al tempo che passa, ma credo sia inevitabile preoccuparsi del futuro.

Comunque, la mia soluzione personale è cercare sempre nuove cose, nuove idee e ricordarsi che il tempo è fatto per andare avanti e non indietro, e che si può decidere di lasciarsi andare fingendo di essere eterni adolescenti o prendere in mano la situazione e fare quello che c’è da fare in quanto, ormai, adulti. Mia nonna mi ha sempre detto che il periodo migliore secondo lei comincia dopo i 30 anni… Staremo a vedere.

Demetra Bellina, ph. Gianluigi Di Napoli
Demetra Bellina, ph. Gianluigi Di Napoli

«Per me la musica è un linguaggio universale, ascolto musica proveniente da molti luoghi diversi nel mondo!»

Nel film canta. Ha in uscita un EP. Anticipazioni? Qual è il suo genere, i suoi riferimenti, il suo linguaggio?

Sì! A breve uscirà il videoclip della canzone del film, So many roads di Riccardo Amorese. È stato bellissimo poter finalmente cantare sul set, e poter far esprimere il personaggio anche attraverso la musica. Dopo anni di tribolazioni finalmente farò uscire il mio Ep. Il mio genere è un misto di generi.

Ho cominciato ad amare la musica da quando ero piccola ascoltando Mozart, poi ho scoperto Bob Dylan e i Beatles grazie a mio papà che era un musicista. Ho cominciato a studiare canto a dieci anni e poi a suonare la chitarra, il pianoforte, l’armonica e adesso il basso e il synth. Per ora l’album verte sul blues, il folk e qualcosa di elettronica. Per me la musica è un linguaggio universale, ascolto musica proveniente da molti luoghi diversi nel mondo! Spero che questo EP sia il primo di una lunga serie.

Sta scrivendo un libro: c’è una Demetra che non trova il suo posto sul set e ha urgenza di farsi
sentire? Per parlare di cosa?

Il libro si intitola Erechtrica ed è una raccolta di racconti, poesie, lettere ed illustrazioni ambientato in un mondo interno all’anima degli esseri umani. Il libro parla della società di oggi guardandola dal punto di vista dei sentimenti delle persone, che vengono uno alla volta persi in favore del nulla assoluto; l’anno scorso ne ho tratto anche uno spettacolo teatrale, che si intitolava Quando la musica è finita, forse lo riporterò in scena l’anno prossimo. Credo che più che un’urgenza di farsi sentire fosse un modo per capire io stessa cosa stessi pensando: non credo che le poesie vengano scritte per gli altri, ma per se stessi. Poi, quando lo farò uscire, magari farà porre delle domande anche a qualcun altro e sarò contenta!

Demetra Bellina, ph. Gianluigi Di Napoli
Demetra Bellina, ph. Gianluigi Di Napoli

«Ci sono già moltissimi bravi sceneggiatori e sceneggiatrici che non trovano sbocchi lavorativi. Sarebbe bello se venissero date più possibilità a giovani che si sono formati per fare questo mestiere»

Le sceneggiature sono uno dei problemi del cinema attuale. Pensa di unire cinema e scrittura e provare anche la strada della sceneggiatura?

Scrivere sceneggiature è molto diverso dallo scrivere letteratura, avevo comprato dei libri per cominciare a studiare, però so che ci sono già moltissimi bravi sceneggiatori e sceneggiatrici che non trovano sbocchi lavorativi. Sarebbe bello se venissero date più possibilità a giovani che si sono formati per fare questo mestiere, secondo me. Poi, ho molte idee per soggetti che magari un giorno qualcuno svilupperà.

Com’è Demetra figlia?

Bisognerebbe chiederlo ai miei genitori, ma non male, credo. Non si sono mai lamentati più di tanto. Non davanti a me, quantomeno.

The Palace: il nuovo film di Roman Polanski, con Fanny Ardant e Luca Barbareschi, presentato fuori concorso a Venezia 80

The Palace, il nuovo film di Roman Polanski, prodotto da Luca Barbareschi per Èliseo Entertainment con Rai Cinema, è stato presentato fuori concorso alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Una commedia ambientata la notte di Capodanno del 2000, in uno stravagante resort sulle Alpi Svizzere. Alla conferenza stampa di presentazione erano presenti Oliver Masucci, Fanny Ardant, Joaquim de Almeida, Luca Barbareschi, Fortunato Cerlino. Nel cast anche Milan Peschel e Mickey Rourke.

Fanny Ardant torna a lavorare con Roman Polanski in The Palace

«Conoscevo già Roman Polanski per essere stata diretta da lui in teatro – ha spiegato Fanny Ardant alla conferenza di presentazione del film – Ho ritrovato la gioia di lavorare con un uomo appassionato, che sta dalla mattina alla sera sul set con grande dedizione, curando ogni minimo particolare. Essere sul set con lui è un privilegio, perché ogni volta sai che è un’occasione che non tornerà mai. Non avevo mai recitato in un simile ruolo femminile. Mi sono divertita della stupidità di questa donna, della follia, di questo grande amore per il cane, per gli uomini. Era un condensato di vita e di energia». 

 

Scena del film The Palace, Ph. M. Abramowska
Scena del film The Palace, Ph. M. Abramowska

 

Luca Barbareschi: “Roman Polanski ha 90 anni, ma l’energia di un venticinquenne”

«È un’emozione per me essere qui a Venezia – ha dichiarato Luca Barbareschi – addirittura con due film e dopo cinquant’anni di carriera. The Palace è un film per me importante, come gli altri progetti fatti con Polanski. È un film corale dove Roman ha voluto fare un affresco straordinario di cosa è diventato oggi questo mondo. Produrre Polanski non è facile e sono orgoglioso di averlo fatto, grazie anche alla collaborazione con Paolo Del Brocco di Rai Cinema.

The Palace è un film che non è solo una commedia, ma qualcosa di più forte. Dopo J’accuse volevamo fare con Roman un film divertente, molto ‘balzacchiano’. Roman – ha continuato Barbareschi – ha compiuto novant’anni quest’anno, ma ha l’energia di quando ne aveva 25 anni. Vedere Roman nel backstage che con la scopa pulisce dalla polvere, mettere lui la goccia di sangue che deve essere del colore che dice lui e che ha mischiato lui stesso, è un’esperienza interessante».

 

Roma Polanski e Luca Barbareschi durante le riprese di The Palace, Ph. M. Abramowska
Roman Polanski e Luca Barbareschi durante le riprese di The Palace, Ph. M. Abramowska

 

Luca Barbareschi in The Palace: “Il nuovo dio è il selfie”

«Nel docufilm che ho fatto su Polanski, Hometown, Bongo è il nome delle pompe funebri che portavano la bara del papà di Roman – prosegue – Qui Bongo è un personaggio emblematico di questo secolo, in cui la gente è caduta in un egocentrismo spaventoso e nel quale il nuovo dio è il selfie. La gente si fa foto tutto il giorno. Non capisco cosa accada: c’è gente che ha migliaia di selfie nel telefonino e neanche da morti li vedranno. Bongo è questo mondo egoriferito. Invecchiando, la cosa divertente di una pornostar è che la riconoscono solo degli anziani. È interessante anche questa struttura narrativa, dove c’è una pornostar vecchia, che ha erotomani vecchi davanti a sé. Ed è tutto ormai morto, è finito.

È una metafora interessante di un mondo erotizzato dove tutto è erotismo, è pornografia: pornografia della comunicazione, del sentimento, mercificazione del denaro in un mondo dove non c’è più economia ma finanza. Bongo è interessante. Mi sono divertito a farlo. La cosa bella di lavorare con Roman – conclude Luca Barbareschi – è che si ride tanto e allo stesso tempo c’è una leadership fantastica: c’è la possibilità di ridere senza perdere mai la serietà. Anche quando, da produttore, vorresti rimproverarlo per il tempo che impiega a girare, ti accorgi che si è preso più tempo ma ti ha dato il risultato migliore che potessi avere».

 

Scena del film The Palace, Ph. M. Abramowska
Scena del film The Palace, Ph. M. Abramowska

 

Critiche e polemiche per la presenza di Polanski a Venezia 2023

«Al momento The Palace non è stato venduto in Francia. È un danno per la Francia, perché il film è fantastico e ha una cast internazionale, con Fanny Ardant, una delle più grandi attrici francesi, e Roman Polanski, uno dei più importanti registi francesi. Spero che le cose migliorino, ma non riesco a capire perché, visto che in tutte le piattaforme, da Paramount a Canal Plus fino a Netflix, vengono proiettati i film di Polanski. Credo che Barbera abbia dato a questo festival una grande indipendenza. E questo è molto importante nel mondo dell’arte. Non si può dare un giudizio morale sull’arte.

Quando Barbera prese J’accuse, fu molto coraggioso e quest’anno lo è stato altrettanto nel prendere Roman, Woody Allen e Luc Besson». Ma Barbareschi prosegue: “Ringrazio anche Rai Cinema perché si è presa un bagaglio importante di responsabilità. La Mostra deve essere un luogo di sperimentazione, di provocazione, di libertà espressiva degli artisti. E gli artisti non possono avere un giudizio morale, altrimenti dovremmo buttar giù la Cappella Sistina e molte opere di Caravaggio, se dovessimo dare un giudizio morale.

Voglio ringraziare Barbera per questo: perché ha fatto uno straordinario Festival, coraggioso e soprattutto dove c’è la possibilità di vedere di tutto. Un Festival molto più accogliente di tanti altri. Spero che The Palace vada in Francia e, soprattutto, spero che il film vada in America. Perché anche J’accuse non è ancora stato venduto in America, in Inghilterra, in Australia, Nuova Zelanda e in tutti i Paesi di matrice anglosassone. Poi ci chiediamo perché ci sono le guerre, ma i Paesi anglosassoni devono rispettare gli artisti come tutto il resto del mondo».

Forse il produttore Barbareschi ha dimenticato di dire che anche per questo certe mentalità non cambiano: perché si consente a certi uomini di essere accolti in un una società che dovrebbe, se colpevoli, ostracizzarli. Anche attraverso il rifiuto passa la libertà.

 

Scena del film The Palace, Ph. M. Abramowska
Scena del film The Palace, Ph. M. Abramowska

 

Il cast di The Palace, Ph. M. Abramowska
Il cast di The Palace, Ph. M. Abramowska

Adagio conquista il Festival di Venezia: Stefano Sollima torna in una Roma criminale e ‘senza Dio’

Padri contro figli, criminali sulla via dell’oblio e una città che brucia, in senso più letterale che metaforico. Potremmo condensare così Adagio, il film di Stefano Sollima presentato nella quarta giornata del Festival del Cinema di Venezia con Pierfrancesco Favino, Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Adriano Giannini e Gianmarco Franchini. La pellicola ha incassato dieci minuti di applausi in sala e segna una metaforica chiusura del cerchio rispetto a Romanzo Criminale: la cornice è una Roma ancora più crudele e surreale, devastata dalla corruzione, dai blackout (veri!) e dagli incendi.

Le riprese di Adagio a Roma, tra incendi e blackout

Il regista Stefano Sollima ha raccontato alcuni dettagli delle riprese del film Adagio: «Abbiamo girato in estate, unico modo per catturare e trasporre il caldo torrido romano. Altra ragione che rendeva fondamentale le riprese con la città non troppo popolata erano i blackout, che abbiamo realizzato davvero, chiudendo al traffico ampie zone della città. Qui l’illuminazione stradale è stata spenta per pochi minuti, giusto il tempo delle riprese, e la città, al buio, veniva illuminata soltanto dalle nostre auto che simulavano il traffico cittadino con un effetto finale piuttosto suggestivo. ù

Dietro Adagio c’è un atto d’amore verso la città, che mi era mancata. Io volevo tornare a Roma, tornare a raccontare la città. L’ho trasfigurata, come credo si debba fare in un film come questo, dove gli elementi naturali, come l’incendio e il blackout, sono sì funzionali alla drammaturgia, ma sono anche parte di quello che succede a Roma. Alcuni degli elementi del film, come l’incendio o il blackout, potrebbero sembrare distopici, ma a Roma sono la realtà. Mentre scrivevamo ci sono stati degli incendi. Sembra un elemento fantascientifico, in realtà è semplicemente una parte della città».

Scena del film Adagio
Scena del film Adagio

Stefano Sollima spiega il legame tra ‘Adagio’ e ‘Romanzo Criminale’

«In Romanzo Criminale – spiega il regista in conferenza stampa – c’era la storia di una banda che ha esercitato su Roma un potere enorme. Qui, essendo un lavoro sulla decadenza, con vecchi che vivono ormai ai margini della società, è chiaro che c’è un collegamento con la banda, ma la loro appartenenza alla banda è solo per dargli un passato mitologico. Non è un collegamento in atto. Infatti, in una delle battute, uno dei giovani fa: “Ma questi chi se li ricorda più? Non contano più un cazzo”. A Roma la banda della Magliana è stato un fenomeno sociale importante e quindi ci ricolleghiamo a quello, ma non ha nessun legame reale con i personaggi e con la storia. Resta sullo sfondo.

La storia tratteggia il declino inesorabile, struggente, di tre vecchie leggende della Roma criminale, alla ricerca di una redenzione impossibile in un mondo ancora più cinico, caotico e feroce di quello che avevano governato negli anni d’oro, che schiaccia relazioni familiari, amichevoli e fraterne, non lasciando altri legami tra gli uomini al di fuori del denaro. Una città governata dal caos, dalla corruzione, dal cinismo, ma con uno spiraglio di luce: la nuova generazione».

In conferenza stampa, tra gli altri protagonisti del film, anche Toni Servillo e Pierfrancesco Favino.

Stefano Sollima
Stefano Sollima

Toni Servillo: “In Adagio recito in romanesco”

«È il mio primo film con Stefano e sono rimasto ammaliato dal soggetto, dalla sceneggiatura, dall’incontro e dal lavoro sul set – racconta Toni Servillo – Il personaggio che mi ha offerto recita nella recita. Come gli altri, che sono dei criminali, ha vissuto dentro certe regole e vuole rispettarle fino alla fine, senza arrendersi mai, sapendo di andare a sbattere contro un destino inevitabile.

Adagio è la storia di questi uomini che fanno i conti con loro stessi, ma quella libertà che si immagina abbiano desiderato e che, in maniera scellerata, hanno avuto da giovani, la mantengono fino all’ultimo. In questo film Stefano mi ha aiutato in una cosa che dubitavo di riuscire a fare: a recitare in romanesco».

Pierfrancesco Favino: “Nel cinema di Stefano Sollima non esiste Dio”

«Sono al terzo film con Stefano Sollima – aggiunge Pierfrancesco Favino – È sempre bello il gioco di invenzione che c’è nei suoi film. Anche visivamente, essere all’interno di essi vuol dire avere l’opportunità di occupare lo spazio con il corpo in una maniera diversa e poter giocare con le inquadrature della meravigliosa fotografia di Paolo Carnera. Uno dei motivi per cui mi piace il suo cinema, una cosa rara nel nostro cinema, è che non esiste Dio.

Stefano per me è uno dei pochi registi punk che abbiamo. Nei suoi film non c’è mai redenzione. In questo film i personaggi sono come delle falene impazzite, ognuno attorno alla propria ossessione, persone che credo debbano fare i conti con se stessi. Non credo che Stefano racconti storie di bene o male: racconta storie di uomini che hanno cose da fare. Il messaggio più bello del mio personaggio è che le colpe dei padri non ricadono per forza sulle teste dei figli, perché i figli sono individui capaci di scegliere da soli».

Il soggetto e la sceneggiatura di Adagio sono firmati da Stefano Bises e Stefano Sollima. Nel cast Pierfrancesco Favino, Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Adriano Giannini, Gianmarco Franchini, Francesco Di Leva, Lorenzo Adorni e Silvia Salvatori.
Il film è prodotto da Lorenzo Mieli per The Apartment Pictures, società del gruppo Fremantle, da Ludovico Purgatori e Stefano Sollima per AlterEgo, in collaborazione con SKY, con NETFLIX e con Massimiliano Orfei di Vision Distribution

Il cast di Adagio
Il cast di Adagio

Venezia 2023, il film ‘Non credo in niente’ e la fatica di avere 30 anni. Intervista a Lorenzo Lazzarini

Segnatevi questa data: 28 settembre 2023, giorno di uscita del film Non credo in niente, opera prima di Alessandro Marzullo passata anche dal Festival del Cinema di Venezia. Il film è stato presentato tra gli eventi collaterali della kermesse, all’interno del panel “Co-produzione internazionale: uno sguardo al futuro”. L’incontro, che si è tenuto alla presenza del regista, della protagonista Demetra Bellina e del produttore e attore Lorenzo Lazzarini, si è svolto presso lo Spazio Fondazione Ente dello Spettacolo.

Il film, presentato in anteprima alla 59ma Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro è prodotto e distribuito da Daitona e Flickmates. Nel cast: Demetra Bellina (Comedians, Gabriele Salvatores, 2021), Giuseppe Cristiano (Io non ho paura, Gabriele Salvatores, 2003; Come Dio Comanda, Gabriele Salvatores, 2008), Renata Malinconico (Ovunque tu sarai, Roberto Capucci, 2017), Mario Russo (Calibro 9, Toni D’Angelo, 2018; Una femmina, Francesco Costabile, 2021), Lorenzo Lazzarini (Love in the Villa, Mark Steven Johnson, 2022), Gabriel Montesi (Esterno Notte, Marco Bellocchio, 2022; Siccità, Paolo Virzì, 2022), Antonio Orlando (Il Primo Re, Matteo Rovere, 2017; Il Traditore, Marco Bellocchio, 2018) e Jun Ichikawa (Cantando dietro i paraventi, Ermanno Olmi, 2003; House of Gucci, Ridley Scott, 2021).

Scena del film Non credo in niente
Una scena del film Non credo in niente

Non credo in niente, un tuffo nella vita dei trentenni di oggi

Quattro ragazzi, grandi ambizioni, un successo che sembra irraggiungibile e la fatidica data dei 30 anni che incombe. Non credo in niente è un viaggio nei sogni, nelle lotte e nelle delusioni di quattro artisti (o aspiranti tali): una hostess dai mille talenti, un aspirante attore che cerca rifugio nel sesso occasionale e una coppia di musicisti costretti a lavorare in nero in un ristorante per pagarsi le bollette. A unirli è la città di Roma, colta nella sua luce più crudele e decadente. Il film di Alessandro Marzullo è un racconto corale e frammentario in cui è facile immedesimarsi: attraverso un’estetica di contrasti, restituisce il disagio e la frustrazione di chi ha trent’anni oggi. Giocando con il montaggio e con il tessuto musicale, fatto di dissonanze e distorsioni, Alessandro Marzullo mette in scena proprio quella società “liquida” anticipata da Bauman. MANINTOWN ha intervistato in anteprima con Lorenzo Lazzarini, qui nella duplice veste di attore e produttore.

Dopo il Pesaro Film Fest, Venezia. Vi aspettavate di arrivare in laguna?

L’avventura di questo film, Non credo in niente, l’abbiamo scoperta e inventata giorno per giorno. A partire da quando Alessandro (Marzullo – ndr) ci parlò per la prima volta del film. Da luglio 2020 ad oggi, ne abbiamo passate tante: molti eventi ci hanno abbattuto e stimolato allo stesso tempo. Eventi incredibili, drammatici, che alla fine sono stati anche la fortuna di questo film. Venezia 2023 è solo uno dei tasselli, importantissimi, che servono ad accompagnare il film verso l’uscita del 28 settembre. Siamo molto emozionati.

Scena del film Non credo in niente
Scena del film Non credo in niente

«Per noi la produzione di un film è in pellicola, il Cinema si fa in pellicola… Inoltre, lavorare in pellicola, dà tutta un’altra energia, apprezzi e vivi ogni attimo e cerchi di renderlo al meglio»

Il film non è in digitale. Perché tornare alla pellicola? Aumenta i costi e i rischi. Lei è un produttore così temerario?

Temerario sì, anche un po’ incosciente magari, ma non penserei alla scelta della pellicola. I costi sono relativi, ma è proprio l’uso dell’analogico che fa ragionare più economicamente. La pre produzione, quindi, diventa fondamentale, cosicché sul set tutta la troupe, compresi gli attori, siano responsabilizzati ed attenti a sbagliare il meno possibile. Per noi la produzione di un film è in pellicola, il cinema si fa in pellicola. Senza parlare del fatto che proprio la scelta del Super 16mm ha reso quel senso di “zozzo” e di denso che serve alla nostra storia. Inoltre, lavorare in pellicola, dà tutta un’altra energia, apprezzi e vivi ogni attimo e cerchi di renderlo al meglio. Alla fine di ogni notte di ripresa, 12 per la precisione, mi trovavo a tenere strette fra le braccia le pizze di girato da consegnare in laboratorio e, dopo tante ore di set e il sonno arretrato, avere tutto il valore del lavoro fra le mani è un’emozione incredibile.

Il film, come avete dichiarato anche al festival di Pesaro, risente dello stile del regista Wong Kar- wai. Il cinema asiatico è stato inizialmente sottovalutato, finché non è arrivato agli Oscar. È ora di uscire dallo schema classico dove guardiamo al cinema francese o a Hollywood?

Io sono classe ‘93, come il regista Alessandro Marzullo, e inevitabilmente siamo cresciuti con il Cinema anni Novanta, con i grandi film hollywoodiani mainstream, ma siamo anche una generazione che ha vissuto in pieno la crisi degli anni 2000, che ci ha costretti a guardare altrove. Le influenze sono giuste e formative, ma credo che dovremmo guardare al nostro cinema, il cinema italiano che fu e che ha insegnato a tutto il mondo.

Scena del film Non credo in niente
Una scena del film Non credo in niente

«Non si cerca più di arrivare al pubblico, di farlo emozionare, non c’è la missione di arrivare ai grandi numeri, è un sistema produttivo che è fine a se stesso nella fase che va dallo sviluppo alla post produzione»

Venezia, senza i blockbuster americani, potrebbe essere un’occasione per il cinema Italiano ed europeo. Ma basterà l’assenza degli americani per risollevare il nostro cinema o serve altro?

Non basta. Ma la Mostra credo che abbia altri scopi, anche perché siamo in una fase in cui, il più delle volte, precede l’uscita al cinema e tra i due eventi possono passare anche vari mesi. La missione sta a noi produttori, ma c’è tanto da fare.

Lei è co-founder di Daitona, nonché attore con una buona formazione teatrale. Cosa rende il cinema italiano non più competitivo?

Non si cerca più di arrivare al pubblico, di farlo emozionare, non c’è la missione di arrivare ai grandi numeri, è diventato un sistema produttivo fine a se stesso nella fase che va dallo sviluppo alla post produzione. La distribuzione fa fatica a rientrare degli investimenti e, soprattutto, non c’è più voglia. Sono pochi quelli che veramente rischiano e che se lo possono permettere. Importante, poi, è anche l’aspetto umano. Non si parla più con i registi, con gli autori, non si discute, non si combatte, ma si è diventati dei puri amministrativi tra bandi, Spid e email. Visto che nasco come attore, faccio la stessa annotazione per i selftape: ormai anche i coprotagonisti vengono scelti attraverso uno schermo. E, infine, anche l’esperienza umana di Non credo in niente che viene restituita, non è solo il film di 100 minuti, ma tutto quello che ha mosso e che muove.

Scena del film Non credo in niente
Una scena del film Non credo in niente

«Crediamo che oggi, almeno per quanto riguarda il tipo di film che stiamo producendo, il metodo distributivo più efficace sia creare l’evento, rendere esclusiva la visione del prodotto, dando valore a tutto quello che c’è di prezioso nella composizione del film»

Nello scaricabarile che va dalle produzioni ai gestori di sale, lei è ai piani alti della filiera: produce. Qual è oggi il problema nella produzione? Che futuro hanno le piccole case di produzione indipendenti? Essere piccoli o medi è uno svantaggio di fronte ai colossi internazionali o consente qualcosa in più?

Non parlerei di piccoli o grandi, piuttosto di scafati o fortunati. Noi, come produttori attivi da 8 anni, ci siamo dovuti creare un nome, speriamo buono, dal nulla. Nessuna delle nostre famiglie viene dal settore e abbiamo cercato di fronteggiare gli scogli della produzione in vari modi. Nelle difficoltà del settore non ci siamo scoraggiati e questo ha stimolato la fantasia nel produrre. Altrimenti Non credo in niente non avrebbe mai visto la luce. Stiamo cercando, anche in vista delle recenti riflessioni ministeriali, modi alternativi di produrre e, soprattutto, di distribuire i film. Crediamo che oggi, almeno per quanto riguarda il tipo di film che stiamo producendo, il metodo distributivo più efficace sia creare l’evento, rendere esclusiva la visione del prodotto, dando valore a tutto quello che c’è di prezioso nella composizione del film.

Ritratto di Lorenzo Lazzarini
Ritratto di Lorenzo Lazzarini

«È sempre più raro quel fiuto che dovremmo avere per gli autori, per le grandi storie che vanno raccontate e per individuare come vanno raccontate e distribuite. Il produttore dovrebbe solo produrre»

L’Italia è oggi un mercato appetibile per le produzioni internazionali che beneficiano del tax credit. È ben regolamentato o la legge va rivista?

Da quello che ho visto, e qui parlo come attore, avendo avuto la fortuna di partecipare a grandi produzioni statunitensi ed inglesi che hanno girato in Italia, la mole produttiva è aumentata a dismisura, dando lavoro continuativo e ben pagato a molte figure professionali. Questo è però diventato una difficoltà per le produzioni più piccole, che hanno difficoltà a contrattualizzare, per esempio le maestranze, a cifre che stiano al passo con le paghe straniere. Si sta viziando il mercato. Mi auguro che il tax credit per gli stranieri sia attivo per molti anni ancora, ma temo le ripercussioni sul mercato.

In Italia negli ultimi anni si sta producendo tanto. L’Italia rischia di diventare un service, un Paese dove si producono film di altri, lasciando morire la grande tradizione cinematografica italiana?

Sono le piattaforme che producono. Noi rischiamo sempre di più di essere soltanto i loro “organizzatori generali”. C’è chi ne ha fatto un business, anche noi lo facciamo con la produzione dei commercial, senza i quali non potremmo sostenere la problematica del cash flow del cinema.
Ma così si rischia di scardinare il vero lavoro del produttore: è sempre più raro quel fiuto che dovremmo avere per gli autori, per le grandi storie che vanno raccontate e per individuare come vanno raccontate e distribuite. Il produttore dovrebbe solo produrre.

Locandina del film Non credo in te
Locandina del film Non credo in te

Intervista a Eleonora De Luca, volto di Cortinametraggio, presentato al Festival del Cinema di Venezia 2023

All’interno del Festival del Cinema di Venezia 2023, uno spazio è dedicato alla presentazione di Cortinametraggio, il festival di riferimento per i corti, giunto alla sua la 19a edizione. Cortinametraggio si terrà a Cortina D’Ampezzo dal 12 al 17 marzo 2024. A dare il volto a Cortinametraggio 2023 è la giovane e talentuosa Eleonora De Luca (Padrenostro di Claudio Noce; Le sorelle Macaluso di Emma Dante; L’Ora Legale di Ficarra e Picone; La Mafia uccide solo d’estate di L. Ribuoli), madrina del festival presieduto e fondato da Maddalena Mayneri e dedicato al meglio della cinematografia breve italiana.
Eleonora era già stata alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2020 quando ricevette il premio “Nuovo Imaie” come migliore attrice esordiente per i film Le sorelle Macaluso di Emma Dante, dove ha interpretato il ruolo drammatico di Maria, aspirante ballerina classica, e Padrenostro di Claudio Noce, dove era la tata dei figli di Pierfrancesco Favino.
Nel frenetico viavai di artisti che, nonostante gli scioperi, anima la Laguna in questi giorni, abbiamo incontrato Eleonora De Luca.

Ritratto di Eleonora De Luca
Ritratto di Eleonora De Luca

Intervista all’attrice Eleonora De Luca

Com’è tornare a Venezia non solo da attrice ma anche da madrina di Cortinametraggio?

Ho avuto la fortuna e la stranezza di essere qui nel 2020, presentando Le Sorelle Macaluso di Emma Dante e Padrenostro di Claudio Noce, entrambi in concorso ufficiale. Il 2020! L’anno in cui ogni posto era svuotato e da riabitare emotivamente, mi sono trovata in una Venezia semi-vuota e magica. Sono tornata qui nel 2021 per la riconsegna del Talent Award di Nuovo Imaie come miglior attrice che avevo vinto l’anno precedente e ora rieccomi per la terza volta, per L’Invenzione della Neve di Vittorio Moroni e per questa nuova esperienza di Cortinametraggio. Sono molto felice di cominciare qui il mio approdo a quest’avventura. Un rito sull’acqua vero e proprio. Passeggiare per Venezia è come incedere in un sogno, e il cinema è sogno della vita, per cui è un’esperienza totalmente onirica.

Ha una notevole formazione teatrale e ha partecipato a film con grandi registi. Cosa pensa dei
cortometraggi?

Penso che il dono della sintesi che appartiene ai cortometraggi possa avvicinarsi al mondo della poesia. Perciò è una forma d’arte in cui bisognerebbe avere un’urgenza bruciante. Fare un cortometraggio è un po’ come far intuire la potenza di un incendio mostrando solo un fiammifero. Mi affascina, sono molto curiosa di ciò che vedrò.

«Un teatro che è quasi un tribunale della vita, in cui non si può mentire»

Nel suo passato, breve vista la sua età, c’è molto teatro greco. Cosa l’ha portata a studiare all’Inda questa tipologia di rappresentazione e cosa le ha lasciato nella cassetta degli attrezzi? È stato un
supporto o un ostacolo quando ha fatto il salto nel cinema e nella televisione?

Mi sono formata presso la scuola del Teatro Greco di Siracusa, L’Istiuto Nazionale del Dramma Antico. Quella è la mia culla, i miei primi passi d’attrice sono stati in un teatro antichissimo, da 8.000 spettatori. Un teatro che è quasi un tribunale della vita, in cui non si può mentire. Porto con me quella verità. Non credo nella scissione teatro/cinema, credo che un attore debba essere liquido, saper prendere la forma e riempire qualsiasi tipo di recipiente. Una cosa considerata assolutamente normale in America, per esempio. Sono un’attrice con una formazione completa, e mi diverto a trasformarmi. Ogni mutazione di linguaggio, per me, è una sfida.

È a Venezia anche con il film L’invenzione della neve, in sala dal 14 settembre, presentato in anteprima mondiale in apertura a “Le Giornate degli Autori”. Che esperienza è stata?

Un’esperienza unica. Questo film è stato un puro esperimento cinematografico. Sono felice che Vittorio Moroni mi abbia scelta, in un film di sole sei scene, in un cast di soli sei attori. È stata una grande responsabilità. Il pubblico poi ha risposto con grande stupore. Lo stupore è una delle mie emozioni preferite, una tra le più rare da tenere vive, passata l’infanzia.

Ritratto di Eleonora De Luca
Ritratto di Eleonora De Luca

«Mi innamoro delle storie, che devono essere urgenti per chi le scrive e dirige»

So che alcune scene sono state girate senza interruzione anche per mezz’ora di seguito. Recitare così è più da teatro che da cinema…

Tutte le scene! Giravamo per tre giorni di fila la stessa scena, in loop, in piano sequenza, senza possibilità di fermarci. Ogni errore doveva essere utilizzato, giustificato, reso parte del gioco. Ogni scena durava più o meno 25 minuti, e noi attori giravamo liberi come animali, con una scena scritta, sì, ma totale libertà di improvvisazione. Più che teatrale o cinematografica, direi proprio da attore. Da attore vero, purosangue. Per un operazione del genere bisognava essere atleti pronti. L’improvvisazione non si improvvisa.

Un genere che vorrebbe affrontare?

La distopia. E la fantascienza. Magari anche tutti e due i generi fusi insieme. Sono un’amante dei romanzi e dei racconti di Philip K. Dick. Mi piacciono i personaggi che cercano di tenersi dritti nelle storie distorte. I personaggi a fuoco negli scenari offuscati.

Da chi vorrebbe essere diretta?

Steven Spielberg! Parla al mio cuore di bambina. In ogni caso per me non importa il nome, potrebbe essere anche un emergente. Mi innamoro delle storie, che devono essere urgenti per chi le scrive e dirige. È una delle prime domande che faccio ai registi con cui lavoro: «come mai lo fai?»

Ritratto di Eleonora De Luca
Ritratto di Eleonora De Luca

«Inoltre credo nell’immenso potere dissacrante della risata. La risata, anche solo come azione, ti costringe ad aprirti, ti rende vulnerabile, pronto a recepire»

Con chi vorrebbe tornare a lavorare?

Ficarra e Picone: hanno un posto speciale nel mio cuore. Sono stata battezzata da loro con il mio primissimo film, L’ora legale, appena diplomata come attrice, in un anno di provini in cui arrivavo costantemente in finale, ad un passo dal ruolo, e nessuno poi si fidava di me, sconosciuta. Ho avuto paura che il cinema fosse solo questo, un circolo vizioso in cui si continuavano a premiare le comodità, le conoscenze, e non gli atti coraggiosi. Salvo e Valentino non sono così. Rischiano.
Scrivono storie scomode. È grazie a loro se per me si è aperta questa meravigliosa porta. Sono due artisti che stimo tantissimo, che sanno essere persone ancora prima che talenti. Inoltre credo nell’immenso potere dissacrante della risata. La risata, anche solo come azione, ti costringe ad aprirti, ti rende vulnerabile, pronto a recepire. È molto più facile rendere un po’ tristi le persone che farle ridere di gusto, come fanno loro.

Venezia quest’anno è un po’ meno americana. Un bene o un male per la Mostra?

Non saprei. Venezia è un porto, e un porto è un po’ come un punto interrogativo proteso verso il mare. Non puoi prevedere chi sbarcherà e cosa porterà. Però è il porto della bellezza. Credo che si debbano valorizzare sempre le belle storie, indipendentemente dalla nazionalità di chi le scrive o produce. Spero che Venezia continui ad essere bellissima, quindi.

Progetti che stanno per uscire dal cassetto?

Ho appena finito di girare un film molto interessante, una co-produzione internazionale, Cuori di Sale, diretto da Rosa Russo. Sono una delle due protagoniste principali e recito in italiano, francese, inglese e siciliano. Mi sono divertita moltissimo perché è stato un ruolo da pura irresponsabile. Ho altri progetti in vista ma aspetto di poterne parlare.

 Eleonora De Luca
Eleonora De Luca

«Il cinema per me dev’essere luce pura che fluisce libera. Sogno un mondo dove essere donna o uomo sia come essere bruni o biondi»

Sarà su Sky con L’arte della gioia per la regia di Valeria Golino. Una storia di donne, diretta da una donna. Quanto è importante raccontare il mondo femminile in modo diverso? Quanto spetta a noi donne uscire dallo schema santa-puttana nel quale siamo sempre state rinchiuse? E quanto il cinema e la televisione hanno oggi questo compito?

Penso che spetti un po’ a tutti, donne e uomini, dare valore all’umano, in tutte le sue sfaccettature e a prescindere dal suo genere di identificazione. La parola “Diavolo” viene da “diaballo”, che significa separare, dividere. I mostri quindi stanno nella separazione, nel voler schedare. Nell’ostinarsi a non vedere l’essere umano, nella sua eterogeneità e nelle sue meravigliose singole differenze, come unico, coeso, esteso. Il cinema per me dev’essere luce pura che fluisce libera.
Sogno un mondo dove essere donna o uomo sia come essere bruni o biondi. Sogno un cinema in cui si raccontino personaggi con cui chiunque può empatizzare, anche uno spettatore maschile se la protagonista è una donna. Allora il cinema diventa politica, senza bisogno di parlare di politica. Il cuore vince su qualsiasi ragionamento, e il pubblico va preso da cuore a cuore. Goliarda Sapienza, nel suo romanzo L’arte della gioia ha regalato alla sua protagonista la possibilità di essere un personaggio che sfugge agli incasellamenti demoniaci. Sono felice che Valeria Golino abbia deciso di rievocare questo romanzo. È il momento giusto e la persona giusta per farlo. E sono fiera di avere preso parte a questo silenzioso e sensibile golpe.

IL NUOVO FILM DI SAVERIO COSTANZO ‘FINALMENTE L’ALBA’ AL FESTIVAL DEL CINEMA DI VENEZIA 2023

Tra i film della selezione ufficiale del Festival del cinema di Venezia 2023, è stato presentato Finalmente l’alba, un film scritto e diretto da Saverio Costanzo. Nel cast Lily James, Rebecca Antonaci, Joe Keery, Rachel Sennott, Alba Rohrwacher e Willem Dafoe. Il film è prodotto da Rai Cinema in collaborazione con Fremantle e Cinecittà S.p.A.
Finalmente l’alba è il viaggio lungo una notte della giovane Mimosa (Rebecca Antonaci) che, nella Cinecittà degli anni Cinquanta, diventa la protagonista di ore per lei memorabili. Una notte che da ragazza la trasformerà in donna.

«Inizialmente volevo scrivere un film sull’omicidio della giovanissima Wilma Montesi – racconta Saverio Costanzo – avvenuto nell’aprile del 1953 e che rappresentò per l’Italia il primo caso di assassinio mediatico. La stampa speculò sulla vicenda, che coinvolgeva personalità della politica e dello spettacolo, e nel pubblico nacque un’ossessione che presto diventò indifferenza. Dalle cronache scomparve la vittima per fare posto alla passerella dei suoi possibili carnefici. Poi, come accade spesso scrivendo, l’idea iniziale è cambiata e, piuttosto che far morire l’innocente, ne ho cercato il riscatto. Mi piace infatti pensare che Finalmente l’alba sia un film sul riscatto dei semplici, degli ingenui, di chi è ancora capace di guardare il mondo con stupore.
La protagonista, Mimosa, è una ragazza semplice, una giovanissima comparsa di Cinecittà che, nella Roma degli anni ’50, accetta l’invito mondano di un gruppo di attori americani e con loro trascorre una notte infinta. Ne uscirà diversa, all’alba, scoprendo che il coraggio non serve a ripagare le aspettative degli altri, ma a scoprire chi siamo».

Scena del film Finalmente l'alba
Scena del film Finalmente l’alba

Saverio Costanzo a Venezia 80: racconti al femminile e voci di donne

«Mi trovo più mio agio con personaggi femminili – continua Saverio Costanzo – Mi era capitato di dirlo anche in occasione de L’amica geniale. Mi viene naturale. Trovo che sia più divertente. Da maschio imparo molto quando entro dentro personaggi femminili. È un’esperienza molto più elettrizzante. L’omicidio di Wilma Montesi fu una sorta di spartiacque all’interno dell’opinione pubblica italiana, perché da quel momento le cronache raccontarono un’Italia che aveva perso l’innocenza. Il fatto di dare più spazio ai carnefici che alla vittima è un’abitudine che abbiamo perfezionato negli anni: quella di non avere più nessuna empatia verso la vittima, ma solo di interessarci, nel tempo brevissimo che abbiamo a disposizione prima che arrivi un altro omicidio, dei carnefici. Scrivendo mi sono ritrovato a cambiare l’epilogo.
Non riesco a pensare in termini femminili e maschili. Se i maschi imparano a dialogare con la loro parte femminile, imparano moltissimo di loro stessi. Questo è un esercizio che mi piace fare».

Rebecca Antonaci, la giovane Mimosa di Finalmente l’alba al Festival di Venezia 2023

«Rebecca è stata una fortuna per me. Come con Adam Driver, Luca Marinelli e altri attori che ho avuto la fortuna di dirigere, ci siamo incontrati per caso. Giravo una pubblicità. L’unica che io abbia mai girato, perché quell’esperienza mi è servita per capire che è un campo che non mi interessa. Lì però incontrai Rebecca.
Uno dei personaggi dello spot era questa ragazza, adolescente, che mi colpì perché riusciva a concentrarsi, a crearsi un suo spazio, all’interno della confusione che regnava sovrana in un set piccolissimo. E poi mi colpì la sua curiosità. Stavo scrivendo il film e ho iniziato a pensare a lei. Quando sono arrivati i provini è stata una delle prime persone che ho voluto vedere. Poi ho fatto provini per un anno cercando qualcuno che mi facesse cambiare idea. Ma alla fine è rimasta lei».

Rebecca Antonaci al red carpet del Festival del cinema di Venezia
Rebecca Antonaci al red carpet del Festival del cinema di Venezia

Il caso Montesi di Finalmente l’alba, presentato a Venezia 80

«Ho scelto il caso Montesi perché, in tanti anni, ho capito come cambiare l’epoca ti aiuta a guardare senza sociologismi la realtà di oggi. Non siamo così diversi, ma la realtà degli anni ‘50 è apparentemente più semplice. Ho scelto questo caso anche perché fu un archetipo di quello che è accaduto dopo. L’Italia non è un paese semplice per una donna, a mio parere. È una questione culturale. Vedere le foto di Wilma Montesi buttata sulla spiaggia a faccia in giù, con le calze abbassate, è una di quelle immagini che rimangono.
Wilma Montesi era una comparsa, voleva fare l’attrice, quindi ho trovato spazio e materiale per ricostruire quella Cinecittà. Cinecittà non è solo uno studio cinematografico. Ci sono tanti studi più grandi e più avanzati di Cinecittà. La differenza non è solo la storia che si respira in quei luoghi, siamo noi. Ricordo che giravo scene con il peplo egiziano, vedevo le facce delle persone in mutande e le immaginavo che tornavano con la lambretta a casa la sera. Erano uguali, ora come allora. E pensavo: vedi qual è la differenza? Cinecittà siamo noi. Sono le nostre maestranze, le nostre comparse, il nostro atteggiamento, il nostro modo di urlare, anche la nostra cialtroneria.

Scena del film Finalmente l'alba
Scena del film Finalmente l’alba

«Il film racconta anche il dietro le quinte del cinema del tempo»

Il film racconta anche il dietro le quinte del cinema del tempo. Penso al personaggio di Lily James.
Essere una diva negli anni ‘50 doveva essere un inferno. Venivano invidiate, amate, ma la cura della loro immagine, il loro dovere di essere seducenti, ammalianti, fatali, doveva essere micidiale. Il personaggio di Lily James ha le nevrosi di chi è sempre sotto l’occhio di bue, sotto lo sguardo di qualcuno nell’inquadratura finale, quella che ci fa salutare il personaggio. In realtà capisci che lei deve sempre fare quello che le chiede il sistema. Non è mai chi è veramente. 
Ci sono anche personaggi negativi che si aggirano in secondo piano, ma non sono gli artisti: sono quelli che stanno attorno agli artisti, che li sfruttano, li usano. Che trattano le donne come moneta di scambio. Quelli sono i predatori, ma non sono artisti. 

Lily James in una scena di Finalmente l'alba
Lily James in una scena di Finalmente l’alba

In film di Saverio Costanzo che ha fatto discutere

Finalmente l’alba aveva già fatto discutere prima dell’inizio della mostra perché Alberto Barbera, direttore della mostra del cinema di Venezia, aveva dichiarato che il film è costato quasi 30 milioni di euro: uno dei più costosi tra quelli in concorso e con un budget inusuale per un film italiano Saverio Costanzo è entrato nella discussione: «Per me è un film come Hungry Hearts (film diretto dal regista nel 2014 con Adam Driver – nda) che costava 500.000 €. Sono abituato a passare da film con budget poverissimi a film come questo. Domani potrei fare un altro film, come si suol dire, con due pinze e una tenaglia. Non riesco strategicamente a pensare: ora faccio il grande film per la sala, poi ne faccio uno piccolo. Per me i film nascono tutti attraverso lo stesso processo creativo.
Ci sono storie che hanno bisogno di più mezzi e storie, come Private (suo film d’esordio nel 2004 – nda), e altri che richiedono meno risorse. Per me quello del budget non è un tema. E in un film americano non ne discuteremmo mai. Quello del budget è un atteggiamento che dobbiamo iniziare a superare».
Forse quello del budget non sarà un problema, ma il fatto che si continuino a girare film in perdita non fa bene all’industria cinematografica italiana. Speriamo che il nuovo film di Saverio Costanzo ripaghi la Rai e gli altri investitori del loro ingente sforzo economico.

Il cast di Finalmente l'alba
Il cast di Finalmente l’alba

Al Festival del cinema di Venezia 2023 rivive il mito di Ferrari: debutta l’atteso film di Michael Mann con Adam Driver

Leone Film Group, Rai Cinema e 01 Distribution hanno presentato a Venezia Ferrari, il nuovo attesissimo film del quattro volte candidato al Premio Oscar Michael Mann, in Concorso al Festival del cinema di Venezia2023, l’edizione numero 80 della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Nel cast il candidato all’Oscar Adam Driver nel ruolo di Enzo Ferrari e il Premio Oscar Penélope Cruz in quello della moglie Laura, oltre a Shailene Woodley che interpreta Lina Lardi, Patrick Dempsey e Jack O’Connell che indossano le tute dei piloti Piero Taruffi e Peter Collins, Sarah Gadon nel ruolo di Linda Christian e Gabriel Leone in quello del carismatico Fon De Portago. Scritto da Troy Kennedy Martin (The Italian Job) e dallo stesso Mann, il film è basato sul romanzo di Brock Yates Enzo Ferrari: The Man and The Machine ed è stato girato in Italia.
Ferrari è un’esperienza cinematografica epica, spettacolare e appassionante, ambientata nell’affascinante quanto rischioso mondo delle corse automobilistiche degli anni Cinquanta: la storia di una leggenda che ha costruito un mito inossidabile diventando un’icona mondiale.

Il cast di Ferrari al Festival del cinema di Venezia
Il cast di Ferrari al Festival del cinema di Venezia

La storia del film Ferrari presentato al Festival del cinema di Venezia 2023

Modena 1957. Enzo Ferrari, ex pilota e costruttore delle auto più famose al mondo, sta vivendo una crisi personale e professionale. L’azienda che dieci anni prima aveva creato dal nulla è in grave difficoltà e anche il matrimonio con la moglie Laura sta diventando sempre più tempestoso dopo la morte del loro unico figlio Dino e la scoperta dell’esistenza di Piero, il figlio che Ferrari aveva avuto da una relazione extraconiugale. In cerca di riscatto, il “Drake” decide di puntare tutto su una gara di velocità che si disputa in Italia: la leggendaria Mille Miglia.
Michael Mann ha scelto di girare in Italia, con gli esterni a Maranello, per restituire le atmosfere e l’autenticità di personaggi straordinariamente intensi e visionari che hanno creato quella fusione di arte in movimento e potenza da corsa che è la Ferrari. La produzione vanta nomi di eccellenza tra cui il direttore della fotografia, il premio Oscar Erik Messerschmidt, la scenografa Maria Djurkovic, due volte nominata agli Academy Awards, il costumista due volte candidato all’Oscar Massimo Cantini Parrini, il premio Oscar per il sonoro Lee Horloff e il montatore Pietro Scalia, vincitore di due Oscar.
Ferrari ha alle spalle una lunga genesi. Era il 1991 quando Vittorio Cecchi Gori e Silvio Berlusconi acquistano i diritti del libro Enzo Ferrari: Il L’uomo, le macchine, le corse di Brock Yates per farne un film.
Nel 2004 era ancora tutto fermo. Venne allora chiesto a Sydney Pollack di dirigere il film con Al Pacino, ma il progetto non andò in porto. Nel 2006 la Cecchi Gori fallisce. Due anni dopo arriva il produttore Niels Juul (The Irishman di Martin Scorsese) e nel 2010 si aggiunge Mann, per un film da 95 milioni di dollari.

