Torna dopo due anni il Kappa FuturFestival al Parco Dora di Torino

Il Kappa FuturFestival, il festival italiano dal respiro internazionale dedicato alla musica elettronica torna, dopo due anni, a far vibrare di energia il Parco Dora di Torino con i suoi oltre 70 artisti che si alterneranno sui suoi 4 stage.
L’evento sarà raccontato dalla personale visione di Oliviero Toscani, attraverso il suo progetto in continua evoluzione “Razza Umana”; vedrà esibirsi artisti del calibro di Carl Cox, Carl Craig, insieme alle nuove star della scena techno-house globale come Amelie Lens, Peggy Gou, The Blessed Madonna, Honey Dijon. Arricchisce ulteriormente la line up di Kappa® FuturFestival una selezione di nomi che rappresenta appieno il valore artistico del festival piemontese, da anni il più importante evento open air nel campo della musica elettronica.

festival musica Torino 2022

A completare il programma lo show esclusivo di Diplo, uno dei dj/produttori di maggior successo su scala globale, capace di combinare pop futurista e sound underground. 
E ancora i giovani talenti Michael Bibi, Pawsa, Anotr o Dennis Cruz, a dimostrazione della grande attenzione verso lo scouting sui nuovi protagonisti della club culture.

Kappa futur festival

Kappa festival 2022

Un in-store party con Dj Set ha aperto le danze il 29 giugno presso lo store Robe di Kappa® di via Lagrange, a Torino.

‘Sottacqua’, un assaggio di estate nel nuovo singolo di chiamamifaro e rovere

È uscito venerdì 3 giugno per Columbia Records/Nigiri il nuovo singolo di chiamamifaro e rovere, sottacqua, un vero e proprio condensato dell’agognata, imminente atmosfera estiva che contraddistingue la stagione estiva.

Dalla collaborazione tra la cantautrice Angelica Gori, capace in tandem col chitarrista Alessandro Belotti di far breccia nel pubblico brani da diversi milioni di stream, e la band che racconta i vent’anni negli anni ’20 del millennio come nessun altro, nasce infatti una canzone che distilla efficacemente il mood delle calde serate d’estate, tra feste e falò sulla spiaggia.

Angelica Gori rovere
Angelica Gori (chiamamifaro), Nelson Venceslai (rovere)

Non solo spensieratezza e summer vibes però, visto che il singolo tocca anche argomenti di grande impatto sociale quali l’inquinamento (serate in spiaggia che sono tra la plastica e le birre ghiacciate, petrolio e margarita sulle labbra salate) e guerra (“feste al mare con la fine del mondo sullo sfondo mentre si cantano canzoni sperando di salvarlo).

i rovere Nelson
Nelson Venceslai e Angelica Gori

Le parole di Angelica Gori, in questo senso, esprimono al meglio l’essenza del progetto, a cominciare dal titolo: «Sottacqua ci si nasconde dal mondo, dai problemi, e da laggiù anche le scuse hanno il sapore del sale e la forma delle bolle. A volte pensare a quel che sarà di noi ci fa sentire come se fossimo giù, sottacqua. Non c’è fiato che tenga, i movimenti sono morbidi e rallentati, la vista annebbiata. Ma per uscire da questa bolla bastano poche bracciate, ed è subito spiaggia, sole, ombrelloni, calore sulla pelle, sale sulle braccia. Fino a quando è sera, e tutto è vento e profumo di domani. Giorni di sguardi, libertà, complicità, di vista al cielo, con qualcuno che, quando siamo sottacqua, ci prenda la mano per non perdersi nel blu».

Nell’immagine in apertura, Angelica Gori (chiamamifaro) e Nelson Venceslai de i rovere

A Taranto la seconda edizione del MAP Festival, rassegna che unisce musica e architettura

Dal 7 al 18 giugno Taranto accoglierà, o meglio, si lascerà travolgere dal mix di musica, architettura e parallelismi tra le due discipline della seconda edizione di MAP Festival, progetto innovativo all’insegna della transmedialità culturale, pensato per avvicinare i visitatori al patrimonio musicale, artistico e paesaggistico nelle sue declinazioni più varie.

festival musica Puglia

Ideata dall’Istituzione Concertistica Orchestrale Magna Grecia in collaborazione col Comune e l’Ordine degli architetti, la kermesse intende rivoluzionare i concetti di comunità, città, scenografie urbane; non solo, dunque, un’analisi dei rapporti che intercorrono tra le due arti (musica e architettura), ma anche il loro apporto alle infinite espressioni della creatività attraverso i parallelismi, capaci di tessere fili tra voci ed espressioni differenti, tra realtà (teoricamente) agli antipodi.

festival musicale Taranto
Il programma di MAP Festival

“È un festival che va oltre ogni limite – spiega Piero Romano, direttore artistico dell’Orchestra della Magna Grecia – creando connessioni eccezionali tra arti diverse. Musica, architettura e parallelismi avranno una capitale, Taranto, grazie anche al supporto ricevuto da tante realtà cittadine, sensibili a iniziative culturali come il MAP. Vogliamo davvero che la cultura diventi un bene comune”.

Il programma di MAP Festival, tra musica, architettura ed eventi speciali

Più di dieci gli appuntamenti in calendario, centrati ovviamente su musica e architettura (di cui sono espressione le installazioni on site sparse in città), fino alla lectio magistralis dell’archistar Franco Purini, fra i principali esponenti del neorazionalismo italiano e della cosiddetta architettura disegnata.

Map festival Taranto
Andrés Gabetta, Mario Stefano Pietrodarchi

Ad aprire la kermesse, sulla scalinata della concattedrale tarantina (progettata da Gio Ponti), martedì 7, sarà il concerto Le 8 stagioni – Vivaldi & Piazzolla, in cui saranno protagonisti il violino del franco-argentino Andrés Gabetta e il bandoneon di Mario Stefano Pietrodarchi, accompagnati dall’Orchestra della Magna Grecia; un incontro tra barocco e nuevo tango reso possibile dai virtuosismi di uno dei massimi esponenti dell’archetto e del nostro talentuoso connazionale, sullo sfondo di scenografie digitali d’impronta architettonica, nonché della musica curata da Luigi Console, multimedia designer.

Gloria Campaner
Johannes Moser, Gloria Campaner

Mercoledì 8 sarà la volta di Electric Nature, esibizione all’aperto con il duo Gloria Campaner e