Michele Savoia interpreta Carlo Chiti nel film Ferrari

Nel cast, nei panni dello storico progettista Carlo Chiti, Michele Savoia. È lui ad aprirci una porticina su una grande produzione internazionale.

Michele, per te un grande salto: questo film ti ha catapultato su un set internazionale. Com’è stato dare volto e voce all’ingegner Carlo Chiti, uno dei padri di macchine storiche come la Ferrari 156 F1 o la 250 GTO?

Carlo Chiti è sicuramente una delle menti ingegneristiche italiane più brillanti. Nella sua carriera ha avuto sempre intuizioni geniali che hanno cambiato la storia automobilistica. Un grande onore poterlo interpretare. Ho voluto studiare il più possibile della sua vita, delle sue abitudini e del suo carattere. Una persona di estrema professionalità, senso del dovere, ma anche un uomo che amava ridere e raccontare barzellette (da ciò che mi ha raccontato chi lo ha conosciuto).

Un grande italiano come Ferrari raccontato da un americano. Il film di Michael Mann ci restituisce l’anima italiana di Ferrari?

Michael Mann è un regista strepitoso, con le idee perfettamente chiare e una profonda cultura italiana. Prepara questo film da 20 anni e conosce ogni dettaglio della storia di Ferrari e anche della cultura italiana dell’epoca e secondo me, ha restituito con molta onestà lo spirito e l’anima tricolore. Piccola curiosità, a volte si discuteva molto anche su cosa ci dovesse essere in tavola da mangiare nelle scene di pranzi/cene e cosa dovesse essere servito prima o dopo secondo la cultura italiana.

Michele Savoia sul red carpet di Venezia per la presentazione del film Ferrari
Michele Savoia sul red carpet di Venezia per la presentazione del film Ferrari

«È stato come viaggiare lontano portando in valigia la moka per il caffè»

La storia della Ferrari era stata raccontata anche nel film Le Mans 66 – La grande sfida con Matt Damon e Christian Bale. Adam Driver è stato Maurizio Gucci nel film di Ridley Scott. Com’è stato essere uno straniero in una delle storie italiane più famose al mondo?

Poter portare la nostra cultura in una storia nostrana raccontata dagli americani è stata una bellissima sfida, inaspettata, ma è stato come viaggiare lontano portando in valigia la moka per il caffè: un sogno ad occhi aperti che sembrava irraggiungibile, divenuto realtà tra i confini di casa.

Un dietro le quinte del film durante la produzione?

Conservo un sacco di ricordi dei miei tanti giorni sul set. Già il solo vedere Michael Mann con la sua instancabile energia e i suoi occhi luccicanti per la gioia mentre dirige, è un dono enorme. La grande professionalità e concentrazione sul set, la grande libertà nell’esplorare i personaggi e le scene. E, personalmente, un momento intimo che porterò nel cuore è stato quando, il giorno del mio compleanno, sul set, Adam Driver, Patrick Dempsey e Michael Mann mi hanno cantato happy birthday a fine riprese.

Michael Mann regista del film Ferrari
Michael Mann regista del film Ferrari

Liliana Cavani riceve il Leone d’oro alla carriera al Festival del cinema di Venezia 2023

È stata l’attrice Charlotte Rampling, protagonista del film Portiere di notte, ad accompagnare la regista Liliana Cavani a ricevere, a 90 anni, il Leone d’oro alla carriera al Festival del cinema di Venezia 2023, l’edizione numero 80 della Mostra d’arte cinematografica organizzata dalla Biennale.
«Sono la prima persona donna a ricevere questo premio – ha dichiarato la Cavani- e trovo che non sia giusto. Ci sono donne, sceneggiatrici, registe che lavorano bene al pari degli uomini e dobbiamo dargli la possibilità di essere viste. Il festival dovrebbe considerare anche che le donne possono fare bei film. Io sono la prima donna a ricevere il Leone alla carriera. Serve equilibrio in questo senso e mi auguro che questo inizio abbia un seguito»,
Liliana Cavani, è a Venezia 80 anche per presentare il suo film fuori concorso L’ordine del tempo, in sala dal 30 agosto.

Il film L'ordine del tempo
Il film L’ordine del tempo

«Il cinema si fa con gli attori. Scegliere gli attori giusti vuol dire essere già a metà strada del film. Perché il film lo fanno loro. Il regista sta dietro, dà le direttive, però se c’è l’attore davvero giusto, allora c’è un film».


Nel cast: Alessandro Gassmann, Claudia Gerini, Edoardo Leo e Angela Molina. Il film è prodotto da Indiana Production, Vision Distribution, Sky e Rai Cinema.
«Quando io e Paolo Costella leggemmo il libro di Carlo Rovelli intitolato L’Ordine del Tempo – racconta Liliana Cavani – abbiamo deciso di scriverne una versione cinematografica. Quando sono così affascinata dalla lettura da sentire nascere emozioni, voglio trasmetterle al mio pubblico, e di solito decido di farci un film. Paolo e io ci siamo immersi in parole emozionanti come: “Tutta la nostra fisica, e la scienza in generale, riguarda il modo in cui le cose si sviluppano ‘secondo l’ordine del tempo’”».
«Ho avuto la fortuna di trovare grandi attori che si unissero a me in questa avventura: artisti che possono offrire un’ interpretazione autentica della vasta gamma di emozioni che questa storia ha richiesto, trovando un personale modo per esprimere paura, nostalgia, stupore, incertezza, speranza. Perché il cinema si fa con gli attori. Scegliere gli attori giusti vuol dire essere già a metà strada del film. Perché il film lo fanno loro. Il regista sta dietro, dà le direttive, però se c’è l’attore davvero giusto, allora c’è un film».

Il cast del film L'ordine del tempo insieme alla regista Liliana Cavani all'80esima edizione del festival del cinema di Venezia
Il cast del film L’ordine del tempo insieme alla regista Liliana Cavani all’80esima edizione del Festival del cinema di Venezia

Al Festival del cinema di Venezia 2023 Liliana Cavani racconta il suo film L’ordine del tempo

«La prima volta che venni a Venezia fu con Philippe Pétain: processo a Vichy, un documentario fatto con pochissimo materiale cinematografico. C’era stato il processo e avevo molto materiale fotografico, per il quale ho dovuto inventarmi una sorta di montaggio. Avevo anche intervistato un generale di quasi novantotto anni, a Parigi, quasi seduta sulle sue ginocchia perché era sordo.
Erano le prime produzioni televisive dove si parlava della Seconda Guerra Mondiale. Da lì, sono poi finita a girare quattro ore sul Terzo Reich, tre ore sull’eredità di Stalin. Conoscevo la guerra del Peloponneso meglio della Seconda Guerra Mondiale, perché, per quanto assurdo, a scuola succede così. Per me fu una rivelazione che ci fossero ancora dei nazisti in giro. Fu un’esperienza formativa per me e che influenzò il cinema che feci subito dopo. Iniziai con un Francesco d’Assisi con quattro soldi. Avevo trovato per caso un vecchio libro su una bancarella. Nella mia vita il caso a volte l’ho incrociato. Vengo da una famiglia atea: conoscevo Francesco per la letteratura, per il suo Cantico, per la descrizione che ne fa Dante nella Commedia. Prima di quel film, però, c’erano state le ore di immagini riprese durante guerra: tanto materiale girato con piccole cineprese…per questo i negazionisti sono assurdi, perché è tutto filmato. Venivo quindi da una grande lezione di storia, con milioni di morti nei campi di sterminio: un passaggio del quale il mio cinema credo abbia risentito».

Il film L'ordine del tempo
Il film L’ordine del tempo

«Noi abbiamo paura del tempo futuro e ci dimentichiamo di quello passato. Eppure noi siamo perseguitati dal tempo. Questa è stata un’occasione per parlare del tempo».


A proposito del film presentato fuori concorso a Venezia, L’ordine del tempo, Liliana Cavani racconta: «Questo film è nato da un libro di Rovelli, che veniva a casa mia per spiegarlo a me e al mio cosceneggiatore, visto che i suoi libri parlano di fisica. Noi ci guardavamo e ci dicevamo: tu hai capito? Non capivamo tutto, però abbiamo avuto la possibilità di riflettere sul tempo. Noi abbiamo paura del tempo futuro e ci dimentichiamo di quello passato. Eppure noi siamo perseguitati dal tempo.
Questa è stata un’occasione per parlare del tempo.
Pensando al tempo, il momento della mia vita che mi è piaciuto di meno, è stato vedere l’apertura dei lager. È il ricordo peggiore di tutto quello che ho visto. Quando sento parlare i negazionisti, credo si dovrebbero legare a una poltrona e far vedere loro i fatti. Si fa poca storia. Oggi pensiamo che in passato fossero incivili, invece le guerre sono diventate sempre più criminali. C’è stato un crescendo, ma a scuola non lo raccontano.
Oggi sono felice di essere qui con il mio produttore perché ha deciso di fare questo film. I produttori dovrebbero osare e fare cose che non si erano fatte prima».

Filippo Timi debutta con lo spettacolo One Shot Show

Filippo Timi
Filippo Timi

Filippo Timi ha debuttato in prima nazionale con lo spettacolo prodotto dal Ginesio Fest, One shot show scritto insieme a Lorenzo Chiuchiù, con Matteo Prosperi, Gianluca Vesce e gli attori della scuola del Teatro Stabile di Torino che hanno preso parte al laboratorio “Per te farò sanguinare i fiori del paradiso (la maschera del desiderio)”.

Accompagnato dal suo Corgi, Tarquinia, Filippo Timi ha vissuto una settimana insieme ai ragazzi della master class, agli altri attori ospiti, ai giornalisti, ai tecnici, che tutti insieme hanno trasformato il piccolo paese marchigiano di San Ginesio nel borgo degli attori.
Incontrarlo e chiacchierare con lui è naturale come incontrare Massimo Viviani al Bar Lume.
Insieme, abbiamo parlato dello spettacolo che ha preparato con i ragazzi dell’ultimo anno della Scuola per attori dello Stabile di Torino diretta da Leonardo Lidi.

Si siede e poggia sul tavolo il suo hang, uno strumento musicale idiofono in metallo creato in Svizzera vent’anni fa. Il suo suono ancestrale accompagnerà la recitazione di versi durante la nostra conversazione. «Niente intervista, solo una chiacchierata informale», precisa Filippo. Ma tanto basta: la sua voce ipnotica trascina lungo i sentieri di uno spettacolo che non ha neanche il titolo.
«Quando lavoro non sono abituato a trovare titoli». Inizia così Filippo Timi, chiuso da cinque giorni nello studio “matto e disperatissimo” di una sua riscrittura del Paradiso perduto di Miller.

Al di là della maschera del bene del male

«Abbiamo deciso di chiamarlo Al di là della maschera del bene del male, perché l’attore deve essere al di là del bene del male. Non può giudicare, ad esempio, Riccardo III. Non lo giustifichi, ma se lo devi incarnare, devi trovare la grande domanda che ha fatto scattare quella maschera per diventare quell’orribile personaggio che è. Ed è sempre l’amore. Sarà che sono figlio degli anni ‘80 e dei Bellissimi di Retequattro. In questo caso è Satana che fa tutto quanto per amore.
La frase topos di questo spettacolo è “Per te, Gabriele, farò sanguinare le cime del paradiso”. Nel Paradiso di Miller, gli angeli hanno gli occhi chiusi perché hanno detto loro che, se li aprono, la luce divina li acceca. Ma Satana si innamora di Gabriele, nonostante non lo veda. A un certo punto Satana vuole vedere il suo amore e vuole che il suo amore guardi lui. Ubriaco, apre gli occhi e scopre che nessuna luce divina li acceca. Satana cerca di convincere Gabriele che amare è meraviglioso, ma sarebbe ancora più bello poter anche vedere la persona amata. Con un’espediente ci riesce, ma alla fine Gabriele si cava gli occhi e Satana si cava il cuore».

«Per me Satana è un simbolo, come Zaratustra o Giuda. Se dovessi fare uno spettacolo su Giuda, farei la scena dove Cristo chiede, implora Giuda di tradirlo. Satana è fondamentale per la storia. A differenza di Milton che separa il bene dal male, io credo che siano un po’ come la luce e il buio: che siano due facce della stessa medaglia. Dipende da come la vedi. Soprattutto, non possono esistere l’uno senza l’altro: se c’è la luce deve esistere anche il buio, altrimenti non ho luce. Satana cade, ma cadere è fondamentale per rialzarsi».

Ritratto di Filippo Timi
Ritratto di Filippo Timi

Io sono quasi cieco. Ho un morbo agli occhi che non mi fa vedere… Il lavoro di immaginazione che il mio cervello fa, è enorme. Ma, a differenza del vostro, è come un fiore: non si piange addosso. Ho portato i ragazzi nella mia condizione di buio e di cecità.

Come entra in un personaggio?

Penso a com’è nell’intimità. Ad esempio, penso a come si tiene l’uccello in mano Amleto quando va in bagno. Perché sì, è Amleto, ma prova le stesse cose che prova qualsiasi altro essere umano.
Quando i ragazzi sono arrivati in sala il primo giorno, c’erano i copioni in terra. Li ho fatti mettere in cerchio, ho fatto chiudere le serrande e si sono trovati al buio. Ho detto: adesso leggete il testo e tra due ore proveremo. Erano spaesati. Una soluzione c’è. Bisogna aspettare che l’occhio si abitui. Dopo mezz’ora, quando sono rientrato, erano demoni affamati che a gruppetti leggevano laddove avevano trovato una flebile luce che entrava.
Perché una provocazione del genere? Perché io sono quasi cieco. Ho un morbo agli occhi che non mi fa vedere. Non imparo i nomi perché non mi affeziono alle facce. Io non vedo l’espressione di chi mi parla. In teatro, paradossalmente, è più semplice lavorare con questo problema: non subisco lo shock di cambiare visione, perché come non vedo nella vita così è sul palcoscenico. Il lavoro di immaginazione che il mio cervello fa, è enorme.
Ma, a differenza del vostro, è come un fiore: non si piange addosso. Ho portato i ragazzi nella mia condizione di buio e di cecità.
Quando vado a Cannes a vedere la prima di Bellocchio, non vedo il film, vedo che io sono visto da attori e attrici del calibro di Nicole Kidman, ad esempio. Io non vedo: io mi vedo visto e abbasso lo sguardo perché mi vergogno.

Quanto influisce preparare uno spettacolo in un borgo medievale, essere qui a San
Ginesio?

Tantissimo. Questo è uno spettacolo nato per questo contesto. È nato dall’invito di Rodolfo di Giammarco (storico giornalista e critico teatrale per “La Repubblica” – nda) e di Leonardo Lidi a partecipare. Ho riscritto il testo per questi ragazzi. Non li conoscevo e, in cinque giorni, ho affidato loro i ruoli e fatto le prove. Dodici ragazzi non sono pochi e riuscire ad armonizzarli non è semplice. Ma ci siamo riusciti. In tutti i miei spettacoli io scrivo il testo, lo provo con gli attori e riscrivo il testo per loro.

Ritratto di Filippo Timi
Ritratto di Filippo Timi

Un attore non è un grande attore malgrado le difficoltà, ma grazie ad esse.

Cosa l’ha colpita di questi ragazzi?

Che sono tutti bravissimi. Mi ha colpito la loro serietà, l’atteggiamento, che colgano del teatro anche il valore politico. Non perché il teatro debba necessariamente parlare di politica, ma comprendono che il gesto artistico è di per sé un gesto politico.
Ho cercato di fare con loro come con Bellocchio, quando ti dà informazioni tipo: «perfetto Filippo, ma qui accendi il buio». È ovvio che vuole provocarti. E magari io inciampo e Marco dice «sì!», perché voleva che inciampassi. In quei casi mi affido a Stanislavskij, per il quale, anche se non comprendi la frase, ma ne cogli la bellezza, tienila da parte. Magari la capirai un giorno, magari no, ma resta la bellezza. Quello che c’è nel buio, per me è ancora da scoprire. È una frase che vuole dire tutto e nulla, ma anche se non la comprendo è bella e il mio non comprenderla non leva bellezza a quella frase.

Credo che la maturità dovrebbe essere un riuscire a prendersi cura di se stessi, che magari passa per il prendersi cura degli altri. A volte è la stessa cosa. E il teatro, secondo me, è un modo per prendersi cura dei simboli che ognuno di noi è.

Lei ha portato i ragazzi sul suo terreno. Ha detto «io non vedo» e li ha costretti a lavorare al buio. Ha creato un disequilibrio obbligandoli a trovarne uno nuovo. Oggi siamo tutti abituati alla spettacolarizzazione del dolore. È riuscito a portarli all’utilizzo della sofferenza come espediente per trasformare un disequilibrio in un nuovo equilibrio?

Magari ci fossi riuscito. Non solo con loro, ma anche con me. Io vivo seriamente una condizione handicappata. Se vado in giro col cane di sera, e non ho nessuno con me, è un pericolo, perché magari non vedo uno spacciatore che però pensa che l’ho visto spacciare e mi riempie di botte. Tutta la mia vita è basata sul lavoro di cercare un valore nelle difficoltà.
Quest’anno ho finalmente capito che la balbuzie mi ha salvato la vita. Per anni sono andato in scena col terrore di balbettare. Questo mi nutriva di un’energia che al pubblico arrivava, ma io l’ho sempre demonizzata, accusata. Ho capito che mi ha salvato la vita, perché c’erano tantissime cose più pericolose che non vedevo.A 21 anni, senza scuola, primo attore di Barberio Corsetti a fare Edipo, avrei pericolose che non vedevo.
A 21 anni, senza scuola, primo attore di Barberio Corsetti a fare Edipo, avrei dovuto cacarmi sotto. C’erano squali che mi giravano intorno e io non li ho visti. Facevo pattinaggio artistico, le piroette, le spaccate: in quello avevo davvero un talento. Forse perché ero disperato, perché avevo fame, perché soffrivo, perché non scopavo. Mi sembrava di impazzire. A 21 anni, sei un atleta di pattinaggio artistico, hai l’energia per conquistare il mondo e l’unica preoccupazione era che balbettavo. L’ho capito adesso. Mi sono reso conto che sarei dovuto rimanere terrorizzato per tantissimi altri motivi più seri. Invece no. Quindi magari fossi riuscito a dare a questi ragazzi un simile strumento.
Un attore non è un grande attore malgrado le difficoltà, ma grazie ad esse. Questo esperimento l’ho fatto con altri laboratori. Trovare valore tra le cose così come accadono, non come ce le aspettavamo. Questo è, secondo me, il lavoro della vita.
Si dice che è un fiore con un sasso in testa non si piange addosso: spunta comunque. È vero. Non credo che le difficoltà rendano forti: le difficoltà possono far capire chi è forte. Ma anche chi è forte, alla 99ª porta sbattuta in faccia, si stanca. Io a cinquant’anni, per quanto sia forte, devo accettare di calmarmi un attimo. Poi magari ricomincio a riprenderle. Credo che la maturità dovrebbe essere un riuscire a prendersi cura di se stessi, che magari passa per il prendersi cura degli altri. A volte è la stessa cosa. E il teatro, secondo me, è un modo per prendersi cura dei simboli che ognuno di noi è.

Il nuovo film di Alain Ughetto: “Manodopera – Vietato ai cani e agli italiani”

Arriva in sala il 31 agosto il premiatissimo film in stop-motion di Alain Ughetto, con le emozionanti musiche di Nicola Piovani: Manodopera – Vietato ai cani e agli italiani.
L’arrivo al cinema con Lucky Red sarà accompagnato da un tour di proiezioni con il regista e una mostra al museo della Migrazione italiana di Genova, aperta dal 5 agosto.

Piemonte, inizi del ‘900. La speranza di una vita migliore spinge Luigi Ughetto e sua moglie Cesira a varcare le Alpi e a trasferirsi con tutta la famiglia in Francia. Il regista Alain Ughetto ripercorre la sua storia familiare in un dialogo immaginario con la nonna. L’animazione in stop-motion racconta la vita degli emigrati italiani mettendo in scena un racconto fresco e poetico.
Questo, in poche righe, la storia di Manodopera – Vietato ai cani e agli italiani. Un film d’animazione che racchiude un mondo fatto di minuzioso lavoro manuale, di sentimenti, di ricordi, di pezzi (tanti) di una storia dimenticata. Cancellata.
Sulla sommità del Palazzo della Civiltà italiana, nel quartiere Eur di Roma, si legge: “Un popolo di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori”.
Ed è di quel popolo che parla Manodopera – vietato ai cani e agli italiani. Non di quei “trasmigratori” che tanti film ci hanno restituito, provenienti dalle regioni meridionali, ma di quelli di quel nord che vogliamo raccontare solo ricco e industrializzato.
Quel popolo che, come Annibale, varca le Alpi a piedi, sotto la neve, perché “quest’inverno non c’è cibo per tutti”, dice un tenerissimo pupazzo animato.

Le riprese del film animazione Manodopera – vietato ai cani e agli italiani
Le riprese del film animazione Manodopera – vietato ai cani e agli italiani

La vita degli emigrati italiani raccontata dai pupazzi animati

Pupazzi innocui, quelli di Ughetto, che narrano di emigranti – perché questo eravamo prima dell’avvento del politically correct – così come raccontati sui giornali svizzeri, belgi o francesi: «quello che caratterizza il lavoratore italiano è la sua adattabilità…questi operai non hanno dignità personale…chinano la testa e obbediscono». Non eravamo senza dignità, solo affamati: da popoli occupanti prima e da dittatori dopo.
Ieri come oggi, solo che noi non dovevamo neanche attraversare il mare o il deserto. Bastava varcare il confine per andare a costruire la ricca Europa del nord, scavare tunnel, morire in miniera (“Chi era? Era un italiano” – dice un piccolo minatore di plastilina sopravvissuto a un’esplosione).
Mandando bambini, i nostri, di dieci anni, al mercato per essere acquistati da famiglie bisognose di lavandaie e garzoni.
Quello che Alain Ughetto fa rivivere è una storia di una dolcezza infinita, un dialogo transgenerazionale, il recupero delle origini. Le sue, le nostre, quelle di chi migra ancora oggi.
Un passato vecchio di appena cento anni, dimenticato, lasciato alle spalle, come il Cristo appeso a una parete voltato verso il muro: un Cristo che si è voltato dall’altra parte. Il prete del povero villaggio raccontato come lo sceriffo di Nottingham di disneyana memoria. Le suore sponsor del fascismo. «Ho scoperto che mio nonno non è che amasse molto i preti» – ci risponde Ughetto durante la nostra intervista.

Le riprese del film animazione Manodopera – vietato ai cani e agli italiani
Le riprese del film animazione Manodopera – vietato ai cani e agli italiani

«Ho usato la tecnica della stop-motion perché permette di far vedere l’importanza del lavoro manuale»

Manodopera – vietato ai cani e agli italiani è un’ora di poesia, per non dimenticare quando a vedersi rifiutare un affitto eravamo noi e non i neri; quando a non poter entrare in un locale erano gli italiani cristiani e non gli italiani ebrei; quando gli immigrati da trattare come bestie eravamo noi.

Il cartello – ci spiega Ughetto – veniva esposto in diversi bistrò in Francia, Belgio e Svizzera. Era il segno di un’epoca e ci tenevo a mostrarlo e a costruire una scena intorno a quel cartello. Mi sono immedesimato nei panni dei miei nonni, chiedendomi come avessero potuto sopportare di arrivare in un posto e veder scritto su un cartello “vietato ai cani e agli italiani”. È lo stesso razzismo che è ancora tra di noi oggi.

Manodopera è una sorta di racconto attorno al fuoco. Testimonianze che passano letteralmente dalle piccole mani di plastilina dei nonni a quelle vere di Ughetto grazie all’animazione in stop- motion.

Ho usato la tecnica della stop-motion perché permette di far vedere l’importanza del lavoro manuale. Mio nonno era un bricoler, faceva tante cose con le mani, era bravissimo ed è un talento che ha trasmesso a mio padre e mio padre a me. A questo film hanno partecipato tantissime mani dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Svizzera, dall’Italia, dalla Francia. Tante mani insieme che hanno realizzato il film che avete visto. 

«È importante sapere da dove si viene. È importante conoscere le proprie origini. Ora che lo so, sono contento non solo per me, ma anche per i miei figli e per tutti quelli che verranno dopo»

Il film ha una dedica: «Alla mia famiglia, alle famiglie costrette all’esilio per sopravvivere».

Sono il nipote di Cesira e Luigi e per questo ho deciso di essere una parte integrante del lungometraggio, anche se appare solo la mia mano. È una forma di rispetto e il mio modo per dire loro grazie. Se oggi sono qui e faccio quello che faccio è anche grazie a loro e a quello che hanno vissuto. 
È stato difficile trovare testimonianze dirette – continua il regista – Mio padre, come molti sopravvissuti all’Olocausto, non aveva voglia di ricordare quello che aveva vissuto durante la guerra. Una sola volta raccontò qualcosa, ma senza approfondire, e quella notte ebbe difficoltà a dormire. Tornare a ricordare quei momenti non gli aveva fatto bene. 
Quello che ho scoperto durante le mie ricerche è da dove vengo, quali sono le mie origini. È un lavoro che ho voluto fare non solo per me, ma per i miei figli e per i miei nipoti. È importante sapere da dove si viene. È importante conoscere le proprie origini. Ora che lo so, sono contento non solo per me, ma anche per i miei figli e per tutti quelli che verranno dopo.

Le riprese del film animazione Manodopera – vietato ai cani e agli italiani
Le riprese del film animazione Manodopera – vietato ai cani e agli italiani

«Il mezzo della stop-motion e l’uso di questi pupazzi, permette di andare verso la poesia. E aiuta anche a mantenere la distanza necessaria per raccontare questa storia»

Manodopera è un film d’animazione delicato e potente che emoziona, indigna e commuove senza impietosire, accompagnato dalle musiche evocative di Nicola Piovani.

Io ho un nonno italiano, ma la mia italianità familiare si ferma lì – racconta il regista – perché i miei genitori si sentivano completamente francesi. Sono stati la mia curiosità intellettuale e i miei studi a portarmi verso l’Italia, la sua cultura e il suo cinema. Quando ho deciso di fare questo film ho detto: sì, raccontiamo una storia triste e tragica, ma non in maniera pesante. Devo fare questo film un po’ alla Ettore Scola, che raccontava delle cose terribili con un umorismo elegante. Questo per me è il tratto distintivo dei film italiani: l’eleganza e l’umorismo nel raccontare anche storie difficili. Penso a Scopone scientifico, Brutti sporchi e cattivi, La strada. Questi sono stati i film con i quali sono cresciuto e che hanno nutrito la mia immaginazione.
Lavorare con Piovani, poi, è stato un sogno. Ascoltavo la sua musica e ho capito che volevo lui per accompagnare la mia storia. Gli ho scritto chiedendogli proprio questo: vorrei che tu mi accompagnassi musicalmente in questa avventura. Lui è rimasto un po’ sorpreso, dicendomi che non aveva mai fatto le musiche per un film di animazione. Ma ha accettato la sfida.  Nicola è un vero signore e lavorare insieme a lui è stato un sogno.

«Quando ho deciso di fare questo film ho detto: sì, raccontiamo una storia triste e tragica, ma non in maniera pesante»

E il pupazzo animato può essere un media che supera censura e pregiudizio?

Il mezzo della stop-motion e l’uso di questi pupazzi, permette di andare verso la poesia. E aiuta anche a mantenere la distanza necessaria per raccontare questa storia. Io volevo raccontare la storia di tre generazioni non di una e sicuramente, quando si parla di migranti, oggi lo si fa collegandosi all’attualità. Poi è ovvio che, attraverso la storia di uno, di una famiglia, si può arrivare a parlare di una collettività.

Locandina di Manodopera - vietato ai cani e agli italiani
Locandina di Manodopera – vietato ai cani e agli italiani

Domenico Cuomo, l’autenticità come base della recitazione

Domenico Cuomo. 19 anni compiuti il 6 febbraio, cerca un appartamento a Roma per provare a vivere da solo. Originario di Gragnano, ha recitato in serie di successo come Gomorra, Il commissario Ricciardi, L’amica geniale, Catch-22 e, soprattutto, Mare fuori, dove interpreta Cardiotrap.
Parlare con lui è piacevole, naturale, finché affiora il pensiero dell’età… Un giovane che parla di giovani. «Si parla tanto di giovani, ma a noi viene chiesto di rado di parlare, perché “non lo possono fare, non sono capaci, non hanno voglia…Credo non si debba generalizzare, dipende sempre dall’individuo e, per i valori, dalla famiglia. Bontà e voglia di fare di un ragazzo non credo abbiano a che fare col momento storico. Ci sono stati giovani che hanno vinto guerre. Ci dicono sempre “che lo fai a fare? E se poi va male? Prenditi una laurea in qualcosa di più utile”. Magari quel ragazzino vuol fare il musicista o un altro lavoro. Non mi piace questo modo di pensare: non si può, per paura, vivere una vita che non si è scelta».

Ai Nastri d’argento hai ringraziato la Rai, ma soprattutto chi si occupa dei ragazzi in regime di detenzione. Perché questo problema ti sta a cuore?

Perché sono emarginati. Noi siamo privilegiati ad essere qui. Ci sono ragazzi brillanti come me, menti geniali, che purtroppo, a causa di circostanze esterne, sono gettati in queste realtà infernali dove vige la violenza, sia fisica che psicologica, e sono vessati già per il semplice fatto di esser stati rinchiusi negli istituti minorili. Non va bene. In giovane età si possono fare errori assurdi, ma non è giusto pagarli per tutta la vita. Sono anime perdute, ci sono persone che non si riprendono più. Ragazzini di 13/14 anni che hanno ucciso una persona, sono una sconfitta per l’umanità in generale. Secondo me è d’obbligo cercare di recuperarli.
Sono cresciuto in un ambiente protetto, benestante, non ci è mai mancato il piatto a tavola, ma venendo da un paesino ho conosciuto ragazzi che avevano queste difficoltà. È una missione che ho abbracciato e, nel mio piccolo, cercherò sempre di aiutare chi non ce la sta facendo, chi non ha il coraggio di riprendersi la propria vita.

Domenico Cuomo
Total look Gucci

Domenico è quello del suo profilo Instagram, dove il post di una sfilata e sua nonna scorrono una accanto all’altra. Dove una voce di sottofondo commenta le riprese di un bellissimo palazzo: “questo lo faccio vedere a mamma”. Dove c’è un bambino che cresce e un ragazzo che suona.

Sono io, da piccolo, in vacanza a Londra. Nel mio telefono ho sempre foto del passato, perché credo sia importante sapere da dove sei partito. Amo dire che quando si è fuori per lavoro, lontani per tanto tempo da casa, non si deve aver paura di piangere perché ti mancano mamma e papà. Fama, foto, storie di Instagram, sono cose effimere. Per fare la storia, quella vera, bisogna saper proteggere il bambino che ho postato lì, ed è possibile grazie al senso di appartenenza al posto dove sono nato e alla famiglia. Gli amici mi dicono “ma devi farti vedere dalle ragazze. Le foto con le nonne non vanno bene”, e io rispondo sempre che devo far vedere chi sono io. Non sono un tipo molto social. Sono di piazza, mi piace andare a suonare la chitarra sul marciapiede, condividere con le persone quello che per me è sacro, come il terrazzo di mia nonna, che abita al piano di sopra. Queste sono le cose che contano, secondo me. Una sfilata, in questo senso, ha lo stesso valore di un pranzo con mia nonna, i racconti di lei o del nonno, a tavola tutti insieme, sono queste piccole perle a farmi andare bene sul set, a permettermi di arrivare ai Nastri d’argento: i messaggi giusti, buoni, che loro mi hanno instillato. Per me è un onore avere mia nonna su Instagram.

Sei tornato su Rai2 con la terza stagione di Mare fuori. Blackout – Vite sospese, sempre Rai, ha battuto il Grande Fratello VIP tutti i lunedì. Possiamo sperare che l’era del trash stia finendo?

Il telecomando è in mano alle persone, io sono solo un ragazzo che fa il suo lavoro nel miglior modo possibile. Il resto non mi interessa. Non sono legato agli ascolti, quando escono fanno già parte del mio percorso, della mia vita, per il semplice fatto che ho lavorato a quel progetto.

Ha fatto discutere, allo scorso Festival di Sanremo l’abito Dior finto nudo indossato da Chiara Ferragni. C’è chi sostiene che usare il corpo della donna per parlare di violenza femminile sia
strumentale e controproducente…

Credo che i nostri corpi, maschili e femminili, siano bellissimi, una grazia di Dio. Sono molto credente, grato di avere gambe e braccia funzionanti. Quando sento simili discorsi, rispondo che Michelangelo e Raffaello hanno rappresentato le donne e sono diventati pezzi di storia dell’umanità; vogliamo dire loro che hanno strumentalizzato la donna? Ognuno crea un certo tipo d’arte. Chiara Ferragni si è presentata a Sanremo con un abito con delle scritte, che raccontano la quotidianità delle battaglie femminili, è stata coraggiosa. Criticare l’uso del corpo come strumentale, credo porti a commettere un errore molto frequente: quello di insinuare che nell’arte ci sia malizia, secondo me invece non le appartiene, perlomeno a quella pura.

Eri nel cast di Catch-22 di George Clooney…

È stata un’esperienza unica. Mi ha colpito l’umiltà di alcuni divi di Hollywood, attori come Hugh Laurie di Dr. House che uscivano dal camerino e si mettevano su una sediolina a vedere i militari che si allenavano. Quando gli ho chiesto perché fosse lì e non nella roulotte con tutti i comfort, mi ha risposto che gli mancava la sua famiglia. Ringrazierò sempre Clooney per l’opportunità di Catch-22. Ho fatto un solo provino. Quando andai a Roma, mi fece uno scherzo: arrivai con tanti fogli in mano e, circondato da ragazze bellissime, chiesi a una responsabile se fosse la stanza giusta; mi disse di sì, di darle tutti i fogli. Mi preoccupai, pensando che volessero sentirmi senza copione. A un certo lui uscì, mi abbracciò e disse “Welcome to Catch-22”. Ti lascio immaginare la faccia di mio padre, commosso e in lacrime. Fu un momento bellissimo.

Con i tuoi amici è come una volta?

Sempre. Sono dei pazzi come me, li porterò sempre con me. Soprattutto per gli “schiaffi”, se faccio qualcosa che non va bene. Siamo un branco: Riccardo, Leo, Ennio e io. Sono onorato di averli nella mia vita. Ci sono stati momenti in cui mi sono trovato in situazioni difficili, ad esempio dopo Mare fuori 3 ho avuto una fase di down totale.
È stato un lavoro emotivamente tosto da affrontare, ho cercato di aprire le gabbie, liberando tutta la negatività. Loro, insieme alla mia famiglia, sono stati il motivo per cui mi sono ripreso subito. Mi hanno ricordato che sono Domenico, non Cardiotrap.

Credits

Photographer Davide Musto
Stylist Stefania Sciortino
Make-up Lorena Leonardis @cotril
Photographer assistant Valentina Ciampaglia
Stylist assistants Chiara Carrubba
Mua assistant Anna Gioia Catone

Laila Al Habash, la rapper italopalestinese la cui musica è un incontro di diversità

La incrociamo alla prima stampa del film Noi anni luce. Non avevamo concordato un’intervista ma ci colpisce. Lontana dall’immagine che avevamo nella mente di una rapper, la notiamo per la sua semplicità, la sua luce, la sua grazia. Aggettivi, questi, che appaiono come un ossimoro in una frase che contenga anche il termine rapper.

È considerata una cantante rap, hip pop, underground, quindi le chiediamo se per lei è così importante avere un’etichetta: “Io pubblico la mia musica senza preoccuparmi di dire in che genere mi trovo. La maggior parte delle persone ascolta tanti generi diversi. Questa febbre maniacale dell’etichettare le cose è controproducente. Nella mia produzione ci sono tante influenze perché mi piace lavorare con persone che hanno gusti o background diversi dal mio.”

“La mia musica è un incontro di diversità.”

La copertina di Moquette ricorda Mina e c’è un una foto della Carrà. Due icone molto distanti da te a livello temporale…

Sono icone che porto nel mio cuore. In ogni famiglia c’è sempre un programma che mette d’accordo tutti e Mina e la Carrà erano due personaggi che tutti in famiglia amavamo vedere. Ho sempre respirato in casa le canzoni di Mina: sono belle da cantare, liberatorie. Per Raffaella Carrà provavo una sorta di attrazione magnetica, guardavo i suoi costumi, come si muoveva. Mi sembrava sempre colorata, immediata, simpatica, poliedrica. Mi ipnotizzava.

Sei una rapper. Nonostante oggi ci siano donne come Madame, Myss Keta, Elodie, che hanno contaminato il rap con il pop, o più pure e dure come Chadia Rodriguez, Leslie o Beba, il mondo della musica rap è maschile e maschilista.  Il rap nasce come denuncia sociale eppure è un mondo con un gender gap molto forte…

Io il rap lo tifo dagli spalti: non mi permetto di dire che sono una rapper… Forse non ho neanche il physique du rôle. Mi piace ascoltarlo, lo studio perché mi interessa l’incastro estetico di rime. È il genere in cui è più interessante seguire, a livello metrico, il flow o il testo. La contaminazione nella musica per me è solo un bene. Il gender gap non esiste solo nel rap o nel mondo musicale: è ovunque. Per anni abbiamo pensato che il palco fosse più adatto agli uomini, alle boy band, invece le artiste ci sono sempre state. Quello che era diverso era come venivamo trattate nel mondo discografico. Ora noi artiste siamo tante e la nostra presenza sarà sempre più normalizzata all’interno del settore.

Dall’ambiente underground romano al concerto dei Coldplay al Maradona di Napoli. Ti sei trovata davanti uno stadio enorme con un pubblico che non era il tuo. Ora la vedi come una bella esperienza, ma aprire un concerto di quel tipo è sempre un grande rischio…

Esibirsi al Maradona è stata una delle esperienze più forti che abbia mai fatto. Più di 40.000 persone: è stata una bella botta. Non ho dato affatto per scontata l’accoglienza calorosa dei fan dei Coldplay, perché nelle aperture dei concerti di band di fama mondiale non sempre va tutto liscio: sei davanti a un pubblico molto affezionato, che magari aspetta da anni quel concerto; e sei in uno stadio, dove magari il pubblico è da ore sotto il sole ad aspettare. Sai, potrebbe non fare loro molto piacere sentire più di mezz’ora del tuo show. Invece a Napoli ho trovato un bel pubblico, accogliente, caloroso. Si è creata subito sintonia e non me lo aspettavo: quindi sono ancora più felice di aver fatto questa esperienza.

Su Instagram hai scritto: “una delle sensazioni sbloccate: cantare Pino Daniele a Napoli, al Maradona, durante il solstizio d’estate. Mettimele in ordine e prova a spiegarmele

Parto dal solstizio d’estate. Mi ha incuriosito che stavo suonando il 21 giugno, che è il solstizio d’estate, uno dei giorni in cui si apre un varco tra il terreno e l’ultraterreno. Nelle tradizioni magiche è un giorno in cui è favorevole chiedere qualcosa perché si viene più ascoltati. In un giorno magico io ero lì, in uno stadio, uno dei posti dove molti artisti non arrivano mai a suonare, entrando dall’ingresso principale. Poi ero a Napoli a cantare Pino Daniele. Ma non in napoletano. Ho portato “Bambina”, una canzone in italiano. Con la band ci siamo guardati e ci siamo sentiti un brivido dietro la schiena come per dire: ma cosa stiamo per fare? Siamo a Napoli a cantare Pino Daniele… siamo pazzi!  Poteva andare in due modi: malissimo o benissimo. È andata bene.

Suoni la chitarra, sei una cantautrice, hai studiato pianoforte, e dal 27 luglio sei al cinema con  “Noi anni luce” di Tiziano Russo (Skam Italia), che debutta al Giffoni Film Festival il 23 luglio. Ti eri persa?

No! Mi hanno invitata a recitare in questo film… Faccio un altro mestiere, ho studiato altro e non ho mai recitato. Il cinema ce l’avevo in un angolino della testa, era una cosa sulla quale mi piaceva fantasticare. Non pensavo mi potesse capitare già adesso e mi sono divertita tanto. La fiducia che tutta la troupe ha riposto in me mi hai emozionata. Interpreto Mila, un personaggio importante ma laterale. Mi sento onorata che qualcuno abbia pensato a me. Non sono cose scontate.

Quindi se ti propongono un altro film, accetti?

Dipende da cosa mi propongono, però mi piacerebbe

Mamma italiana e papà palestinese. Sei mai stata in Palestina?

Quando avevo sei mesi. È complicato per me andare in Palestina, a livello burocratico, perché ho avuto un passaporto palestinese. So da miei coetanei italo palestinesi che non è facile per noi accedere ai territori occupati militarmente dal governo israeliano. Ma in Palestina vivono molti miei parenti.

L’Occidente appoggia l’Ucraina e si volta dall’altra parte davanti all’occupazione della Palestina da parte di Israele. Al popolo palestinese vengono negati addirittura gli aiuti umanitari. Cosa provi?

Spero con tutto il cuore che la situazione in Ucraina si possa risolvere il prima possibile. Spero che il fatto che l’Ucraina è più vicina all’Europa, che gli ucraini siano sentiti più simili, contribuisca a far cessare questa situazione e a far arrivare aiuti. Al contrario di come è accaduto in Siria, in Palestina e in altri Paesi arabi.

Come mi sento? Non ho nessun sentimento di vendetta o di rivalsa. Quello che mi addolora è notare la reazione delle persone, perché sembra che ci siano posti dove è sbagliato che cadano le bombe e posti dove invece è giusto che questo accada. Questo mi dà fastidio. Come se ci fossero nazioni dove le persone sono abituate, quindi possono cadere le bombe, e tutti ci voltiamo dall’altra parte. È una distinzione che mi addolora profondamente.

È una storia che ti appartiene?

Sì. Io ho un cognome palestinese, ho la mia famiglia lì. I miei cugini vivono lì. Sono grata al fatto di essere nata in Italia. Il passaporto italiano è qualcosa che spesso si dà per scontato. Io sarei potuta nascere lì per qualsiasi coincidenza. I miei genitori sono andati a vivere in Palestina negli anni 80 e poi sono tornati, perché le condizioni stavano peggiorando. Mi emoziona sempre vedere mio padre, che è qui da più di cinquant’anni, e sentirlo parlare del Paese suo. Quando lui dice il Paese mio, si riferisce alla Palestina. Tutti i palestinesi sentono una grande appartenenza e una grande sete di giustizia. Soprattutto, il popolo palestinese ha fame di pace

Hai un passaporto italiano perché tua madre è italiana. Ma ci sono tanti altri ragazzi della tua età o più piccoli che sono nati in Italia, cresciuti qui, parlano i nostri dialetti, che probabilmente non vedranno mai il loro Paese di origine, e che non hanno passaporto…

Sono cosciente di avere un trattamento diverso perché per metà sono italiana e ho anche la fortuna di non essere mai stata discriminata perché non ho ereditato tratti somatici spiccatamente mediorientali. Non rientro nello stereotipo della donna araba. Non sono mai stata discriminata perché sono bionda con le lentiggini. Conosco ragazzi italo palestinesi, con la mia stessa storia, che non hanno una vita facile come la mia. Sono felice che sempre più spesso si parli della complessità della nostra società, ma abbiamo ancora tanta strada da fare.

Laila Al Habash
Laila Al Habash

Il razzismo è un problema che sta più sui giornali e sui social o lo percepisci forte anche in strada, tra la gente comune?

Io sono cosciente di vivere in una bolla. Vivo a Milano in un bel quartiere, faccio la cantante. Una frase che non mi piace è “il mondo reale”, come se ci fossero mondi più reali di altri, ma sono consapevole di non essere sempre a contatto con le esperienze che fanno la maggior parte delle persone in Italia. Quello che mi auguro, ed è la cosa che trovo più logica, è una maggior integrazione nelle prossime generazioni. Anche perché che altra opzione c’è? Nel momento in cui lo straniero non vive più chiuso nel suo ghetto, ma è l’artista che ascolti, lo scrittore che leggi, il tuo compagno di banco, per forza ci sarà un’integrazione. Spero di non essere naif, perché quello che vedo e sento in questo momento mi terrorizza.

Se con una macchina del tempo potessimo andare nella Roma dei Cesari, troveremmo non solo romani e greci, ma anche daci, gli attuali romeni, palestinesi, cartaginesi, gli attuali libici: troveremmo un mondo molto più variegato di quello che viene raccontato

E la cosa che mi fa sorridere è la difesa estrema dell’italianità come se esistesse una razza italiana. Se tutti noi ci facessimo un test del DNA, ci scopriremo molto più simili di quanto non siamo in apparenza. Anche un confine: cos’è un confine? Sicuramente parliamo lingue diverse, ma al di là di questa differenza siamo molto simili. Dentro di noi c’è un crogiolo di etnie. Quindi chi stiamo difendendo? Un personaggio immaginario. Cos’è una razza pura? Di cosa parliamo quando parliamo di sostituzione etnica? Sono discorsi ottusi.

Ti affascinano le antiche arte divinatorie. Il tuo futuro è nelle stelle o nelle tue mani?

Non credo sia nelle mie mani. Tutt’al più metà e metà. Non credo che le cose capitino per caso. Mi sono trovata in situazioni davvero incredibili, coincidenze o incontri che non potevano essere casuali. Il futuro probabilmente è un po’ in mano al fato e un po’ lo costruiamo noi. Noi possiamo solo vivere il momento. Un secondo fa è già passato. Vivendo il nostro presente tessiamo il nostro futuro.

Studio astrologia. Mi piace tutto ciò che è mistico. Leggo le carte e studio libri che approfondiscono quest’arte.

E nel tuo futuro cosa c’è?

Sto lavorando al mio secondo disco ma non se ne può parlare.

Laila Al Habash

Credits

Photographer Sha Ribeiro

Noi anni luce, la storia emozionante di due teenagers affetti da leucemia

Sei giovane, hai tutta la vita davanti. Ma quanto è questo “tutta la vita”? Quanto hai davvero davanti?

Sei giovane e puoi permetterti di avere sogni, neanche progetti: quelli avrai tempo per farli. E se quel tempo tu non lo avessi?

Presentato In anteprima al Giffoni Film Festival, esce in sala dal 27 luglio Noi anni luce, il nuovo teen-drama del regista Tiziano Russo (Skam Italia). Prodotto e distribuito da Notorious Pictures, con protagonisti Carolina Sala e Rocco Fasano (Skam Italia, Non mi uccidere), al fianco di Caterina Guzzanti, Fabio Troiano, Adalgisa Manfrida (serie Netflix Luna nera) e la celebre cantante Laila Al Habash, Noi anni luce ha il patrocinio dell’Ail, l’Associazione Italiana contro Leucemie, linfomi e mieloma.

Locandina del film Noi anni luce
Locandina del film Noi anni luce

Noi anni luce, la storia di Elsa e Edo

Noi anni luce è la storia di Elsa (Carolina Sala), una diciassettenne come tante che, all’improvviso, scopre di essere affetta da leucemia. La sua unica possibilità di salvarsi è un trapianto di midollo, ma il solo a poterglielo donare è un uomo che non ha mai conosciuto. Inizia così un viaggio on the road insieme a Edo (Rocco Fasano), un ragazzo incontrato in ospedale affetto dalla stessa malattia di Elsa, col quale sembra non esserci nulla in comune.

Un film con ottime tematiche, un po’ debole nella sceneggiatura che non riesce ad approfondire i personaggi. Ha il pregio di non risultare triste, di lasciare che lo spettatore si emozioni più grazie alle immagini che grazie ai dialoghi.

“Non esistono storie sbagliate – dice Edo – ma solo storie raccontate male”. Questa poteva essere raccontata meglio. Il regista avrebbe potuto ottenere molto di più dal cast. Un film piacevole che ha comunque il pregio di non concentrarsi sulla malattia ma su come può essere vissuta. Anche innamorandosi.

Elsa ed Edo, Caterina Sala e Rocco Fasano, due attori giovani, di talento, che stanno imparando a vivere in attesa “della telefonata”, la fatidica chiamata per un nuovo provino, un nuovo ruolo. E quella telefonata è arrivata, ma per un copione particolare.

Qual è stata la vostra reazione dopo aver letto la sceneggiatura?

Carolina

La chiamata è arrivata inaspettatamente. Il provino l’avevo fatto mesi prima ed era una di quelle prove delle quali non sai più nulla. Poi all’improvviso mi arriva il copione per decidere. L’ho letto tutto d’un fiato e la prima reazione è stata piangere. L’ho trovato emozionante. Ma ciò che mi ha colpito è stato quando ho potuto parlare con Tiziano, il regista, e mi ha raccontato il modo in cui voleva raccontare questa storia. La tematica non è nuova, ma l’umanità, la profondità, la cura con cui voleva raccontarla, in modo sincero e senza sensazionalismi, mi ha colpito moltissimo ed è stato quello che, forse, mi ha convinto a far parte del progetto

Rocco

Ero felicissimo di lavorare di nuovo con Tiziano, soprattutto con questo materiale. Quando ho letto lo script, mi ha colpito la delicatezza del linguaggio, la scrittura, la dolcezza dei momenti tra Edo ed Elsa. La leggerezza di chi deve affrontare quegli anni che sono unici, ma resi ancora più significativi della loro battaglia. Avevo sperimentato quanto Tiziano fosse una guida incredibile dal punto di vista umano. Ha lavorato molto con noi. Ecco perché ho accettato con gioia di affrontare un tema del genere sotto la sua direzione.

Elsa cresce solo con la madre. Nei film dice “non vengo da una famiglia normale”. Cos’è una famiglia? Esiste una famiglia normale?

Carolina

Probabilmente no. Penso sia una cosa che Elsa scopre durante il suo percorso. Questo non toglie il fatto che ci sia un buco nella sua storia familiare, di non detti, che forse è la cosa più forte che sente: un aspetto della sua vita che in qualche modo rimane oscuro e che durante il film si scopre. Poi, il concetto di famiglia normale è davvero relativo: nessuno credo abbia una famiglia veramente normale, soprattutto se scavi nel privato. Elsa scopre che la sua è una storia singolare che, durante il film, dovrà affrontare. Ma in questo sta la sua crescita.

Rocco

In questo momento storico, secondo me, bisogna rivedere cosa vuol dire famiglia normale e cosa vuol dire normale. Termine di cui molto spesso abusiamo. Per me c’è famiglia dove ci sono i suoi elementi fondamentali: l’amore, la cura, l’attenzione. Ma non credo esista una definizione scolpita nel marmo di cosa voglia dire essere una famiglia. Per me esistono tante famiglie quante sono le combinazioni possibili. Famiglie con un solo genitore, famiglie di persone scelte, di persone che si scelgono. Ed è un concetto che dobbiamo affermare con sempre maggior forza.

Elsa ed Edo sono leucemici. In Italia l’assistenza sanitaria pubblica è sempre più carente. A Roma, ad esempio, ci sono genitori che dormono in macchina all’esterno del Bambino Gesù perché hanno un figlio ricoverato e sono in una città lontano da casa. Siete le generazioni che ora, forse, hanno meno bisogno della sanità, ma vi spaventa il suo progressivo smantellamento?

Carolina

È un problema grande. È sempre più difficile trovare medici, lavorare negli ospedali in condizioni efficienti. Credo che quello della sanità, insieme a quello dell’istruzione, siano due punti fondamentali dove è necessario e fondamentale investire adesso, prima di trovarsi in situazioni ancora più gravi

Rocco

Concordo con Carolina. Istruzione e sanità sono due pilastri sui quali si basa il grado di civiltà di un Paese. Per quello che ho potuto vedere, la sanità nel nostro Paese sta cambiando molto, spesso in peggio. Le lunghe liste di attesa per fare anche una diagnosi, la mancanza di donatori, sono aspetti preoccupanti. Vivo tra Italia e Francia e mi capita di fare il paragone. In effetti da un po’ di anni a questa parte, forse dovremmo prendere spunto da altri Paesi per la gestione della sanità pubblica, che ha come caratteristica essenziale il suo essere a disposizione di tutti: perché apparentemente lo è ma poi, nel dettaglio, lo è sempre meno.

Il film affronta il problema dei donatori. Si fa abbastanza per sensibilizzare? Oggi si può dichiarare sulla carta d’identità, ma in quanti lo sanno?

Carolina

Si può fare molto per sensibilizzare e dovrebbe essere fatto in maniera più capillare. Non solo per il midollo, ma anche la semplice donazione di sangue. È un’azione facile da fare, si può effettuare ovunque e non richiede particolari difficoltà. Dovremmo fare più campagna di sensibilizzazione e comunicare in maniera più efficace. Spero che questo film raggiunga questo scopo.

Rocco

Questo è un tema che dovrebbe partire dall’educazione e dall’istruzione. Dovrebbe esserci una sensibilizzazione su questo argomento perché facendo poco puoi fare una differenza enorme nella vita delle persone. Sono assolutamente a favore della donazione e con un po’ più di empatia in tal senso possiamo provare a costruire una società un po’ più civile.

Il messaggio più forte che lancia il film?

Carolina

Il bello di Noi anni luce è che va oltre la malattia, non parla solo di quello. Anzi, sarebbe riduttivo dire che parla di due ragazzi che scoprono di avere la leucemia. È un film di scoperta. Il primo tema che mi è rimasto in testa è il confronto con la morte, con qualcosa di grande che può avvenire in qualunque momento, anche nell’adolescenza. Ma tramite questa esperienza Elsa impara il valore della vita. Sembra un paradosso, ma l’esperienza della morte le permette di avere quel briciolo di incoscienza che ti apre nuovi mondi. Il rapporto con la morte è stato il mio faro durante il film.

Rocco

Uno dei temi del film che mi ha colpito di più è il valore delle cose importanti della vita. 

La velocità alla quale viviamo, la vita frenetica che conduciamo soprattutto da giovani, quando abbiamo l’illusione di vivere per sempre, ci fanno sfuggire le cose importanti, quelle che davvero fanno la felicità. È un aspetto che sembra accomunarci tutti. Quando però accadono cose gravi, come quelle che succedono ad Elisa ed Edo, hai una data di scadenza che è più vicina. Allora cominci per forza di cose a selezionare, emergono le cose importanti, i momenti importanti, le persone importanti. Penso che questi due ragazzi, in questo incontro, mettano in luce tutto questo. Sono un faro l’uno per l’altro. E in un momento così buio riescono a trovare la felicità

Entrambi siete stati colpiti dallo scritto. Non pensate che in questo momento ci sia un grosso problema di sceneggiatura?

Rocco: ammazza! E non tagliarlo…lascia così!

Carolina

Penso ci sia una grande ansia produttiva in questo momento. Ci sono tante piattaforme, tanta richiesta, tanta produzione, che forse talvolta sfocia nell’iper produzione, nella velocità di produrre, e di conseguenza nella velocità di scrivere progetti che magari avrebbero avuto bisogno di più tempo per essere elaborati meglio.

Rocco

C’è un modo di scrivere le sceneggiature. Non si possono fare in pochi giorni, con una stesura e basta. Ci vogliono tempi, finanziamenti. Scrivere è un mestiere che ha bisogno di essere pagato per farlo, perché così hai il tempo di fare le stesure giuste, di fletterci, di fare le ricerche. La scrittura rappresenta le fondamenta da cui parte qualsiasi lavoro, perché puoi avere anche una casa bellissima ma se il palazzo ha le fondamenta marce, crolla. La scrittura sono le fondamenta del film e dello spettacolo teatrale.

La prossima telefonata è già arrivata o la state ancora aspettando?

Rocco

Sto girando una commedia, un film molto diverso da questo. Si chiama Amici per caso ed è la storia di un’amicizia molto strana che nasce fortuitamente. Per ora non si può dire altro. È un film che dovrebbe uscire in sala. Poi bisogna vedere…

Carolina

 Ho terminato un paio di mesi fa di girare un film ma ancora non si può dire nulla. Adesso non vedo l’ora che Noi anni luce esca in sala.

Paolo Roversi, il fotografo che non voleva fare il fotografo

La seconda edizione del Festival des Cabanes a Villa Medici, la splendida sede rinascimentale dell’Accademia di Francia, ha ospitato un incontro con il famoso fotografo di moda, Paolo Roversi.

Roversi, il fotografo che non voleva fare il fotografo. Il fotografo che considera la sua vita come un sentiero senza fine, le cui pietre miliari sono i suoi incontri con Peter Knapp, direttore creativo di Elle, Laurence Sackman, Franca Sozzani.

Punti di svolta: la campagna pubblicitaria del 1980 per Dior, l’incontro con Rei Kawakubo fondatrice di Comme des Garçons  (“sono stato stimolato dalla sua capacità di mescolare la cultura orientale e occidentale e dal rapporto corpo – vestito”), il calendario Pirelli 2020, per la prima volta scattato da un italiano. Ha firmato le tre immagini ufficiali di Kate Middleton, vestita in Alexander McQueen, in occasione dei 40 anni della futura regina inglese.

Ha legato il suo nome a riviste come Elle, Marie Claire, Harper’s Bazaar e Vogue e a grandi stilisti tra i quali Giorgio Armani, Valentino, Krizia, Cerruti, Romeo Gigli, Dior, Yves Saint Laurent, Alberta Ferretti, Hermès, Pomellato, Givenchy, Guerlain, Comme des Garçons e Yohji Yamamoto.

Paolo Roversi vive a Parigi dal 1973, ma non ha mai dimenticato Ravenna, la sua città natale.

“Le mie radici ravennati sono profonde. Anche se vivo da cinquant’anni a Parigi, sono per metà francese, ho una moglie francese, ogni volta che torno a Ravenna io torno a casa. Sono cresciuto davanti alla bellezza dei mosaici bizantini e, quando li rivedo, è come se ritrovassi figure familiari: sento che ci apparteniamo. Ho viaggiato tanto, ma quando torno sento l’amore di cui parla Ungaretti nella poesia “Casa mia”, quando conclude dicendo “credevo di averlo sparpagliato per il mondo”. In quel momento mi rendo conto che il mio amore per la mia città è ancora tutto là”.

Quello con la fotografia è un rapporto che nasce da bambino…

La fotografia per me è sempre più una domanda che una risposta. Ho un approccio mistico e spirituale a quest’arte.

Il mio rapporto con la luce è nato dalla paura del buio che avevo da bambino. Quella luce che filtrava da sotto la porta e che proiettava sui muri figure spettrali. Mi facevano paura, non capivo se fossero realtà o sogni. Quelle immagini sono state le mie prime foto e si ritrovano nei mie scatti, nella sovrapposizione di sogni, ombre, realtà, fantasmi.

La sua prima forma di espressione è la poesia, la fotografia arriva in un secondo momento…

Da ragazzo andai in Spagna. Ero uno studente appassionato di poesia. Scattavo foto come un turista, ma percepii che forse la fotografia poteva essere un modo poetico per esprimermi. Fu allora che avvenne il mio passaggio dalla poesia scritta alla poesia fotografica.

Il suo studio è il suo palcoscenico…

Il mio studio è un piccolo palcoscenico dove tutto può accadere. Non è semplicemente una stanza dove lavoro, ma un modo di fotografare: è uno stato d’animo, un modo di porsi davanti a un soggetto. Il mio studio è ovunque io vada e uso la mia macchina: lo studio sono io, non è semplicemente la mia stanza di Parigi. È un luogo dove non c’è niente di logico. Quando chiudo quella porta, quella stanza si trasforma nel mondo del sogno, delle sensazioni, dei sentimenti, delle memorie, dei ricordi, delle ossessioni, ma di razionale non c’è niente. Il mio studio è parte della mia mente.

Una foto nasce dalla luce. Il suo rapporto con la luce?

Anche il mio rapporto con la luce non si può razionalizzare. Non si può ragionare con la luce: la luce è un sentimento. Quello che è difficile, è imparare il sentiment de la lumière.

Ogni persona ha una luce interiore che porta dentro, una luce che illumina l’invisibile: quella che spesso definisco “anima” ed è quella che cerco di fotografare.

Quando mi chiedono “come fai a fare queste foto?”, rispondo “non lo so”. Non c’è una ricetta. Si lavora, si prova, si vede: è il frutto di tanto lavoro e tanta passione. Per me fotografare non è inquadrare qualcosa del mondo esteriore e portarlo dentro la foto: è risvegliare qualcosa del proprio inconscio e portarlo alla luce. Non si prende una fotografia, si dà una fotografia.

La mia fotografia si basa sulla sottrazione. Ho sempre cercato di rimuovere le maschere che le persone indossano per rivelare la loro bellezza interiore.

La messa a fuoco è un momento importante dello scatto, ma la  messa a fuoco sfocata è una sua cifra stilistica…

La mia infanzia è avvolta dalla nebbia di novembre di Ravenna. Forse da lì nasce il mio amore per le lunghe esposizioni, che danno all’anima il tempo di rivelarsi. Per me la fotografia è una pagina nera sulla quale disegniamo senza matite e sena pennelli: solo con qualche raggio di luce.

Julia Margaret Cameron, che usava una camera come la mia, un giorno fece un ritratto di John Herschel e le dissero: “si bello, però è sfocato”. E lei rispose: “chi ha il diritto di dire qual è il legittimo punto di fuoco?”.

Quando metto a fuoco, non cerco di scattare quando è a fuoco ma quando è bello”.

Come si definirebbe come fotografo?

Più che un fotografo mi sento un artigiano fedele ai suoi strumenti. Per trent’anni ho lavorato con una Deardoff 20×25. È stata la mia compagna di viaggio dal 1930. La Polaroid era diventata la mia materia prima, la mia seconda pelle. Ricordo la trepidazione nell’attesa di quei sessanta secondi prima di aprire il Polaroid, sperando di vedere un miracolo, una magia.

Quando scatto cerco di allontanarmi dalla realtà più che posso: mi piace avere un approccio alla fotografia dove non so cosa viene fuori. Mi piace essere sorpreso, non controllare completamente il processo. Per me la fotografia non è una semplice riproduzione della realtà, ma una rivelazione di quello che è e di quello che non è, quello che mostra e quello che nasconde.

Spesso le foto sono cose che succedono per caso e vanno prese come un regalo della luce, un regalo del destino. Il mio lavoro è cosparso di dubbi. Vanno prese decisioni sulla scelta del soggetto, della luce, dello sfondo, della macchina. Tantissime decisioni e tantissimi dubbi. Credo che il dubbio sia uno stimolo per l’immaginazione e le certezze delle porte chiuse, degli ostacoli alla creatività. Il mio cuore e la mia mente hanno sempre vagato nel dubbio.

Antoine de Saint-Exupery scrisse che l’essenziale è invisibile all’occhio. Io credo che le fotografie siano una porta su un’altra dimensione.  La fotografia, per me, è un processo sentimentale.

Ai miei studenti dico sempre che più si pensa meno si vede. E dico anche: se arrivate a un bivio non andate per la strada conosciuta, non esitate ad andare dove non siete mai stati, verso l’ignoto verso la sorpresa, dove nasce il dubbio. Andare dove si è già stati è più facile, ma meno interessante.

Come interagisce con le modelle e i modelli?

È un rapporto che si basa su una fiducia reciproca: uno scambio di emozioni, di sensazioni. Lancio delle vibrazioni che spesso mi ritornano, forti, sotto forma di emozioni. Questa emozione è il momento della fotografia.  Se non c’è questa emozione, non c’è la fotografia: la guardi e non c’è niente. Se ti annoi guardando una foto, quella scintilla non è scoccata. Uno scatto riuscito è un momento di grande energia e di gioia. La fotografia è una festa, non deve essere un obbligo.

Sapere che una foto potrà essere lavorata in post-produzione, priva i nuovi fotografi delle emozioni di cui ha parlato, della ricerca dell’attimo, della scintilla?

Penso che la post produzione non deve servire a creare la foto o a riempirla di quel sentimento che può esserci solo al momento dello scatto. Può essere utile per ritoccare, togliere una ruga, ma non per eliminare il processo creativo. Non sono un fanatico della post produzione. Vengo da trent’anni di Polaroid, quando le foto così uscivano e così rimanevano: nessuno le metteva in post produzione. Le emozioni del momento dello scatto, l’energia del fotografo, il suo spirito, la sua personalità, la sua poesia: è tutto questo che fa la foto. Spesso mi dispiace che non si facciano più pellicole e io non le possa più usare.

Ha una musica preferita quando scatta?

Mi piace ascoltare la musica lirica, le opere. In studio la musica è importante perché dà uno spirito, un’atmosfera, crea un’energia che dà ritmo a tutta l’equipe. Nel mio  studio si ascolta Johnny Cash, Dalla, Battisti. Non ci sono regole. Cambiare musica può cambiare l’atmosfera. Quando metto su Mozart e dico ai miei studenti “fotografate con questa musica”, ho certe foto. Se metto su del rock, ne ho altre completamente diverse.

La musica influenza lo stato d’animo e una foto è uno stato d’animo.

Come sono le foto di famiglia di Paolo Roversi?

Le fa mia moglie. Io sono come il calzolaio con le scarpe rotte. Ma adoro gli album di famiglia: è un presente continuo, una piccola eternità. Adoro vedere mia madre vestita da sposa e quella luce fermata per sempre in un tempo che diventa eterno.

Nell’immagine in apertura Paolo Roversi (ph. Alex de Brabant)

Karma B, “combattiamo le battaglie di tutte e tutti”

Si è già alzata l’onda Pride che, da fine maggio a settembre, tingerà tante città italiane dei colori dell’arcobaleno. Il 10 giugno, senza il patrocinio della Regione Lazio (negato cinque giorni prima dell’evento), colorerà le strade del centro storico della capitale. Al Roma Pride 2023 le madrine saranno Paola & Chiara, accompagnate da Carmelo e Mauro: le Karma B.

Un’onda Pride all’insegna dell’intersezionalità, per chiedere il riconoscimento di diritti civili che valgano per uomini e donne di qualsiasi colore, nazionalità, orientamento sessuale. Insieme per la libera circolazione delle persone nel mondo, per la protezione delle persone più vulnerabili, per politiche rispettose dei diritti umani, a tutela di migranti economici e richiedenti asilo. Per chiedere gli stessi diritti riservati alle coppie cis-etero in termini di accesso alle adozioni e alla procreazione medicalmente assistita. Per il riconoscimento del certificato europeo di filiazione.
Più di 50 diverse manifestazioni per chiedere diritti che non appartengono “ai gay”, ma agli esseri umani. Pride che non parlano di tolleranza, perché nessuno di noi vuole essere tollerato, ma di rispetto. Pride che, quest’anno, non verranno sostenuti da città come Pordenone e Gorizia, per il secondo anno di seguito dalla Regione Lombardia, che ne ospita ben sei, e neppure – notizia giunta dopo l’intervista – dalla Regione Lazio. Il tutto mentre il Parlamento europeo, che ha approvato la depenalizzazione universale dell’omosessualità, «esprime preoccupazione per gli attuali movimenti retorici anti-diritti, antigender e anti-Lgbtiq a livello globale» e «condanna fermamente la diffusione di tale retorica da parte di influenti leader politici e governi nell’Ue, come nel caso di Ungheria, Polonia e Italia».

Il 10 giugno, nella città eterna, insieme alle sorelle Iezzi, torneranno dunque a esibirsi le Karma B, che a settembre rivedremo con Nunzia De Girolamo in Ciao Maschio; ne abbiamo approfittato per rivolgere loro alcune domande.

“Ciò che conta è trovare quello che ci accomuna invece che quello che ci divide e rende diversi”

Karma B 2023
Karma B (ph. Danilo D’Auria)

Ma quanto è importante che, in nome dell’intersezionalità, dopo gli ennesimi femminicidi, anche tutte le donne etero salgano su quei carri insieme alla comunità Lgbtq+?

Non solo ogni donna etero ma anche ogni uomo, ogni persona, tutte e tutti dovremmo manifestare per quelli che sono diritti elementari, diritti civili, diritti legati all’essere umano. Ognuno di noi appartiene a qualche minoranza e si può differenziare in qualche modo: per occhi, colore della pelle, sessualità. Ciò che conta, però, è trovare quello che ci accomuna invece che quello che ci divide e rende diversi. Siamo tutti unici, ma appartenenti all’unica grande famiglia umana.

Mai come in questo momento storico le manifestazioni di resistenza andrebbero sostenute dal basso…

Sì, mai come ora è importante essere in piazza e il 10 giugno, a Roma, noi ci saremo. Condividiamo “dal basso”, perché ogni lotta per i diritti nasce dal basso, poi a eventi come quelli di Roma e Milano prendono parte anche personaggi famosi e popstar. La capitale lo scorso anno ho registrato 900.000 presenze, Milano 300.000.
La novità, invece, sono i Pride che stanno iniziando a nascere nelle province, dove ce n’è davvero bisogno. Molti di noi sono stati ragazzini gay discriminati nella propria cittadina, nel paesino, e sono scappati nelle grandi metropoli. Avere il supporto dal basso è vitale, ma serve anche quello delle istituzioni: vorrebbe dire che siamo tutelati in quanto persone, com’è giusto che sia per qualunque cittadino. 

“Il Pride è come un enorme, collettivo sospiro di sollievo, gioioso, festoso e grato, perché siamo arrivati a un punto della storia in cui possiamo riprenderci posti che a lungo ci erano stati negati”

I Pride oltre che manifestazioni sono feste…

La gioia dei Pride sta nel fatto che proviamo a riappropriarci, per quel giorno, di quelle strade e piazze che negli altri giorni affrontiamo con paura, con sospetto, per timore di essere guardate/i, giudicate/i, umiliate/i, derise/i, addirittura picchiate/i, a volte uccise e uccisi. Quel giorno è come un enorme, collettivo sospiro di sollievo, gioioso, festoso e grato, perché siamo arrivati a un punto della nostra storia in cui possiamo riprenderci quei posti che a lungo ci erano stati negati.
C’è la gioia del concerto e anche la gioia della rivendicazione di diritti sociali. C’è la richiesta di visibilità: io merito di essere visto perché non ho niente che debba essere nascosto; perché essere visti, essere considerati, è la base per essere umani.

“Fa parte del Pride, e della liberazione che comporta, scendere in strada a chiedere i propri diritti vestiti più colorati, per farsi notare”

Karma B
Karma B (ph. Danilo D’Auria)

Arisa ha dichiarato: «la comunità Lgbtqia+ non è fatta solo di macchiette o scene plateali, ma di gente normalissima». Vi sentite due macchiette o due persone normali?

Rigettiamo in toto questa definizione: non esistono macchiette né contesti plateali. Ognuno è quello che si sente di essere ed esprime la propria identità come ritiene più opportuno, nessuno può né deve arrogarsi il diritto di usare un termine del genere. Sono persone, non sappiamo cosa c’è dietro la maschera: queste definizioni buttate là con leggerezza possono essere molto dolorose.
Il Pride stesso, come nasce in America, è manifestazione di gioia e divertimento. Quel giorno è come quando una squadra di calcio vince il campionato e si scende in piazza con dei look particolari; non vuol certo dire che quelle persone siano così anche nella quotidianità.
Fa parte del Pride, e della liberazione che comporta, scendere in strada a chiedere i propri diritti vestiti più colorati, per farsi notare di più. E se pure, non solo quel giorno, ma tutti i giorni della propria vita, chiunque di noi decidesse di andare in giro vestito come un camaleonte, nessun altro avrebbe il diritto di definirlo macchietta. Noi invitiamo tutti e tutte a presentarsi al Pride come vogliono, anche in giacca e cravatta.

“Siamo intersezionali, le battaglie di uno sono le battaglie di tutti”

Il Corriere della Sera stima che i genitori grazie alla gestazione per altri siano circa 250 coppie l’anno, nel 90% dei casi eterosessuali. Quanto la battaglia contro la GPA rischia di essere usata in modo proditorio da forze politiche che manifestano valori omofobi? Non si rischia l’effetto boomerang, vanificando battaglie più urgenti che tutelerebbero un maggior numero di persone? Parlo del matrimonio, dell’adozione, del mantenimento dei diritti acquisiti di figli di coppie omogenitoriali, dei diritti dei figli nati e registrati all’estero. Noi abbiamo, adesso, figli ai quali sono stati negati il 50% dei diritti che derivano loro dal genitore “cancellato”, come l’assistenza sanitaria, i diritti ereditari, tutte le tutele che spettano loro. Siamo tornati ai figli illegittimi.

Partiamo dal discorso delle famiglie omogenitoriali: l’ultima volta che c’è stata una grande discussione su questo tema è stato quando sono state approvate le unioni civili, nel 2016. Allora furono stralciati gli articoli sulla stepchild adoption: storicamente è una ferita aperta nella nostra comunità. Secondo la nostra personalissima opinione, quello che sta accadendo è una conseguenza delle tematiche che sono state congelate nel tentativo di avere almeno un minimo di legge sulle unioni civili. Questo ha originato una serie di problemi, tra i quali il cambio di rotta sul riconoscimento dei figli di coppie dello stesso sesso, centrali tra le rivendicazioni di quest’anno.
A nostro avviso, la GPA è un tema che forse svia, però fa parte di una serie più grande di rivendicazioni. C’è una parte di comunità, anche se piccolissima, di uomini che avvertono questa necessità, e in quanto tale va rappresentata. È un po’ come il claim della violenza contro le donne: se toccano una, toccano tutte. Non esiste una percentuale troppo piccola perché non sia presa in carico dall’intera comunità. Che poi alcuni esponenti politici ne facciano un argomento fantoccio, usandolo in modo divisivo, è vero, ma non è colpa nostra. Non combattiamo solo le battaglie che ci riguardano strettamente: siamo intersezionali e le battaglie di uno sono le battaglie di tutti. Non si lascia indietro una rivendicazione per paura che le altre vengano sminuite. O perché il 90% di chi ne beneficerebbe è rappresentato da coppie etero.

“Tutti i cittadini e le cittadine, di qualsiasi genere e etnia, hanno il diritto di trovare il loro posto in Italia”

Karma B drag queen
Le Karma B al Pride con Elodie

Il 2 giugno avete aperto Propaganda Live su La7 cantando l’Inno di Mameli in abito tricolore. Avete fatto discutere…

Non è una provocazione. Siamo orgogliose del nostro Paese. Vedere due drag queen che cantano l’Inno d’Italia potrebbe sembrare una provocazione, ma non lo è. È una “dichiarazione” d’amore per il nostro Paese, e sottolineiamo “nostro” in quanto, secondo noi, tutti i cittadini e le cittadine, di qualsiasi genere e etnia, hanno il diritto di trovare il loro posto in Italia. Non a caso abbiamo scelto la strofa che recita «noi siamo da secoli calpesti e derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi», perché vorremmo che finalmente si ritrovasse uno spirito comune che ci porti tutti insieme nella stessa direzione, per uno stato inclusivo, dove ci sia posto e spazio per tutti e per tutte.

Karma B tv
Le Karma B a Propaganda Live

“Ciao Maschio è una trasmissione di successo che non parla di politica, ma dell’essere umano”

State anche lavorando a un disco. Cosa farete quest’estate?

Stiamo lavorando ad una serie di canzoni con vari autori e autrici e siamo in attesa di notizie su un altro progetto televisivo. Sarà anche un’estate di incontri in giro per l’Italia. Prima della tournée, che inizierà a fine anno, saremo madrine del Catania Pride il 17 giugno e, il 1 luglio, del Lecce Salento Pride.
Faremo poi una serie di date dove incontreremo il nostro pubblico; non si tratterà di un concerto da replicare sempre uguale, ma di una serie di incontri diversi che nasceranno di volta in volta insieme al pubblico presente. Saremo l’8 giugno a Roma per La Pride Croisette, il 10 al Roma Pride, il 15 a Rimini per We Make Future e il 30 giugno a Ventimiglia. Il 15 luglio al Martina Franca Siamo tutte Pride, il 4 agosto a Cagliari Poetto, il 12 agosto a Cuneo e l’8 Settembre al Padova Pride Village Virgo. Altre date sono in corso di definizione.

Karma B programmi
Karma B con Nunzia De Girolamo, conduttrice di Ciao Maschio

A settembre vi rivedremo in Rai?

Incrociamo le dita. Nel mondo dello spettacolo non si conferma niente finché non sei sul palco. Nunzia (De Girolamo, ndr) lo ha detto in trasmissione nell’ultima puntata e il nostro desiderio è quello di tornare a lavorare con lei. È sensibile, aperta su molti temi e ci piacerebbe prendere parte anche alla quarta edizione del programma.
Ciao Maschio è una trasmissione di successo che non parla di politica, ma dell’essere umano. Quindi incrociamo le dita per l’edizione 2024. 

Karma B drag
Un ritratto delle Karma B (ph. © Guido Fuà)

Nell’immagine in apertura, Carmelo e Mauro, alias le Karma B (ph. Danilo D’Auria)

Immaginaria, la 18esima edizione del festival cinematografico dedicato a tematiche e storie lesbiche

Fino al 23 aprile 2023, il Nuovo Cinema Aquila di Roma ospita Immaginaria, International Film Festival of Lesbians & Other Rebellious Women. Testimonial della kermesse è Ema Stokholma, presente all’inaugurazione venerdì 21 aprile.

Immaginaria, che quest’anno festeggia la sua diciottesima edizione, è il primo festival internazionale di cinema indipendente a tematica lesbica e femminista in Italia. Fondato a Bologna nel 1993, nasce da una constatazione, ossia che «in Italia non si trovavano al cinema storie lesbiche che finissero bene. Al massimo trovavi storie lesbiche col suicidio finale o con la conversione all’eterosessualità. Spesso storie con la lesbica cattiva».

I cambiamenti succedutisi nel tempo

Ema Stokholma, testimonial del festival

Così racconta cosa è cambiato in questi trent’anni Elena Rossi Linguanti, organizzatrice della rassegna: «Cercando, abbiamo trovato film con trame diverse da queste. Era difficile perché le registe erano poche e a volte erano produzioni di bassa qualità. Erano rare le case di distribuzione. Oggi non è più così: sono film bellissimi, di altissima qualità. Anche la rappresentazione di storie lesbiche sullo schermo è aumentata in maniera esponenziale. Ci sono film, serie televisive, addirittura cartoni animati della Disney. I festival gay sono proliferati, un po’ meno quelli lesbici. Anche festival generalisti, come Venezia, cominciano ad includere film a tematica lesbica.

La situazione è sicuramente cambiata, anche se in Italia la strada è ancora lunga: il nostro Paese soffre di un ritardo atavico a livello culturale, etico, legislativo, e di un vuoto pressoché totale per quanto riguarda la produzione lesbica. La programmazione di Immaginaria, infatti, è per il 99% straniera. Per promuovere la produzione italiana, all’interno del festival abbiamo creato un concorso che si chiama Donne in corto».

Il fil rouge della 18esima edizione

Il claim di quest’anno è “Stay Together”, perché ci siamo accorte che i film parlano tra di loro. C’è ad esempio il bellissimo documentario Loving Highsmith, che presenta un ritratto inedito di Patricia Highsmith, e poi abbiamo un film inglese, Gateways Grind di Jacquie Lawrence, che racconta del Gateways, il locale lesbico londinese più longevo del mondo, dove andava anche la scrittrice originaria del Texas.

Oppure c’è un documentario francese, Alice Guy, l’inconnue du 7e art, sulla prima regista al mondo, e poi c’è un documentario belga, Dans le silence d’une mer abyssale, di una giovane regista che, quando ha frequentato una scuola di cinema, si è resa conto che non c’erano modelli di cineaste. È andata a cercarle e ha scoperto che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, in realtà le donne nel cinema erano tante, e tra queste Alice Guy. C’è quindi un incrocio di tematiche che abbiamo riscontrato nei vari film, dei fili invisibili che legano le produzioni tra loro.
Anche le generazioni parlano le une con le altre. Questo ci ha fatto riflettere sul senso della comunità e dell’importanza dello stare insieme

Immaginaria Festival 2023
Un frame di Camilla Comes Out Tonight

Un festival dedicato alle donne

Altro denominatore comune che si riscontra fra i titoli presentati, è il fatto di essere un festival che parla di donne e a tutte le donne. Ne sono un esempio titoli come Les nouvelles guérillères, belga, che racconta di un gruppo di attiviste che combattono le disuguaglianze di genere, il sessismo e il razzismo, che denunciano il patriarcato e propongono soluzioni per un’altra convivenza possibile e paritaria, in un territorio in cui nessuna sia invisibile o denigrata; On ne tue Jamais par amour, canadese, su un gruppo femminista la cui sfida è porre fine alla violenza sistemica subita dalle donne e dalle minoranze di genere; GRRRL, tedesco, su un gruppo auto-organizzato di amiche che escono di notte per aiutare le donne a tornare a casa in sicurezza.

E ancora, l’italiano Non è una città per ragazze di Paolina Gramegna, su una giovane che, inseguita da un uomo, riesce a mettersi in salvo, chiama la polizia e questa la ammoniscono con frasi discriminatorie, sminuendo ciò che le è successo e imponendo la sua autorità.

Immaginaria ha il pregio di raccontare il lato femminile del mondo, laddove le donne possono essere quelle del Gateways Club; quelle di Toutes musclées, che hanno lottato nel mondo dello sport; quelle di Blue Jean che hanno subito, nel Regno Unito del governo Thatcher, nel 1988, la Sezione 28, una legge che proibiva l’omosessualità equiparandola a uno stile di vita “deviato”; donne europee, pakistane, egiziane, donne di oggi o del passato, come in Sur les traces de Madeleine Pellettier, una delle prime donne a studiare medicina e psichiatria in Francia, favorevole all’aborto, che fu rinchiusa in un ospedale psichiatrico senza la possibilità di difendersi.

La comunità LGBT e il rispetto per i diritti civili e umani

Scorrendo i titoli che animano Immaginaria, sorge una domanda: quanto le battaglie delle donne LGBT sono battaglie per tutte le donne, e per tutti? Quanto sono in realtà battaglie per il rispetto dei diritti civili e umani? 

Elena Rossi Linguanti (organizzatrice): «Il nostro è un festival lesbico e femminista. Ci sono film contro la violenza sulle donne, indipendentemente dall’orientamento sessuale. Noi, come lesbiche, abbiamo sempre condiviso le battaglie femministe, contro le disuguaglianze di genere, contro il sessismo, il razzismo. Il nostro è un piccolo contributo ai diritti civili di tutte».

Francesca Valtorta (attrice, giurata): «Parlare di Immaginaria riducendolo a un festival che tratta esclusivamente tematiche “lesbiche” sarebbe un insulto. Celebra tutte le donne, soprattutto quelle relegate, attaccate, dimenticate, che hanno lottato per vedere riconosciuto il loro valore. E fra queste, purtroppo, ancora oggi ci sono le donne lesbiche, troppo spesso ghettizzate e oggetto di imbarazzo e scherno. Nelle loro battaglie di riconoscimento del proprio diritto di esistere possono, anzi devono, riconoscersi tutti, indistintamente.
Mi ha colpito enormemente il documentario su Alice Guy. Non sapevo chi fosse, eppure questa donna straordinaria è stata la prima regista e sceneggiatrice, la prima donna a realizzare un film di finzione nella storia del cinema, oltre che la prima a fondare uno studio cinematografico (Solax Company) nel 1910. È stata letteralmente cancellata, il suo nome non compare in nessun archivio, in nessun libro, i suoi film sono andati in gran parte persi o risultano essere stati diretti da uomini.
Ha lottato tutta la vita per veder riconosciuto il suo lavoro e il fatto di esistere, ma invano. Ecco, la sua lotta non è forse una lotta in cui ognuno di noi può riconoscersi? Per questo anche la lotta delle donne LGBT deve diventare la nostra, la lotta di tutti».

“La lotta delle donne LGBT deve diventare la nostra, la lotta di tutti”

Anna Ammirati (attrice e regista, giurata): «Le battaglie delle donne LGBT sono battaglie per tutte le donne e per tutti gli individui che lottano per i diritti civili e umani. La lotta per l’uguaglianza di genere e la lotta per i diritti LGBTQ+ sono strettamente legate, poiché entrambe le battaglie cercano di affrontare le disuguaglianze e le discriminazioni basate sull’identità di genere e sull’orientamento sessuale. Ad esempio, la lotta per il diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso, è una battaglia importante per le donne LGBT e per tutti coloro che lottano per l’uguaglianza dei diritti civili. Questa lotta non riguarda solo il diritto di due persone dello stesso sesso di sposarsi, ma riguarda anche la parità di trattamento in termini di diritti e benefici legali, come l’accesso alle prestazioni previdenziali, alle assicurazioni sanitarie e ai benefici fiscali».

«Inoltre, la lotta per la parità di retribuzione, la prevenzione della violenza di genere, l’accesso ai servizi sanitari, l’accesso all’istruzione e la tutela dei diritti riproduttivi, sono battaglie che riguardano tutte le donne, indipendentemente dall’orientamento sessuale. L’uguaglianza di genere è un diritto umano fondamentale e, quando tutti i membri della società godono degli stessi diritti e opportunità, l’intera società ne beneficia. Le battaglie delle donne LGBT sono essenziali per la lotta più ampia per i diritti civili e umani».

Eugenia Costantini (attrice, giurata): «Le battaglie per vedere riconosciuti i propri diritti sono sempre battaglie per tutti e ognuno dovrebbe sentirsi coinvolto. Siamo tutti diversi, per cultura, genere, carattere, storia, provenienza, indole, ed è questa la nostra ricchezza. L’omologazione è appiattimento, è arretratezza, è andare contro la nostra natura. Le discriminazioni di ogni tipo sono una piaga, una insensata crudeltà alla quale degli esseri umani sottopongono altri esseri umani».

Il programma completo di tutte le proiezioni – lungometraggi, documentari e cortometraggi – e di tutti gli eventi collaterali è sul sito www.immaginariaff.it.

Nell’immagine in apertura, una scena de Les Meilleures, film nel programma di Immaginaria 2023

Birre artigianali da pane raffermo, la nuova tendenza green si diffonde tra i mastri birrai italiani

E se non sprecare neanche una briciola di pane aiutasse a rispettare gli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU? E se le birre, rigorosamente al plurale, fossero non solo fruttate, erbacee, calde, speziate, torbate, affumicate, amare, barricate, ma anche assolutamente green?

Birra artigianale

Biova Project

In Italia birra artigianale è anche sinonimo di rete. È del 21 febbraio 2023 l’accordo fra Unionbirrai, associazione di categoria dei piccoli birrifici indipendenti, e Biova Project, start-up innovativa che nasce per recuperare surplus di cibo usando i propri centri di recupero in tutta Italia. Obiettivo: combattere lo spreco alimentare creando birre artigianali frutto di un’economia circolare e green, in una nazione, la nostra, dove ogni giorno vengono buttati 13mila quintali di pane.

«Biova Project nasce con l’idea di creare prodotti in grado di contrastare lo spreco alimentare. Per questo abbiamo costruito un sistema logistico di recupero: prima ancora che un birrificio, noi siamo un food innovation hub», spiega Franco Dipietro, uno dei fondatori di Biova Project, che prosegue: «Recuperiamo gli invenduti laddove se ne accumula una quantità maggiore: la GDO e le associazioni di panificazione. In quest’ottica abbiamo stretto un accordo con l’Associazione nazionale panettieri italiani e con Unionbirrai. Non recuperiamo solo pane, ma anche gli scarti della lavorazione della pasta. Quest’anno abbiamo lanciato la prima birra al mondo da pasta recuperata, la stessa cosa facciamo col riso».

Lo scopo del progetto

«Il nostro non è solo un progetto di birra da pane raffermo, ma un’economia circolare e di upcycling, la cui filosofia è dare una seconda vita a tutti quegli alimenti che non ce l’hanno fatta la prima volta, agli scarti di lavorazione. Abbiamo anche uno snack ottenuto dai residui della birrificazione: una volta usato il pane, la pasta o il riso, insieme al malto d’orzo per fare le birre, recuperiamo anche quello che avanza, creando prodotti da forno. È fondamentale iniziare a ragionare in quest’ottica: così non solo recuperiamo un invenduto che andrebbe smaltito ma, soprattutto, non utilizziamo altra materia prima per realizzare un prodotto equivalente. In questo modo rientriamo negli obiettivi di sviluppo sostenibile, riducendo l’utilizzo di materie prime».

Biova Project
Birra e snack Biova Project

I progetti targati Biova Project

«Siamo partiti tre anni fa dal Piemonte e ora siamo anche in Lombardia, Triveneto, Emilia Romagna e Toscana, inoltre stiamo aprendo un altro centro di raccolta in Sicilia. Ci occupiamo anche della commercializzazione. Recuperando dalla GDO, siamo nel circuito della grande distribuzione, ad esempio in Coop Consorzio Nord Ovest con una birra fatta appositamente dal recupero del loro pane. Siamo nei punti vendita Eataly con Biova Eataly, per la quale usiamo il pane della panetteria della catena. Arriviamo anche a distribuire nei canali “horeca”, cioè hotel, ristoranti, pub.
In più abbiamo progetti regionali: Biova Lago di Como deriva dal pane recuperato dall’associazione dei panificatori del lago, lo stesso accade a Milano. In questo modo, andiamo a rimettere nella birra qualcosa che andrebbe perso: la territorialità. Il pane recuperato viene da quel territorio, cambiando la sua provenienza il risultato finale è una birra ogni volta diversa. L’ultimo accordo chiuso è quello con Ikea Italia che, con i suoi 22 punti vendita, è il secondo gruppo di ristorazione più grande del Paese per quantità di cibo servito, e Biova è la loro birra simbolo
».

pane raffermo birra
Sacchi di pane recuperato, materia prima essenziale per la birra “green”

Baladin Briciola

Nel rispetto del motto per cui “il pane non si spreca ma si beve”, un’altra birra nata con l’intenzione di non sprecarne neanche una briciola è Baladin Briciola, risultato di un progetto di Teo Musso, presidente del Consorzio Birra Italiana e fondatore di Baladin, birrificio che ormai 26 anni fa ha dato avvio alla rivoluzione artigianale brassicola italiana.
«Nel 1997 –
spiega – ho fatto le prime birre artigianali immesse sul mercato, bevande di rottura rispetto a quelle italiane, indirizzate alla ristorazione. La Isaac da abbinare a formaggi freschi, carni bianche e pesce, e la Super da accostare a carni rosse e formaggi stagionati. Da qui una rivoluzione culturale che avvicinava la birra al percorso che aveva avuto il vino: sentire con il naso quello che c’era dentro il bicchiere prima di bere, un passaggio che rappresenta il cardine della rivoluzione culturale del prodotto artigianale. Due gli obiettivi: arrivare al mondo della ristorazione ed educare il palato del bevitore».

Baladin Briciola
Baladin Briciola

Le caratteristiche della birra Baladin Briciola

La birra non è il mono-prodotto industriale da abbinare alla pizza. L’abbinamento con quest’ultima non nasce da una questione di gusti, ma perché inizialmente alle pizzerie era vietata la vendita di prodotti alcolici sopra gli 8°; non si poteva vendere il vino, l’unica bevanda alcolica restava la birra. Ce ne sono di tanti tipi, da quelle invecchiate in botte paragonabili a uno Sherry Pedro Ximénez a una quotidiana come Briciola, da 4,8°, che al naso spicca immediatamente per il profumo di pane “appena sfornato”, completato da note erbacee e agrumate. Il basso grado alcolico determina la leggerezza di questa birra, che invita all’assaggio e stupisce per la sua delicatezza che racconta un perfetto equilibrio di note di cereale, luppolo, fiori e agrumi, come fosse pane liquido; un progetto circolare, che vede la birra venduta dagli stessi panettieri che hanno fornito il pane invenduto, oltre che online.

Il progetto “Riscattarsi con gusto”

C’è inoltre un posto dove la birra artigianale, realizzata recuperando pane raffermo, va oltre la circolarità dell’economia, valorizzando quei concetti di sostenibilità sociale troppo spesso tralasciati. “Riscattarsi con gusto”, infatti, è il progetto ospitato dal carcere di Taranto, che vede coinvolti detenuti in attesa di una seconda vita.

Riscattarsi con gusto progetto
La locandina del progetto “Riscattarsi con gusto”

L’idea è del mastro birraio Espedito Alfarano, che racconta: «Il nostro micro-birrificio mira a produrre una birra artigianale puntando alla sostenibilità della produzione, che nel caso della bevanda è tra le più “inefficienti” nell’utilizzo delle risorse. Un birrificio produce residui in quantità sorprendenti: il 92% degli ingredienti utilizzati diventa scarto di produzione.
Durante la birrificazione si producono tre tipologie principali di scarti: trebbie, ovvero la crusca dell’orzo o del cereale usati; lievito esausto, ossia quello che resta del lievito dopo la fermentazione; acque di processo. Un dato spaventoso, che ci ha spinto a pensare a un riutilizzo degli scarti, inserendo alcune novità nel processo produttivo, come l’utilizzo del pane raffermo proveniente dal carcere, in modo da ridurre l’uso del cereale come fonte primaria dell’amido, ma anche il riutilizzo delle trebbie come materia prima nella produzione di grissini alla birra e, prossimamente, di biscotti integrali. Una specie di circolo virtuoso e sostenibile, che punta al riutilizzo di tutte le materie prime e dei loro scarti
».

Una birra pugliese al 100%

«La nostra birra è artigianale “made in Puglia”, denominazione che la Regione riconosce se il prodotto ha almeno il 97% delle materie prime pugliesi: noi siamo al 100%. Anche l’orzo è sia coltivato che maltato in provincia di Foggia, a Lucera, il luppolo invece a Martina Franca, e questo in Italia è raro.
Nell’ambito del progetto “Birrificio nel Carcere di Taranto by Birra Pugliese”, produciamo la Birra Puccia, una Ale chiara con una gradazione 4.7° e una nota di sapidità che deriva dal sale presente nel pane. L’obiettivo è rivalutare le tradizioni locali, ma soprattutto combattere gli sprechi. Quel pane con un profumo e un sapore del tutto particolari, che racconta la tradizione della provincia di Taranto, permette ora di portare avanti un progetto di economia circolare contro lo spreco alimentare.
Non abbiamo inventato nulla, però, era “green” già la birra d’orzo degli antichi egizi, quella di miglio delle tribù africane, i vini di riso dell’Asia, la chicha fatta con mais dagli indiani d’America; in Russia, fin dal Medioevo, si beve la birra di pane di segale. Nulla di nuovo quindi, ma un ritorno alle origini della produzione brassicola.
La nostra Birra Puccia è una birra artigianale non filtrata, con i lieviti ancora presenti che le regalano il suo sapore unico e un elevato contenuto di vitamina B. Ne risulta una bevanda un po’ dolce, in cui spiccano note salate con un finale di scorza di pane; il tutto realizzato da detenuti che stanno imparando un mestiere, in una casa circondariale che un giorno sarebbe bello poter chiamare “casa dei mestieri
”».

Le nuove birre nostrane, artigianali, circolari e socialmente sostenibili

Come mai prima d’ora, la birra artigianale italiana si arricchisce di significati che vanno ben oltre il concetto di semplice bevanda, comprendendo la circolarità delle materie prime, la territorialità dei sapori e la sostenibilità sociale. Chi l’avrebbe mai detto? Oggi anche un boccale di birra, se scelto con cura, può contribuire a migliorare il mondo.

Nell’immagine in apertura, una birra Biova Project alla spina

Dalla crisi del cinema ai nuovi talenti del settore, conversazione con Tommaso Agnese

Tommaso Agnese, regista, scrittore, presidente di Fabrique du Cinéma, ha debuttato in prima nazionale all’Off/Off Theatre di Roma con 400 euro, 2 ore di nudo, spettacolo tratto dal suo romanzo Apocalisse di un Cybernauta: un viaggio nella galassia del sesso online, che vede in scena Edoardo Purgatori e Manuela Zero.

«Mi piacerebbe farne un film – dice  – raccontare al cinema il mio personaggio, parlare del sesso online, del disagio dovuto all’eccessivo utilizzo dei social che contribuisce a distruggere l’erotismo, ma è complesso. Perché o accetti le esigenze del mercato mainstream, o difficilmente un tuo prodotto può vedere la luce».

Tommaso Agnese
Tommaso Agnese

Nel cinema in questo momento i soldi non mancano…

Stanno girando tanti soldi ma bisogna vedere dove. C’è una quantità di prodotti incredibile, dovuta alle piattaforme e alla richiesta elevata, ma l’aumento delle produzioni realizzate non corrisponde, purtroppo, a un aumento della qualità. Bisgona avere sempre qualcosa di nuovo da offrire al pubblico, c’è un’esigenza consumistica che riduce il livello culturale.
Non si realizzano più tanti film belli, come una volta, ma molti film brutti; è un’esigenza, perché gli spettatori vogliono vedere un action e poi un horror, e questa richiesta frenetica tritura il cinema d’autore.

“Preserviamo la qualità del cinema nostrano non facendo film americani in Italia, ma film italiani che vadano all’estero”

Ma il mercato lo stanno facendo le piattaforme.

Noi abbiamo la nostra identità culturale, preserviamo la qualità del cinema nostrano non facendo film americani in Italia, ma film italiani che vadano all’estero; non rispondendo a una richiesta di generi che viene dalle piattaforme, ma a un desiderio di raccontare qualcosa.
È meraviglioso che tutte le figure dell’audiovisivo stiano lavorando tanto, il cinema però è la settima arte e, quindi, presuppone opere che lascino un segno. Quante pellicole su Netflix o Amazon fanno provare emozioni irripetibili? Poche, e in genere vecchie. Anche un film d’azione degli anni ‘90 lo si rivede più volte, oggi un action è solo un eccesso di effetti speciali.

Edoardo Purgatori
Edoardo Purgatori in un momento dello spettacolo 400 euro, 2 ore di nudo (ph. by Manuela Giusto)

“Oggi la fruizione non è più la stessa, il cinema è un luogo di ritrovo, ci dev’essere altro oltre alla proiezione”

Tanto denaro all’industria, ma i finanziamenti sono pubblici. Questo che ripercussioni ha sul cinema indipendente?

Il piccolo autore ha grandi difficoltà perché, anche se riesce a produrre un film con pochi soldi, c’è un vuoto sulla distribuzione (che rappresenta un enorme problema), quindi la pellicola sarà costretta a uscire in una o due sale, forse.
Il discorso del cinema indipendente è complesso. I finanziamenti riguardano principalmente il mainstream e le piattaforme. Un cineasta, per fare un film, ha due possibilità: o è miliardario e se lo produce e, soprattutto, distribuisce da sé, oppure può prendere il finanziamento dello Stato, che dà sempre meno e a un ristretto numero di titoli che passano la selezione, ma senza garantire la distribuzione; quindi, ammesso che si riesca a realizzarlo, nessuno garantisce che alla fine uscirà. Ed è un paradosso, perché lo Stato, che finanzia e avrebbe bisogno di garantirsi un ritorno economico, dovrebbe preoccuparsi innanzitutto che la pellicola abbia la stessa visibilità di una più “commerciale”. Tutto ciò non accade.
È fondamentale rivoluzionare questo sistema, altrimenti le nuove generazioni saranno costrette a fare i film che vogliono le piattaforme, non quelli che vorrebbero gli artisti. In Francia il sistema funziona in modo completamente diverso, c’è maggiore attenzione per il regista indipendente che vuole raccontare qualcosa. 

Tommaso Agnese teatro
400 euro, 2 ore di nudo (ph. by Manuela Giusto)

“Di qualità nel cinema ce n’è tanta, il problema è che ormai vince la quantità”

In Francia hanno anche la finestra tra l’uscita in sala e lo streaming, che è tra 6 e 15 mesi

Il problema delle finestre è gigantesco. Le piattaforme vogliono avere il film in contemporanea con la sala, ma la finestra è importante per il desiderio di vedere un film. Per Top Gun, ad esempio, Tom Cruise si è rifiutato di uscire in streaming durante la pandemia e, dopo la sala, ha aspettato per farlo “maturare”. Anche la sala, però, ha una grande responsabilità: si lamenta di non avere pubblico, ma dovrebbe capire che la fruizione non è più la stessa, non si va più in sala soltanto per vedere un film, il cinema è un luogo di ritrovo, ci dev’essere altro oltre alla proiezione. Chi esce di casa, non lo fa solo per vedere un film (può guardarlo anche sdraiato sul divano), ma per soddisfare il bisogno di incontrare, parlare, divertirsi. Faccio sempre l’esempio di Andrea Carocci e del cinema Troisi di Roma. Purtroppo non si aiuta questo genere di attività, dove puoi incontrare il regista, lo sceneggiatore, il cast, dove crei un coinvolgimento delle scuole, delle università. Sarebbe importante avere il supporto dello Stato.
Non è concepibile che le grandi produzioni prendano i finanziamenti pubblici. Chi ha la disponibilità economica non dovrebbe ricevere finanziamenti che, invece, sono fondamentali per chi quei soldi non li ha.

“Si insegna come presentarsi a un casting, invece va insegnato il coraggio di essere un attore, che è un mestiere a tutti gli effetti”

Sei presidente della rivista Fabrique du Cinéma. Come vedi le nuove leve?

Abbiamo un osservatorio sulle nuove generazioni, perché raccontiamo le arti under 35. Anche quando intervistiamo personalità del cinema, ci facciamo raccontare come hanno iniziato. Diamo spazio a quei ragazzi che si impegnano con coraggio per perseguire le proprie idee, a persone di valore, e ce ne sono tante. Bisogna aiutare chi intende realizzare un cortometraggio, dandogli la possibilità di continuare. Va data la possibilità di realizzare i sogni, quando c’è qualità, e ce n’è tanta, il problema è che ormai vince la quantità.
I nuovi volti vengono fuori spesso dalle serie in streaming, da Fabrique du Cinéma notiamo tuttavia un problema: quando dobbiamo scegliere una copertina, cerchiamo un interprete che abbia fatto cinema prima delle serie, e non sempre lo troviamo.
Si pensa che la bravura di un attore sia commisurata alla sua celebrità, si guardano i follower, che ha perché ha recitato in una serie di successo, ma questo non significa per forza che sia un bravo attore; non necessariamente un prodotto che piace alla massa è di qualità o presenta un alto valore artistico.
A volte preferiamo mettere in copertina artisti poco conosciuti, ma che hanno preso parte a film bellissimi.

400 euro, 2 ore di nudo
400 euro, 2 ore di nudo (ph. by Manuela Giusto)

“Tanti giovani interpreti hanno il terrore del teatro, ma è da lì che prendi tecniche che sono poi fondamentali nella carriera attoriale”

Oggi però molti arrivano al grande schermo partendo dalle piattaforme, quindi se tu cerchi l’opposto è difficile trovarlo. Spesso non hanno alle spalle neanche una formazione teatrale

Mi sono accorto che tantissimi giovani interpreti hanno il terrore del teatro, ma è da lì che prendi tecniche che sono poi fondamentali nella carriera attoriale, dalla gestione della tensione alla memoria. Se ti manca quella formazione, molte cose non potrai affrontarle in seguito. La paura del palco viene dall’assenza di una formazione artistica, quando ho fatto i provini per 400 euro, 2 ore di nudo, ho constatato come attori che venivano da corsi di formazione assai conosciuti, avessero paura del teatro. Si insegna come presentarsi a un casting, invece va insegnato il coraggio di essere un attore, che è un mestiere a tutti gli effetti. Il problema è che giovani che hanno fatto, magari anche bene, alcune pose in una serie, pensano che quello sia fare l’attore. Vale, a volte, lo stesso discorso dello sceneggiatore: si pensa sia uno di quei lavori che possono fare tutti.
Dopo tanti anni, diverse persone mi chiedono perché non faccia l’attore, ma non avendo studiato per farlo, lo troverei irrispettoso nei confronti di chi ha faticato, ha sputato sangue per arrivare ad avere quegli strumenti.

“Nel nostro paese i grandi non hanno mai voluto creare una tradizione che avrebbe consentito alle generazioni successive di continuare col grande cinema d’autore”

Dal tuo osservatorio, noti la mancanza di sceneggiature?

Sì, purtroppo in Italia non ci sono scuole, non si sono creati istituti professionali per sceneggiatori, per cui alla fine tutti possono farlo, ed è un problema non indifferente. Negli Stati Uniti o in Inghilterra, al contrario, ci sono scuole importanti, che avviano verso un cammino professionale, in Italia quella dello sceneggiatore non è una professione così ben definita.
Vorrei sceneggiare un film tratto dal mio libro e sento l’esigenza di rivolgermi a una figura professionale che mi aiuti, perché sono un drammaturgo, non uno sceneggiatore, ma ho difficoltà a individuarla. Mentre nella televisione è tutto più codificato, perché più commerciale, ci sono stili e richieste che sono sempre le stesse, nel cinema, soprattutto in quello d’autore, lo sceneggiatore che scrive col regista è difficile da trovare. È un punto dove le nuove generazioni sono in difficoltà, perché non vengono date loro strumenti adeguati per raggiungere livelli alti di scrittura. Poi magari hai un giovane con una sceneggiatura bellissima che non sa come arrivare ai fondi, così come produzioni che non hanno tempo né voglia di mettersi a leggere sceneggiature inedite, e chiamano sempre i soliti.

“Mi ha colpito tantissimo Babylon, tratta un periodo meraviglioso della storia del cinema, di cui si è parlato poco, e ha attori bravissimi”

Eppure abbiamo una storia importante nell’industria cinematografica.

Nel nostro paese i grandi non hanno mai voluto creare una tradizione che avrebbe consentito alle generazioni successive di continuare con il grande cinema d’autore, che si è fermato, senza la creazione di scuole, con la morte dell’autore. Si dovevano creare i progetti quando la nostra industria cinematografica era forte. In America, ad esempio, c’è la Paramount che produce film indipendenti, magari solo uno su cinque ha successo, ma ripaga anche gli altri quattro. È l’unico modo per trovare autori nuovi, idee nuove. Basti prendere anche un prodotto come le commedie alla De Sica, è un fenomeno che si è sgretolato perché parte dei soldi guadagnati andava investita in opere inedite, possibilmente indipendenti, così si sarebbe ricostruito. Queste cose non sono state fatte perché in Italia ognuno pensa per sé, negli Usa è la normalità.

Edoardo Purgatori 2023
400 euro, 2 ore di nudo, Edoardo Purgatori (ph. by Manuela Giusto)

Everything Everywhere All At Once ha vinto sette Oscar. La trovi un’operazione di conscience washing?

Stavo preparando lo spettacolo in teatro e non ho seguito molto gli Oscar 2023. Un film che mi ha colpito tantissimo è stato Babylon, mi dispiace che non sia stato premiato. Tratta un periodo meraviglioso della storia del cinema, di cui si è parlato poco, e con attori bravissimi. Non voglio dire che ci sia stato un eccesso di politicizzazione, ma sicuramente ci sono anni in cui gli Award mettono dei paletti per farsi sentire a livello socioculturale. Non entro nel merito però, perché non ho visto tutti i titoli in gara. Quello di Spielberg, regista che a me piace tantissimo, credo meritasse di essere premiato. 

“Alcuni film di successo diventano, più che il frutto della necessità di raccontare una storia, delle operazioni commerciali”

Blonde, acclamato all’uscita, vince il Razzie per il peggior film. Nonostante il MeToo, Hollywood non è ancora in grado di accettare il suo passato?

Hollywood tende sempre alla spettacolarizzazione, senza aspettare la normale evoluzione degli eventi. Ho visto Elvis e l’ho trovato molto interessante, con il racconto dell’aspetto più fragile del personaggio. A volte però sembra che, quando escono film del genere, e hanno successo, poi ne debbano uscire altri che raccontino l’ennesimo personaggio iconico. Diventano, più che il frutto della necessità di raccontare una storia, delle operazioni commerciali. Quando c’è un filone esplosivo, va sfruttato fino in fondo: è uno degli errori dell’industria hollywoodiana, che rischia di bruciare prodotti che invece potrebbero essere raccontati con più attenzione e pazienza.

Nell’immagine in apertura, Edoardo Purgatori in 400 euro, 2 ore di nudo (ph. by Manuela Giusto)

Edoardo Purgatori, nudo (letteralmente) per il suo nuovo spettacolo teatrale

Adesso al cinema con Romantiche di Pilar Fogliati, diretto da Virzì in Siccità (e prima ancora da Mainetti in Freaks out, da Özpetek ne La dea fortuna, Le fate ignoranti – la serie e Mine vaganti nella versione teatrale), Edoardo Purgatori è all’Off/Off Theatre di Roma, dal 15 al 19 marzo, con 400 euro, 2 ore di nudo, in cui recita con Manuela Zero. L’opera è tratta dal romanzo Apocalisse di un cybernauta di Tommaso Agnese, qui anche in veste di regista.

Ama il teatro, dove ha mosso i suoi primi passi e torna spesso, ha fatto tanta televisione, ma con Ferzan Özpetek molto è cambiato.
«Sì, con lui la mia carriera è cambiata – ammette Edoardo – Ero in scena al Piccolo Eliseo con Fuorigioco – The Pass. Mi viene a vedere Pino Pellegrino, che da sempre si occupa dei casting dei suoi film, e vado a fare il provino per La dea fortuna. Con Özpetek parli un quarto d’ora di non si sa cosa, esci e non capisci cosa sia accaduto, pensando “se mi avesse dato una scena, almeno potrei sapere se l’ho fatta bene o male”. Dopo un mese arriva la telefonata: ero stato scelto per sei pose. Mi sono ritrovato a lavorare con Accorsi, Edoardo Leo, Jasmine Trinca e tanti altri. Da lì Ferzan mi prese sotto la sua ala protettiva, così è arrivato Mine vaganti, che abbiamo portato nei teatri italiani per tre anni; la scorsa stagione sono arrivato a fare il protagonista. Da quando ho iniziato a lavorare con lui non ho più smesso, per fortuna. E lo dico con enorme gratitudine, anche in senso scaramantico, perché non vorrei tornare a fare il cameriere adesso che ho due figli. Özpetek è stato un portafortuna per tanti giovani attori. Ci vede lungo, è un regista che sa prendere gli attori nel momento giusto: come Eduardo Scarpetta per Le fate ignoranti, come Accorsi o Scamarcio. Sa prendere gli interpreti nel momento della loro carriera in cui sono pronti a fare il salto. Se reggi i suoi ritmi, sei pronto a giocare in serie A».

“Özpetek è un regista che sa prendere gli attori nel momento giusto della loro carriera, quello in cui sono pronti a fare il salto”

Edoardo Purgatori teatro
400 euro, 2 ore di nudo (ph. by Manuela Giusto)

Fuorigioco – The Pass parlava di due calciatori gay. Ha fatto scalpore Jankto, centrocampista della nazionale della Repubblica Ceca, per il suo coming out. Perché omosessuale dev’essere per forza sinonimo, in un certo senso, di femminile?

Purtroppo è vero che nel mondo c’è l’immagine del gay femminile. In Özpetek, però, i gay non sono necessariamente così. Per lavorare sul personaggio che porto in scena all’Off/Off, Tommaso Agnese mi ha dato come riferimento due film: Shame, con Michael Fassbender, e American Psycho, con Christian Bale. Nel primo c’è un momento in cui lui, sul finale, si fa fare una fellatio da un uomo: vuol dire che sono gay?

Anche il mio personaggio di 400 euro, 2 ore di nudo, a un certo punto, farà il performer di videochat erotiche, dicendosi: “ok, quelli che entrano nella mia stanza virtuale per vedermi nudo sono uomini? Chi se ne importa. Farlo mi fa guadagnare un euro al minuto: vuol dire che sono gay?”.
Sicuramente in un mondo maschilista come quello del calcio, è complicato. Basterebbe un giocatore alla Cristiano Ronaldo, al quale era un po’ ispirato il personaggio di Fuorigioco – The Pass, per far dire a tanti altri “sono omosessuale”. Secondo me il mondo è già più avanti, ma ovviamente se porto mio figlio a giocare al campetto di calcio, sento i genitori dire “alzati, ma che sei una femmina?”. Parte tutto da lì, immagina allo stadio.

“Come attore, quando interpreti certi ruoli hai un senso di responsabilità, il rischio è quello della spettacolarizzazione dell’evento, delle emozioni”

Nel film Rai Il confine, eri il capitano Dalmasso. Nella Prima guerra mondiale, molti giovani passarono dai banchi di scuola alla trincea. Oggi vediamo missili che radono al suolo palazzi in tempo reale. I media possono creare un’idea cinematografica della guerra più di quanto non faccia Hollywood? Vediamo anche la guerra in Ucraina come un film?

Ricordo che eravamo in scena con Mine vaganti durante lo scoppio della guerra in Ucraina. Ero già padre, e vedevo giovani della mia età che, di punto in bianco, si trovavano davanti ad una scelta: lasciare il paese e scappare con la propria famiglia, non sapendo neanche se ce l’avrebbero fatta, oppure andare a combattere per difendere la propria nazione. Tutto a poche migliaia di chilometri da dove mi trovavo in quel momento. Questo mi ha messo in crisi.
Come attore, quando interpreti simili ruoli, hai un senso di responsabilità. Il rischio ovviamente è quello della spettacolarizzazione dell’evento, delle emozioni. La guerra è orribile, non porta a nulla, come attore però non puoi portare in scena un melodramma. La cosa che mi hai emozionato di più, di quel film, è che si raccontava la storia di una generazione che è stata cancellata dalla storia; chi è sopravvissuto, è rimasto traumatizzato per tutta la vita. È stata una pagina di storia pesantissima da raccontare: ho sentito un senso di responsabilità nei confronti di chi ci è passato veramente.

Edoardo Purgatori attore
Edoardo Purgatori in 400 euro, 2 ore di nudo (ph. by Manuela Giusto)

“Sono diventato molto più morbido nei confronti di mio padre, dopo esserlo diventato a mia volta”

Sei figlio di Andrea Purgatori. Com’è Andrea papà e com’è Edoardo figlio?

Andrea è sicuramente un papà ingombrante, ma in modo buono. Edoardo papà è diventato molto più morbido nei confronti di suo padre, dopo esserlo diventato a sua volta, perché sta capendo cosa vuol dire essere padre, nel bene e nel male.
Come nonno, Andrea è molto affettuoso e presente, ed è una cosa della quale sono felicissimo, perché è un regalo che fanno i nipoti ai nonni e viceversa. Ora ha anche quella morbidezza che gli viene dal fatto di non avere le responsabilità che hai da padre.
Papà non ci ha fatto mai mancare nulla, però era una presenza limitata dal suo lavoro: inviato di guerra col Corriere della Sera, scrittore, sceneggiatore. Ma non è uno di quelli che ha preso e se n’è andato. Se me lo avessi chiesto cinque o dieci anni fa, ti avrei risposto in maniera diversa, oggi è un padre che stasera fa Atlantide e domani viene a cena per stare coi nipoti e me.

“In 400 euro, 2 ore di nudo tutto nasce da una crisi d’identità, dalla depressione di un artista che sente di dover uscire da un’impasse artistica”

400 euro, 2 ore di nudo parla del confine tra reale e virtuale nel mondo dell’erotismo. Sui social creiamo profili, indossiamo maschere, recitiamo personaggi; assumiamo identità, che costruiamo a seconda delle situazioni in cui ci troviamo. Questo ci porta a una crisi d’identità o alla creazione di un mondo sì virtuale, ma dove posso sentirmi libero?

Credo che la risposta migliore sia nel mezzo. Prendendo la tangente della libertà, posso permettermi di interagire liberamente col mondo virtuale. Non hai più filtri, ma rischi quella zona grigia che noi raccontiamo in questo spettacolo. L’altra tangente è quella della crisi d’identità, che rischi quando passi troppo tempo ad essere tante persone diverse.
Quando nel 2009 sono andato a studiare a Londra, sono passato da Roma, città provinciale, mentalmente chiusa, a una dove a nessuno interessa niente di quello che fai, o come ti vesti. Ho provato un grande senso di libertà e scoperto i miei gusti, a nessuno interessava come mi presentavo, ma mi sono sentito anche molto solo. Mi sono trovato in una crisi d’identità “sana”, che mi ha consentito di poter scoprire cosa volessi fare nella vita.
Tuttavia, in un meccanismo dove posso essere chi voglio e fare ciò che voglio, ma attraverso il filtro dei social e, come nel nostro caso, del mondo virtuale, a un certo punto rischio di non sapere più chi sono. È quello che vive Riccardo in 400 euro, 2 ore di nudo.
Conosciamo l’effetto che il porno ha su una persona, poi però magari, quando trovi una persona che ti piace sinceramente, detto in modo becero, non ti si alza. Vuol dire che ho talmente inquinato la mia mente, che non riesco più ad avere un contatto umano con l’altro. Per contro, potrei aver scoperto cose di me che non avrei mai sperimentato per paura del giudizio. Ecco perché sei nella terra di mezzo.
In questo spettacolo tutto nasce da una crisi d’identità, dalla depressione di un artista che sente di dover uscire da un’impasse artistica che gli impedisce di esprimersi come aveva sempre fatto. C’è qualcosa che gli viene a mancare, però non ha il coraggio di guardare le sue ferite, di passarci attraverso, e il sesso diventa per lui un modo per distrarsi.

400 euro, 2 ore di nudo
(Ph. by Manuela Giusto)

Nell’immagine in apertura, Edoardo Purgatori in una scena dello spettacolo 400 euro, 2 ore di nudo (ph. by Manuela Giusto)

Giorgio Marchesi, stacanovista della recitazione

Sta concludendo la tournée – una versione applauditissima – de Il fu Mattia Pascal, rivisitato con la sua compagna Simonetta Solder; dal 29 marzo sarà su Sky e Now TV in Hotel Portofino nel ruolo di Marco Bonacini, affascinante architetto che si contenderà l’amore della protagonista; nella nuova stagione di Un passo dal cielo ha una partecipazione speciale. Giorgio Marchesi non si ferma mai, e dà il meglio di sé sia sulle assi del palcoscenico che davanti a una telecamera. L’importante è recitare.

L’unico momento in cui è stato costretto a fermarsi è stato durante la pandemia: lui a Roma, la sua famiglia d’origine a Bergamo, mentre in televisione si vedevano scene da Ai confini della realtà.
«Sembrava davvero di essere in un film catastrofico americano – racconta – Ero a Roma e ricevevo notizie in tempo reale. Anche la capitale è stata chiusa, ma Bergamo era un altro mondo, morivano persone come mosche. Per me fu momento difficile. Quello che percepivo dai miei amici era lo spaesamento: non capire cosa stesse accadendo, anche tra gli stessi medici. Il bergamasco non si ferma mai, è famoso per il “noi non ci fermiamo”, ma era tutto irreale. Mio padre era su, mentre io ero a Roma. Sentivo gli amici che perdevano i genitori senza poter fare loro neanche i funerali. Un incubo».

“Abbiamo voluto dare ritmo a Il fu Mattia Pascal, avvicinarlo a un pubblico non solo di giovani, ma anche di persone non abituate ad andare a teatro”

Sei in tournée con Il fu Mattia Pascal. Mentre il povero Amleto è stato rappresentato in ogni modo, Pirandello sembra spesso intoccabile. Il tuo ha un’anima swing

È il ragionamento che ho fatto io. Se gli inglesi ridono con Shakespeare e lo hanno stravolto, in quanto un testo è un pre-testo per fare altro, perché con Pirandello non si può fare lo stesso?
Ho rispettato il romanzo, tirando fuori tutta l’ironia che contiene, e che in genere resta coperta dalla sua scrittura. In Pirandello ci sono immagini di grande comicità, il pubblico ha risposto positivamente a quest’operazione. Ad alcuni amici ho chiesto “ti aspettavi di romperti le scatole per un’ora e mezza, vero?”. Fondamentale è stata la musica di Raffaele Toninelli. Abbiamo voluto dargli ritmo e avvicinarlo a un pubblico non solo di giovani, ma anche di persone non abituate ad andare a teatro, le reazioni più belle sono state proprio le loro.
Due frasi, che sono anche nelle note di regia, mi hanno guidato, una recita: «Posso dire che da allora ho fatto il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e di ogni mio tormento»; sono partito da questa frase di Mattia Pascal, ho seguito quell’indicazione e messo in scena uno spettacolo un po’ alla Dean Martin, una sorta di one man show.

Giorgio Marchesi film
Total look Dsquared2, hat Borsalino

A volte mi chiedo, se Pirandello tornasse in vita, se vorrebbe essere rappresentato in modo serioso…

Non credo. Una cosa che ho fatto è stata scarnificare alcuni passaggi, perché secondo me oggi le battute di quindici righe, che leggendo il libro ti gusti, sul palco non sempre funzionano, i ritmi sono diversi.
Alcuni pezzi sono intoccabili, ma il monologo di tre pagine del lanternino ho cercato di alleggerirlo. C’è gente che mi ha detto: è la prima volta che capisco Il Fu Mattia Pascal.

“Sapere che c’è un’altra possibilità è un’arma che noi esseri umani abbiamo”

La seconda frase, dalle note di regia, è: «Mi trasformerò con paziente studio sicché, alla fine, io possa dire non solo di aver vissuto due volte, ma di essere stato due uomini diversi». Nell’era dei social c’è chi gli risponderebbe che si possono vivere cinque vite contemporaneamente. Qual è la differenza? Cosa rende Mattia Pascal contemporaneo, dopo 120 anni?

Notavo che, se oltre un secolo fa il rapporto con la propria identità era complesso, oggi è peggiorato in maniera esponenziale, anche per i social, che consentono una frammentazione infinita del proprio sé. C’è un filtro di TikTok che rende il volto completamente diverso da quello reale, aprendo il problema del rapporto col nostro vero io.
Essere qualcun altro è un sogno antico, quando uno è stanco della propria vita sogna di viverne un’altra, soprattutto nei momenti di crisi. E questo è l’altro tema fondamentale, ossia la rinascita, tornata in auge col Covid. Negli ultimi tre anni molte persone hanno cambiato vita, lavoro, ce ne sono alcune che hanno mollato tutto per trovare il grande desiderio, quello che non avevano mai realizzato. È un aspetto legato, secondo me, al concetto di possibilità. Quando tutto sembra nero, mentre sui giornali leggiamo di ragazzi che si suicidano perché in difficoltà, dovremmo capire che c’è sempre un’altra possibilità.
Non è vero che uno non ha vie d’uscita, possono essere rappresentate anche dal mollare tutto e cambiare, se quella vita ti fa soffrire. Ovvio, ci sono situazioni estreme come una malattia, ma sapere che c’è un’altra possibilità è un’arma che noi esseri umani abbiamo.

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“Le possibilità vanno cercate, uscendo dalla comfort zone”

È ciò che dobbiamo recuperare. Una frase molto usata è “non posso farci nulla”; tutto parte da noi, ma è come se ci avessero privato di questa consapevolezza.

Negli anni si sono formate generazioni che non avevano fame, per le quali la guerra era un ricordo lontano. Oggi la fame ce l’ha chi viene da altri paesi e ha voglia di costruirsi un futuro nuovo, lo vedi anche tra i banchi di scuola: è un aspetto al quale dovremmo prestare attenzione. L’idea che non ci sia più nulla da fare, purtroppo, è diffusa, lo si nota pure nel quotidiano. Sembra sempre di essere ne Il Gattopardo, cambiare tutto perché nulla cambi. Le possibilità vanno cercate, uscendo dalla comfort zone.
Quando mi hanno proposto un monologo di un’ora e un quarto, per me era impensabile, non credevo di riuscirci. Ci ho provato e, oggi, Il fu Mattia Pascal è un progetto che sento mio, in cui mi diverto e mi sento a mio agio. Se non ci avessi provato, non avrei mai pensato di poterlo fare. Mi sono assunto il rischio, giocandomela fino in fondo.

Giorgio Marchesi Il fu Mattia Pascal
Caban Sandro Paris

“I nostri ragazzi ci stanno insegnando a vivere un mondo diverso, che avrà le sue criticità ma sarà un melting pot di religioni, nazionalità, culture diverse”

Parlavi di studenti provenienti da altri stati, hai mai pensato a quanti di loro si trovano nella situazione di Adriano Meis, alter ego del protagonista del libro? Lui, nel momento in cui ha bisogno di dimostrare la sua identità e non ha documenti, si trova intrappolato.

Sì, Adriano Meis alla fine si scontra con un problema burocratico, che non gli permette di sposare la donna che ama né di denunciare chi gli ha rubato i soldi. Credo che quando un ragazzino nasce in Italia e frequenta le nostre scuole, il riconoscimento dello ius scholae sia il minimo. Soprattutto in un Paese dove figli non se ne fanno, è un cortocircuito.
Credo che le nuove generazioni daranno vita a una società multiculturale e multietnica. Il ritorno al passato è impensabile, non si torna indietro. I nostri ragazzi ci stanno insegnando a vivere un mondo diverso, che avrà le sue criticità ma sarà un melting pot di religioni, nazionalità e culture diverse. Ci vorrà del tempo.

Giorgio Marchesi Hotel Portofino
Suit Dsquared2, shoes Fratelli Rossetti

Oltre al teatro, hai altri progetti…

Innanzitutto Studio Battaglia, iniziamo a girare la seconda stagione ad aprile. Poi Hotel Portofino, girato l’estate scorsa, una produzione internazionale dove ho recitato in inglese e adesso mi doppio in italiano. È stato divertente, una grande sfida, come ogni volta che si esce dalla comfort zone.
Inoltre ho fatto anche una partecipazione speciale in Un passo dal cielo, che uscirà a fine mese.

“Il nostro lavoro è pieno di contraddizioni, è il momento di chiedere una regolamentazione, per farlo urge che tutti si uniscano”

In Hotel Portofino ti doppi tu o lo farà un’AI?

Mi doppio io, sono solidale con i doppiatori che stanno scioperando. Come attore faccio parte di UNITA, dobbiamo portare avanti una grande battaglia, perché quello che sta accadendo ora con le voci sappiamo che si potrà fare anche con i volti.
Urge un nuovo contratto nazionale nell’audiovisivo, le piattaforme hanno completamente cambiato il lavoro e le leggi che regolano il nostro settore devono adeguarsi ad un mondo non più regolamentato. Si sta lavorando per le colleghe che rimangono incinte, sono protezioni che quest’ambiente non prevedeva, se non in modo minimo. È un momento importante, bisogna garantire delle tutele in un far west dove vincono sempre i più forti.
Ricordo quando ho iniziato, gli attori anziani mi dicevano «non lottate per i vostri diritti e vi stanno trattando a pesci in faccia». Una volta giravano più soldi, ora ne girano ma non per tutti.
La paga giornaliera può anche sembrare dignitosa, il problema è quanto tempo stai fermo tra un lavoro e l’altro. Se mi tieni fermo quattro mesi per fare sei pose, devi calcolare che per quelle sei pose dovrò rimanere esattamente come sono, con la stessa barba e capelli, senza poter prendere altri lavori. Ci sono attrici che hanno grande esperienza ma non viene riconosciuta loro, oppure giovani attori protagonisti pagati come fosse il loro primo lavoro, magari è così, però è il protagonista, in quel momento la sua faccia è fondamentale, non puoi pagarlo come uno che ha due pose. Il nostro è un lavoro pieno di contraddizioni, è il momento di chiedere una regolamentazione e, per farlo, urge che tutti – attori, doppiatori e maestranze – si uniscano.

Giorgio Marchesi 2023
Total look Canali

Giorgio Marchesi tv
Total look Zegna

Credits

Talent Giorgio Marchesi

Photographer Davide Musto

Styling Other

Ph. assistant Valentina Ciampaglia

Grooming Camilla Guadagnoli

Press office Other

Nell’immagine in apertura, Giorgio Marchesi indossa total look Valentino

I consigli dell’insider Christoph Noe per orientarsi nell’art world contemporaneo

How to Not Fuck Up Your Art-World Happiness, ossia come non mandare a quel paese la tua felicità nel mondo dell’arte. È questo il titolo del libro non convenzionale di Christoph Noe, co-fondatore di Larry’s List, una delle più importanti società di consulenza per collezionisti d’arte contemporanea.
Nella filosofia dell’autore, però, niente guru saccenti che guardano un’opera d’arte con sguardo enigmatico e l’acquirente dall’alto in basso. Il mercato delle opere può, e deve, essere anche divertente.

All’apparenza How to Not Fuck Up Your Art-World Happiness sembra uno di quei curiosi testi oracolari a cui fare domande, aprendo a caso per leggere la risposta. Scorrendolo, si scopre di avere tra le mani un divertente vademecum per muoversi felici nel mercato dell’arte.
E se Einstein diceva che hai capito una cosa se sai spiegarla a tua nonna, allora il volume di Christoph Noe è il libro che puoi regalare anche a tua nonna.
Galleristi, direttori di case d’asta, mercanti, neofiti: l’arte può essere per tutti.

Christoph Noe arte
Christoph Noe

Qual è la differenza tra un consulente d’arte, un art advisor, e un gallerista?

Hai toccato subito un punto molto interessante della scena artistica. Spesso fa comodo che i confini tra queste professioni siano sfocati, ma ciò crea confusione e, al tempo stesso, è poco professionale. È come se, vendendo un’opera d’arte di Etsy a un amico dell’Uptown Manhattan o di qualsiasi altro hub artistico, aggiungessi al titolo sul tuo biglietto da visita “art ddvisor”.

“Credo che ci siano tanti pro quanti contro nella scelta di un art consultant”

Perché scegliere un art consultant?

La spiegazione emerge direttamente dalla definizione di consulente d’arte. Nel nostro caso, spesso lavoriamo con aziende o brand che vogliono creare una relazione tra arte e impresa. Questo settore è totalmente diverso quando si tratta di consigliare l’acquisto di artwork. Ecco, un art consultant è qualcuno che consiglia nell’acquisto di opere.
Perché sceglierlo? Il piacere di collezionare può essere ridotto se filtrato tramite un art consultant. Credo che ci siano tanti pro quanti contro nella scelta di un art consultant.

Qual è il cliente tipo?

Siamo davvero felici che non esista un cliente tipo. Lavoriamo con aziende, case d’asta, musei e collezionisti privati. Tutti hanno in comune lo sforzo che fanno per ottenere visibilità sulla scena artistica contemporanea, creando e condividendo contenuti e idee significative.

Quali sono i mercati emergenti o quelli più vitali e aperti alle novità?

Preferisco non fare uso di superlativi. Quando lavori nell’arte da molti anni, ti rendi conto che ciò che suscita interesse oggi, difficilmente sarà interessante anche domani. Berlino e la Germania dell’Est erano in voga a metà degli anni Novanta; nel 2010 si parlava di Zombie Formalists, e sono sicuro che la maggior parte dei lettori oggi non abbia mai sentito il termine Zombie Formalism (espressione coniata da Walter Robinson per definire una corrente di pittura astrattia – nda… Che ammette di aver cercato su Google).
Aggiungerei che, al giorno d’oggi, i network digitali e globali rendono complessa una rigida connotazione dei mercati emergenti. Ho però la sensazione che tu non voglia arrenderti su questo argomento! Sembra che al momento Los Angeles abbia un’alta densità di artisti, spazi d’arte e collezioni private tale da essere considerata attraente.

“Al giorno d’oggi, i network digitali e globali rendono complessa una rigida connotazione dei mercati emergenti”

Christoph Noe libro
Il libro dell’autore

Quali sono i prodotti più richiesti sul mercato? Dipinti, sculture, foto?

Risposta semplice: i dipinti.

E il settore con il maggior tasso di crescita atteso? Molti pensano sia il mercato degli NFT, ad esempio…

Ci sono alcuni specialisti che potrebbero rispondere meglio. UBS pubblica una relazione annuale sul mercato generale dell’arte. Sono in corso molti dibattiti sul ruolo degli NFT nel mercato. Qualcuno tende a sostenere che siano più vicini alle carte da gioco che all’arte. Penso sia un mercato in evoluzione.
Spesso suggeriamo di aspettare un po’ e vedere cosa accade. Tuttavia, questo è un consiglio molto difficile da seguire, FOMO (stato d’ansia sociale a causa del quale le persone tendono ad avere paura di essere tagliate fuori – nda)!                   

Come è cambiato il mercato dopo la pandemia, tra guerra in Ucraina (e conseguente contrazione del mercato russo) e la recessione economica nell’Eurozona e in alcuni mercati dell’Estremo Oriente a causa dell’inflazione?

Che ci piaccia o meno, l’arte e il collezionismo d’arte sono spesso connessi a ceti sociali benestanti. Si tratta di quelli meno colpiti dagli avvenimenti che hai menzionato.
Oggi siamo testimoni di una grande confusione: anche se ci sono state molte crisi nel 2022, abbiamo assistito ad un elevato numero di record registrati proprio nel mercato dell’arte. Tuttavia siamo consapevoli che si tratta di un segmento molto ridotto: le registrazioni di prezzi d’asta da record non significano necessariamente che un ampio gruppo di artisti ne beneficino.

“L’arte offre una bella piattaforma di scambio e confronto, consente di creare curiosità e rispetto reciproco”

In Italia spesso cinese è sinonimo di bassa qualità. Tutti sanno cosa sia un vaso Ming, ma cosa offre il mercato cinese, o della zona dell’Estremo Oriente, oggi?

Abbandoniamo i luoghi comuni. L’arte offre una bella piattaforma di scambio e confronto, consente di creare curiosità e rispetto reciproco. Crediamo fermamente che questo sia più importante che mai.

Christoph Noe How to Not Fuck Up
Christoph Noe al talk per il lancio del libro a Singapore

How to Not Fuck Up Your Art-World Happiness. 60 Tips and Tricks on How to Stay Relaxed and Mentally Sane in the Art Industry. Il suo libro sembra andare contro quelle regole che hanno da sempre governato il mondo dell’arte. Qual è la sua esperienza?

Non lo so. Una delle “regole” è “essere umili”. Se ciò risulta contrario a tutte le regole, credo che la domanda implichi l’aver accettato una realtà che è molto triste. Inoltre trovo che sia ancora sorprendente come certe cose debbano essere messe per iscritto.
Nella mia esperienza ho compreso che il mondo dell’arte non è un luogo così amichevole, accogliente e idealistico come tendiamo a credere. L’arte riguarda la cultura, l’estetica, la bellezza, ma non sempre siamo all’altezza di questi valori. Il libro è nato come promemoria di tutto questo per me stesso e sembra che lo sia anche per un pubblico più ampio.

“Se si collezionano opere solo per un mero guadagno economico, è finita la rilevanza dell’arte contemporanea”

Il libro ha 60 suggerimenti. Nr. 35: «colleziona opere che perdono valore». Sembra uno scherzo.

Questo accade se ti fermi ai titoli. Vorrei fornire qualche spiegazione e alcuni esempi del mio pensiero, eliminando la componente finanziaria dall’equazione. Perché, se si collezionano opere solo per un mero guadagno economico, allora è finita la rilevanza dell’arte contemporanea.
Esaminiamo altri settori dove la perdita di valore sembra essere pienamente accettata. Prendi l’acquisto di una nuova auto. Nel momento in cui la ritiri dal concessionario e inizi a guidarla, in quel momento l’auto ha già perso il suo valore iniziale, ma sembra che le persone non se ne preoccupino, perché la soddisfazione non arriva dalla componente economica.

Nr. 20: «Dite no alle grandi possibilità». Qualsiasi mercante d’arte cercherebbe di convincerti del contrario.

Non sto parlando in particolare del commercio di opere. Mi riferisco a quelle persone che “vendono grandi opportunità”. Io sono un idealista e conservo questo elemento che mi caratterizza. Ma sono consapevole che mondo dell’arte, come altrove, non si mangia gratis.

“Non voglio scoraggiare le persone ad iniziare a collezionare, ma consiglio di credere di più nel proprio giudizio”

Nr. 30: «Cerca un mentore». Un art consultant è un mentore?

Potrebbe. Ma un mentore, per come lo intendo io, non è solo qualcuno che ti insegni competenze tecniche. È anche, e soprattutto, qualcuno che ti ispiri, che sia interessato allo sviluppo generale di una tua inclinazione, qualcuno che capisca i tuoi punti di forza e le tue debolezze. Magari è qualcuno che ti dirà “forse non dovresti essere un mercante d’arte”.
Non è semplice trovare un mentore, anche perché troppo spesso le persone sono molto concentrate su loro stesse.

Nr. 21: «Quando ci sono 200 persone in lista d’attesa per acquistare lo stesso artista, perché dovresti voler essere il numero 201?». È un atteggiamento che dà sicurezza perché si ritiene che il rischio sia inferiore. Non è così?

Sapresti citarmi una grande collezione messa insieme da qualcuno che non ha corso un rischio? “Grandi collezionisti” e “playing safe” non funzionano nella stessa frase.
Non voglio scoraggiare le persone ad iniziare a collezionare, ma consiglio di credere di più nel proprio giudizio.

Christoph Noe art world
Un’altra immagine dell’evento di lancio del libro a Singapore

“Per una carriera duratura, non credo sia sufficiente basarsi sull’influencer marketing”

Nr. 29: parlando del divieto di fotografare un’opera d’arte, sottolinea l’importanza di custodire un tesoro e scrive che  «tutta l’intimità è stata uccisa». La direttrice del museo egizio di Torino ha invitato Chiara Ferragni per far sì che il suo museo sia conosciuto come gli Uffizi. La pubblicità è l’anima del commercio e oggi la pubblicità viaggia su Instagram. Assumerebbe un influencer per aumentare il valore delle opere di un artista?

Rispetto molto i social media e anche il nostro business è in gran parte basato su di essi. Inoltre, il fatto che il mainstream sia entrato nel mondo dell’arte mi entusiasma. Se gli influencer sono una chiave di accesso a un pubblico nuovo e consentono un aumento di persone interessate a visitare un museo, non c’è molto da criticare.
Ci sono molti modi di indirizzare l’andamento di un artista sul mercato. Uno potrebbe essere l’approvazione da parte di una celebrity o un influencer, come hai giustamente osservato. Ci sono anche metodi “classici” come la “creazione” di un record d’asta che quell’artista non ha ancora raggiunto. Dovremmo però chiederci quanto siano metodi sostenibili.
Per far crescere un artista è necessario lavorare su diversi aspetti, come la visibilità, l’acquisizione da parte di collezioni istituzionali e private, i critici d’arte, mostre presso gallerie, la pubblicazione su cataloghi specializzati e così via. Suona molto vecchia scuola, ci sono sempre le eccezioni e ora su Instagram chiunque può essere un artista. Ma per una carriera duratura, non credo sia sufficiente basarsi sull’influencer marketing.
Per rispondere alla tua domanda: non assumerei un influencer. Fa parte del nostro lavoro rendere le persone interessate, come i collezionisti, entusiaste di un artista: se non lo sono loro, non ha senso. Il pubblico riconosce l’autenticità.

“Uno dei rischi, sui social, è che opere d’arte non sono abbastanza appariscenti vengano penalizzate dall’algoritmo”

Quali rischi corre l’arte diffusa su Instagram?

Ce ne sono diversi. Permettetemi di menzionarne due. Uno: il rischio che quelle opere d’arte che non sono abbastanza appariscenti, vengano penalizzate dall’algoritmo. Composizioni cromatiche che mostrano più contrasti, tendono a funzionare meglio. Ma a volte, opere d’arte meno colorate possono essere più sorprendenti. Purtroppo questo non funziona sempre bene con le immagini digitali.

Due: gli artisti più noti si espongono più facilmente. Si ha pochissimo tempo per catturare l’attenzione del pubblico e, quando le persone hanno già una reputazione, è ovvio che è più facile.

Nell’immagine in apertura, un ritratto di Christoph Noe

‘Fratelli’, Santo Versace racconta la famiglia che ha rivoluzionato la moda

«La mattina ho l’abitudine di alzarmi presto. Mi immergo subito nella giornata che verrà. E in quella dopo. E in quella dopo ancora. Sono un uomo del presente e del futuro. Sempre stato così».

Inizia così Fratelli. Una famiglia italiana, il libro pubblicato per Rizzoli da Santo Versace, i cui diritti d’autore saranno devoluti alla fondazione che porta il suo nome, un ente filantropico creato insieme a sua moglie, Francesca De Stefano Versace.

Un uomo che ha contribuito a fare la storia della moda italiana nel mondo e che parla come un trentenne, come il giovane commercialista che lasciò la Calabria alla volta di Milano per stare accanto al fratello Gianni. Due visionari. Due uomini fuori dagli schemi che hanno liberato la donna, rendendola star anche senza red carpet.

Santo Versace 2023
Francesca De Stefano Versace e Santo Versace (ph. by Gianmarco Chieregato)

“Sono un uomo del presente e del futuro. Sempre stato così”

Santo Versace, un uomo di potere che non ne è rimasto vittima. Coetaneo della bellissima moglie Francesca, all’anagrafe molto più giovane di lui, racconta i suoi progetti, desideroso di parlare più di futuro che di passato. Una frase del libro che lo descrive? «Dietro alla velocità e alla lucidità di un imprenditore c’è, o almeno ci dovrebbe essere, un’idea del mondo, di etica e principi morali da consegnare alla collettività». Ed è quello che lui continua a fare con sua moglie.

«La Fondazione Santo Versace – racconta Francesca – è il figlio che non abbiamo avuto e che ritroviamo in ogni invisibile, nelle persone più fragili che, con l’amore che noi doniamo loro, fanno sì che il nostro amore duri per sempre. Io e mio marito ci fidanziamo e sposiamo ogni giorno. E nel fragile, nell’invisibile, abbiamo voluto restituire un po’ dell’infinito dono che ci è stato fatto, quello di conoscerci. La fondazione, infatti, si chiama Santo Versace – Accanto ai più fragili».

«Tra i progetti che la Fondazione sostiene  – continua Francesca – c’è “Made in carcere”, dove le donne del carcere di Lecce imparano a cucire creando manufatti destinati alla vendita. Nelle donne avviate a un mestiere, una volta uscite dal carcere, il tasso di recidività si abbassa dell’89%. Dovrebbe essere interesse delle istituzioni, oltre che di fondazioni come la nostra, aumentare questi progetti. Un essere umano può sbagliare, a volte irrimediabilmente, ma non va mai privato della dignità umana. Offrire la possibilità di lavoro all’interno di un sistema detentivo è ossigeno. L’obiettivo è che queste donne imparino un lavoro sano e, una volta uscite, possano essere inserite nel tessuto sociale».
La Fondazione riceverà fondi anche dalla vendita del libro.

“Eravamo due fratelli uniti e compatti, pur nella diversità, che si completavano a vicenda”

«Se, nell’aprire questo libro, qualcuno si aspetta che io, in qualche modo, attacchi mio fratello o mia sorella, resterà deluso. Pur nelle incomprensioni e nelle difficoltà di alcuni momenti, il legame resta profondo e sincero». E questa frase del libro viene confermata dal dottor Santo Versace durante tutta l’intervista. La tutela della famiglia era ed è al centro del suo modo di vivere. Il suo pensiero positivo è stato l’anima della nostra conversazione.

Dottor Versace, nel libro lei parla di quando don Antonio Mazzi scatenò una polemica sul fatto che non si sarebbe dovuto concedere il Duomo di Milano per le esequie di un omosessuale. Dopo tutti questi anni, sembra che certi pensieri siano ancora largamente diffusi…

No, mi sembra che la situazione sia molto cambiata e che ognuno possa vivere la propria sessualità liberamente. C’è sempre l’estremista, ma ci sono anche persone equilibrate. La situazione è nettamente migliorata da quando Gianni rilasciò la famosa intervista a un giornale americano, facendo coming out. Gli estremisti purtroppo restano.

Gianni Versace Berlino
Santo e Gianni Versace a Berlino nel 1994 (foto dal libro Fratelli. Una famiglia italiana)

Racconta anche di quando Giorgio Armani disse che a Gianni invidiava suo fratello Santo. Una coppia tipo Valentino e Giammetti: una mente creativa e una finanziaria?

Eravamo due fratelli uniti e compatti, pur nella diversità, che si completavano a vicenda: avrebbe fatto piacere a tutti.

L’avvento di grandi gruppi finanziari, come LVMH, pone limiti alla personalità delle singole case di moda?

No. Un grande gruppo, per funzionare, deve avere rispetto del Dna dell’azienda e della parte creativa. Quindi non c’è questo problema.

“Con Altagamma, avevo l’obiettivo di far lavorare insieme aziende italiane di alto profilo. Ci siamo riusciti, rispettando le singole individualità”

Nel libro racconta di quando a Los Angeles testimoniò in aula in un caso di contraffazione, trasformandola in danno d’immagine: un’arringa degna del telefilm Perry Mason

Ero a Hollywood ed ero inserito nell’atmosfera. Indossavo i capi per far vedere quanto fossero brutti. Sfilavo davanti alle persone della giuria popolare. Vedevo la loro espressione davanti al presidente e fondatore della Versace. È stata un’esperienza straordinaria, che ha ottenuto un grande risultato.

Fratelli Una famiglia italiana libro
Santo a Villa Fontanelle, 2006 © Matteo Brogi (foto dal libro Fratelli. Una famiglia italiana)

Dalla pandemia Chanel ha aumentato i prezzi delle sue iconiche borse più volte. L’aumento dei prezzi nel settore della moda è stato seguito da un aumento della contraffazione. Aumentarli è davvero un modo per compensare le perdite derivanti sia dalla contrazione dei mercati tradizionali, che dallo spostamento della domanda sul mercato del fake?

Quello della contraffazione è un problema relativo, perché chi può comprare Chanel non ha problemi di prezzo, altrimenti non va da Chanel. La contraffazione, se aumenta, è perché sempre più gente si avvicina alla moda. Ma chi compra il prodotto contraffatto, dovrebbe capire che finanzia la criminalità organizzata, l’evasione fiscale, il lavoro nero, lo sfruttamento dei bambini. Se riuscissimo a comunicare come fatto culturale questo problema, molta gente non comprerebbe più articoli contraffatti.

“Serve verticalizzare. Quando si viene a produrre in Italia, si crea richiesta in Italia, si creano posti lavoro, si pagano le imposte nel Paese”

Uno dei suoi progetti è la Fondazione Altagamma. Quanto pesa il forte individualismo degli imprenditori italiani nel fare sistema?

In realtà è un individualismo sano, forte, creativo. C’è poi da dire che mentre i francesi hanno visto la moda come una loro bandiera, in Italia siamo arrivati cinquant’anni dopo a capire l’importanza del fashion, della creatività. Abbiamo portato alla ribalta settori come la moda, la creatività, il cinema, che sono la nostra “alta gamma”. Come presidente fondatore di Altagamma, avevo l’obiettivo di fare sistema e di far lavorare insieme aziende italiane di alto profilo. Ci siamo riusciti, rispettando le singole individualità. Facciamo tante cose tutti insieme, come ricerche di mercato, proposte di legge al Governo, ricerca di fondi.
Quando fondammo Altagamma, siamo stati visionari. Eravamo solo in nove, tra i quali Angelo Zegna, Maurizio Gucci, Franco Mattioli (socio di Ferré – nda), Mario Bandiera (Les Copains – nda), Ferruccio Ferragamo, Alessi per il design. Se non fosse accaduta la tragedia di Miami, io avevo creato il primo gruppo italiano: Versace e Gucci insieme.

Cucinelli sta dimostrando che si può andare anche da soli, magari verticalizzando.

Lo stanno dimostrando tutti gli italiani. Anche in Italia ci sono realtà ormai verticalizzate, ma lo pubblicizzano meno perché fa più notizia parlare di Vuitton. I nostri imprenditori stanno lavorando bene. Poi non ci scordiamo che uno dei più grandi imprenditori italiani del dopoguerra, che ci ha lasciato da poco, ha dimostrato come dal nulla si possa fondare l’azienda più importante, mettendo in minoranza i francesi: Leonardo Del Vecchio.

Santo Versace Fratelli
Santo con i figli Antonio e Francesca alle Maldive – archivio privato di Santo Versace (foto dal libro Fratelli. Una famiglia italiana)

“Ero convinto che Gianni fosse un grandissimo creativo, la storia ha dimostrato che è stato uno dei più grandi stilisti del secolo scorso”

Abbiamo il ministro per il Made in Italy, è stato dato il via libera al liceo per il Made in Italy. Abbiamo distrutto i professionali. Lagerfeld, in una delle sue ultime interviste, parlava della perdita di tradizioni manifatturiere italiane, piccole realtà che lui cercava per le sue creazioni di haute couture. Forse prima del ministro e del liceo, dovremmo ricreare le basi del Made in Italy…

Tutte le aziende di Altagamma stanno adottando delle scuole e stanno completando la filiera, per evitare la dispersione dei lavoratori. Fanno sistema per preparare i giovani e invogliarli ai mestieri. Ovviamente c’è da fare molto di più. Spesso un artigiano fonda una piccola impresa e poi manda i figli a fare i medici. Ecco perché serve verticalizzare. Quando si viene a produrre in Italia, si crea richiesta in Italia, si creano posti lavoro, si pagano le imposte nel Paese. Sono investimenti importanti. Fare sistema è estremamente importante anche come Fondazione Santo Versace, perché vogliamo fare progetti come “Made in carcere”, ma anche progetti per le donne che vengono liberate dalla strada. Progetti virtuosi per creare una rete in questo settore, com’è stato fatto con Altagamma. Oggi è fondamentale ottimizzare le risorse per ottenere risultati migliori.

Un progetto che le sta a cuore è quello della sua Minerva Pictures con Medusa Film, che a Venezia ha presentato Saint Omer vincendo due leoni.

Venezia è stata un’esperienza bellissima. C’ero già andato a ritirare premi, ma come produttore e distributore è stata la prima volta. Dopo aver visto il film dissi che avremmo vinto un Leone. Ne abbiamo vinti due.

“Gianni è stato unico per la sua capacità di rompere gli schemi, cambiarli e creare una donna che non c’era, di liberarla”

Santo Versace
Foto di classe – archivio privato di Santo Versace (foto dal libro Fratelli. Una famiglia italiana)

Come ai tempi di suo fratello, quando prevedeva dei successi che poi realmente arrivavano…

Ero convinto che Gianni fosse un grandissimo creativo e la storia ha dimostrato che è stato uno dei più grandi stilisti della seconda metà del secolo scorso. La prima metà si può attribuire a Chanel, la seconda a Gianni Versace.

Qualcuno obietterebbe che c’è anche Valentino…

Ce ne sono tanti altri, ma non della grandezza di Gianni. Altri, come Valentino, hanno un loro stile, ma Gianni è stato unico per la sua capacità di rompere gli schemi, cambiarli e creare una donna che non c’era, di liberarla. A Gianni va il merito di aver portato in passerella sia l’uomo che la donna liberi. Sotto questo aspetto, Gianni ha segnato la storia del lusso. Gli altri hanno fatto cose molto belle, ma non hanno rotto gli schemi. Sulle passerelle ci sono riferimenti a lui costantemente.

“Investire nella cultura è fondamentale, come lo è formare gli studenti”

Investire in cultura è un suo mantra…

Investire nella cultura è fondamentale. A chiunque non ha un lavoro bisognerebbe dare finanziamenti per poter ritornare negli istituti di formazione. Noi potremmo vivere di cultura e turismo. Quando entrai in politica desideravo fare il ministro della cultura, che per me è la base del successo di un paese, dell’Italia in particolare. Ma è fondamentale formare gli studenti. Se mi chiedessero come innovare le scuole, direi che si deve partire dall’educazione civica. Poi l’educazione alimentare per stare bene in salute; i lavori manuali, perché capisci come puoi usare le mani; lo sport di squadra, per imparare a stare con gli altri; andare a visitare i luoghi della sofferenza, per capire quanto sei stato fortunato ad essere sano. E poi i libri.

Ma se un ragazzo a 14 anni non è interessato ai libri, perché non deve iniziare un mestiere? Se a Maradona avessimo dato il pallone dopo la laurea, sarebbe stato Maradona? Se la Pellegrini avessi aspettato la fine della scuola dell’obbligo, sarebbe diventata la campionessa mondiale che è stata? La Ferrari, campionessa di ginnastica, ha iniziato a sei anni. Se un ragazzo inizia ad allenarsi a sei anni, perché uno che non è interessato ai libri non può iniziare a 14 anni a imparare un mestiere?

Ho letto che un grande stilista, che si chiamava Gianni Versace, ha iniziato da ragazzino nell’atelier di sua mamma…

Sì, gattonava tra pizzi e merletti. Quando vado a parlare nelle università, racconto di Salvatore Ferragamo e di Gianni Versace. Ferragamo da ragazzino lasciò l’Italia per l’America. E anche lui era un ciabattino, come mio nonno.

“Il Made in Italy è fatto dai mestieri”

Scrive anche che suo fratello a scuola non voleva studiare.

Lui studiava le cose che amava. In quelle era imbattibile. Se a 14 anni uno ha fatto la scuola dell’obbligo e non vuole proseguire, ma vuole imparare un mestiere, perché non farglielo fare?

famiglia Versace
Gianni e Santo nel loro primo ufficio di via della Spiga, davanti a un’opera dell’artista Antonio Trotta – archivio privato di Santo Versace (foto dal libro Fratelli. Una famiglia italiana)

Forse perché in Italia per anni le abbiamo considerate scuole di serie B?

Fino agli anni ‘70 noi avevamo le scuole professionali più belle del mondo. Le abbiamo demolite per fare licei. Dobbiamo tornare a diversificare l’offerta formativa. Quando andiamo nei musei, ci dimentichiamo che quelli sono lavori manuali: quelli sono artisti che hanno saputo usare le mani. Un pittore cosa fa?

Suo fratello, finita la sfilata, andava a salutare le sarte…

Sì, le salutava una ad una dicendo loro “ragazze questo successo è merito vostro”. Il Made in Italy è fatto dai mestieri.

Nell’immagine in apertura, Santo Versace ritratto da Gianmarco Chieregato

Aurora Ruffino: libera, indipendente, vera

Aurora Ruffino, amata dal pubblico per il ruolo di Cris in Braccialetti rossi (cui sono seguite tante altre parti, ugualmente apprezzate, in titoli come I MediciUn passo dal cielo, Noi, Bianca come il latte, rossa come il sangue…), è dal 23 gennaio su Rai 1 con Blackout – Vite sospese, al fianco di Caterina Shulha (altra protagonista della digital cover di MANINTOWN), Alessandro Preziosi, Rike Schmid, Marco Rossetti, Mickaël Lumière. Diretta da Riccardo Donna, la serie è una coproduzione Rai Fiction – Èliseo Entertainment. Aurora dimostra una saggezza non comune. Racconta la sua vita con leggerezza e gratitudine, anche ricordando quando la deridevano perché «ero bruttina».

Aurora Ruffino
Dress Gianluca Saitto

Nell’intervista a Vogue hai chiesto di poter parlare di malattia mentale. Perché?

In questo momento ci sono molte battaglie da sostenere, come l’ambiente o la lotta per la parità di genere. A me sta a cuore la salute mentale, della quale si parla poco. È un problema che non va sottovalutato e ho affrontato personalmente, con persone a me vicine. Quasi tutti abbiamo incontrato una situazione legata a problemi psicologici, almeno una volta nella vita. Ma dare un nome alle cose fa paura: è più facile far finta di non sapere o non capire. Perché sapere che hai un problema ti costringe ad affrontarlo. Rivolgerti a specialisti ti consente di proteggerti, di usare gli strumenti adatti anche solo per capire che ti stai confrontando con qualcuno il cui schema mentale è strutturato in modo diverso da quel che ti aspetti. Far finta di non vedere non evita di vivere il problema.

“Sto attraversando una fase di trasformazione in cui, come Lidia, sto capendo che devo contare solo su me stessa”

Lidia è il tuo personaggio in Blackout Vite sospese. Interpretarlo ti ha fatto conoscere qualcosa di te?

Lidia è un personaggio che ho trovato interessante perché rispecchia quello che sto affrontando in questo momento della mia vita. Appena finite le riprese, ho vissuto il suo stesso squilibrio emotivo.
Prima della valanga, è una ragazza semplice vissuta nella Valle del Vanoi, un appuntato dei carabinieri in un paesino dove non succede nulla. Una ragazza ingenua che si è sempre preoccupata di compiacere le persone. È diventata carabiniere per ottenere l’amore del padre. Questo influenzerà le sue scelte relazionali. A causa della valanga, si ritrova a essere una figura di riferimento in questo gruppo di sopravvissuti, che cerca in lei delle soluzioni che però non sa trovare, perché non ha mai affrontato una situazione così estrema. Nel mezzo di una catastrofe naturale, con omicidi e dispersi, scopre di trovarsi in una situazione personale particolare. Tutto ciò la porterà ad avere una crisi molto profonda. Spogliata di ogni certezza, ricomincia da zero e, in questa nuova ricerca di sé, capisce che può fare affidamento solo sulle proprie forze, realizzando che quello che è non era ciò che desiderava.
Io sto vivendo una trasformazione simile. Ho avuto una crisi forte negli ultimi otto mesi, che mi ha portato a mettere in discussione il mio modo di relazionarmi con le persone, la mia identità. Attraverso una fase di trasformazione in cui, come Lidia, sto capendo che devo contare solo su me stessa. Quei vuoti che sentiamo tutti, non li può riempire nessuno se non noi stessi, imparando ad amarci e facendo ciò che ci fa stare bene.

Aurora Ruffino serie
Suit Momonì, top VI VALENTINA ILARDI

“Il cambiamento è opportunità, è vita”

Una crisi è un’opportunità. Cosa hai fatto di questa crisi?

C’è una bellissima poesia di Einstein in cui racconta come la crisi sia in realtà una benedizione, perché ti porta al cambiamento. La vita è costante cambiamento. Non cambiare mai, rimanere fermi nelle proprie posizioni, anche quando si sente il bisogno di fare scelte diverse, è come la morte. Ti forzi a non andare avanti, a non vivere, mentre il cambiamento è opportunità, è vita. 

E cosa hai deciso di cambiare?

Il mio approccio mentale. Ho sempre cercato di avere al mio fianco una persona di riferimento, un compagno che in qualche modo mi aiutasse ad affrontare qualsiasi situazione. L’idea di avere una persona vicino, pronta a raccogliermi nel caso fossi caduta, era rassicurante. Non sono mai riuscita a star bene da sola. Ho sempre avuto paura di questo vuoto non colmato, di questo amore non percepito. Poi ho capito che è un desiderio che non appartiene ad Aurora donna, ma ad Aurora bambina. Per tutta la mia vita, quel desiderio di cura ha influenzato le mie scelte. Ora ho deciso di non farmi più trasportare dal bisogno di quella bambina, di prendere in mano la situazione. Non sono quella necessità: sono una donna che sa riconoscere quella trappola e non si fa condizionare. Sto facendo un lavoro su me stessa per arrivare ad essere una donna libera, indipendente, vera.

“Si parla troppo facilmente di genitorialità, senza preoccuparsi di cosa dovrà affrontare il bambino”

Hai scoperto di essere perfettamente dotata e bellissima così come sei?

Sto scoprendo che posso stare bene anche senza le rassicurazioni di un uomo al mio fianco. Quando imparerò a stare bene con me stessa al 100%, potrò incontrare una persona con la quale non cercare di riempire un vuoto, ma iniziare a costruire qualcosa insieme, io col mio essere completa da sola, lui altrettanto; insieme, potremo costruire qualcosa senza che uno cerchi di colmare le necessità dell’altro.

Fin da bambine veniamo condizionate dalla storia, sul fatto di essere mezze mele alla ricerca di altre mezze mele. In realtà, in natura, gli alberi producono mele intere…

Ci sto lavorando.

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Body and jacket Not After Ten by Veronica Ferraro, sunglasses Huma Eyewear, boots Giuseppe Zanotti

Nuova produzione, nuovo compagno di viaggio. Questa volta è Alessandro Preziosi…

Un attore eccezionale e simpatico. Mi ha fatto fare tante risate.  La recitazione è il suo talento. Ma è anche portato per dirigere. La sera cercava sempre di dare consigli agli attori più giovani, cercava di aiutarli nelle prove. Ha una sensibilità che lo porta a vedere oltre. Secondo me, sarebbe un bravissimo regista. Mi ha dato consigli importanti. Alessandro è stato una bellissima scoperta.

“Mi piacerebbe che a scuola, fin dalle elementari, fosse introdotta l’ora di empatia”

Sei cresciuta in una famiglia non convenzionale. Sei la prova concreta del fatto che le famiglie possono essere di tanti colori diversi, ma ugualmente belle?

Sì. Sono cresciuta con due mamme e un papà: mia zia e i miei nonni. Ci hanno dato tutto l’amore di questo mondo, gli sarò sempre grata. Ma mi sento di dire un’altra cosa: questi discorsi sul fatto che nella famiglia basta l’amore, a volte sono frasi fatte. In realtà, se uno non la vive sulla propria pelle, non sa di cosa parla.
Io mi sento miracolata per l’amore incondizionato che hanno dato – e continuano a dare – a me e ai miei fratelli. Dentro di me, però, restano le ferite, i miei due vuoti, legati al fatto di non aver avuto una figura materna e una paterna. Non va sempre bene tutto. Quando cresci e diventi più consapevole, ti rendi conto che sei il frutto dell’unione di due persone. Poi può crescerti anche qualcun altro, ma vieni sempre da due persone specifiche che ti hanno messo al mondo. Allora senti il bisogno di capire quali sono le tue radici. E questa è una cosa che solo i tuoi veri genitori possono raccontarti.
Nonostante l’amore immenso dei miei nonni e di mia zia, ho dovuto fare i conti con chi sono io come essere umano, con le due persone che effettivamente mi hanno generato, alle quali non posso fare quelle domande.

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Body and jacket Not After Ten by Veronica Ferraro, sunglasses Huma Eyewear, boots Giuseppe Zanotti

“Vorrei essere utile per qualcuno che, sentendo la mia esperienza, possa avere un punto di vista diverso sulla sua”

Si parla troppo superficialmente di argomenti che la gente non conosce.

Sono per l’adozione, credo che per un bambino sia meglio vivere all’interno di una famiglia piuttosto che in un istituto. Non importa chi sia ad adottare, quale tipo di famiglia, si tratta di un bambino che già dovrà fare i conti con la propria identità. La cosa importante è che siano persone che abbiano veramente voglia di dare amore incondizionato. Chiunque abbia voglia di donare amore ai bambini, deve avere il diritto e la possibilità di farlo. Allo stesso tempo, bisogna fare attenzione a non cadere nel tranello di rendere tutto superficiale, di parlare di amore in generale senza capire che si sta parlando di esseri umani, che quando crescono si fanno domande e hanno il desiderio di capire da dove vengono. Si discute troppo facilmente di argomenti legati alla genitorialità, senza preoccuparsi di cosa dovrà affrontare il bambino.

I bambini sono più inclusivi degli adulti?

No. Soprattutto gli anni delle medie sono stati difficili per me e i miei fratelli. Siamo stati presi in giro perché non avevamo i genitori, perché non potevamo permetterci vestiti firmati. A quell’età i bambini non si rendono neanche conto di ciò che dicono, del male che fanno: si sentono coraggiosi ferendo l’altro.
Non sono cattivi, stanno sperimentando la crescita in modo sbagliato. Mi prendevano in giro anche perché dicevano che ero bruttina, ma tutto questo mi ha fortificato.
Mi piacerebbe che a scuola, fin dalle elementari, fosse introdotta l’ora di empatia, come in alcune scuole del Nord Europa: far provare ai bambini cosa significa mettersi nei panni dell’altro. Credo sarebbe uno strumento da fornirgli per sperimentare il coraggio in modo sano. Senza prevaricare gli altri, senza fare male. 

“Alcuni affrontano i problemi cercando compassione, impietosendo le persone. Non mi appartiene, la sofferenza non andrebbe sfruttata”

Da Braccialetti rossi a Bianca come il latte, rossa come il sangue, hai portato sullo schermo malattie di cui si fa ancora fatica a parlare, il cancro ad esempio viene spesso chiamato “brutto male”. Parli di dipendenze emotive e malattia mentale. Ha fatto scalpore la trattazione indegna del tema in una puntata di C’è posta per te. Possibile che non capiamo il confine tra strumentalizzazione e sensibilizzazione?

Personalmente, non mi interessa parlare della mia famiglia per speculare sulla mia storia, per commuovere o scandalizzare. Credo sia più interessante comunicare quello che in questi anni ho imparato dalla vita, che è stato positivo per la mia crescita. Vorrei fosse utile per qualcuno che, sentendo la mia esperienza, possa avere un punto di vista diverso sulla sua.
Non mi è mai interessato sfruttare una storia come la mia. Anzi, sono sempre molto attenta. Dei miei genitori non parlo mai, sono esperienze private, che non servono a chi ascolta. Il mio passato è alla base della mia dipendenza. Ora mi sto staccando da questo tipo di problema.
Alcuni affrontano i propri problemi cercando compassione. Cercano amore impietosendo le persone. Questo non mi appartiene, la sofferenza non andrebbe mai sfruttata.

Aurora Ruffino fashion
Body and jacket Not After Ten by Veronica Ferraro, sunglasses Huma Eyewear, boots Giuseppe Zanotti

Credits

Talent Aurora Ruffino

Photographer Davide Musto

Fashion Editor Rosamaria Coniglio

Ph. assistant Valentina Ciampaglia

Styling assistant Antonietta Ragusa

MUA and hair Francesca Giulini @Cotril

Press office Lorella Di Carlo

Nell’immagine in apertura, Aurora Ruffino indossa un abito Gianluca Saitto

Caterina Shulha, forte e determinata, sul set come nella vita

È la Vigilia di Natale e una slavina isola la Valle del Vanoi, impedendo i soccorsi tramite l’unico passo che porta alla valle. Il paese è isolato, l’elettricità saltata, le comunicazioni interrotte. I clienti del lussuoso albergo e i residenti del paesino, nel piccolo ed esclusivo polo sciistico, tagliati fuori dal mondo.

In questo scenario si svolge la miniserie in quattro puntate Blackout – Vite sospese, firmata da Riccardo Donna. Nel cast, Alessandro Preziosi, Aurora Ruffino, Rike Schmid, Marco Rossetti e, appunto, Caterina Shulha, che qui ci parla del legame stabilito col suo personaggio, dell’esperienza di modella, dei suoi trascorsi di adolescente bielorussa arrivata nel Paese senza parlare una parola d’italiano, dei pregiudizi sulle giovani madri come lei, da ignorare perché «dovremmo imparare a vivere senza ascoltare le opinioni altrui e, soprattutto, senza dare giudizi né consigli agli altri su come vivere».

Caterina Shulha
Top e coulotte VI VALENTINA ILARDI, gonna Gilberto Calzolari

“Ultimamente ho avuto la fortuna di interpretare ruoli diversissimi tra loro, il che mi porta a staccarmi da quella che sono io”

Blackout  vite sospese. Un gruppo in cui ognuno ha segreti da nascondere. Che rapporto hai creato con il tuo personaggio?

Interpreto Irene, la compagna di Marco Rossetti. Arriviamo in albergo per passare una vacanza ma, insieme alle valigie, porto con me anche un segreto pesante. È un’infermiera, ma con un trascorso noir nel periodo vissuto a Napoli. Irene ha una doppia faccia: da una parte è una donna indipendente e forte, dall’altra ha delle grandi fragilità che derivano dalla sua vita passata, che ha deciso di cambiare.
È vero che ogni volta che interpretiamo un personaggio ci mettiamo qualcosa di noi, ma a volte questo lavoro è anche un modo per scappare da noi stessi. Ultimamente, poi, ho avuto la fortuna di interpretare ruoli diversissimi tra loro. Questo mi porta a staccarmi da quella che sono io. È divertente.
Volevo lavorare da tanto con Riccardo Donna. Ci conosciamo da tempo, ma non c’era stata mai l’occasione. Mi è piaciuto girare con Riccardo perché sul set, con lui, non senti che stai lavorando, ma di essere con un gruppo di amici a fare una cosa bella. Lo ringrazio soprattutto per l’atmosfera che ha creato. Il cast era numeroso, non è facile trovarsi bene con tutti, per di più stando sempre insieme per quattro mesi, tra persone nuove. Invece è stata una bellissima esperienza. L’unica che conoscevo era Aurora (Ruffino – nda), in lei ho trovato un’amica con la quale ancora esco e ci sentiamo.

“È importante usare la nostra voce per parlare non solo di quello che sta accadendo in Bielorussia, ma anche in Iran, Afghanistan e altre parti del mondo”

Sei bielorussa. In questo momento non devessere facile, soprattutto per i pregiudizi delle persone che spesso non conoscono la storia, ancor meno quella recente del vostro Paese…

Non solo sono cresciuta in Bielorussia, ma ho tanti amici russi. Nell’ultimo anno è cambiata profondamente la mentalità verso questi due popoli. Quando un commento arriva da persone non informate, è un pregiudizio. La cosa fondamentale è informare e informarsi. Sono oltre due anni che parlo della situazione in Bielorussia, sia tra gli amici che nei progetti ai quali ho preso parte. I nostri due popoli sono nelle mani di due squilibrati che non rappresentano le persone. Forse in Russia l’opinione pubblica è divisa a metà nei confronti di Putin. In Bielorussia, dove nelle ultime elezioni, prima che fossero truccate, l’82% degli elettori aveva votato per la Tichanóvskaja, il popolo si è ritrovato nelle mani di un pazzo che non lo rappresenta. Quello che posso fare nel mio piccolo, è raccontare le storie dei miei amici che vivono lì. In Bielorussia vivono anche quasi tutti i miei parenti, tranne mia mamma. So cosa accade e cosa stanno vivendo. Quello che posso fare io è niente rispetto a ciò che fanno loro. Con metodi diversi, ma è grazie anche al mio lavoro che posso raccontare e informare. È il minimo che io possa fare…

“Fare la modella è stato un po’ un gioco, però mi ha regalato le prime soddisfazioni”

Caterina Shulha Instagram
Dress VI VALENTINA ILARDI

Hai la fortuna di vivere in un Paese dove l’informazione è spesso discutibile ma, a differenza della Bielorussia, non abbiamo la pena di morte o l’arresto per reati di opinione…

In Bielorussia le persone vengono arrestate anche solo perché indossano pantaloni bianchi e rossi. Ecco perché mi impegno a diffondere informazioni e stimolare riflessioni, anche solo tra i miei amici italiani. Dobbiamo ricordarci sempre che siamo in uno stato dove non c’è la pena di morte e, nonostante le difficoltà del momento, c’è un’altra qualità della vita.
È importante usare la nostra voce per parlare non solo di quello che sta accadendo in Bielorussia, ma anche in Iran, Afghanistan e altre parti del mondo.

Arrivi ad Ostia a 13 anni, senza parlare l’italiano. Come ti sei inserita?

È vero… Mi sono fatta scrivere da mia mamma qualche parola per sopravvivere i primi giorni. Arrivare in una scuola che non conosci, in un mondo nuovo non è semplice. Ostia però era un ambiente folkloristico. Per me è un po’ una seconda casa. Mi ricordava la vita della piccola cittadina dove sono nata e ho vissuto fino a 12 anni. Se fossi arrivata direttamente in un liceo al centro di Roma, forse sarebbe stato diverso. Ostia non è il posto che spesso raccontano, dove la gente si spara dalle macchine. È una bel quartiere, al quale sono molto affezionata.

“Parliamo sempre di libertà. Iniziamo a essere liberi di non rompere le scatole a nessuno e di non farcele rompere”

Ti sei sentita accolta?

Ho avuto degli insegnanti molto bravi. Soprattutto quando arrivai alle medie. L’insegnante che aveva il maggior numero di ore era una persona eccezionale, una grandissima donna. Poi, come in tutte le classi, c’erano gruppi di bulletti, di persone che non volevano studiare. Qualche battutina all’inizio. Ma non conoscendo l’italiano, non me ne fregava niente… Quando poi l’ho imparato, ho iniziato a rispondere, ma in maniera un po’ più educata. All’inizio, se non capisci l’italiano, forse è anche meglio.

Giuseppe Zanotti boots
Dress Gianluca Saitto, boots Giuseppe Zanotti

Come modella sei apparsa su Vogue, Marie Claire, nelle campagne di Duvetica, Charli London, Frankie Garage, Mangano, Z.One Concept. Come hai iniziato?

Per gioco. Frequentavo il liceo linguistico, avevo 15 anni. Il tipo di un’agenzia mi fermò per strada. A quei tempi ancora accadeva, a Roma si facevano un po’ di pubblicità e cataloghi… Ora è tutto a Milano. Ho fatto soprattutto spot pubblicitari e foto. È stato un po’ un gioco, però mi ha regalato le prime soddisfazioni. Per una quindicenne che non aveva spese se non la tessera dell’autobus, la pizza e il cinema con gli amici, guadagnavo anche bene. Vivevo da sola con mia mamma che lavorava tutto il giorno, è stato un passaggio importante, per l’indipendenza e l’aiuto che potevo darle. Poi il provino per I Cesaroni. Mi presero per una puntata. Da lì recitare è diventato il mio lavoro.

“Non ho problemi a fare complimenti sinceri alle altre donne”

Sei giovane e hai già tre figli. Nel 2023 ancora si discute sul fatto che una donna possa lavorare ed essere madre. In realtà le donne hanno sempre lavorato: nei campi, poi anche in fabbrica, e si sono sempre occupate di figli, casa e famiglia. Abbiamo sempre fatto tutto…

Credo che l’ascesa dei social ci abbia mandato fuori di testa. Mi ricordo quando c’erano gli slogan contro le madri che non volevano allattare. Adesso tutti i post sono di madri che dicono “non voglio allattare”. C’è sempre stata una battaglia. Prima contro le madri che lavoravano, poi contro quelle che non hanno figli. Ora leggo solo articoli di donne che dicono “non ho fatto figli e sto bene così”; benissimo, ma nessuno ti ha detto niente. Secondo me dovremmo imparare a vivere senza ascoltare le opinioni altrui e, soprattutto, senza dare giudizi né consigli agli altri su come vivere.
Vista l’età, le persone mi dicono “ma i figli li volevi?”. Tre figli devi averli voluti, non arrivano perché una sera ti ubriachi. Parliamo sempre di libertà. Iniziamo a essere liberi di non rompere le scatole a nessuno e di non farcele rompere.

Not After Ten Veronica Ferraro
Body Not After Ten by Veronica Ferraro, knitted skirt Drumohr

Che rapporto hai con le donne? Sei tra le fortunate che hanno sperimentato la sorellanza?

Sono figlia unica e non vengo da una famiglia numerosa. Ho cambiato tantissime scuole, ho cambiato paese, quindi non ho avuto amiche cresciute con me, le ho acquisite negli ultimi anni. Però con le donne mi son sempre trovata abbastanza bene. Nella vita sono molto maschiaccio. Se non lavoro, vesto in tuta e scarpe da ginnastica. Sono una donna molto easy, questo forse mi aiuta. Sono anche quella che non ha problemi a fare complimenti sinceri alle altre donne…

“Torniamo sempre al discorso dell’informazione. Bisogna informarsi”

Sei una bellissima donna. Ora in tante denunciano abusi e violenze durante i provini. L’Unione Italiana Casting Directors ricorda che ci sono dei protocolli per i provini, invita a diffidare di quelli effettuati in sedi non opportune e orari extralavorativi. Sei stata fortunata o hai imparato a difenderti?

Forse sono stata fortunata… Però secondo me queste situazioni possono svolgersi fondamentalmente in due modi. La prima: ti ritrovi a fare il provino a casa del regista o di chicchessia; già qua dovresti chiederti perché ti ritrovi in casa per un provino. Non sei uscita dal film di Virzì Caterina va in città e arrivi a Roma per la prima volta, senza sapere niente. Siamo nel 2023, pieni di social, difficile che questa situazione sia realistica. Se ti ritrovi a fare un provino in casa, fatti una domanda.
La seconda situazione è quando, e può succedere, nel camerino entra un produttore o un regista, ubriaco o meno, e ti appiccica al muro. Lì sei in un altro tipo di situazione.
Purtroppo, a causa del politically correct, siamo sempre a metà tra la verità e quello che viene raccontato. Torniamo sempre al discorso dell’informazione. Bisogna informarsi.
Io sono stata fortunata e un po’, da persona intelligente, ho evitato situazioni scomode.
Però ci sono anche persone che scelgono quella modalità lì per lavorare. È inutile nascondersi. Funziona così da sempre in tutto il mondo, anche in altri settori. Basta guardare alcune deputate degli ultimi anni. Non si può negare l’evidenza. Ci sono persone che scelgono una determinata modalità per raggiungere un obiettivo. È una scelta e non intendo giudicarla. Davanti a una domanda, uno può rispondere sì o no. Violenze e molestie sono tutt’altra cosa.

“Mi piace posare per un servizio di moda, ma preferisco recitare, è più liberatorio e hai una voce da usare”

Dopo il MeToo, negli Stati Uniti è nata la figura dell’intimacy coordinator sui set. Se ne parla anche in Italia. Ti sentiresti più protetta?

È una figura che non ho mai utilizzato. Dovrebbe esistere un’educazione sul set. Ho lavorato sempre con registi estremamente corretti. La violenza non è sempre e solo una mano sul sedere. È anche un regista che ti offende e urla dietro il monitor frasi umilianti e sessiste. Se questa figura limita il potere di simili personaggi, può essere utile.

Ad esempio il mio contratto prevede che tutte le scene intime, fosse anche solo un bacio, devono essere prima concordate tra attore e regista. E anche se non avessi quella clausola, discuterei con tutte le parti interessate sul come intendiamo girare quella scena. Quando ho girato scene intime, ho avuto sempre una troupe ridotta. Raramente mi è capitato che l’aiuto regista non abbia gestito bene la situazione. In quei casi sono stata la prima a dire: “guarda che chi non serve deve uscire”.

Quindi l’intimacy coordinator te lo fai da sola…

Su un set è importante che ogni figura abbia quest’attenzione, anche l’addetto ai costumi che ti copre un secondo dopo lo stop e non cinque minuti dopo.

Per MANINTOWN hai posato. Torneresti a lavorare come modella?

Quando capita mi fa piacere. Ho trascorso mezza giornata piacevole. Essere fotografata mi diverte e mi viene facile, però non ci tornerei apposta. Preferisco recitare: è più liberatorio e hai una voce da usare.

Caterina Shulha tv
Jacket Maison Laponte

Credits

Talent Caterina Shulha

Photographer Davide Musto

Fashion Editor Rosamaria Coniglio

Ph. assistant Valentina Ciampaglia

Styling assistant Antonietta Ragusa

MUA Vanessa Forlini @Making Beauty Management

Hair Christian Vigliotta @Making Beauty Management

Press office Lorella Di Carlo

Nell’immagine in apertura, Caterina Shulha indossa top e coulotte VI VALENTINA ILARDI, gonna Gilberto Calzolari

Un attore in continua transizione: Matteo Oscar Giuggioli tra urgenza e curiosità

Nasce a Rho, alle porte di Milano, la notte del 31 dicembre del 2000. Alle 23.30. Ma, tranne quella notte, Matteo Oscar Giuggioli non ha più tenuto sveglia sua mamma: «Ero bravissimo. Sorridevo a tutti, ero solare». La musica lo attrae fin da piccolo: «Ero nel passeggino, con mia mamma. Abbiamo incontrato un violinista di strada e io ero ipnotizzato ad ascoltarlo. Siamo rimasti lì per molto tempo perché non volevo venir via». Crescendo ha pensato anche di fare il musicista. «A casa ho la chitarra, il basso, la batteria elettrica, il sax, il violino, il cajón. Ho provato tanti strumenti… Un po’ come ho fatto con gli sport».

Matteo Oscar Giuggioli
Total look Saint Laurent

Alle superiori si iscrive al liceo delle scienze umane. E qui incontra il suo grande amore: la recitazione. «Ho iniziato in primo liceo con un corso extrascolastico. Ho sempre sentito che avevo delle cose da dire, ma incanalavo male le mie energie. Facevo tentativi che non portavo mai a termine. Ho avuto un percorso scolastico faticoso. Non mi sentivo a mio agio. Pensavo anche di non essere intelligente. Ero in un periodo di transizione e non mi sentivo compreso. Nulla attirava la mia attenzione. Ero demotivato. Ma quando ho iniziato a fare teatro, ho sentito un’emozione enorme, un senso di libertà che non avevo mai provato. Ho avuto un’insegnante bravissima che ci faceva fare training autogeno, teatro-danza. Ho provato un senso di vitalità pazzesco e ho continuato. Era come una droga: dopo un po’ avevo bisogno di aumentare la dose».

“In realtà non c’è stato un momento in cui ho deciso: da ora in poi voglio fare cinema. Volevo solo recitare”

Matteo Oscar Giuggioli film
Total look Saint Laurent

Però non hai continuato col teatro…

In realtà non c’è stato un momento in cui ho deciso: da ora in poi voglio fare cinema. È semplicemente successo. Per Gli sdraiati sono venuti a provinare nelle scuole. È iniziata così. Volevo solo recitare. Non importava se a teatro o al cinema.

Matteo Oscar Giuggioli Instagram
Total look Bally

Ne Il filo invisibile, diretto da Marco Puccioni per Netflix, tratti due argomenti scomodi: l’omosessualità e le famiglie arcobaleno. Due aspetti della nostra quotidianità che il nuovo governo avversa…

Questo è un governo contro le famiglie in generale, non solo arcobaleno. Famiglia è sinonimo di amore e questo è un governo che va contro l’amore. Perché mi sta dicendo chi non posso amare, con chi posso sposarmi o aver figli. Aver figli è la traduzione di un atto sessuale con un parto a seguito, oppure è semplicemente voler dare amore?

“Il nostro lavoro è fatto anche di ricerca. E se la fai, il risultato si vede”


Sei con Stefano Accorsi nella nuova serie Rai Vostro onore. Che esperienza è stata?

Un bellissimo progetto, ma mi sento sempre in continua transizione. Sono molto felice di Vostro onore, però faccio fatica a vederlo. Vuol dire che sono cresciuto, maturato. Sono molto severo con me stesso: non mi piaccio. Avrei voluto provare di più. È importante investire sul coaching, sulla ricerca. Spesso le produzioni mettono gli attori in uno spazio senza una preparazione sufficiente. Del tipo, facciamoli provare, lasciamo che si conoscano. Un padre e un figlio conoscono i loro corpi, le proprie menti. Dovremmo avere il tempo di uscire, parlare, conoscerci in generale. Il nostro lavoro è fatto anche di ricerca. E se la fai, il risultato si vede.
Guarda Brado. È un film meraviglioso. Saul Nanni è stato di una bravura infinita, grazie al talento che ha e alla preparazione che ha avuto. Kim Rossi Stuart è uno che prova, è pignolo, e alla fine provare paga. La bravura e il talento sono la base, ma ci deve essere lo studio, la ricerca. Brado è la dimostrazione di tutto questo.

A Venezia, insieme ad Amanda Campana, coprotagonista in Suspicious Minds, siete stati premiati con il Next Generation Award. In così poco tempo a Venezia. Cosa si prova?

Venezia è stata pazzesca. Non capisci dove sei. Sei alla Mostra del cinema e non sai neanche come ci sei arrivato. A volte a mia mamma lo ricordo: “Mamma ti ricordi cinque anni fa, quando ero ancora al liceo?”. Costava e non sapevamo se ci saremmo riusciti. Ce l’abbiamo fatta con molti sacrifici. Era un terno al lotto anche fare in continuazione Roma-Milano. Ed era tutto un nostro investimento. E ogni tanto glielo dico, “hai visto che roba? Qualcosa è successo!”.

“Ho sempre detto che teatro o cinema, per me era la stessa cosa. Bastava che facessi l’attore”

Matteo Giuggioli Venezia
Total look Bally

Tua mamma ti ha sostenuto nel realizzare la tua vita…

Sì… Non mi piace la parola investimento. Preferisco pensare che lei era lì e mi ha tenuto la mano. Sono sempre stato molto chiaro con lei. Le ho detto: io ho bisogno di fare ‘sta roba per essere sereno. Davanti a un figlio che ti dice questo…

Ci sono persone che mi scrivono per chiedermi come si fa. Il punto focale è: tu vuoi fare l’attore o vuoi recitare? Sono due cose diverse. Cosa ti muove? Ho sempre detto a mia mamma che teatro o cinema, per me era la stessa cosa. Bastava che facessi l’attore. Sono pignolo e testardo. Studiavo tanto e ho dato a mia mamma la possibilità di credermi.

Si sente che vieni dal teatro perché parli di urgenza. Chi fa teatro non lo fa per il red carpet…

L’urgenza è qualcosa che mi piace molto. Anche quando ascolto musica. Devo sentire. Devo sentire che ti preme, ti urge dovermi dire qualcosa. Ad esempio Blanco: sento che ha bisogno di dire quello che dice. È crudo, lo senti energicamente. Urgenza e curiosità sono due concetti che mi piacciono molto.

Matteo Giuggioli premi
Total look Saint Laurent

“L’urgenza è qualcosa che mi piace molto. Anche quando ascolto musica. Devo sentire che ti preme”

Hai finito di girare Suspicious Minds di Emiliano Corapi. Cosa ci anticipi?

Sono curioso di vedere il film in sala. Emiliano Corapi è maniacale, attento, preciso, cauto. È stato un lavoro fatto con lo scalpello. La sceneggiatura è tosta. Emiliano scrive benissimo. Mi è piaciuto il rapporto che si è creato con Amanda (Campana, la coprotagonista, nda). Ci siamo ascoltati molto. Mi sarebbe piaciuto fare due prove in più, ma alla fine eravamo tutti talmente sul focus, e per sei settimane abbiamo lavorato concentrati. Secondo me è un film che sorprenderà.

Matteo Giuggioli social
Total look Etro

Credits

Talent Matteo Oscar Giuggioli

Editor in Chief Federico Poletti

Text Alessia de Antoniis

Photographer Davide Musto

Production & styling Alessia Caliendo

Ph. assistant Valentina Ciampaglia

Stylist assistant Andrea Seghesio

Hair Kemon

Grooming Giulia Mariti @Making Beauty Management

Location ISFCI – Istituto Superiore di Fotografia

Special thanks to Verdefresco

Nell’immagine in apertura, Matteo Oscar Giuggioli indossa total look Saint Laurent

Collezionisti di vita

A fine ottobre Finarte batterà all’asta una collezione unica di Barolo Borgogno: vini al posto di opere d’arte, perché la storia non passa solo attraverso quadri o libri, segue anche la strada del nettare di Bacco. Vini battuti all’asta alla stregua di tele d’autore, cantine come biblioteche antiche, fondi d’investimento che annoverano nel loro portafoglio storiche aziende del settore. Spesso è più facile capire un collezionista d’arte che uno di vini, perché godere di un cru significa vivere un’esperienza sensoriale che passa per la sua degustazione. Il vino va consumato, e quella sarà l’unica volta in cui la specifica opera d’arte verrà resa fruibile, goduta veramente da qualcuno.

vigneti Montepulciano
Carpineto, i vigneti di Montepulciano

L’archivio di Carpineto, sancta sanctorum colmo di annate storiche, dal Brunello al Supertuscan

In Toscana e Trentino si trovano due cantine che non custodiscono solo bottiglie, ma la filosofia di chi le cura. Uno, Antonio Michael Zaccheo, si definisce un vinaio, l’altro, Michil Costa, un oste; in realtà sono due collezionisti di vita. E di vino. L’archivio enoico di Carpineto costituisce un compendio storico che non è solo una summa del passato né un “magazzino”, ma un’opportunità, un servizio per chi vuole godere di proposte privilegiate. Una cantina tra le più fornite, con un gran numero di annate storiche, comprendente Chianti Classico, Vino Nobile di Montepulciano, Brunello, Supertuscan. Fondata nel 1967, la Carpineto è tra le top 100 di Wine Spectator. Tra i clienti che amano sorseggiare le loro specialità Bill Gates e Céline Dion. L’idea di realizzare un archivio – che conta circa 100mila bottiglie – venne ai fondatori, Giovanni Carlo Sacchet e Antonio Mario Zaccheo. Iniziarono conservando le annate più prestigiose, nonché quelle più premiate («male che va – si dissero – ce le beviamo noi»).

Supertuscan vini
I tre Supertuscan dell’archivio di Carpineto

“Il vino è una capsula del tempo vivente”

È ancora questo lo spirito che anima la seconda generazione, con Antonio Michael Zaccheo in testa, che gira il mondo per incontrare buyer e fare degustazioni, ma poi ha bisogno di tornare a casa, tra i suoi appodiati. «La particolarità del nostro archivio è quella di non avere vini di un solo produttore o di una sola denominazione, ma di spaziare in tutto il panorama toscano delle denominazioni storiche. Contiene capsule del tempo toscane. Perché il vino è una capsula del tempo vivente e i vini, per la Carpineto, non saranno mai pezzi da museo. Oggi si parla tanto di collezionismo, ci sono fondi di investimento che si occupano di etichette prestigiose, ma il nostro obiettivo non è mai stato quello. Quando Sacchet e mio padre dissero “male che va ce le beviamo”, lo fecero perché il vino, per loro, andava bevuto. Con grande piacere e amore».

Il vino, dice Zaccheo, “è cultura”

«Le bottiglie – prosegue – rappresentano la nostra storia. Alcune sono particolari, tipo la prima bottiglia di classico riserva del 1967. Il vino è vivo, ha un inizio e una fine. E c’è un tempo giusto per berlo. Se non si beve, muore senza gloria. Una bottiglia di quelle speciali, importanti, si accompagna alle persone giuste, al piatto giusto. In alcuni casi ho bevuto cuvée talmente pregiate che ne ho conservato le bottiglie nella mia collezione privata, perché mi ricordano l’emozione che ho provato nel bere il vino che contenevano». Molti clienti hanno la passione del vino, altri lo vedono più come uno status symbol, «come quella volta in Cina, con un magnate di Pechino. Mi ha invitato a bere uno Chateau particolarmente costoso, ma nei calici veniva grattato tartufo. Un vino da migliaia di dollari a bottiglia col tartufo dentro. Il vino è cultura. Poi c’è chi pensa che mettendo una cosa buona una dentro l’altra, si ottenga un prodotto ancora più buono. Purtroppo per alcuni è davvero solo uno status symbol».

Mahatma hotel La Perla
Mahatma wine cellar (ph. ©Gustav Willeit)

Mahatma, il mausoleo (oltre 27mila bottiglie) dell’Hotel La Perla

Un altro modo di collezionare è quello di Michil Costa. Nel suo Hotel La Perla, a Corvara in Badia, si nasconde un gioiello ancora più prezioso, un hotel che non ha clienti, ma ospiti, e possiede una grande anima: Mahatma, cantina che contiene un mausoleo. Perché anche il vino fa parte della sua Heimat. «Heimat è un concetto molto intimo che va al di là del concetto di patria. Non esiste una traduzione. È una sensazione, un modus vivendi, un senso di appartenenza. Qualcosa di estremamente personale, che coinvolge tutto ciò che ci circonda: luoghi, persone, modi di vivere». E, perché no, anche il vino, in una cantina che supera le 27mila bottiglie e contiene un labirinto, una via verso la conoscenza. Quello del La Perla è dedicato al Sassicaia, con tanto di cripta centrale dove è custodita la storica bottiglia del 1969 della tenuta San Guido.

Mahatma Corvara
Mahatma wine cellar (ph. ©Debora Dellosto)

“Per me il vino è vita. Si evolve, non è una cosa statica”

«È un gioco da grande appassionato di vini, da persona che è sempre andata alla ricerca dell’estrema qualità, e come qualità non intendo solo quella olfatto-gustativa, ma del vivere la vita. In quel labirinto bisogna districarsi e alla fine si arriva alla perfezione, cioè la prima bottiglia di Sassicaia. Prodotta per la geniale intuizione del Marchese Incisa della Rocchetta. Il suo posto, centrale, non le spetta solo per la qualità, ma per lo spirito di ricerca e per il coraggio di fare il vino dove nessun altro aveva mai osato prima. Per la capacità di inventarsi una cosa nuova, come Andy Warhol con la pop art e Arnold Schönberg con la musica dodecafonica tonale. Dopo sono capaci tutti. Percorrere delle vie che nessuno ha percorso prima di te: questa è la genialità di alcuni uomini». «Mahatma è il nome che ho dato alla mia cantina. È la grande anima dell’universo, ma richiama anche Gandhi, la “grande anima” – appunto – di questo piccolo, immenso uomo che, con azioni gentili e però molto determinato, riusciva a convogliare le masse verso una strada fatta di verità e bellezza. Puoi avere una grande anima anche se hai una voce flebile, se sei una persona minuta, e riesci comunque a cambiare il mondo. Nella mia cantina ho voluto unire le mie passioni, vino e musica. Perché per me il vino è vita. Si evolve, non è una cosa statica. C’è in esso il lavoro dell’uomo, la creatività, l’arte. C’è il contatto con la terra. Quello che mi lega al vino è un rapporto intimo».

Hotel La Perla cantina
Mahatma wine cellar (ph. ©Gustav Willeit)

Hotel La Perla Mahatma
Mahatma wine cellar (ph. ©Gustav Willeit)

Nell’immagine in apertura, Mahatma, la wine cellar dell’Hotel La Perla, a Corvara in Badia (ph. ©Debora Dellosto)

Amanda Campana, combattiva, consapevole, determinata (e bellissima)

Esile. Labbra carnose. Volto dai lineamenti delicati. Occhi acquamarina. A tratti la ragazza degli anime giapponesi, a tratti Valentina di Crepax ma bionda. E più leggera e divertente. È Amanda Campana. Attrice, nata a Carrara il 6 marzo 1997, per molti è la Sofia di Summertime, famosa serie Netflix. Su IG è @amanda.yr: «Sono le iniziali dei miei primi cani: Yaki, il mio primissimo cagnolino, è l’amore della mia vita che non c’è più. R sta per Rondo, un chow chow che ha mia mamma».

Amanda Campana
Trench Balenciaga, harness Moncler, over the knee boots Sergio Rossi

A Venezia sei stata premiata con il Next Generation Award per Suspicious Minds, non ancora in sala. Cosa hai provato?

Non mi aspettavo di arrivare a Venezia così presto. Poi, se mi guardo indietro, vedo che ho avuto una bella dose di fortuna, ma anche che in questi quattro anni ho lavorato con impegno. Alla fine sono semplicemente stata super grata. Anche perché c’era mio nonno che da una vita mi diceva “ti voglio vedere a Venezia prima di andarmene”. È stata una soddisfazione da poter dare alla mia famiglia.  Sono curiosissima di vedere il film. È uno dei progetti in cui mi sono sentita più sicura di me. Anche la storia mi è piaciuta tantissimo.

Su IG ti vediamo fare pole dance. A guardarti sembra naturale…

Non è semplicissimo. Prima di iniziare a fare pole dance facevo solo un po’ di yoga da autodidatta. Quando mi sono avvicinata al palo, l’ho trovato difficile. Serve molta forza nelle braccia, elasticità e sopportazione del dolore. Fa male. Sei su con l’attrito della tua pelle: è quello che ti fa tenere. Ma è talmente bello che ti scordi di quanto sia difficile e doloroso.

Amanda Campana attrice
Trench Balenciaga, harness Moncler, over the knee boots Sergio Rossi

“Secondo me il cinema non deve essere educativo, però è giusto rappresentare la realtà che dovremmo assorbire dallo schermo” 

E lo yoga?

Era un periodo in cui ero in conflitto con me stessa. Una fase della mia vita in cui non mi piacevo, non stavo bene con me stessa. Volevo qualcosa da fare a casa, ma non per dimagrire o tonificare. Sentivo il bisogno di qualcosa che mi connettesse col mio corpo.

Sei vegetariana: per scelta o ti hanno cresciuta così?

No, anzi. Mia nonna aveva la classica bottega di paese e vendeva carne. La mia era la famiglia toscana tradizionale dove si mangia carne. A 15 anni ho preso la mia decisione. Ho detto: “Ragazzi, non è stato bello, perché a me la carne non è mai piaciuta. Faccio una scelta per me stessa, per gli animali e per l’ambiente e smetto di mangiare carne e pesce”.  Ho scelto di non essere vegana per non complicarmi la vita. Se mangi fuori, devi essere flessibile.

Amanda Campana Summertime
Total look Fendi

È bello notare che le nuove generazioni vivono le loro scelte in maniera non conflittuale.

Sì, siamo pacifici. Abbiamo capito che la via della violenza e dell’arroganza, dell’aggressività, non porta da nessuna parte. Se imponi la tua idea a qualcuno, lo allontani. Cerco di rispettare le idee altrui anche quando ogni cellula del mio corpo vorrebbe non farlo. Però ho capito che la cosa migliore è evitare il conflitto.

Come hai iniziato a recitare?

Per caso. Dopo il liceo artistico non avevo progetti chiari. Ho iniziato a fare una scuola di trucco. Per un paio di anni ho fatto la truccatrice su set pubblicitari o fotografici. Poi ho cominciato io a fare da modella ai fotografi, finché una scuola di recitazione mi ha contattata per fare una prova in accademia. Da lì ho iniziato a fare i provini. L’anno dopo ero sul set di Summertime.

“Siamo una generazione che si batte, non viviamo sulle nuvole”

In rete ho letto che in Summertime rappresenti “la quota LGBT della produzione Netflix”…

È una frase sicuramente infelice, però penso che a volte il fine giustifichi il mezzo. Da tanti questa politica di Netflix, che ogni produzione debba avere un personaggio di una minoranza, è sempre vista come una forzatura. Secondo me il cinema non deve essere educativo, però è giusto rappresentare la realtà che dovremmo assorbire dallo schermo. E a volte c’è bisogno di una piccola spinta. Nella quotidianità ci sono persone di ogni colore e di ogni orientamento sessuale. Quindi, in questo momento, io mi impongo, quando produco, di rappresentare anche quella che consideriamo essere una minoranza. Se me lo impongo su tutte le produzioni, alla fine sarà l’abitudine. E a quel punto non ci sarà più bisogno di impormelo. Basta rappresentare una realtà che è già così.

Abbiamo una donna alla Presidenza del Consiglio che si fa chiamare al maschile. Che ne pensi?

Sono molto frustrata. A volte perdo le speranze perché questo governo non mi rappresenta, non rappresenta la mia generazione, i miei ideali e gli ideali e i diritti di molti. Per me è una grande sconfitta, come generazione e come donna. Per la prima volta abbiamo una figura così importante al femminile, totalmente vittima del patriarcato. A tal punto che vuole essere chiamata al maschile, come se, per avere un’importanza, tu debba essere un uomo.

“È difficile trovare qualcuno della mia età che non abbia delle ideologie forti e non si batta per difenderle. Siamo tutti molto coinvolti”

Hanno abbassato l’età per votare al Senato e abbiamo un Parlamento con un’età media che supera i sessant’anni…

Molti giovani sono fuori sede. Gran parte di noi non ha votato perché non poteva permetterselo. È inutile che abbassi l’età e poi non metti la gente nelle condizioni di votare. Ed è un peccato, perché in realtà siamo una generazione che si batte. È difficile trovare qualcuno della mia età che non abbia delle ideologie forti e che non si batta per difenderle. Siamo tutti molto coinvolti nel mondo che ci circonda. Non viviamo sulle nuvole.

Se toccano, anche in modo indiretto, la legge 194 sulla IGV, scendi in piazza?

Assolutamente sì… Sono avvelenata. Ma appena lo fai notare, i sostenitori di questa maggioranza ti rispondono che loro non vogliono toccare la 194. Senza rendersi conto che in questo momento per una donna è già molto difficile abortire in modo sicuro, serenamente, vicino a casa sua. Il problema non è cambiare la legge, ma anche non tutelarla dagli escamotage che in qualche modo già intralciano il diritto all’aborto.

E il viaggio più bello che hai fatto?

In quinto liceo con mia mamma, il suo compagno e il figlio del suo compagno. Siamo andati a Bora Bora. Un paradiso terrestre, ma per me ha avuto anche un altro significato. In quel periodo soffrivo di attacchi di panico. Prendere un aereo per arrivare dall’altra parte del mondo era impensabile. Però ce l’ho fatta. Attaccata al braccio di mia mamma tutto il viaggio. Mia mamma poi, per i miei 18 anni, mi aveva regalato un tatuaggio e io non l’avevo ancora fatto. Dicevo: voglio farlo quando effettivamente saprò cosa fare. Appena arrivata, ne ho fatto uno piccolo in stile polinesiano.

Amanda Campana intervista
Total look Antonio Marras

Credits

Talent Amanda Campana

Editor in Chief Federico Poletti

Text Alessia de Antoniis

Photographer Davide Musto

Production & styling Alessia Caliendo

Ph. assistant Valentina Ciampaglia

Stylist assistant Andrea Seghesio

Hair Kemon

Make-up Giulia Mariti @Making Beauty Management

Location ISFCI – Istituto Superiore di Fotografia

Special thanks to Verdefresco

Nell’immagine in apertura, Amanda Campana indossa trench Balenciaga, harness Moncler, stivali Sergio Rossi

Dai fashion film ai corti, le novità del web in scena al Digital Media Fest

Si terrà alla Casa del Cinema di Roma, il 14, 15 e 16 dicembre, il Digital Media Fest, festival creato e diretto da Janet De Nardis, dedicato a tutti i prodotti digitali.
Si tratta di un luogo dove web e mercato cinematografico si incontrano, dove scoprire nuove tendenze digitali e produzioni indipendenti. Un universo creativo che spazia dai videogames alle webserie, ai fashion film, ma anche ai prodotti più tradizionali come cortometraggi e lungometraggi.
Ne parliamo con la sua ideatrice e direttrice, Janet De Nardis.

Janet De Nardis
La direttrice di DMF Janet De Nardis (ph. Studio Carfagna)

DMF dà largo spazio ai prodotti web nativi. Cosa si intende con questa definizione?

Si intendono tutti quei prodotti che nascono per il web, oppure quelli che per qualche ragione di mercato finiscono in un primo tempo in rete. È una definizione che aveva molto senso quando il festival è nato, dieci anni fa, ma che oggi può confondere, dato che la maggior parte dei contenuti audiovisivi vengono ormai promossi attraverso la rete, soprattutto in prima istanza. Nonostante ciò, resta importante il prodotto audiovisivo di narrazione realizzato appositamente per il web e quindi spesso scevro da regole mainstream, piuttosto che il prodotto ancora oggi confezionato per la televisione, oppure per piattaforme che ne seguono la rigida struttura di realizzazione e diffusione.

“Il valore aggiunto di DMF è far diventare reale ciò che si vive normalmente solo nel virtuale”

Il festival promuove un nuovo modello di raccordo tra mercato cinematografico tradizionale e web. Dove e come questi due mondi si incontrano e cosa nasce da questa collaborazione?

I due mondi si incontrano nel momento in cui la narrazione e la tecnica risultano essere di qualità, al di là del budget speso per la realizzazione. Negli ultimi anni è evidente che, con il miglioramento delle tecnologie utilizzate, è più semplice per tutti, soprattutto per i creativi indipendenti o per i collettivi, realizzare prodotti di altissima qualità pur non avendo a disposizione grandi capitali. Inoltre, ciò che rende “di valore” un contenuto audiovisivo è certamente la scrittura, e quindi il lavoro degli autori; abbiamo riscontrato, in quei creativi che non sono ancora ingabbiati in un sistema produttivo mainstream, una capacità di analizzare la realtà mantenendo uno sguardo diverso dalla solita retorica.

Qual è il valore aggiunto di un’iniziativa come DMF?

Fare diventare reale ciò che si vive normalmente solo nel virtuale. In un’era in cui tutto è poco tangibile, c’è la necessità di avere delle occasioni concrete per potersi confrontare, per incontrare i propri beniamini, per avere delle occasioni dal vivo per lavorare e far nascere nuove collaborazioni.

 2022
La locandina dell’edizione 2022

Qual è la sua vision?

La vision di DMF parte da lontano, dato che parliamo della prima rassegna italiana a pensare di puntare su questo genere di prodotti, ma soprattutto è la terza al mondo nata per promuovere contenuti webseriali e web nativi. Prima di noi esistevano solo il Los Angeles Web Fest e il Marsiglia Web Fest. Oggi abbiamo centinaia di festival simili nel mondo. Questo essere precursore dei tempi ha permesso al Digital Media Fest un posizionamento privilegiato rispetto ai partner, e di conseguenza occasioni privilegiate per i creativi italiani.

“Il web potrebbe essere un grande volano per la sala, che resta la vera meta di tutti i creativi”

Permettete anche alle società di produzione non orientate alle innovazioni tecnologiche di incontrare nuovi autori, registi e attori presenti al festival. Quanto è utile accorciare così tanto la filiera tra giovani e industria cinematografica?

È fondamentale, perché abbiamo già vissuto l’esperienza di chiusura totale, nel nostro mercato audiovisivo e cinematografico. Per molti anni i produttori hanno lavorato con gli stessi attori ed autori, senza lasciare una concreta possibilità alle nuove leve di fare valere le proprie idee. Con il Digital Media Fest evitiamo che ciò avvenga e ogni anno proponiamo nuovi orizzonti da seguire. Questo non vuol dire che ogni annata sia colma di talenti, ma accade molto spesso che, tra le tante idee in concorso, ci siano quelle giuste, che grazie a realtà come questa riescono ad essere veramente valorizzate. Nella storia del Digital Media Fest sono stati molti i creativi che hanno trovato la loro reale occasione, a partire da Vincenzo Alfieri e Ivan Silvestrini fino a Edoardo Ferrario, ma anche creativi di opere come Romolo + July, che sono stati promossi dal concorso Movieland per poi giungere in TV.

“L’audiovisivo, il cinema in particolare, possono essere la forza del Paese, esattamente come lo sono stati per l’America”

Assecondare il pubblico giovane sta distruggendo il cinema, quello per cui vale la pena pagare il biglietto in sala. Lo confermano i dati de La stranezza, che ha superato i 6 milioni di euro: un record per le sale odierne. Visto il trend in forte crescita, destinato ad aumentare ancora nell’audiovisivo, sia in termini di domanda di prodotti che di investimenti, crede che oggi ci sia spazio per separare cinema tradizionale e web?

Questa domanda ha origini lontane. Quando proposi per la prima volta al Ministero dei beni culturali l’idea del festival dovetti aggiungere al titolo della manifestazione un suffisso, “il cinema ai tempi del web”, perché già oltre dieci anni fa internet spaventava il mercato cinematografico. Purtroppo, è proprio questa paura che ha reso impossibile il dialogo, mentre il web potrebbe essere un grande volano per la sala, che resta la vera meta di tutti i creativi. Il teatro esiste da sempre, da quando l’uomo ha imparato a esprimere se stesso e a raccontarsi attraverso storie più grandi del singolo individuo. Così può essere anche per il cinema, che però deve imparare a promuoversi e valorizzarsi. Da quando è iniziata l’era pandemica, nessuna istituzione ha realizzato una vera campagna promozionale per il cinema. Il pubblico è ancora convinto che un film, una volta uscito in sala, il giorno dopo sarà presente sulla piattaforma gratuitamente, con un semplice abbonamento. Non è così, perché il costo di quel film sarà più alto sulla piattaforma che non al cinema. Le persone però hanno una percezione alterata dei fatti e questo è colpa di una politica che non ha capito che l’audiovisivo, il cinema in particolare, possono essere la forza del Paese, esattamente come lo sono stati per l’America, da sempre…

Digital Media Fest Roma
Janet De Nardis all’edizione 2021 del festival

“Iniziamo a credere nella fantasia degli autori che sanno raccontare lo straordinario, attraverso metafore, sentimenti, passioni…”

DMF punta a trasformare idee inedite in realtà, per un cinema nuovo e più aderente ai gusti del pubblico più giovane. Cosa emerge dal vostro osservatorio? Cosa chiede il pubblico giovane al mercato?

Vuole emozionarsi, vuole storie che facciano sognare, è stufo dei drammoni. È evidente anche dagli incassi al cinema, gli unici film che hanno realmente successo sono quelli fantastici, che usano grandi effetti speciali e raccontano storie di supereroi. Il vicino di casa, lo “sfigato” che non sa cosa vuole dalla vita, lasciamolo da parte, iniziamo a credere nella fantasia degli autori che sanno raccontare lo straordinario, attraverso stupefacenti metafore, sentimenti, passioni… Smettiamola di chiedere banalità e di creare un mondo di silenzi, di cupe solitudini. Regaliamo sogni o comunque esperienze forti e sono certa che i giovani, e non solo, torneranno a spendere per confrontarsi su qualcosa di nuovo.

Sono già stati fatti esperimenti in VR. Elio Germano lo ha usato addirittura in teatro. La nuova frontiera è il metaverso. Già il 3D sembrava dover rivoluzionare il cinema, ma così non è stato. Il metaverso potrebbe avere maggior fortuna?

Non credo che il metaverso sia la soluzione per un nuovo cinema: è un altro modo per isolarsi, mentre il grande schermo è condivisione. È sentire l’odore del vicino di posto e ascoltare il commento di chi non può silenziare quello che dice. La verità è che il metaverso avrà un reale successo, quello che vorrebbero le multinazionali, solo se riusciranno a chiuderci ancora in casa, con nuovi lockdown e malattie che ci spaventano. Se le persone vengono lasciate libere di vivere la realtà e respirare aria pulita, sicuramente potrà sopravvivere, ma non sostituire la realtà, e quindi non sostituire il cinema e le emozioni che lo accompagnano.

“Non credo che il metaverso sia la soluzione per un nuovo cinema, è un altro modo per isolarsi, mentre il grande schermo è condivisione”

La mission del DMF è di favorire il contatto tra filmmaker, produzioni, distribuzioni tradizionali e piattaforme online. Uno dei grandi nodi dell’industria cinematografica è la distribuzione. Ci sono centinaia di film finanziati, prodotti, ma che non vedranno la sala. Il web può fornire una soluzione economicamente interessante al problema?

Credo che sia sbagliato ricercare la soluzione nel web, la soluzione dovrebbe essere trovata proprio nelle sale, nelle arene. Iniziamo a sostenere i produttori che vogliono andare in sala, iniziamo a finanziare opere che possano davvero concorrere sul mercato. Diciamoci la verità: la maggior parte dei prodotti che restano nel cassetto, è perché non hanno nessun motivo per esistere. Altri, purtroppo, sono penalizzati dal fatto che sono stati finanziati troppi film poco degni di tale nome ma che, in qualche modo, dovevano essere “piazzati”. Credo che il problema sia alla radice, sta nei finti produttori italiani, che non mettono mano al proprio portafogli in quanto utilizzano i finanziamenti pubblici per intascare soldi, senza avere alcun tipo di capacità né interesse per l’arte cinematografica. Smettiamola di cercare gli errori alla fine del percorso, iniziamo a costruire un mercato virtuoso e non vizioso.

Nell’immagine in apertura, la direttrice del festival Janet De Nardis (al centro) con l’attrice Violante Placido durante una passata edizione di DMF

Marco Bonadei, dalle pièce a ‘Diabolik’

Reduce dal successo teatrale di Alla greca di Berkoff, ora in sala con Diabolik – Ginko all’attacco!, Marco Bonadei arriva al cinema dopo tanto teatro.
Nato a Genova il 15 ottobre 1986, si diploma alla Scuola del Teatro Stabile di Torino e nel 2011 vince il Premio Ubu come miglior nuovo attore under 30. Nel 2020 è nel cast di Comedians, per la regia di Gabriele Salvatores, regista premio Oscar che lo ha voluto anche nel suo film di prossima uscita Il ritorno di Casanova.

Ma prima che il cinema si accorgesse di lui, Marco ha camminato a lungo sulle assi del palcoscenico, entrando a far parte del gruppo di attori che hanno la loro casa all’Elfo Puccini di Milano. Qui trova un maestro, Elio De Capitani: “Sono 12 anni che lavoro con De Capitani: mi ha cresciuto, è stato un maestro sia d’arte che di vita. Penso che maestri si possa essere in tanti modi. È una fortuna incontrarsi ed è una fortuna poter incontrare qualcuno che, per un certo periodo di vita, possa farti da guida”.

Dopo Alla greca, dove è Eddy, un Edipo della Swinging London che si ribella agli dèi, alle istituzioni, ma anche a Freud, Bonadei sarà di nuovo all’Elfo Puccini di Milano, dal 9 al 12 dicembre, con Il guscio di Ian McEwan.

Marco Bonadei
Marco Bonadei (ph. Paolo Palmieri)

“Da quando è arrivato il lavoro con Salvatores ho cominciato a dedicare al cinema attenzione e impegno”

Da una rilettura di Edipo a una rilettura di Amleto.

Edipo, Eddy, protagonista di Alla greca, sceglie di rinunciare alla violenza, al continuo spargimento di sangue, al senso di colpa. L’Eddy della pièce, che sceglie di rompere i dogmi sociali, e che, invece di accecarsi, sceglie la madre, la donna, ne Il guscio si rituffa nell’utero materno. Divento un feto al nono mese di vita nell’utero di mia madre, nonostante il mio metro e novantuno di altezza. Ne Il guscio abbiamo il mito di Amleto, il testo per eccellenza, che, attraverso la rilettura di McEwan, diventa un divertentissimo giallo. È un giallo perché il protagonista, ascoltando i suoni che provengono dall’esterno dell’utero, si rende conto che un orribile piano per uccidere suo padre sta per essere messo in atto dalla madre e dal suo amante. È Amleto in tutto, tranne per il fatto che l’omicidio deve ancora avvenire e lui cercherà, per quanto in suo potere, di impedirlo.
Pur rivisitando due miti greci, sono due drammaturgie completamente diverse. In Alla greca abbiamo un performer, attore, regista, drammaturgo e poeta arrabbiato degli anni ‘80, che usa il linguaggio nella sua forma più violenta, provocatoria, pungente, esasperata, pornofonica, grottesca. Ne Il guscio, invece, abbiamo un autore, sempre inglese, che fa ricorso a un linguaggio raffinato e borghese.

Così come ogni dio è storicamente determinato, anche i miti possono essere riscritti man mano che la società si evolve?

Assolutamente sì!

“Ho fatto scelte teatrali, mi sono distaccato da alcune realtà per approfondirne altre. È stato il momento più faticoso e doloroso del mio percorso”

Marco Bonadei teatro
Ph. Paolo Palmieri

Tanto teatro e poi Gabriele Salvatores…

È stato un grandissimo incontro, avvenuto anni fa al teatro dell’Elfo. Gabriele mi vide in scena e gli sono tornato alla mente per Comedians, progetto nato nel primo lockdown, quello più duro. Un mese e mezzo di magia a Trieste, chiusi in una bolla, un vero e proprio guscio. Chiusi lì dentro, abbiamo creato questa creatura cinematografica. Eravamo un cast ridottissimo. Abbiamo vissuto tutti insieme con lo scopo di costruire una squadra, una classe, un gruppo di persone che si conoscevano da tempo, con le loro dinamiche. Questo è stato il primo grande regalo di quell’esperienza, perché poterla vivere così a fondo e così immersi, senza andirivieni, senza distrazioni esterne, per me è stato un dono prezioso. Lavorare con Salvatores è meraviglioso.
C’è poi un altro aspetto che mi ha stupito. Gabriele ha chiarissimo in testa cosa vuole raggiungere, ma è al tempo stesso molto aperto alle proposte. Anzi, richiede grande libertà in scena. Ed è la stessa cosa che si aspetta sul palco Elio De Capitani. Entrambi lasciano grande libertà. Ti responsabilizzano nell’atto creativo: una cosa preziosissima.
All’inizio sei in soggezione, poi ti rendi conto che sei necessario al lavoro e quello che devi fare è semplicemente lavorare al meglio ed essere il più generoso possibile.

Con Comedians si è riaperto un sogno.

Ho sempre amato il cinema. I primi anni, dopo l’accademia, non accadeva niente di interessante, qualcosa che desse davvero frutti. Qualche piccolo ruolo in alcune serie, ma erano figurazioni speciali. A poco a poco ho quasi abbandonato l’idea che il cinema facesse per me. Mi sono invece trovato stupito dalla vita quando è arrivato il lavoro con Gabriele: da lì mi sono rincuorato, ho cominciato a dedicare al cinema attenzione e impegno.

“Persone come Servillo e Mastandrea mi hanno fatto scuola, in un linguaggio che finora ho frequentato poco”

Sei stato coraggioso perché non è facile rifiutare di salire sui treni che passano appena esci dall’accademia. Anche solo per la paura che quel treno non ripassi più.

In questi tredici anni dopo l’accademia, c’è stato un momento in cui ho detto: smetti di prendere tutto quello che passa. Ho fatto scelte teatrali, mi sono distaccato da alcune realtà per approfondirne altre. Quello è stato il momento più faticoso e doloroso del mio percorso. Ho dovuto avere coraggio. Finché poi non è arrivato questo dono meraviglioso che è Salvatores. E come non accoglierlo? 

Il regista di Mediterraneo ti ha voluto anche nel film – in uscita – Il ritorno di Casanova.

Siamo tutti in attesa. Penso sia un bellissimo lavoro. Come Salvatores ha già dichiarato in qualche intervista, è un film che ha un aspetto autobiografico, personale, pur essendo tutto centrato su una storia altra. Per me è stata anche l’occasione di lavorare con Toni Servillo… Cosa devo dire? Un altro mostro. Avere lui e Salvatores sul set che lavorano con te è emozionante. La maestria di Servillo è unica. Così come è stato bellissimo lavorare sul set, anche se solo per un cameo, con Valerio Mastandrea in Diabolik: anche lui è magistrale. Tutte queste persone mi hanno fatto scuola, in un linguaggio che finora ho frequentato poco.

Elfo Puccini attori
Ph. Paolo Palmieri

“Diabolik è in qualche modo citazionista di un cinema dallo stile poliziesco, ma con un’estetica molto curata”

Sei anche nel cast di Diabolik – Ginko all’attacco!. La critica è stata più benevola col primo capitolo della saga. I supereroi americani hanno sempre successo. Diabolik era arrivato al cinema nel 1968, con la regia di Bava. Poi più nulla fino allo scorso anno. Perché si è così critici nei confronti di questo personaggio?

Penso che chi lo critica, indipendentemente dalle ragioni, abbia ritrosia nei confronti della scelta stilistico-narrativa che è stata fatta. È molto chiara. Non insegue i ritmi dei tempi odierni, è in qualche modo citazionista di un cinema dallo stile poliziesco, ma con un’estetica molto curata. C’è un gusto vintage nel film, sia nel primo che nel secondo. Questa è una pellicola dai ritmi più sostenuti; più drama e azione rispetto alla prima, che invece era più di presentazione dei personaggi. Almeno questa è la mia lettura. Penso il problema sia una non accettazione del linguaggio scelto.

“Il tema di Apple Banana è quello della propria evoluzione interiore, letto in chiave pop e astratta”

In primavera un altro debutto in teatro.

Prima una tournée di un mese e mezzo in giro per l’Italia, con la ripresa di Moby Dick alla prova di Orson Welles, dove sarò di nuovo con Elio De Capitani.
A marzo debutterò a Milano con un mio progetto, sempre all’Elfo Puccini, con Apple Banana. Parla del tema della scelta, intesa sia come capacità di scegliere giornalmente, che come saper scegliere che essere umano essere. Anche scegliere se staccarsi dal passato e vivere il presente e, quindi, saper scegliere di abbandonare alcune parti di sé per trovarne di nuove. È un lavoro sull’evoluzione di una persona. Il tema è quello della propria evoluzione interiore, letto in chiave pop e astratta, nel senso che è un lavoro dove la narrazione è frammentaria e tutto si incentra su un gioco all’apparenza cheap, cioè la scelta tra un cellulare e una banana… Che di per sé non vogliono dire niente, ma nascondono significati da scoprire insieme.

Marco Bonadei 2022
Ph. Paolo Palmieri

Nell’immagine in apertura, Marco Bonadei fotografato da Paolo Palmieri

Marescotti Ruspoli, un regista “non per tutti”

Amusia, “mancanza di armonia”, una malattia cerebrale che impedisce a chi ne soffre di comprendere, eseguire e apprezzare la musica. Amusia è il titolo dell’opera prima del regista Marescotti Ruspoli, con Carlotta Gamba, Giampiero De Concilio, Maurizio Lombardi e Fanny Ardant.

Un film sospeso nel tempo, dai suoni a tratti fastidiosi, in cui anche i lunghi silenzi contribuiscono a dare ritmo a un lavoro dove la musica è in realtà al centro. Un film che gioca con i suoni, con la luce della fotografia di Luca Bigazzi, con scenografie naturali uniche come il cimitero di San Cataldo, alla periferia di Modena, opera di Aldo Rossi e Gianni Braghieri: una sorta di città surreale, influenzata dall’arte di De Chirico.

Marescotti Ruspoli
Marescotti Ruspoli

Melodie, rumori, silenzio. Giochi di ombre, luce, buio. Profondità di campo e dissolvenze. Musica e amusia. Un pendolo continuo tra la vita di una ragazza che scappa dalla musica e quella di un ragazzo che sopravvive grazie alla musica.
Un microcosmo provinciale e vagamente surreale, fatto di edifici metafisici, motel a ore e luci al neon, due opposti all’interno dei quali tutto è stranamente armonico.

Nato a Londra il 4 dicembre 1990, Marescotti Ruspoli debutta con una pellicola che ferma il tempo, ti porta fuori dagli schemi, ti obbliga a uscire da una comfort zone. Un film con un protagonista d’eccezione: il paesaggio. Il risultato: un musical per non udenti. Un film piacevolmente straniante.

Un’opera prima in cui suoni, fotografia e atmosfere giocano un ruolo predominante

Uno dei protagonisti di Amusia è la fotografia. C’è una scena dove i due protagonisti camminano con i piatti di pasta in mano, è notte: un’immagine va in frantumi, lasciando emergere la successiva, surreale inquadratura

Per quella scena io e Luca Bigazzi abbiamo discusso a lungo. Quando andammo a fare il primo sopralluogo della location, era notte e lui voleva tutti i lampioni accesi. Io dissi: li vorrei tutti spenti, lasciando solo le luci in fondo. Giochiamo tutto in controluce. Lui mi guardò come per dire “ma sei serio?”. Fu un momento importante per la nostra collaborazione perché, nonostante io studi la fotografia di Bigazzi dai tempi della scuola di cinema, per la prima volta mi trovai in disaccordo con lui. Ma Luca capì che avevo una mia idea di fotografia per il film, ben precisa. Era scettico, poi provammo la scena con i lampioni spenti e il risultato è quello che vedi nel film.

Amusia film
Uno screen del film d’esordio di Ruspoli

“Avevo una mia idea di fotografia per il film, ben precisa”

Le scene girate nel cimitero di San Cataldo, un set cinematografico dallo stile razionalista, sono emozionanti. Bellissima quella girata nel corridoio con la lunga serie di lame di cemento che la luce fende…

Quello è un cimitero disegnato da Aldo Rossi, all’avanguardia dell’architettura razionalista. Si prestava per la simmetria, la  geometria, le varie angolazioni che offre. La cosa che mi ha colpito è che siamo stati i primi a girare lì. È una location naturale incredibile. La scoprii grazie a una foto di Luigi Ghirri, scattata con il prato innevato: tutto bianco e il grande edificio cubico che contiene l’ossario, rosso, al centro.
Era contenuta nel suo libro Viaggio in Italia. Mio padre è un fotografo e quel libro l’ho in casa da quando sono piccolo. L’ho sfogliato mille volte. L’ultima, proprio quando stavo cercando una location per Amusia. Siamo stati fortunati perché era una giornata di sole, un cielo terso che ha consentito a Luca di giocare con la luce.

architettura razionalista Aldo Rossi
Il cimitero di San Cataldo ripreso in Amusia

“Mi piace quando esco dalla sala e, per i primi cinque minuti, devo metabolizzare quello che ho visto”

Luca Bigazzi e Fanny Ardant: due mostri sacri per un’opera prima… Hai espresso un desiderio e si è avverato?

È un obiettivo che mi ero posto appena uscito dalla scuola di cinema, la Prague Film School. Avevo 22 anni. Insieme ai miei due migliori amici, un norvegese e un egiziano, ci promettemmo di girare il nostro primo film entro i trent’anni. L’obiettivo raggiunto oggi era iniziato allora. L’espediente è arrivato quando ho scoperto questa malattia assurda, rarissima, certificata solo nel 2005. A molti è sconosciuta. Mi intrigava che fosse una malattia così recente. Il film, nonostante non abbia una precisa connotazione temporale, è ambientato in una realtà pretecnologica. Non ci sono computer, cellulari, ma cabine telefoniche e telefoni fissi. Mi incuriosiva il fatto che questa ragazza si accorgesse di avere un “malfunzionamento” nei confronti della musica ma, essendo una patologia totalmente sconosciuta, venisse considerata una ricerca di attenzione, una ribellione giovanile. Anche il padre e il medico pensano sia solo un bisogno.

Tutti credono che la musica sia un elemento comune, che si può preferire un genere a un altro, ma che non può originare un disturbo tale da costringerti a lasciare una stanza. Questa malattia è invalidante in tal senso. Hai questa interferenza. Non è che non senti la musica, la percepisci ma in modo distorto.
Il lavoro con il sound designer è stato quello di cercare di ottenere un effetto che fosse fastidioso ma allo stesso tempo cinematografico. Perché la atonalità, cioè un suono atonale, è un suono dal punto di vista cinematografico un po’ piatto. Quindi ci abbiamo lavorato.

Amusia cinema
La locandina di Amusia

“Raccontare per immagini ha sempre fatto parte della mia formazione”

Non hai puntato, per il tuo debutto, su un’opera per tutti…

Non si può fare un film per tutti. Quelli dei grandi del cinema, da Tarkovskij  a Godard ad Antonioni, sono impegnativi. Il regista chiede allo spettatore un coinvolgimento mentale, uno sforzo per decifrare i messaggi più evidenti e quelli meno ovvi all’interno della pellicola. Mi piace quando esco dalla sala e, per i primi cinque minuti, devo metabolizzare quello che ho visto.

Ruspoli: un cognome scomodo o solo impegnativo?

La questione del cognome esce più con gli adulti che con i miei coetanei. Semmai è il nome Marescotti che lascia perplessi. Il vantaggio non viene dal cognome altisonante, quanto dai miei genitori che mi hanno dato una certa educazione, che vuol dire saper tenere una conversazione, come presentarsi, come salutare, anche come scrivere una lettera. Poi, in realtà, la famiglia Ruspoli è enorme, spesso mi imbatto in persone che scopro essere parenti di lontanissimo grado… La famiglia è una cosa complicata.

I miei genitori sono sessantottini, per loro viaggiare è un’avventura. Piuttosto che andare al Four Seasons, ci portavano nel vecchio hotel con le travi di legno. I nostri viaggi erano sempre avventurosi, mai comodi. Erano quelli che facevano loro e quando viaggiavano con noi volevano farci ritrovare quella esperienza. L’idea del resort non mi appartiene: sono più da zaino in spalla, mangiare nei mercati, scoprire la vita di strada.
Mi sento un privilegiato, perché i miei ci hanno fatto viaggiare sin da piccoli in posti come l’India. Ci facevano scoprire altre culture, altri Paesi, altri modi di vivere, vestirsi, mangiare; altre religioni.
Mio papà fa il fotografo, nasco circondato da luci, obiettivi, cavalletti. Raccontare per immagini ha sempre fatto parte della mia formazione. Ecco un altro motivo per cui essere grato alla mia famiglia.

Amusia 2022
Una scena della pellicola

“Ho realizzato anche documentari, ma senza mai perdere di vista la mia stella polare: fare film” 

Le tue prime regie sono nel mondo della pubblicità

Dopo la scuola di cinema sono andato ad abitare a Milano. L’obiettivo era quello di rendermi economicamente indipendente. A Milano si fa prevalentemente moda e iniziai in quel settore per aziende come Prada, Ferragamo. Mi piaceva l’approccio cinematografico. Mi divertiva fare gli storyboard, creare una micro sceneggiatura, non raccontare il prodotto secondo formati standard. Anche perché la moda non è il mio campo. Ai clienti piaceva questo mio modo di lavorare, che poi è quello che adesso va per la maggiore: il fashion short film. Ho realizzato anche documentari, ma senza mai perdere di vista la mia stella polare: fare film. La strada è a curve, l’importante è puntare sempre la cima.

Tra le musiche che compongono la colonna sonora di Amusia,  l’emozionante Magnolia di J. J. Cale…

Quella canzone me la mettevano in macchina i miei genitori quando ancora c’erano le cassette. Andavamo a scuola e mio papà aveva quell’album. Magnolia viene da là.
La sceneggiatura del film non nasce durante il Covid, ma si è sviluppata in quel periodo. Per questo non volevo fare una pellicola drammatica. Mi sembrava che già attorno ci fosse solo tragedia. Ecco perché ho cercato di fare un film che fosse anche musicale. Ho trovato interessante mettere la protagonista e la sua malattia nel mondo di una persona che utilizza la musica come ancora di salvezza. È un film che ha la sua musica anche quando la musica non c’è.

Fanny Ardant 2022
Fanny Ardant in Amusia

Amusia è un film che ha la sua musica anche quando la musica non c’è”

In squadra hai Bigazzi, che detiene il record di vittorie ai David di Donatello come miglior direttore della fotografia, sette volte Nastro d’argento. Come se non bastasse, Fanny Ardant ha accettato di lavorare con un artista sconosciuto. Già questa, di per sé, sembra una storia affascinante…

È una storia favolosa! La mia assistente alla regia, Baladine, è la figlia di Fanny. Ma io non lo sapevo. Un paio di mesi prima delle riprese, ancora cercavo l’attrice per quel ruolo. E lei mi fa: “spero non ti dispiaccia, ma ho fatto leggere a mamma la sceneggiatura”. E aggiunge: “lo sai che mia mamma è attrice?”. Io rispondo: “no, non ne avevo la minima idea. Veramente?”. E lei: “sì, è Fanny Ardant”.

Capisco che non sia facile essere figlia di Fanny e rispetto profondamente la sua scelta di non raccontarlo a tutti. Nasce così questo rapporto epistolare, via email, tra me e lei, durante il quale iniziamo a discutere della sceneggiatura e del personaggio. Già questo per me era stupefacente. A un certo punto però, Fanny mi comunica che in contemporanea partiva per un set in Svezia. E la cosa finisce lì. Era comunque stata un’esperienza meravigliosa, un onore. Un paio di settimane dopo ci richiama l’agenzia, comunicandoci lo slittamento del film in Svezia di sei mesi, ci chiedono se siamo ancora interessati. Davanti a “siete ancora interessati?” c’è stato il tripudio.

Un giorno ci siamo ritrovati nel nostro ufficio, che era la casa dove io e il mio socio e produttore convivevamo, e arriva lei per fare la prova costume. È incredibile quanto sia umile e ancora così dedicated al suo lavoro. Io la osservavo e lei, tra un ciak e l’altro, non usciva dal personaggio. Era coinvolta in quello che faceva, nonostante stesse girando l’opera prima di uno sconosciuto.

È un’artista che ha girato con i registi più importanti al mondo e, per tutti noi sul set, è stata un’esperienza incredibile: vedere la serietà e la professionalità, oltre al talento infinito, di questa attrice che si è messa al servizio del film come fosse l’ultima arrivata. Impressionante! Una signora con una cultura e un’intelligenza uniche. Staresti ad ascoltarla per ore. In ogni scena metteva qualcosa di nuovo, anche minimo, che la arricchiva ancora di più. E tu sei lì, al monitor, che guardi questo spettacolo.

Un’antidiva…

Sì, e una grandissima diva al tempo stesso. Come si veste, come cammina, parla, sorride. In realtà è totalmente diva pur essendo antidiva. Sono andato a Parigi un paio di mesi fa. Ci siamo dati appuntamento in un bistrò e l’ho vista salire le scale del metrò. Neanche il taxi… E si è seduta fuori, ai tavolini con me, tranquillissima…

Amusia Marescotti Ruspoli
Un ritratto del regista

Nell’immagine in apertura, Marescotti Ruspoli a una première

La gentilezza “rivoluzionaria” di IF! Festival

IF!, festival che dal 2014 celebra il valore della creatività come elemento centrale per la industry della comunicazione, torna a Milano dal 7 al 12 novembre. Numerosi gli ospiti che interverranno che prenderanno parte alla sei giorni della kermesse, provenienti dagli ambiti più disparati: si va da Roberto Saviano a Elio Germano, dal filosofo e psicanalista Umberto Galimberti all’artista (ed ex pugile) Omar Hassan; e ancora, tra gli altri, Marco Cappato, la scrittrice e giornalista Guia Soncini, lo stand-up comedian Saverio Raimondo.

IF Festival 2022

In un mondo sempre più dominato dai data, con le AI in continuo sviluppo, IF! mette al centro l’uomo “misura di tutte le cose” e la comunicazione: non solo come trasmissione di informazioni, ma come attività di esseri umani empaticamente collegati tra loro. Quel quid che, almeno per ora, ci rende ancora unici e insostituibili.
Il tema dell’edizione 2022 è “La Rivoluzione della Gentilezza”. Gentilezza che non è segno di debolezza, ma manifestazione di forza e decisione: quella di rimettere l’umanità al centro di questo mondo, di questo universo, di qualsiasi multiverso.

Il tema scelto come filo conduttore dell’edizione è “La Rivoluzione della Gentilezza”

Organizzato e promosso da ADCI – Art Directors Club Italiano – e UNA – Aziende della Comunicazione Unite, insieme al main partner YouTube, IF! è un appuntamento che ogni anno unisce ispirazione, formazione, networking e intrattenimento. «Rappresenta il mondo della creatività in Italia, intesa non come arte ma come creatività nella comunicazione», spiega una delle sue fondatrici, Alessandra Lanza, docente alla Bocconi di Milano. «Dieci anni fa ci rendemmo conto che le aziende spesso valutavano il nostro lavoro non tanto in funzione dell’idea creativa che sottende una campagna, ma sulla base dei dati.
IF! è nato con l’intento di far capire ai nostri clienti che, all’interno di un progetto di comunicazione, quello che fa la differenza è la creatività. Una campagna funziona se riesce a veicolare un determinato messaggio. E far passare un messaggio di marketing attraverso la creatività, è il nostro lavoro».

Alessandra Lanza IF
La direttrice di IF! Alessandra Lanza

«Abbiamo quindi deciso di rimettere al centro il tema della creatività. L’idea era quella di costruire un format innovativo dove poter radunare tutta l’industria della comunicazione: creativi, agenzie, clienti, editori, tutti gli addetti ai lavori. L’occasione ci fu data da Google, perché sono proprio le grosse piattaforme le prime che hanno interesse a stimolare lo sviluppo di contenuti creativi».

«Il primo IF! nacque per passione. Se allora ci avessero detto che dopo dieci anni saremmo ancora stati qui, e che saremmo diventati l’evento di riferimento per il mondo della creatività e della comunicazione, io per prima non ci avrei creduto. Fin dalla prima edizione, è emerso un dato importante: l’importanza di fare networking. E, negli anni, abbiamo anche compreso che la comunicazione ha uno step in più: non solo il marketing, ma capire qual è il messaggio di cui le aziende si fanno portatrici».

“In un progetto di comunicazione, quello che fa la differenza è la creatività. Una campagna funziona se riesce a veicolare un determinato messaggio. Far passare un messaggio di marketing attraverso la creatività è il nostro lavoro”

IF! accoglie non solo i player del settore, ma anche gli studenti…

Il festival ha sempre cercato di sviluppare un’attività che fosse democratica, ossia accessibile a tutti. All’interno di IF!, dal 7 al 10 novembre, si svolge “IF! Digital Premier”, quattro giornate di formazione e workshop. Tutti realizzati da aziende partner tra le principali del settore, da YouTube a Meta, e da scuole di altissimo profilo che organizzano corsi gratuiti aperti al pubblico su registrazione. La parte in presenza è a pagamento, ma con un prezzo che non supera i 90€. Rispetto ad altri eventi, che hanno costi superiori ai 300€ e chiusi al pubblico, IF! conferma la sua idea di accessibilità. Tutto ciò è possibile perché è un evento no profit. Quello che arriva in termini di partnership e sponsor, viene reinvestito sui contenuti.
Abbiamo deciso di tornare subito in presenza perché uno dei nostri obiettivi è il networking e, per farlo, le persone hanno bisogno di incontrarsi, di stare insieme, di condividere. È importante incontrarsi e parlare.

“Gentilezza sembra un concetto abusato, invece va sviluppato. Urge ritornare a cosa vuol dire avere delle relazioni che siano guidate dalla gentilezza intesa come empatia, capacità di capire l’altro”

Si parla spesso di soft power. La forza gentile della cultura e del rispetto reciproco è la linea guida di IF! 2022?

Oggi la comunicazione si fa carico di una rivoluzione culturale. La responsabilità sociale di un’azienda, è un tema che le imprese hanno chiaro. Il tema della gentilezza, in questo momento, è particolarmente importante e va di pari passo con quello dell’inclusività. Non si tratta più solo di cosa comunichi verso l’esterno al consumatore, ma anche di cosa comunichi verso l’interno alle persone che lavorano con te e per te.
Alla Bocconi, dove insegno, ho assegnato ai miei studenti un lavoro sul gaming, da sviluppare su una piattaforma. Siamo quindi nel mondo del metaverso. Tra le varie piattaforme, la maggioranza degli studenti ha scelto quella che presentava concetti di inclusività e gentilezza verso il pubblico, tutela delle donne, attenzione al linguaggio.
Se fino a poco tempo fa, quando si parlava di responsabilità, si parlava di ecologia, di sostenibilità ambientale, oggi gli utenti sono arrivati al concetto di sostenibilità sociale. Temi che le aziende intercettano immediatamente perché importanti per il pubblico.
Gentilezza sembra un concetto abusato, invece va sviluppato. Il mondo non è migliorato come speravamo. L’aggressività e l’infelicità sono tangibili. Urge ritornare a cosa vuol dire avere delle relazioni che siano guidate dalla gentilezza intesa come empatia, capacità di capire l’altro: sono concetti fondamentali per una società che vuole andare verso il benessere.

“Bisogna capire come implementare i temi dell’empatia e della gentilezza all’interno di un sistema che ha bisogno di avere ritorni economici”

Come si applica la gentilezza all’economia?

Il concetto di gentilezza che svilupperemo all’interno del festival, non è quello di forma, inteso come essere formalmente gentile e quindi educato. Essere gentili nei riguardi dell’altro significa prendere in considerazione l’altro come individuo, rispettarne la sensibilità. In termini aziendali, significa vedere la persona in quanto tale e non in quanto lavoratore e basta.
Il punto è domandarsi come essere gentili: come il mondo, e di conseguenza anche l’economia, può trarre giovamento dalla gentilezza. Cercheremo di approfondire i temi che riguardano le relazioni.
Sono argomenti che arrivano a comprendere anche la spiritualità. L’azienda moderna si rivolge ad una persona, che ha una sua identità e i suoi bisogni.
IF! ci servirà anche per capire come l’ambiente esterno interpreta la gentilezza, cosa significa essere gentili. I clienti di un’agenzia di comunicazione sono aziende profit. Il discorso è quello di capire come poter implementare i temi dell’empatia e della gentilezza all’interno di un sistema che ha bisogno di avere ritorni economici. Ma un’azienda è anche un sistema in grado di dialogare con il suo target e, quando parliamo di target, parliamo di esseri umani.

Marco Cappato
Marco Cappato

“Quando si parla di gentilezza, non si parla di tolleranza, ma della capacità di amalgamarsi, di far sì che un gruppo di persone diventi uno”

È di tendenza il termine “tolleranza”. Nessuno di noi vorrebbe essere tollerato. La tolleranza ha in sé il seme dell’arroganza di chi concede qualcosa a un altro in posizione di inferiorità. La gentilezza dovrebbe prendere il posto della tolleranza?

La creatività emerge dalla libera espressione del pensiero di ogni singolo. Il lavoro dei creativi, ad esempio, è un grande lavoro di squadra. Quando si parla di gentilezza, non si parla di tolleranza, ma della capacità di amalgamarsi, di far sì che un gruppo di persone diventi uno. E non lo fai attraverso la tolleranza, ma includendo le diversità e considerando ogni individuo una ricchezza. Persone diverse, che non guardano le reciproche differenze, ma sono tutte rivolte allo stesso obiettivo comune. “Raduniamoci tutti intorno a un interesse comune” è lo spirito di IF!.

Il fumetto impegnato di Zerocalcare apre il Campania Libri Festival

Zerocalcare ha aperto il Campania Libri Festival, «supercontento» di essere al teatro Politeama di Napoli per l’anteprima della nuova manifestazione letteraria partenopea, nonostante «sto ‘na… (era raffreddato, traduzione della giornalista)… Scusate se parlo con questa voce stentoria… Non c’ho il Covid, ma so’ pieno de spray nasale».

Zerocalcare festival 2022
Pubblicità dell’evento di apertura del festival con Zero, alter ego fumettistico di Michele Rech (ph. Salvatore Pastore)

In un teatro andato sold out in poche ore, Michele Rech ha incontrato il pubblico napoletano con il tono pungente e il sarcasmo di Zerocalcare.

Ma che ci fa un fumettista in un festival di libri?

Non ne ho idea. Non credo la mia sia letteratura. Unisco la scrittura all’immagine, faccio un’operazione di sintesi. Sicuramente però è un libro, quindi ha perfettamente senso la presenza al Campania Libri Festival. E poi questo festival parla di libri, non di letteratura. Quindi noi fumettisti non siamo abusivi qua dentro.
Così Zerocalcare sul palco. Lontano dai riflettori, abbiamo chiacchierato con Michele. Unico paletto: non si può parlare del libro in uscita a ottobre, No sleep till Shengal. Nessun problema. Come direbbe Zerocalcare: skippiamo e andiamo avanti.

Zerocalcare Napoli festival
Zerocalcare durante il talk all’anteprima del Campania Libri Festival (ph. Salvatore Pastore)

Nel 2001 esce il tuo fumetto sui fatti di Genova. Nella prima e nell’ultima tavola due frasi simili: la memoria è un ingranaggio, va mantenuta e per funzionare ha bisogno di ognuno di noi. Il 25 si vota. L’ingranaggio della memoria sta funzionando?

Non voglio parlare di elezioni. Sulla memoria storica, penso che non stia funzionando e sono i sintomi che ci dicono che non sta funzionando. E sono completamente slegati dal 25 settembre. Questo Paese ha un problema di memoria, di fare i conti con la propria storia e i propri demoni, sia a breve che a lungo termine. Dico solo che non mi piacciono le emergenze del momento.

“Non ci sono persone che non vogliono sentir parlare di certe tematiche, semplicemente la gente non sa raccontarle”

Apri il Campania Libri festival. Il libro in uscita è stato stampato in oltre 230 mila copie in un momento in cui l’editoria è in crisi…

Guarda che secondo me è un suicidio eh… Io sono terrorizzato. Tutti giorni dico alla casa editrice che hanno fatto una cazzata…

Zerocalcare graphic novel
Le graphic novel di Zerocalcare al Campania Libri Festival (ph. Salvatore Pastore)

Fai politica con i fumetti e vendi migliaia di libri. I politici sbarcano su TikTok e vengono fischiati e presi in giro. Tu parli di genocidio curdo, di disagio giovanile, dei fatti di Genova e dell’assoluzione dei colpevoli, e anche chi non sa ti ascolta. Quindi il problema non sono i giovani e il fatto che non gliene frega niente?

Non penso sia vero che i giovani rifiutano quella dimensione. Credo che le persone in genere rifiutano la dimensione pretesca o la dimensione del maestrino. Quella cosa là penso che sia indigesta a tante persone. Se uno riesce a raccontare cose di vita quotidiana, dal lockdown alle questioni sociali, fatti che riguardano noi e il nostro vicino di casa, e riesce a farlo senza retorica, senza ideologia e senza mettersi su un piedistallo, secondo me le persone ti ascoltano. E non dico che io lo so fare. Chi ti segue è anche contento di avere dei contenuti più elaborati e non avere per forza solo le stronzate.
Sono convinto che non ci sono persone che non vogliono sentir parlare di certe tematiche, è semplicemente che la gente non le sa raccontare.

“Sto al centro di una dinamica molto schierata e partigiana, nel senso che parteggio per una fazione”

Una volta c’erano gli inviati di guerra. Oggi i presentatori fanno show dall’Ucraina e un fumettista va tra i curdi a disegnare un reportage. Il graphic journalism è una nuova frontiera del giornalismo impegnato e indipendente, che riesce anche a bypassare la censura dei media?

Io ho sempre un po’ di pudore su questa roba, nel senso che non penso che il mio lavoro possa sostituire quello del giornalismo. Rispetto il giornalismo fatto bene. Ma nella mia testa il giornalista è uno imparziale rispetto a quello che racconta. Io invece sto al centro di una dinamica molto schierata e partigiana, nel senso che parteggio per una fazione. Quando vado in quelle zone di guerra, mi sembra di fare qualcosa che serve a sostenere una causa, di difendere le ragioni di una parte. Poi cerco di farlo il più possibile con onestà intellettuale. Mi impegno a non ingannare e a non fare propaganda. Ma credo di fare un lavoro che è diverso da quello del giornalista.
Poi, il fatto che noi fumettisti siamo considerati un po’ i fratellini scemi, ci dà anche delle libertà che altri non hanno. Kobane Calling è un libro che parla di un’organizzazione che sta sulle liste del terrorismo di mezzo mondo. Se le stesse cose fossero state scritte nell’editoriale di un giornale, ci sarebbero state le rimostranze delle ambasciate e un dibattito acceso. All’interno di un fumetto questa cosa non solo passa senza intoppi, ma anche persone che hanno ruoli pubblici possono dire che il mio libro è interessante. Quindi secondo me il fumetto è un’arma a doppio taglio, perché è vero che viene considerato una cosa di serie B, ma questo ha anche lati positivi.

Zerocalcare incontri 2022
Zerocalcare con l’autrice dell’articolo (ph. Salvatore Pastore)

“Il fumetto è un’arma a doppio taglio, viene considerato una cosa di serie B, ma questo ha anche lati positivi”

Mi fai venire in mente il disco che rese famosa JLo, On the 6, dalla linea del metrò che collega il Bronx con Manhattan. Essere on the 6 significa farcela, passare dalla borgata ai quartieri alti. Michele adolescente andava ogni mattina da Rebibbia al liceo Chateaubriand di Roma. Michele è però rimasto nelle sue zone nonostante il successo. Com’era allora Michele? Più Zerocalcare, Armadillo o…?

Era una realtà divisa. Erano evidentemente poche le persone che venivano da Rebibbia. C’era una divisione molto netta, ma penso che i ragazzini non siano colpevoli di nulla. Semmai i genitori. La divisione era tra gli studenti italiani, che stavano lì perché era uno status symbol, e le persone francesi o di altre nazionalità che stavano lì perché era la scuola che consentiva loro la continuità linguistica se viaggiavano. Io sono madrelingua francese, perché mia mamma è francese, e le persone con cui mi relazionavo erano ragazzi che ti insegnavano tante cose, che magari avevano viaggiato. E poi, ovvio che c’era una comunità in cui magari stavi per anni senza rivolgerti la parola. Perché erano mondi super diversi.

Immagino che la questione Roma nordRoma sud per uno straniero, come per un non romano, sia un’idiozia…

Abbastanza…

Zerocalcare talk 2022
Zerocalcare al termine del talk tenutosi al teatro Politeama per l’apertura del festival (ph. Salvatore Pastore)

Nell’immagine in apertura, Zerocalcare sul palco del Politeama per l’apertura del Campania Libri Festival (ph. Salvatore Pastore)

Irene Casagrande, la forza della disillusione

È in sala Per niente al mondo, film diretto da Ciro D’Emilio, che racconta la storia di Bernardo (un bravissimo Guido Caprino), rappresentante di quel Triveneto che in pochi decenni è passato dalla miseria a essere il simbolo della ricchezza e del benessere italiano. Un film che prende spunto da un errore giudiziario. Una semplice storia di mala giustizia. In realtà un espediente per parlare di giustizia, di valori, di rapporti umani e di un mito degli ultimi decenni del secolo scorso nel quale si fa fatica a smettere di credere: il ricco nord-est dove sei quello che hai.

Irene Casagrande
Irene Casagrande, ph. by Andrea Pirrello

In Per niente al mondo, Bernardo ha una figlia, Giuditta. Una giovane attrice che si trova a bilanciare la recitazione tanto potente quanto ingombrante di un bravissimo Guido Caprino.
Giuditta è Irene Casagrande. Nata a Vittorio Veneto, in provincia di Treviso, prima di tre figlie, un giorno dice: “Mamma, papà, voglio fare l’attrice”.

Per niente al mondo film

Intervista con Irene Casagrande

Come hanno reagito i tuoi?

Avevo circa dieci anni. Penso sia sembrata una di quelle cose che si dicono per gioco. Anche se specificai che volevo “un corso serio” per diventare un’attrice professionista. I miei genitori sono stati meravigliosi. Hanno sempre permesso, a me e alle mie sorelle, di sperimentare per trovare la propria strada.

Irene bambina cosa vede in tv?

Un sacco di documentari. Ero molto curiosa: mi piacevano anche quelli meno adatti ai bambini e mi riempivo di paure strane, come uragani, terremoti e animali pericolosi. L’idea di fare l’attrice non è arrivata guardando serie tv o film. Era una passione più legata al teatro. Ero innamorata del gioco teatrale.
Vengo da una piccola cittadina di provincia e qui non passavano grandi compagnie. Ma le volte che ero andata, ero rimasta affascinata da questa dimensione collettiva, di grandi emozioni, di corpi che si muovono sul palco. E poi il tipo di recitazione: lo trovavo affascinante.

Irene Casagrande Instagram
Ph. by Andrea Pirrello

E il cinema?

L’ho scoperto più tardi. Al cinema, quando ero piccola, c’erano i cartoni animati. Quello vero è arrivato dopo, come una cosa mia, personale.

“Ero rimasta affascinata dal teatro, da questa dimensione collettiva, di grandi emozioni, di corpi che si muovono sul palco”

Durante la conferenza stampa hai raccontato di come questo film, e il ruolo di Giuditta in particolare, ti abbiano permesso di raccontare il tuo Veneto “doloroso” …

Sono cresciuta in quel quadrante di confine tra Veneto e Friuli dove il territorio ha il suo peso. Grazie a Ciro D’Emilio ho avuto l’opportunità di raccontare il mio Veneto al di là dei luoghi comuni. La cultura del produttivismo, l’etica del successo personale, la capacità di creare benessere, sono fattori che influenzano la nostra capacità di essere felici. E influenzano anche il modo in cui una comunità si tiene insieme, come in questo film, dove una persona che attraversa un tracollo, si trova spaesato e privato della propria identità sociale. Il lavoro, il successo economico, diventano l’unico motore di riscatto possibile.
Penso che per la nostra generazione sia un tema particolare. È una situazione che contrassegna un Veneto che per molti, credo, possa essere una regione dolorosa, conflittuale.

Irene Casagrande cinema
Ph. by Andrea Pirrello

“Siamo portatori di desideri che iniziano a essere diversi”

Vediamo sempre il Triveneto come una regione ricca, dimenticandoci che fino alla seconda metà del secolo scorso era una regione poverissima e con un analfabetismo diffuso…

Secondo me questo ha influenzato la cultura dell’etica del lavoro in un territorio a lungo segnato da grande povertà. Una terra di emigrazione che l’improvviso scoppio della bolla economica degli anni ‘80, l’industrializzazione che è arrivata relativamente tardi, ha trasformato nel nord-est ricco e operoso che è ancora nell’immaginario collettivo. In un territorio che ha visto un grande benessere, convivono le generazioni che l’hanno creato, ma anche la mia, che è la prima per la quale quel benessere comincia a non esistere più. Già noi torniamo a emigrare, ma facendolo ci rendiamo conto che cerchiamo un benessere diverso.

C’è un libro bellissimo, Cartongesso di Francesco Maino. Non riuscivo a leggerlo. Mi fermavo sempre alle prime pagine. Ha uno stile ruvido. Poi è stato il primo libro che mi sono ritrovata a leggere appena mi sono trasferita a Roma. Parla di questa realtà-malessere, della difficoltà di relazionarsi con l’aspettativa del benessere economico. Una storia che segue un modello abbastanza claustrofobico, per cui la felicità della persona dovrebbe derivare dalla capacità di rispettare le aspettative lavorative. Il lavoro, l’osteria, la casa. Ciascuno è preso in questa trottola senza altri stimoli. È alienante.

“Credo che bisogna interrogarsi su come la proiezione in sala possa continuare a mantenere la propria peculiarità esperienziale”

In Per niente al mondo Giuditta vive un rapporto passivo aggressivo con suo padre. La sua è la generazione cuscinetto tra quella dei nostri nonni e la vostra. Le loro sono le due generazioni che hanno trasformato il Veneto in una delle regioni più ricche d’Italia. Voi sembrate appartenere a quella che cerca di ristabilire un equilibrio tra chi ha fatto la fame e chi ha vissuto il boom economico.

Probabilmente sì, siamo portatori di desideri che iniziano a essere diversi. Per noi non c’è la felicità che ci viene da una casa che non sappiamo se potremo comprare, una macchina che non sappiamo se potremo permetterci, e da tutta una serie di cose che non possiamo più dare per scontate. Siamo la generazione della crisi permanente. La crisi economica è arrivata che avevamo dieci anni o poco più. E non se ne è mai più andata.
Mi sento rappresentante, attraverso il mio personaggio, di uno dei messaggi contenuti nella pellicola di Ciro D’Emilio. Per niente al mondo racconta di una società che fa fatica, del rapporto di un uomo con sua figlia, di persone che si misurano con la difficoltà di superare le ostilità di un territorio dove i rapporti sociali sono i più colpiti dalla cultura del denaro.

Per niente al mondo Irene Casagrande
Irene Casagrande in una scena di Per niente al mondo

“Ho sempre avuto uno sguardo curioso sul mondo che mi circonda”

Sei cresciuta su set come In Treatment, 1992, 1993, 1994. Si discute del rapporto tra cinema e streaming. In realtà questa rivoluzione è già avvenuta. Fai distinzione tra film e grandi serialità, tra sala e cinema sulle piattaforme?

Tra giovani che si interessano a questo mestiere, attori, giovani registi, direttori della fotografia, è normale che ci si interroghi. Le domande che ci facciamo non sono se è meglio il cinema o la piattaforma, il film o la grande serie. È un cambiamento nel quale siamo già immersi. Sono modi diversi di fruire lo stesso prodotto. Credo che le domande da porsi siano quelle sulle specificità dei diversi canali e dei diversi tipi di prodotto, su come la proiezione in sala possa continuare a mantenere la propria peculiarità esperienziale. Forse la sala dovrà diventare un momento particolare di incontro, con dibattiti, con la presenza dei protagonisti. Tra serialità e film, poi, c’è la stessa differenza che c’è tra un racconto breve e un romanzo. Sono diverse forme di narrazione.

“Siamo una generazione disincantata e disillusa, che forse proprio in questo ha la propria forza”

Il 25 settembre si vota. Ti senti rappresentata? Vi sentite presi in considerazione dalla politica o siete sempre quelli che non hanno voglia di lavorare, che non hanno niente da dire? Vi lasciamo un mondo in condizioni pietose e vi diciamo anche che siete dei nullafacenti privi di istruzione…

Tocchi un tema che per me è fondamentale. Al di là della mia passione per il cinema, ho sempre avuto uno sguardo curioso sul mondo che mi circonda. Ho una mia coscienza politica che è in costante formazione. L’atteggiamento di cui parli rispetto ai propri giovani, credo sia sintomatico di una profonda crisi della società nel suo complesso. La verità è che noi giovani siamo il futuro e gli adulti di domani. Siamo le persone su cui ricadranno i pesi e i debiti di chi è venuto prima. Siamo una generazione radicalmente diversa da quella del passato.
Si fa un gran parlare delle sfide e delle difficoltà del presente e del futuro, ma la verità è che, se per una persona che oggi ha cinquanta o sessant’anni, queste problematiche rappresentano una questione teorica, per noi sono l’orizzonte entro il quale siamo capaci di immaginare le nostre possibilità per vivere e, magari, diventare genitori a nostra volta. Dovrebbe essere fondamentale pensare alle nuove generazioni come a degli esseri umani con le loro complessità, coscienza, consapevolezza e capacità di agire. Purtroppo è un atteggiamento che manca nella società attuale.
A questo punto la domanda se ci sentiamo rappresentati oppure no è superflua. La verità è che c’è qualcuno che ci infila nella propria retorica, ma per noi è evidente che è solo retorica.
Siamo portatori di un’esperienza storica unica, che pone problemi radicali. Non credo si possa affrontare questa transizione epocale con banalizzazioni, ricerca del consenso, misure a breve termine. Siamo una generazione disincantata e disillusa, che forse proprio in questo ha la propria forza. Sappiamo che è necessario immaginare soluzioni diverse. Siamo persone in formazione e chissà quali promesse rappresentiamo per la società di cui facciamo parte.

Irene Casagrande film
Ph. by Andrea Pirrello

Nell’immagine in apertura, Irene Casagrande ritratta da Andrea Pirrello

Il mestiere dell’attore secondo Leonardo Lidi, direttore artistico del Ginesio Fest

Alto, schivo, pragmatico ma con la testa sempre in attività, Leonardo Lidi si illumina quando si parla dei “suoi ragazzi”, gli allievi della scuola del teatro Stabile di Torino.
Lo vedremo nei panni di un abile hacker in Everybody Loves Diamonds, uno dei progetti più ambiziosi in programmazione su Prime Video nella primavera del 2023. Era Tody nella serie Rai Noi, remake della statunitense This is us. Ha appena affrontato la sua prima direzione artistica di un festival teatrale, il Ginesio Fest, giunto alla sua terza edizione.

Leonardo Lidi attore
Leonardo Lidi (ph. Ester Rieti)

“Sono soddisfatto. Gli artisti stanno vivendo il festival e il borgo. È molto importante che artisti di ogni età siano arrivati a San Ginesio per dialogare sul teatro. Si sono alternati grandi attori, giovani emergenti e studenti. Per me è bellissimo ed è quel binomio che il teatro deve avere: il talento sì, ma anche un pensiero politico rispetto all’arte del teatro e al dialogo col pubblico”.

Inizia così la chiacchierata con un un artista poliedrico, che fa di una formazione trasversale la cassetta degli attrezzi di un professionista del mondo della recitazione. Teatro o cinema, recitazione, direzione o scrittura, tutto parte dallo studio condiviso.

Ginesio Fest
Uno degli spettacoli dell’edizione 2022 del Ginesio Fest

San Ginesio festival
Un altro momento del festival

“La nostra è una professione liquida, ha bisogno di antenne dritte e capacità di spostarsi costantemente e velocemente tra le varie forme”

Prima volta come direttore artistico di un festival. Dove pensi di dover migliorare?

In realtà ho già fatto esperienza sul mio territorio piacentino. Da quando sono ragazzo, ho gestito dei gruppi come regista. Sono il coordinatore didattico di una scuola importante, quella del teatro Stabile di Torino. Dal punto di vista della gestione non ero impreparato. Aspetti da migliorare ce ne sono sempre. Come primo festival, sono soddisfatto del Ginesio Fest perché, con la squadra che ho creato, siamo riusciti a superare anche i momenti più difficili. La seconda sera siamo stati costretti ad annullare lo spettacolo due ore prima di andare in scena. Ma siamo riusciti a rispondere, secondo me, con una bella freschezza: lavorando insieme, abbiamo creato dal nulla, in meno di due ore, uno spettacolo che ha entusiasmato il pubblico. Per la prossima stagione mi piacerebbe aggiungere almeno una produzione under 30.

“Cerco di insegnare a non essere ossessionati da un percorso specifico, a non aver paura delle novità”

Come docente, c’è qualcosa che è mancato a te e che dai ai tuoi ragazzi? Qual è il maestro che avresti voluto avere e che cerchi di diventare?

Come dico sempre ai ragazzi, credo che il concetto di maestro vada ripensato. La nostra è una professione talmente liquida, che ha bisogno di antenne dritte, di capacità di spostarsi costantemente e velocemente tra le varie forme. È il motivo per cui sono molto contento che Remo Girone sia presidente di giuria, è un esempio di stile, si è sempre mosso tra il grande teatro, la televisione e il cinema, così come Lino Guanciale che è stato premiato la serata conclusiva del festival. Quello che cerco di insegnare è non essere ossessionati da un percorso specifico, ma di essere sempre in ascolto del proprio presente. Di non avere paura delle novità.

Temo ci sia una paura connaturata alla mia generazione, che aumenta nei più giovani, dovuta a un contesto di precariato costante. Questo fa sì che gli artisti abbiano sempre paura di sbagliare, perché devono convincere il produttore o lo spettatore di essere all’altezza. Un aspetto importante del nostro lavoro, che abbiamo il dovere di insegnare, è che l’errore fa parte del percorso. Bisogna essere consapevoli del proprio talento, ma anche, e questo è più un consiglio alle istituzioni e ai teatri che agli allievi, permettere sempre la possibilità di un passo falso. Perché all’interno di un contesto di paura, la creatività non nasce. Questo è ciò che insegno ai miei allievi.
Cosa avrei voluto? Quello che ho dovuto fare da solo, un percorso di studio sui testi. Tutti i giorni studio almeno un testo teatrale. Mi è dispiaciuto farlo da solo: lo avrei voluto fare con dei compagni, quindi cerco di far sì che la classe abbia un costante studio collettivo dei testi.

Lino Musella attore
Lino Musella, tra gli ospiti di punta della rassegna (ph. Manuela Giusto)

Lino Guanciale premio
Lino Guanciale riceve il premio assegnatogli dal Ginesio Fest

“Bisogna permettere sempre la possibilità di un passo falso. Perché all’interno di un contesto di paura, la creatività non nasce”

Ti occupi di regia e scrittura, ma sei anche attore di serie di successo. Tra tax credit e finanziamenti, le produzioni cinematografiche hanno ingenti capitali da investire. C’è spesso un problema di sceneggiature. Tanta quantità va a discapito della qualità? La grande mole di produzioni è una bolla che rischia di scoppiare?

Bisogna vedere gli aspetti positivi di questa mole di denaro, che sta favorendo le produzioni. Le piattaforme permettono di scoprire attori che avrebbero faticato nel sistema cinematografico tradizionale. Io stesso ho avuto la possibilità, grazie a Rai, Netflix e Amazon, di farmi conoscere anche dal grande pubblico. In un contesto dove siamo abituati ai soliti protagonisti, poter conoscere nuovi volti è un bel cambiamento.

Rispetto alla scrittura sono critico. Se pensi alle scritture inglesi e americane, partono quasi sempre da una consapevolezza teatrale drammaturgica. Una delle serie di maggior successo di quest’anno, l’americana Succession che ha trionfato ai Golden Globe, non è altro che una rilettura in chiave contemporanea di Re Lear. Un cartone che ha fatto grandi numeri su Netflix, BoJack Horseman, parte dall’opera di Ibsen. Ma noi spesso neanche ce ne accorgiamo, perché c’è una grande mancanza di studio della drammaturgia classica tradizionale e, come spesso avviene, ci si nasconde dietro una tradizione noiosa, invece di utilizzare testi classici come trampolino per sopravvivere ai nostri tempi. E questo, nello studio della sceneggiatura e ancora prima della drammaturgia italiana, è un difetto che dobbiamo assolutamente colmare. Anche perché oggi il rapporto con il resto del mondo è quotidiano, proprio grazie alle piattaforme. Nella mia classe ci sono sia scrittori che attori che però scrivono. Sto cercando di creare una rete, con la mia agenzia, con sceneggiatori e registi che conosco, per aprire a una possibilità di dialogo tra le due forme d’arte. Secondo me è la soluzione migliore per creare sinergie.

Ginesio Fest edizioni
Il pubblico assiste a uno spettacolo del Ginesio Fest 2022

“Le piattaforme permettono di scoprire attori che avrebbero faticato nel sistema tradizionale. Poter conoscere nuovi volti è un bel cambiamento”

Le piattaforme danno lavoro. Ma i ragazzi fanno in tempo a formarsi?

La formazione deve partire prima e in maniera seria. Potremmo copiare l’esempio inglese, dove è difficile vedere ragazzi, sia sugli schermi che nei grandi musical, non formati. La questione è che le scuole di teatro fanno di tutto per tenersi stretti i propri allievi con la paura che possano scappare. Con la scuola dello Stabile di Torino stiamo facendo l’opposto: stiamo cercando di dare già possibilità lavorative, perché ragazzi che studiano quotidianamente, meritano di essere visti dai registi. Spesso c’è il fraintendimento che è meglio prendere qualcuno di “puro” dallo studio della recitazione, temendo sia troppo impostato. Poi però fai recitare giovani che fai fatica a capire ciò che dicono quando sono davanti alla macchina da presa. Non è una critica, solo uno degli aspetti che si può migliorare. Per lavoro, sono in contatto con tanti casting e registi e, per quello che posso, mi impegno a creare un ponte tra i due mondi, teatrale e cinematografico.

Questi due mondi si devono parlare. Ma non è il mondo cinematografico che deve ascoltare il teatro: devono entrambi fare un passo avanti. E il mondo teatrale deve smetterla di formare attori in grado di sostenere solo alcuni percorsi con alcuni registi. Gli attori formati devono essere attori a 360 gradi e il cinema deve attingere a questi percorsi. Ma ci vogliono dei formatori che non siano chiusi nelle proprie consapevolezze del passato: è quello il problema. Altrimenti si continua a parlare del proprio passato, della tradizione, e nel presente ci rimangono le briciole.

Lessons of Love film
Leonardo Lidi in una scena del film Lessons of Love

Nell’immagine in apertura, un momento dell’edizione 2022 del Ginesio Fest, sulla sinistra si riconosce Leonardo Lidi

La Puglia oltre l’estate: a Monopoli dal 9 settembre il festival fotografico PhEST

Come sarà il “Futuro” nell’era post-pandemica? In un mondo che assiste al crescente sviluppo dei visori VR, delle interazioni virtuali sui social network e del metaverso, dove anche l’arte diventa digital art, “Futuro” è l’occasione per immaginare un’epoca dominata dall’Intelligenza Artificiale e dagli algoritmi. “Proveremo a declinare il tema in ogni modo possibile non solo dal punto di vista dei contenuti, con più di 20 mostre dedicate, ma anche dal punto di vista della forma, con l’uso nelle esposizioni di ledwall, VR, fotogrammetria, AI, robot, proiezioni immersive, realtà aumentata, riconoscimento facciale…”, sottolineano gli organizzatori del festival.

festival fotografia 2022
Ph. ©Sano/Sano, dalla serie 2021

Per argomentare questo concetto, PhEST – Festival internazionale di fotografia e arte trasformerà dal 9 settembre al 1° novembre le vie, gli spazi e i palazzi della città di Monopoli, in un museo a cielo aperto che ospiterà il meglio dei rispettivi ambiti da tutto il mondo, lungo un percorso che consente al visitatore di ammirare le opere scoprendo le bellezze naturali e architettoniche della cittadina pugliese.

Gli artisti della VII edizione del Festival internazionale di fotografia e arte

Nick Brandt, Alexander Gronsky, Davide Monteleone, Erik Kessels, Bil Zelman, Arko Datto, Işık Kaya & Thomas Georg Blank, Frederik Heyman, Emanuela Colombo + Michela Benaglia, Marcel Top, Quinn Russell Brown, Manuela Schirra e Fabrizio Giraldi (Schirra/Giraldi), Francesco Tosini, Noeltan Arts, Sano/Sano, Lisetta Carmi sono gli artisti internazionali chiamati a indagare il tema dell’anno con installazioni immersive disseminate nei quattro angoli della città.

fotografia festival autunno 2022
Ph. Mattia Balsamini

Per la VII edizione di PhEST, tre saranno le residenze artistiche: Mattia Balsamini – Il Futuro in Puglia, Alessandro Cracolici – PhACES – Progetto di Arte generativa, e Piero Percoco / Sam Youkilis – Live From Monopoli.

I temi indagati dal fotografo Arko Datto

PhEST è un viaggio visivo nelle problematiche di oggi, ponendosi domande sul futuro. Cosa significa essere un fotografo nell’era digitale e svolgere al tempo stesso il ruolo di osservatore e commentatore di questioni critiche? Se lo chiede Arko Datto: nato in India, ha studiato a Parigi fisica e matematica e lavora in Danimarca. PhEST ospita Where Do We Go When The Final Wave Hits, una sua esplorazione notturna che ritrae la precarietà dell’essere umano in balia del cambiamento climatico alla foce del Ganga-Brahmaputra-Meghna, il delta più grande del mondo. Datto guarda attraverso l’obiettivo temi come l’emigrazione forzata, la sorveglianza nel panopticon digitale, le isole scomparse, lo stress psicosomatico degli animali in cattività. Temi disparati che, insieme, formano fili di indagine sui dilemmi esistenziali dei nostri tempi.

cambiamento climatico fotografia arte
Ph. Arko Datto, dalla serie Where Do We Go When The Final Wave Hits

La riflessione sulla sorveglianza di massa di Marcel Top

Un’altra domanda cerca risposta attraverso le immagini del PhEst: “Il nostro diritto fondamentale alla libertà di espressione è minacciato?”. In quest’ottica Marcel Top, fotografo belga che esplora limiti e confini della fotografia, ha indagato i sistemi di sorveglianza di massa negli Stati Uniti. Con il progetto Sara Hodges  mette in discussione l’uso delle tecnologie al servizio del panopticon e la possibile minaccia che rappresentano: un perfetto sistema di sorveglianza ottenuto dalla sinergia di web e social media, all’interno del quale l’utente non si sente osservato. Un habitat, internet, dove Big Data e tecnologia del controllo sociale rappresentano la materia prima per affari miliardari.

panopticon arte foto
Ph. Marcel Top, dalla serie Sara Hodges

Sara Hodges è una cittadina americana inesistente, generata da un algoritmo raccogliendo oltre 50.000 post su Instagram che utilizzavano l’hashtag #iloveamerica. Partendo da questi post, Top è stato in grado di generare nuove immagini inesistenti attraverso il machine learning. È nato così Sara Hodges, il perfetto cittadino americano. La sua presenza online dovrebbe ingannare la tecnologia di sorveglianza di massa utilizzata per rintracciare le persone. Se il viso di Sara fosse disponibile per tutti, attraverso la stampa 3D e l’uso del silicone, le persone potrebbero ricreare il suo viso e indossarlo, ritrovandosi così libere di esprimere qualsiasi opinione nel mondo reale, senza timore di essere identificate e rintracciate online.

Reenact/Repeat di Alexander Gronsky

PhEST racconta la guerra attraverso gli occhi di Alexander Gronsky, fotografo russo arrestato a Mosca a febbraio per aver manifestato contro l’invasione dell’Ucraina, che ha definito il suo paese uno stato terrorista.

guerra Ucraina foto report
Ph. Alexander Gronsky, dalla serie Reconstruction

Nato a Tallinn, in Estonia, vive e lavora in Russia. La sua pratica fotografica si concentra su paesaggi che documentano un mondo in costante ripetizione di se stesso, catturando anche il grottesco. La kermesse ospita Reenact/Repeat, una serie di immagini di rievocazioni militari in Ucraina e Russia. Dittici e trittici per ricostruire spazi ambigui. Immagini stratificate dove la nitidezza e i colori delle figure umane stridono con gli sfondi sfocati di paesaggi distopici. I colori della neve dei pittori dell’impressionismo e del realismo sovietico dei secoli scorsi, prestati a set cinematografici abitati da soldati e turisti di passaggio. Foto di russi vecchi e nuovi che raccontano la stessa, vecchia guerra.

La geopolitica attraverso la lente del fotografo Davide Monteleone

PhEST è anche un occhio sulla geopolitica con Sinomocene di Davide Monteleone, il cui sottotitolo potrebbe essere “tutte le strade portano a Pechino”. Monteleone è un artista visivo i cui temi ricorrenti includono geopolitica, geografia, identità, dati e tecnologia, per approfondire i temi delle nuove forme di colonialismo, della globalizzazione e del rapporto tra poteri e individui.

via della seta foto arte
Ph. Davide Monteleone

Il suo lavoro si concentra sull’impatto sociale e ambientale dei grandi movimenti di capitali legati alle strategie geopolitiche a livello globale e locale. Un’indagine fotografica su alcune delle questioni internazionali più urgenti del nostro tempo relative al soft power. Perché, mentre la colonizzazione precedente richiedeva una presenza fisica, un’occupazione forzata, un esercito e, in numerosi casi, una guerra, l’esperimento cinese si basa quasi esclusivamente sul denaro e sul vantaggio finanziario. Monteleone fotografa questa nuova forma di colonizzazione, che sembra non produrre il dramma della guerra e la tragedia della povertà. Non sembra immediatamente esporre questioni legate alla violazione dei diritti umani. Invece lo fa in un modo così sottile che la sua rappresentazione non offre prontamente i luoghi comuni sfruttati nel fotogiornalismo. Sinomocene è un tentativo di indagare questioni apparentemente “non fotografabili” del nostro tempo.

Il rapporto tra uomo e ambiente (Nick Brandt), il paesaggio modificato dagli umani (Işık Kaya & Thomas Georg Blank), uno storico progetto di riforestazione (Schirra/Giraldi)

Di rapporto tra uomo e ambiente si occupa Nick Brandt, che ritrae persone e animali in Kenya e Tanzania e trasforma i loro destini cupi e disperati in dolorosa bellezza, facendoci riflettere sulle conseguenze nella vita reale del cambiamento climatico.

Kenya Africa foto artisti
Ph. Nick Brandt, dalla serie The Day May Break

E ancora Ișık Kaya, artista turca, e Thomas Georg Blank, fotografo tedesco, che indagano la maniera in cui gli esseri umani modellano il paesaggio contemporaneo. Con l’ascesa dei dispositivi mobili, dal 1992 antenne trasformate in alberi artificiali hanno infatti riempito le nostre città. Da allora, questo tipo di mimetizzazione si è evoluto in un fenomeno globale che solleva interrogativi fondamentali sul rapporto tra uomo e natura. Le immagini della serie Second Nature si concentrano sugli alberi dei ripetitori cellulari che sono diventati parte del paesaggio della California meridionale.

Second nature photography
Ph. Ișık Kaya & Thomas Georg Blank, dalla serie Second Nature

Manuela Schirra e Fabrizio Giraldi (Schirra/Giraldi), un duo di artisti visivi che lavora su ambiente, energia e futuro, con il progetto Da pietra a bosco documenta il piano di rimboschimento del “deserto di pietre” voluto dagli Asburgo. Quello del Carso, ideato 200 anni fa, è il primo e più grande progetto di riforestazione di cui si abbia testimonianza. Presentato all’Expo di Parigi del 1900, gli esiti di questo piano sono un’occasione unica per comprendere le potenzialità del rimboschimento di un ambiente inospitale.

Schirra Giraldi
Ph. Schirra/Giraldi, dalla serie Da pietra a bosco

Gli obiettivi di PhEST nelle parole del presidente della Regione Puglia Emiliano

La filosofia di PhEST è racchiusa nelle parole del presidente della Regione Puglia Michele Emiliano: “Un programma con fotografi di fama internazionale, residenze artistiche sul territorio, letture portfolio con alcuni tra gli editor più importanti da tutto il mondo, ricadute turistiche economiche e lavorative per tanti giovani pugliesi nella loro terra. Tutto questo è PhEST, festival che rende ancora una volta Monopoli un crocevia della cultura mondiale e la Regione Puglia sostiene con convinzione e entusiasmo. Quest’anno il festival torna a settembre e prosegue quindi nel solco della destagionalizzazione su cui da anni la nostra regione investe. Perché la Puglia è bella sempre, non solo in estate”.

Phest Puglia 2022
Ph. Cooper & Gorfer, dalla serie Between These Folded Walls, Utopia

Nell’immagine in apertura, photo by Frederik Heyman

Niccolò Ferrero e Nina Pons, insieme per ‘E buonanotte’ (e Manintown)

Niccolò Ferrero e Nina Pons, insieme sul set di E buonanotte di Massimo Cappelli, sono di nuovo insieme davanti all’obiettivo di Davide Musto e per Manintown.
Niccolò e Nina sono due giovani attori. Una cosa che si chiede sempre a un attore è: “Volevi fare l’attore?”, domanda che non si fa mai a un idraulico o a un ingegnere (ma poi, quanti ragazzini si pongono davvero domande esistenziali del tipo “cosa farò da grande?”).

Niccolò: total look Sandro; Nina: total look Gucci

Niccolò Ferrero: L’altra domanda è “se non avessi fatto l’attore, che cosa avresti fatto?”. Forse perché fare l’attore non è considerato un lavoro. Negli Stati Uniti, ad esempio, viene considerato tale, e non posso farlo senza studiare. C’è pure chi viene preso perché ha accompagnato un amico a un casting. E magari ottieni anche un buon risultato, ma per quel ruolo specifico.
Nel lungo periodo, credo nell’istruzione. Chiunque abbia raggiunto traguardi nella recitazione, li ha ottenuti studiando, perché nel tempo la mancanza di competenze si riflette sulla qualità del lavoro.

Nina Pons: Ho sentito spesso colleghi che, quando dicono “faccio l’attore”, si sentono rispondere “sì, ma di lavoro cosa fai?”. Noi studiamo per fare questo mestiere. Ecco perché è una domanda che non concepisco. La trovo anche offensiva. Se dovessero farla a me, risponderei che di lavoro faccio l’attrice. Se per loro non è un lavoro, il problema è loro.
Come studi per fare l’avvocato o l’ingegnere, studi per fare l’attore. Non è che una mattina ti svegli, dici che vuoi recitare e sali sul palco. Studio perché voglio che questo sia il mio lavoro. Sono una persona molto concreta. Poi, un provino può non andare per mille motivi. In quel caso preferisco assumermi le mie responsabilità. Lamentarmi e dare la colpa agli altri mi leva energie.

Che formazione avete?

N.F: Mi sono diplomato al Centro sperimentale di cinematografia e ho anche un Diploma di “Acting for the camera” alla UCLA.

N.P: Ho frequentato il Centro Intensivo Allenamento Permanente Attori di Gisella Burinato e la Golden Star Academy. Ho studiato con la regista Loredana Scaramella e la coach inglese June Jasmine. Questo è un lavoro che richiede un allenamento costante.

Nina: total look N°21; Niccolò: total look Sandro, sneakers talent’s own

Poi un bel giorno due youtuber arrivano al cinema e conquistano il box office. Quindi il cinema lo può fare chiunque?

N.F: Secondo me funzionano sui cento metri. In una maratona no. Noi che abbiamo alle spalle anni di studio e corsi di formazione, e che continuiamo a studiare, corriamo per la maratona, per costruirci una carriera. Quindi lo studio è imprescindibile.

N.P: Non li ho mai visti. È un fenomeno che non ho capito.

Non è un segreto che, a parità di attori, le produzioni scelgono quelli con più visibilità sui social per dare una mano alla sponsorizzazione del film. Ho dato un’occhiata al vostro IG e non credo che vi abbiano scelto per il numero di follower

N.F: Massimo Cappelli ha avuto gran coraggio a prendere due attori poco conosciuti. Quando ci ha scritturati, dovevo ancora uscire dal Centro sperimentale ed ero senza seguito sui social. Ma lui ha deciso di prendermi per un prodotto che forse, con due ragazzi molto seguiti, avrebbe avuto delle chances in più. Ha fatto questa scelta coraggiosa e per questo gli sarò eternamente grato.
Non mi appartiene il fatto di condividere continuamente la propria vita. Non lo critico, ma è un altro lavoro. Per me sarebbe una forzatura. Vorrei che i social fossero solo un mezzo di comunicazione, non il soggetto di quello che faccio. E io faccio l’attore. Spesso vengo rimproverato perché li uso poco. Purtroppo è vero che le produzioni guardano anche questo: è il mercato di adesso. Spetta a noi attori, con le nostre competenze, far sì di essere presi al posto di un influencer.

N.P: Questo è un motivo per cui sono grata ai produttori della Lime Film. Per questo ruolo ho sostenuto cinque provini. Il regista ha deciso di puntare su due persone nelle quali credeva. È stato bellissimo perché non tutti ragionano così, soprattutto ora. Sul mio IG non c’è neanche scritto attrice, perché per me il lavoro è una cosa e i social un’altra. Sono due lavori completamente diversi e non ho intenzione di cadere in questa trappola. Per me il social è uno svago. Sono un’attrice, non un’influencer. A voi spettatori cosa cambia se ho un milione o dieci follower? Vi interessa vedere qualcosa che vi fa emozionare. Ecco perché non capisco questo concetto e non ho intenzione di farmi fagocitare dal sistema.

Niccolò e Nina: total look Fendi

Il tormentone del momento è “i giovani non hanno voglia di lavorare vs/le nuove generazioni si ribellano al lavoro in condizioni di schiavitù”. Se c’è una categoria di sottopagati è la vostra, soprattutto in teatro. Perché gli attori continuano a lavorare anche gratis e l’elettricista no?

N.F: Cinema e televisione pagano il giusto. Il problema è se lavori dieci giorni l’anno. Allora quello che guadagni è insufficiente. Spesso però l’attore ha un fuoco dentro, qualcosa che ti fa battere il cuore talmente tanto, che lo faresti anche gratis. Per me era iniziato come un divertimento ma, quando ho provato a fare altro, ho capito che non potevo non recitare. Il problema è che se uno continua ad accettare lavori gratis, non è in grado di sostenersi col proprio lavoro.

N.P: Quando ti arriva un bel copione, e magari sei a casa e non stai lavorando, è un lavoro che ti fa stare attivo. E noi attori abbiamo bisogno di recitare. Se però tutti smettessimo di accettare, le produzioni che non pagano o pagano poco smetterebbero di proporre. Fortunatamente  c’è il ruolo dell’agente che è lì per tutelare l’attore. Secondo me è sbagliato accettare un lavoro non retribuito, a meno che non sia un progetto low budget nel quale credi. A me è successo, ma è un’eccezione. Recitare è un lavoro e il lavoro si paga. Dietro uno spettacolo teatrale, dietro un film, c’è un lavoro enorme. Non è che memorizzi una frase e vai sul palco a dirla. C’è un lavoro sulla costruzione del personaggio, su noi stessi. È un lavoro profondo e quindi non può essere sminuito. I corsi costano tantissimo. Se hai un provino difficile, chiami il coach e lo paghi. Perché quindi le produzioni non dovrebbero pagare gli attori?

E buonanotte è la storia di un ragazzo che non vuole dormire per non sprecare tempo. Per i giovani c’è sempre tempo, è sempre “scialla”. Ma una mattina ti guardi allo specchio, hai le rughe e percepisci di averne sempre meno. In realtà ogni attimo potrebbe essere l’ultimo. Avete mai pensato come sarebbe sostituire “scialla” con “vivi ogni istante come  fosse l’ultimo”?

N.F: Può accadere anche a 25 anni. C’è un momento in cui realizzi che gli anni che hai davanti non sono infiniti; accade qualcosa e da quel momento scegli come usare il tuo tempo. Luca, il protagonista del film, lo fa scegliendo di dedicare del tempo agli altri. Nina Pons, Roberta, lo porterà in una comunità di recupero e lui deciderà di dedicare tempo a chi ne ha più bisogno. Niccolò Ferrero lo sta facendo dedicandosi a ciò che ama: il cinema.

N.P: Il tempo è prezioso. Stare nel mood “scialla” è un riparo dal mondo esterno. Non ascolti con la pancia. Per me vivere vuol dire stare. Non fare tante cose, correre da una parte all’altra. Per me il sinonimo di vivere è stare nelle cose, moment by moment. Ascoltare, essere in connessione con gli stimoli esterni, con le persone che hai davanti. Per me, vivere ogni istante come fosse l’ultimo è vivere stando in quello che fai, sentire quello che fai. Quando vivi freneticamente fai fatica a goderti il singolo momento.

Nina: total look N°21; Niccolò: total look Sandro

Dopo la sala E buonanotte è disponibile su Amazon Prime e Chili. Le piattaforme sono considerate l’Hannibal Lecter o il Robert Bloch del cinema. Ha senso demonizzarle o sono un’opportunità?

N.F: So che vado controcorrente, ma credo ci siano dei film che puoi vedere sia al cinema che a casa. Altri hanno una resa diversa sul grande schermo. Trovo però che le piattaforme siano una grande opportunità. Lo strumento narrativo si è sempre evoluto: dal teatro al cinema, dal cinema alla TV, al computer e ai telefonini. Non ho questa sacralità del cinema come luogo unico deputato alla visione del film. L’importante è che ci siano prodotti di qualità. Dove il pubblico li fruisce è un discorso personale. Una cosa è certa: con le piattaforme arrivi a un pubblico vastissimo, anche a livello mondiale.

N.P: In lockdown le piattaforme ci hanno salvato. Per me, vedere un film a casa o al cinema fa la differenza. Sono molto felice che E buonanotte sia stato al cinema, perché vedermi sul grande schermo è stato fantastico. La sala, poi, è un posto che crea connessione tra tante persone diverse che in quel momento stanno facendo tutte la stessa cosa. Nell’era in cui i social ci separano, portano ad estraniarsi, la sala può essere un momento di condivisione. Anche fare un film è un atto di condivisione, perché tante persone sono insieme sul set per far sì che il film venga nel migliore dei modi. Il bello di questo mestiere è proprio vedere come si crea una squadra: tutti insieme per un obiettivo comune. E per tutto il tempo in cui giri, il set diventa la tua famiglia. Come in teatro: quando sei in tournée si crea una sinergia inspiegabile.
E la capacità di condividere è anche una delle cose che viene fuori da E buonanotte. Luca e Roberta entrano in sintonia imparando a vedersi l’un l’altro.

Cosa porterete con voi di questo film?

N.P: È stato il mio primo film da protagonista e ci sono tantissime cose che mi porterò dietro. Sicuramente Niccolò, col quale si è creata una grandissima complicità, e tutte le persone che hanno lavorato con noi. Massimo Cappelli, il regista, che si è fidato di me e mi ha dato questa possibilità. Ha dedicato molta attenzione ad aiutarci nel creare i personaggi. È un film che mi ha lasciato tanto come persona. Tocca tematiche forti. Interpreto una ragazza che lavora in una libreria, studiosa, che fa volontariato in un centro per persone con disagi, disposta sempre ad aiutare l’altro. Solo che non mi lascio mai andare perché, se pensi sempre ad aiutare il prossimo, a te chi pensa?
Il personaggio di Niccolò, Luca, è quello che mi insegna a essere leggera, a far uscire la mia femminilità, a vivere la mia età. Io, a mia volta, lo aiuto ad inquadrarsi. Niccolò interpreta un ragazzo che vuole solo divertirsi: ama andare alle feste, giocare con la PlayStation, non vuole studiare. Il messaggio è che si può cambiare mettendosi in relazione con l’altro.
La capacità di trasformarsi è uno dei messaggi più belli del film.

N.F: Lo ricorderò sempre come il mio primo film da protagonista. Ero preoccupato perché volevo dare il meglio di me. Mi sono preparato con un insegnante del Centro sperimentale e un’altra coach. Ero tesissimo, ma le persone sul set, da Massimo a Nina, mi hanno davvero supportato. Si respirava un’aria leggera, ci siamo divertiti, abbiamo riso tantissimo e la tensione si è allentata. Il clima amichevole mi ha aiutato.

Sei torinese, ti hanno affiancato una romana… non poteva andare diversamente.

N.F: Esatto!

Niccolò: total look Sandro, shoes Premiata; Nina: shirt and denim pants Zimmermann, shoes Jimmy Choo

Credits

Talent Niccolò Ferrero, Nina Pons

Editor in Chief Federico Poletti

Text Alessia de Antoniis

Photographer Davide Musto

Styling Andreas Mercante (Niccolò Ferrero), Other Agency (Nina Pons)

Ph. assistants Valentina Ciampaglia

Hair & make-up Eleonora Mantovani @simonebelliagency (Niccolò Ferrrero), Alessandro Joubert @simonebelliagency (Nina Pons)

Il filo (in)visibile di Francesco Gheghi

Nato a Roma il 19 agosto 2002, Francesco Gheghi è una giovane promessa del cinema italiano che, in pochi anni, ha già lavorato con alcuni dei più famosi attori italiani, sempre in ruoli da protagonista.

Ha terminato le riprese del film di prossima uscita Piove e su Netflix è uscito Il filo invisibile dove interpreta Leone, figlio adolescente di due papà. A maggio sarà trasmessa sulla Rai la fiction A muso duro, la storia della prima paralimpiade disputata a Roma nel 1960, dove Francesco ha dovuto recitare nel ruolo di un atleta paraplegico. Ama lo sport: pratica nuoto, calcio, sci, ciclismo e arrampicata.

Mentre converso con lui, mi tornano in mente le parole di una vecchia canzone di Jovanotti, “sono un ragazzo fortunato perché mi hanno regalato un sogno…”. È Francesco Gheghi, giovane professionista con tanta voglia di crescere, imparare dai colleghi più grandi e più bravi, un ragazzo che ringrazia per il suo sogno che si sta avverando: «stare in tutte le scene».

Francesco Gheghi film
Jacket Antonio Marras, shirt Comeforbreakfast, rings stylist’s archive

«Ho iniziato a fare teatro alle elementari – racconta durante l’intervista – Il mio primo ruolo è stato San Francesco: non per meritocrazia, ma perché mi chiamavo Francesco. Lì ho scoperto che mi piaceva recitare. Mi sono diplomato lo scorso anno. È stata una soddisfazione. Avevo saltato tantissimi giorni di scuola perché ero sul set di due film, Il filo invisibile e Piove. Era una cosa alla quale mia madre teneva tanto. Per fortuna, grazie al Covid, l’esame si è svolto senza la prova scritta. Ho avuto un percorso scolastico travagliato. Ho iniziato con il liceo linguistico, ma non mi piaceva. Poi ho fatto il liceo scientifico sportivo, perché lo sport è un’altra passione. Non mi piaceva neanche quello. Mi sono iscritto al liceo delle scienze umane e le materie mi interessavano. Andavo anche bene».

Pensi di iscriverti all’Accademia di arte drammatica o di continuare con corsi singoli?

Mi piacerebbe, ma le accademie non ti permettono di lavorare. Me lo hanno sconsigliato. Continuerò la mia formazione con corsi di recitazione. E poi non voglio levare il posto a qualcuno che magari se lo merita e non ho avuto le opportunità che ho avuto io.

Il ruolo che ti ha impegnato di più?

Ogni ruolo che ho interpretato in questi anni pensavo fosse il ruolo più difficile, perché era un progetto nuovo. All’inizio pensavo fosse Mio fratello rincorre i dinosauri, perché è stato il mio primo film da protagonista. Avevo sedici anni. Poi, quando ho lavorato con Favino in PadreNostro. O con Francesco Scianna e Filippo Timi ne Il filo invisibile. Adesso ti dico Piove perché è un horror, un genere difficile che non si fa spesso. Un film impegnativo anche a livello fisico e mentale. Sono stati tutti ruoli difficili anche se per motivi diversi, ma grazie ai quali ho imparato tanto.

Quello più lontano da te?

A muso duro. Uscirà a maggio su Rai1 ed è la storia dei primi atleti paralimpici. Interpreto un ragazzo paraplegico che perde le gambe al lavoro. È stata una sfida perché, non essendo paraplegico, sono dovuto entrare in un mondo che mi era sconosciuto.

L’attore che ti preoccupava di più?

Forse Favino… temevo di deludere le aspettative. Ma con me sono stati tutti pazienti e generosi.

Francesco Gheghi Padre Nostro
Jacket Edmund Ooi, pants Ramzen, ankle boots and rings stylist’s archive

Inizi a studiare recitazione nel 2013 e dopo cinque anni, nel 2018, esce Io sono tempesta. Sempre protagonista, senza essere figlio d’arte. Hai un genio della lampada?

No, c’ho un culo clamoroso. Elio Germano, Marco Giallini, Marcello Fonte, Isabella Ragonese, Eleonora Danco, Francesco Scianna, Pierfrancesco Favino, Barbara Ronchi… Non capita a tutti.
Questo è un lavoro di fortuna. È inutile che ci raccontiamo altro. Devi essere bravo, ma anche fortunato. Devi trovarti al posto giusto al momento giusto e, quando l’occasione si presenta, devi anche essere il più forte. Allora trasformi quel momento in un’opportunità. Io ho giocato dieci anni a pallone. A quindici anni erano tutti alti 1 m 80 e io la metà. Salivano tutti di categoria, andavano nelle squadre forti, e io non avevo quelle possibilità perché ero più piccolo fisicamente. Nella recitazione questo problema non mi ha ostacolato. Lo stesso fisico, che era piccolo nel calcio, a scuola, nelle amicizie, con le ragazze, che era sempre non funzionale, nella recitazione è stato perfetto perché magari interpretavo un personaggio di tre anni più piccolo di me.

Con le ragazze hai recuperato… Ora hai la fila?

Sì ho la fila, ma c’è la numero uno che è la mia ragazza e quindi la fila si è smaterializzata, non c’è più.

Francesco Gheghi età
Jumpsuit Comeforbreakfast, rings stylist’s archive

Sempre alle prese con ruoli impegnativi. Cosa hai imparato?

Sono cresciuto prima del tempo. Entrare nel mondo del lavoro a quattordici anni, mi ha costretto a relazionarmi con un mondo di adulti. Il senso del lavoro, la dedizione e la professionalità sono tutte cose che ho appreso sul set e che mi hanno agevolato anche in altri ambiti della vita. Ma non ci sono solo le responsabilità, c’è anche il divertimento. Come mi diverto sul set non mi diverto da nessun’altra parte. È quello che amo fare. Amo la mia vita, la mia famiglia, gli amici, ma il set è tutto un altro mondo.

Così giovane, hai scartato in fretta le strade che non erano adatte a te e hai trovato subito quella in cui ti senti a tuo agio?

Sì, a quattordici anni, quando girai Io sono tempesta. Mi convocarono sul set la mattina presto. Elio Germano era già lì. Lo fissavo. Stavo con mamma, in disparte, e lo guardavo lavorare. Aspettavo, volevo entrare in campo. “Ora tocca me”. Niente. Arriva la pausa pranzo. Ricominciamo e ancora non toccava a me. Aspettavo e guardavo Elio. Era sempre sul set. Allora mi volto verso mia madre e faccio “ma’ io voglio fare come fa Elio. Voglio stare in tutte le scene”. Li ho davvero capito che era quello che volevo fare. Mi scalpitano le gambe quando sto là. Sul set mi sento a casa.

Non ho visto TikTok, ma…

Non lo guardare, è meglio… (ride, ndr)

Francesco Gheghi Mio fratello rincorre i dinosauri
Jacket Roberto Cavalli, rings stylist’s archive

Su Instagram posti poche foto e per lavoro. Non sei molto social?

No zero. TikTok è il mio lato più oscuro. Instagram lo uso per condividere le mie esperienze lavorative, foto di scena. TikTok era nato come un gioco durante la quarantena, con gli amici. Faccio un video e, se è divertente, lo posto.

La tua vita è stata stravolta dal lavoro di attore o riesci ancora a frequentare gli amici di sempre?

Riesco a fare tutte e due le cose, anche perché mia madre ha fatto in modo che il cinema non occupasse tutta la mia vita. Voleva che mi diplomassi. La definisco una tedesca. Giustamente voleva che andassi bene a scuola e lo faceva per il mio bene. Quando sei piccolo non lo capisci. Te ne rendi conto quando cresci.

La tua serata tipo?

Amici, fidanzata, cena, cinema. Feste se ci sono. Preferisco le feste in casa tra amici, mi piace giocare a carte o fare giochi di società. Non sono particolarmente festaiolo.

Francesco Gheghi fiction
Jacket Edmund Ooi, rings stylist’s archive

Per Netflix è appena uscito Il filo invisibile, dove sei figlio di due padri. Qual è la famiglia tipo tra i tuoi amici? È qualcosa che per la vostra generazione fa la differenza?

No. Per la mia generazione no, ma magari non è così per tutti. Comunque le cose stanno cambiando, nessuno si fa più problemi se uno ha due papà, due mamme o tre zii.
Basta che stai bene e sei amato: quella è la cosa più importante.

Si discute di diritti LGBTQ, identità di genere, gender fluid. Appartieni alla Gen Z. Vivete queste battaglie come un diritto da conquistare o la fluidità di genere per voi è un dato di fatto?

Noi partecipiamo a queste lotte proprio perché ci sia un cambiamento in quelle persone che non lo ritengono normale e che sono cresciute con altri tipi di valori.

In Parlamento si discute lo Ius scholae. Appartieni a una generazione cresciuta in una scuola multirazziale. Trovi normale che tuoi coetanei, cresciuti nel tuo quartiere, non siano cittadini italiani?

Io trovo anormale che ancora non lo siano. Trovo assurdo che ci siano persone che si fanno questi problemi. Se dici che siamo tutti fratelli e sorelle, perché poi ti fai un problema se diventano cittadini italiani? Trovo anormale che ancora se ne debba discutere.

I tuoi come vivono il tuo lavoro?

Sono sempre stati miei sostenitori. Se non fosse per mia madre e per mio padre non sarei quello che sono e non farei questo lavoro. Sono le persone più felici e più fiere di me. È grazie ai loro insegnamenti se cerco di fare sempre di più e sempre meglio.

Francesco Gheghi Favino
Blouse Comeforbreakfast, arnes and rings stylist’s archive

Credits

Talent Francesco Gheghi

Editor in Chief Federico Poletti

Text Alessia de Antoniis

Stylist Alfredo Fabrizio

Photographer assistant Valentina Ciampaglia

Stylist assistant Federica Mele

Grooming Eleonora Mantovani @simonebelliagency

Location NH Collection Roma Palazzo Cinquecento

Musica, arte e cultura: il talento incredibile di Ema Stokholma

Alta, esile, jeans e camicia, un paio di Converse nere. Arriva come una studentessa che torna a casa dall’università. Penso che il suo nome, Morwenn, le doni: ha il sapore delle antiche leggende celtiche e delle storie elfiche. Per tutti è Ema Stokholma, artista italo-francese ormai romana.
Si prende il suo spazio: una sigaretta nel giardino privato dell’agenzia che la segue, tra i vecchi edifici di Trastevere, in una giornata di aprile dove una timida primavera ancora non riesce a mandar via un inverno che sembra non voler finire.

Ha pubblicato lo scorso anno il suo primo libro Per il mio bene, edito da HarperCollins, dove ha raccontato la sua infanzia difficile e che le è valso il Premio Bancarella 2021. Lo ha scritto per aiutare altri giovani in difficoltà, per accendere una luce in quel tunnel che lei ha già attraversato. Vittoriosa.

Ema Stokholma libro
Dress Antonio Marras, jewelry Marco De Luca Gioielli, rhinestone net stylist’s archive

Quando illuminiamo la strada per un’altra persona, illuminiamo anche la nostra. Cosa hai visto di te scrivendolo?

Che devo lavorare sugli episodi raccontati nella parte finale del libro, come la morte di mia madre. Cerco sempre di tenere le emozioni lontane da me, soprattutto quelle troppo forti. Mentre scrivevo, ho cercato di mettere distanza tra me e alcuni episodi dolorosi. Non volevo un racconto drammatico: già la storia lo è. Ma ho visto i sentimenti non ancora elaborati.

Ema Stokholma musica
Dress Antonio Marras, jewelry Marco De Luca Gioielli, rhinestone net stylist’s archive

Per il mio bene. Siamo abituati a dire: “lo faccio per il tuo bene”. I soggetti maltrattanti dicono frasi come “non sono io che ti picchio, sei tu che me le levi dalle mani”. Addossano la colpa alla vittima mentre si dipingono caritatevoli…

Mia madre mi picchiava e diceva “lo faccio perché me lo stai chiedendo tu, hai bisogno di questo, io lo so perché sono tua madre e lo faccio per il tuo bene”. Ma quella cosa non ti fa bene. C’è un distacco tra il bene che vorresti avere e quello che ricevi. E quando sei bambino, non capisci più cosa è per il tuo bene. Da adolescente, poi, quando affronti un rapporto sentimentale, pensi che nel tuo bene ci debba essere anche la violenza, perché l’amore te lo hanno insegnato così. Se mi picchi per il mio bene, vuol dire che poi io devo andare a cercare questo tipo di rapporto. È difficile capire che quello non era per il tuo bene.
Sono scappata senza pensarci, per istinto di sopravvivenza. Se ci pensi non lo fai, perché subentra la razionalità, il senso di colpa, la paura di non farcela. E poi ti dicono sempre che nella vita devi affrontare le situazioni, che non devi scappare davanti alle difficoltà. Non è sempre vero: a volte, per affrontare le situazioni, devi vederle da lontano. Ho provato a scappare tante volte, dall’età di cinque anni, ma mi riportavano sempre lì, senza neanche chiedermi “perché sei scappata?”. Ci sono riuscita a quindici anni, quando ero in grado di nascondermi, di confondermi, e nessuno mi ha riportato a casa. A trent’anni sono entrata in analisi: era ora di mettere le mani nel mio passato.

Ora non ti troveresti coinvolta in una relazione tossica?

Sono io la persona tossica. Non cerco relazioni tossiche, non cerco un uomo, una donna, una persona, un’amicizia, che riproduca quello che ho già vissuto e che rifuggo. Sono io che devo gestire la mia violenza, i miei sentimenti, le mie mancanze, i miei vuoti. Per questo sono andata in analisi, perché ho capito che il problema non era che cercavo le persone sbagliate. Ho sempre avuto delle persone fantastiche al mio fianco, ma sono io la persona problematica della coppia. Lo ammetto.

C’è una grande amicizia nella tua vita, Andrea Delogu. Come vi siete incontrate?

Era il 2009. Io facevo la cubista e lei la vocalist. Un giorno ho detto: non voglio più fare la cubista. Guadagnavo bene, ma non vedevo un futuro. Ho cominciato a fare la dj, dal nulla, ma era quello che volevo. Così ho conosciuto Andrea. Insieme, abbiamo cominciato a lavorare nelle discoteche più sperdute delle province italiane. Non è stato un colpo di fulmine. Prima un incontro, poi lentamente ci siamo aperte e abbiamo capito di avere bisogno l’una dell’altra.
Io sono cresciuta nella violenza e nella solitudine, solo con mia madre e mio fratello. Lei in un ambiente violento, ma con tantissime persone, in una comunità dove erano tutti zii, fratelli, dove i bambini erano di tutti. Questo ci rende completamente diverse. Però è l’unica persona che davvero mi capisce e io capisco lei. C’è una forte empatia tra noi e ci siamo compensate.

Ema Stokholma Andrea Delogu
Lace dress Antonio Marras, jewelry Pomellato, shoes Giuseppe Zanotti

Cosa cerchi in un rapporto di coppia?

Una persona tranquilla. Ho una personalità conflittuale. C’è una parte di me che va sempre verso la luce e un’altra che deve ancora superare vecchi meccanismi. Dico sempre: “vado in analisi e non voglio far fare a te questo lavoro. Ma, se mi ami, devi prendere il pacchetto completo. Sappi però che io faccio di tutto per migliorarmi”. Lo faccio per stare bene con me stessa. Non è l’altra persona che mi deve salvare e non do la colpa dei miei problemi agli altri.

Sei riuscita a evitare disturbi alimentari e dipendenze?

Non posso dire di non esserci cascata. L’alimentazione era un problema già quando vivevo con mia madre. A scuola mangiavo dai piatti di tutti perché avevo fame, ma a casa non ci riuscivo. L’inappetenza è rimasta, ma mi impongo di mangiare cose sane per il mio bene.

Il tuo Instagram è un’esposizione permanente dei tuoi quadri. Come ti sei avvicinata alla pittura?

Sono fiera del mio Instagram. Fin da bambina mia madre mi ci trascinava per musei e di questo le sono grata. Mi è rimasta la passione.

Riproduci fedelmente le foto, tranne i tatuaggi…

Non mi piacciono più neanche su di me. Alcuni li sto cancellando e vorrei toglierli tutti. Il problema dei tatuaggi è che quel disegno dopo dieci anni o venti non ti rappresenta più.

Ema Stokholma madre
Feather detail dress Antonio Grimaldi

Il legame con tuo padre?

Avevamo rapporti sporadici. Passavano mesi o anni tra una visita e l’altra. Diceva “torno tra tre mesi” e poi non tornava mai. C’era già una distanza fisica, ma sono stata costretta a mettere una distanza affettiva, anche se con difficoltà. Non puoi vivere sempre in attesa. L’assenza la gestisci, ma quando una persona torna, va via e ti promette di tornare e poi sparisce di nuovo, è una tortura.
Credo sia sommerso dai sensi di colpa, ma non cambia. Il senso di colpa è come una palude: ogni giorno ci affondi sempre più. Invece dovresti dire “da adesso in poi cambio”. Per questo è difficile recuperare il rapporto.

Non sei schiava del perdono…

Non lo concepisco. Se sbaglio lo ammetto. Non ha senso chiedere perdono: io non sono inferiore per aver sbagliato e tu non sei superiore perché mi perdoni. Mia madre non mi ha mai chiesto scusa. Non posso perdonare una madre che fa del male ai suoi figli, ma posso comprenderla, capire le sue mancanze, la solitudine, la follia.
Quando si soffre troppo si rischia di impazzire. Se non sei circondata da persone che ti vogliono bene, che ti aiutano, che sono positive, è difficile. Mia madre era sola. Non voglio perdonarla, ma posso comprenderla. Se continui ad odiare per quello che ti hanno fatto, non vai avanti.
Ricordo benissimo il giorno che mi sono liberata dal rancore e ho provato empatia per mia madre: mi sono sentita in pace con il mondo.

Ema Stokholma modella
Dress and shoes Antonio Marras

“Non si è mai al sicuro in nessun posto”. Il libro inizia così. Ora che hai una casa tua, c’è un posto dove ti senti al sicuro?

Ora sì! Fin da piccola non mi sentivo sicura da nessuna parte. Quando andavo dagli assistenti sociali, non raccontavo cosa succedeva: facevo scena muta perché non ero sicura, non mi fidavo. Sapevo che mi avrebbero riportata a casa e, se avessero detto a mia madre che avevo parlato, per me sarebbe stata la fine. Nessuno mi ha mai detto “siamo qui per aiutarti, dimmi cosa succede”. Nessuno mi ha fatto sentire al sicuro, per raccontare, per aiutare me, mia madre e mio fratello. Già quando ho preso quel treno per l’Italia mi sentivo meglio. Ora mi sento al sicuro dove sto perché mi sento al sicuro con le persone che ho accanto.

Com’è la tua famiglia?

È figa. L’ho scelta io. Mio fratello è un’estensione di me e poi c’è Andrea (Delogu), ci sono altri amici, le persone che mi aiutano a fare il mio lavoro, che condividono con me le cose belle. Sono contenta.
Sono stata brava a scegliermi le persone che fanno parte della mia vita, sono loro la mia famiglia.

Ema Stokholma canzone
Dress Di Liborio, ring Marco De Luca Gioielli, sandals Giuseppe Zanotti

Giorni fa eri sul palco a Bologna per il concerto di Save the children per l’Ucraina. La musica non ferma la guerra, ma avete lanciato un messaggio, anche a chi questa guerra la sta negando.

È stato potente vedere tutte quelle persone cantare insieme e abbracciarsi.
La gente nega tutto. Ce ne siamo accorti in questi anni. Sai perché ho scritto il libro? Perché un giorno, su Facebook, ho letto un post su un bambino morto in casa sul divano, con il collo spezzato dal compagno della madre. Se è successo, è perché i vicini hanno sentito urla per mesi e non hanno fatto nulla. Neanche le maestre a scuola. Le persone negano perché non vogliono capire cosa succede.
Quando sono arrivata in Italia, mi chiedevano “perché non parli più con tua madre?”. Io dicevo “perché mia madre mi picchiava”. E mi rispondevano “però la mamma è sempre la mamma”. Sì, ma se la mamma è Hitler, perché devo chiamarla e dirle ti voglio bene? Le persone non vogliono vedere le tragedie che accadono dall’altra parte del mondo, come nella casa accanto. Ma se non vedi, non puoi agire e non aiuti nessuno. E allora qui che ci stai a fare?

Ema Stokholma dj set
Suit Gianluca Saitto, jewelry Marco De Luca Gioielli, sandals Giuseppe Zanotti
Ema Stokholma artist
Jacket and earrings Krizia

Credits

Talent Ema Stokholma

Editor in Chief Federico Poletti

Text Alessia de Antoniis

Photographer Davide Musto

Stylist Alfredo Fabrizio

Photographer assistant Michele Vitale

Stylist assistant Federica Mele

Hair Alessandro Rocchi @simonebelliagency

Make-up Giulia Luciani @simonebelliagency

Location TH Roma – Carpegna Palace Hotel

Nell’immagine in apertura, Ema Stokholma indossa un abito Antonio Marras

Iaia Forte, chiacchierata con la protagonista dell’adattamento teatrale di ‘Mine vaganti’

Iaia Forte e Francesco Pannofino saranno a Milano al teatro Manzoni dall’8 al 20 marzo con Mine vaganti. Ferzan Özpetek firma infatti la sua prima regia teatrale, mettendo in scena l’adattamento di uno dei suoi pluripremiati capolavori cinematografici e registrando un soldout dopo l’altro.


Ph. Davide Musto

Nel ruolo della madre, che fu di Lunetta Savino, Iaia Forte. Attrice di teatro con registi come Toni Servillo e Emma Dante, diretta al cinema da maestri come Pappi Corsicato, Luigi Magni, Paolo Sorrentino, Francesca Comencini, vincitrice di due Nastri d’Argento, Iaia Forte era anche in Qui rido io di Mario Martone in concorso a Venezia 78.
In teatro siamo più abituati a vederla in ruoli drammatici e Mine vaganti è una sfida che l’ha elettrizzata.

Chi viene in teatro a vedere Mine vaganti attratto dalla popolarità del film, del regista e di voi attori, cosa trova?

Uno spettacolo che non è solo una bellissima commedia, ma un lavoro che fa riflettere su come uscire dai disagi provocati dalle diverse scelte di vita. Soprattutto dalle scelte diverse dei figli rispetto alle aspettative dei genitori. Io, nel ruolo della madre, e Pannofino, che interpreta il padre, rimaniamo spiazzati davanti alla notizia di un figlio omosessuale e dell’altro che vuole fare lo scrittore, omosessuale anche lui.
Il pubblico, attraverso l’analisi delle nostre prospettive, compie un percorso. Il risultato è uno spettacolo dove il pubblico ride e si diverte. Ovviamente è una riscrittura, ma alcune scene iconiche Ferzan le ha conservate, come lo spettacolo delle drag queen.
Mine vaganti è andato soldout ovunque, con applausi a scena aperta e un successo incredibile.


Ph. Davide Musto

Ferzan Özpetek firma sia la sceneggiatura che la regia. Lei ha fatto molto teatro, si è cimentata anche con la regia teatrale. Com’è stato essere diretta da un un uomo di cinema alla sua prima esperienza teatrale?

È stata una bellissima esperienza. Ferzan è uno che conosce i meccanismi della comicità e della direzione degli attori. Non ha avuto disagi con i meccanismi teatrali. In teatro il vero lavoro si fa con gli attori e lui, essendo uno che ama gli attori, si è appassionato soprattutto a questa dimensione.
È stata un’esperienza fresca e divertente. Ho recitato in molti ruoli drammatici, come Medea. La commedia è un genere che ho affrontato raramente, ma fare questo spettacolo per me è stata una festa.

Ogni ruolo è una porta nella psiche dell’attore. Questa volta cosa ha scoperto di Iaia?

La grande gioia che c’è nel recitare in una commedia, soprattutto quando è scritta così bene. In un momento come questo, in cui si torna a fare teatro dopo la pandemia, poter celebrare questo ritorno alla vita con un pubblico così numeroso, con gioia e risate, è un gran piacere.


Ph. Davide Musto

Nel suo passato ci sono trasmissioni come La TV delle ragazze, Avanzi. Rai 3 era di cultura e di rottura. Oggi abbiamo anche paura di parlare. È cambiata la satira, la televisione, il pubblico?

Purtroppo c’è una deriva. Allora la Rai manteneva ancora una grande vocazione di televisione pubblica. Si faceva satira, ma con grande intelligenza. Non dimentichiamoci che al tempo della TV delle ragazze si è permesso di fare satira in televisione con una squadra di sole donne. Una satira di costume, intelligente.
L’equivoco assurdo nel quale una televisione pubblica non dovrebbe cadere, è quello di sottovalutare il pubblico pensando di solleticarlo con un gusto più superficiale. Allora, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, c’era ancora la voglia di contenuti. Contenuti non significa escludere la possibilità di far ridere il pubblico incontrando il suo gusto. Significa farlo in modo intelligente. Questa è satira.

Se allora avessimo avuto tutti gli strumenti di oggi? La tecnologia ha preso il posto della creatività, ma la prima senza la seconda resta una scatola vuota…

Già negli anni Settanta, Elsa Morante parlava del falso concetto di civiltà. Diceva: pensiamo che civiltà sia progresso tecnologico, invece ci stiamo involvendo, perché stiamo perdendo la relazione con la nostra coscienza, con la nostra immaginazione. È quello che penso anch’io. Penso che l’immaginazione sia lo strumento determinante per la felicità dell’uomo, quello che ci consente di superare le difficoltà, di allargare i nostri orizzonti. Questo iper uso della virtualità, pur con i suoi vantaggi, riduce la nostra capacità di immaginare, la nostra capacità di contemplare. Stiamo perdendo anche l’intimità con noi stessi, perché siamo sempre connessi, sempre accompagnati da qualcos’altro.


Ph. Davide Musto

Da Napoli è arrivata a Roma al Centro Sperimentale di Cinecittà. Era la Roma degli anni Ottanta. Cosa e chi ricorda di quegli inizi?

In quegli anni ricordo che Roma era stupenda. Io sono arrivata nel 1989. C’era un’energia che, secondo me, ancora attingeva agli anni Settanta e Ottanta.
Ricordo la vitalità, le prospettive di un futuro migliore, la voglia di collettività, di non individualismo. Tutto questo si è perso. Ricordo gli anni del Centro Sperimentale che feci con Paolo Virzì, con Francesca Neri, Roberto De Francesco. Li ricordo come anni bellissimi di studio, di grande divertimento e di utopia.


All’Ansa Marco Balsamo, produttore di Mine vaganti, ha detto che si dovrebbe pensare a una tax credit anche per il teatro. Non un finanziamento a pioggia, ma per chi investe, crea posti di lavoro e fa più repliche. La tax credit ha salvato il cinema, ma non la sala. Ne beneficiano le grandi società come Sky, Netflix e Amazon che investono in produzioni, ma vincolano fortemente perché obbligano a produrre quello che serve alle loro piattaforme. In termini di occupazione ha un senso, in termini di qualità dell’offerta no. In teatro pensa che darebbe frutti migliori?

Credo che il problema della crisi delle sale cinematografiche dipenda dalla qualità dei film. Se devo andare a vedere Drive My Car, esco e vado al cinema perché so che è un film che ha bisogno della sala. Se devo vedere una commedia alla Netflix, è chiaro che il resto sul divano. È la crisi di un certo cinema d’autore che mette in crisi anche la sala. In pandemia anche io ho visto molte serie. Quello che noto, però, è che queste piattaforme, quando riconoscono una struttura che funziona, tendono a replicarla. Serie diverse con gli stessi codici narrativi.
In teatro vedo invece la voglia di tornare a godere di uno spettacolo dal vivo. Anche lo spettacolo del mio compagno, Tommaso Ragno, in scena con Popolizio a Milano, registra mille persone a sera. Quando faccio dei semplici reading, viene tantissima gente. L’impressione che ho è che, in questo momento, la crisi sia più forte al cinema che al teatro; che la gente abbia più voglia di incontrarsi e di sperimentare quella comunione che il teatro crea naturalmente. L’incontro fra esseri umani, in questo momento, è l’unica cosa che esorcizza l’isolamento a cui siamo stati costretti.
Per la salvezza delle sale, invocherei una maggiore attenzione al cinema che si possa chiamare tale, che non sia un prodotto paratelevisivo. Se devo vedere un prodotto paratelevisivo al cinema, me lo vedo in televisione.
Per il teatro, una tax credit potrebbe creare posti di lavoro, come nel cinema. Credo, però, che i sostegni dovrebbero andare anche a chi cerca di perseguire strade più difficili. Bisogna, secondo me, limitare una deriva populista. Se in teatro va bene uno spettacolo di un comico televisivo e poi una compagnia che cerca di fare qualcosa di non commerciale non è sostenuta, le espressioni più libere e originali finiranno con lo scomparire.

Sopravviverebbe solo il teatro commerciale, con buona pace dell’antica tradizione del teatro come forma sì di intrattenimento, ma anche di discussione?

Continuo a ritenere che l’ignoranza non aiuta la coscienza, non aiuta la morale, non aiuta il pensiero vasto. Quanto più diventiamo ignoranti, quanto più diventiamo individualisti, tanto meno aiutiamo il paese a progredire.


Ph. Davide Musto


Tutte le foto sono di Davide Musto

Maalot e Vilòn, due hotel per un soggiorno speciale a Roma

Roma non è mai stata così bella. Dopo due anni di frontiere chiuse, poter viaggiare ora significa godersi liberamente anche quelle mete turistiche solitamente molto affollate.
Meglio ancora alloggiando in palazzi principeschi o dimore artistiche esclusive, potendo godere anche dei vicoli della Roma popolare, quella di Rugantino e del marchese del Grillo. 

Trascorrere una serata a teatro, fare shopping nelle esclusive boutique del tridente e rifugiarsi in un boutique hotel o, ancora, avere il proprio salotto tra i vicoli di Roma, degustando la cucina di chef rinomati, avvolti da un’accoglienza speciale che ci farà sentire decisamente unici.




Hotel Maalot

Ai piedi del Colle Quirinale, uno dei sette colli su cui venne fondata Roma, a cento metri dalla barocca Fontana di Trevi, la struttura è un rifugio discreto tra i vicoli dell’antico Rione Trevi.

Accanto al teatro Quirino, nella zona di Roma che ospita il maggior numero di teatri, dal Sistina, al Sala Umberto, al Teatro de’ Servi, l’hotel Maalot è un po’ come un teatro: una scena teatrale nascosta dentro un palazzo ottocentesco. Certo, un palazzo che ha celato ben altra privacy: dal 1828 al 1837 ha ospitato Gaetano Donizetti, che qui ha abitato e composto alcune delle sue arie più famose.

Il Maalot è un hotel completamente ristrutturato dall’Architetto Roberto Antobenedetto, un luogo che fonde passato e contemporaneità.
Emblematica la galleria, citazione ironica di una quadreria settecentesca, dove solo all’apparenza campeggiano capolavori storici: avvicinandosi ci si accorge che tutti giocano con l’originale, lo citano facendone un “twist on classic”, diremmo se fosse un cocktail. E tra i ritratti “impertinenti” ecco Maria Antonietta che mangia il gelato, la dama il cui turbante è una gigantesca aragosta o i fiamminghi tatuati. Almost Classic appunto, il nome della serie di dipinti decisamente “spiritosa”, a tratti irriverente, firmata Stanley Gonczanski.

Tutto il piano terra dell’hotel è un grande salotto. Un posto dove fermarsi in veranda magari a lavorare o pranzare con un avocado toast o cenare nella lounge sui grandi sofà colorati, nascondersi nella Cocktail Room per condividere un tempo ritrovato oltre che ottimi rum.

È il Don Pasquale, il regno dello chef Domenico Boschi, il cui nome richiama l’opera buffa del famoso inquilino di via delle Muratte 75: Gaetano Donizetti.
Tra i tavoli dal sapore rétro in maioliche portoghesi con disegni di antichi pizzi e trine, e poltroncine di bambù verniciate di nero, si può bere un caffè, fermarsi a pranzo o sorseggiare un tè nel pomeriggio. Prendere un aperitivo, cenare lontani dalla vita frenetica delle strade limitrofe o godersi un dopo teatro. L’atmosfera è chic ma informale, hype ma abbordabile.

Uno stile eclettico da bistrot contemporaneo è l’impronta che lo chef ha voluto dare al Don Pasquale. Alcuni piatti sono evergreen della romanità, riproposti in chiave moderna.
Ci sono piatti della tradizione, c’è il comfort food di una cucina immediata, ma ci sono anche lievi digressioni di creatività, fiore all’occhiello di un bistrot dove arrivare a tutte le ore.
Un all day dining, dalla prima colazione al dopo teatro, anche solo per un piatto o una sequenza di sfizi. Una cocktail room con una collezione di distillati; una drink list dove il drink può essere anche personalizzato.

Ma il cuore del Don Pasquale è l’hotel nascosto al suo interno. Trenta camere e suite ognuna diversa dall’altra distribuite su quattro piani di un palazzetto ottocentesco accolgono gli ospiti in un’atmosfera “home sweet home”. Molte sono scaldate anche da caminetti.

Una rarità in un palazzetto dell’Ottocento che l’hotel non fa mancare ai suoi clienti? La sala fitness al piano sotterraneo. 




Hotel Vilòn

Proseguendo lungo via del Corso, una delle più caotiche della città, lasciandosi alla destra l’antico rione Trevi in direzione piazza del Popolo, all’incrocio con l’esclusiva via dei Condotti, si apre piazza Fontanella Borghese.

Qui, dove il fiume Tevere si insinua dolcemente nell’antico rione di Campo Marzio, c’è un palazzo che accoglie una delle quattro meraviglie di Roma: il Cembalo di Borghese. Non è da tutti poter entrare nel palazzo tardo rinascimentale voluto da Camillo Borghese, futuro papa Paolo V, che ospita, da un lato, l’ambasciata di Spagna e, dall’altro, l’esclusivo e blasonato Circolo della Caccia.

Ma, se si varca il piccolo portone in via dell’Arancio 69, la bellezza di Palazzo Borghese si rivela ai nostri occhi in tutta la sua magnificenza. Siamo nell’hotel Vilòn, Small Luxury Hotels of the World. Dove vivere a Roma da aristocratici romani, ma lontani da occhi indiscreti; coccolati come principi, ma sentendosi a casa; in un ambiente di lusso ma informale, dove l’ostentazione dei grandi hotel lascia il posto alla sobrietà e a una velata eleganza. In un luogo magico, fermo in una frazione di eternità

Un “secret restaurant” è il suo Adelaide: un ristorante senza insegne, senza affaccio su strada, celato agli occhi indiscreti della movida romana che scorre assordante e frenetica nelle vie circostanti.
Un hotel la cui filosofia è racchiusa nelle parole di Marcello Mastroianni ne La dolce vita: «A me invece Roma piace moltissimo: è una specie di giungla, tiepida, tranquilla, dove ci si può nascondere bene».

Sia che si decida di sorseggiare un cocktail nel giardino segreto, un patio dall’aria esotica e un po’ bohémien circondati da felci e filodendri, mentre il sole tramonta sui tetti di Roma lasciando il posto a torce e candele, sia che si preferisca l’accoglienza dei divanetti delle piccole sale che ci fanno sentire in un esclusivo club inglese del secolo scorso, il Vilòn è quel luogo speciale fatto per diventare “il nostro posto”.

Il ristorante Adelaide è il posto giusto dove organizzare una colazione di lavoro lontano da occhi indiscreti, prendersi una pausa durante una giornata di shopping, dove regalarsi una cena assolutamente speciale, deliziati dalla cucina gourmet, ma autentica e ricca di sapori, dello chef Gabriele Muro e dalle creazioni artigianali dello Chef pâtissier Andrea De Benedetto.
E dalle 17 in poi la struttura diventa il rifugio più cozy in città. Una sala da tè inaspettata, casual ma pur sempre impeccable! Oltre venti tipologie di tè Kusmi Tea abbinati a una mini selezione del talentuoso giovane pastry chef Andrea De Benedetto: Paris brest alla nocciola, muffin alla zucca speziati e agli agrumi, cookies del giorno con caramello e frutta secca, capresina fondente, mini cheesecake, pasticciotti mignon alla crema, tartelletta con frutta fresca. Oltre ai sandwich e alle quiche in formato mignon, ai piccoli french toast, creando un nuovo trend per l’ora dell’aperitivo alcol free. 

Ma l’esperienza più esclusiva è sicuramente quella di trascorrere un soggiorno in questo luogo. Non si potrà fare a meno di sentirsi nella Roma papalina, tra carrozze dorate e sete fruscianti. Immaginare il cardinale Camillo Borghese ordinare ai suoi architetti di ampliare l’originale palazzetto cinquecentesco opera del Vignola, e il cardinale Scipione mentre lo riempie di opere d’arte di rara bellezza e marmi provenienti dagli scavi della Roma imperiale. Oppure Paolina Bonaparte che si intrattiene nel Cambalo con i suoi amici più intimi o mentre posa nuda per Antonio Canova.

Solo diciotto Camere e Suite, decorate in stile retrò-chic, alcune con l’esclusiva vista sul giardino privato di Palazzo Borghese, che sorprende affacciandosi dalle grandi finestre o dalle terrazze private. All’interno, la luce speciale di Roma, che muta a seconda delle ore e delle stagioni, dona una sensazione di benessere, specialmente al tramonto, quando l’atmosfera magica regala un genuino senso di appartenenza e familiarità. Un modo diverso di percepire il lusso nella città eterna che mantiene intatta la sua bellezza e il suo fascino misterioso.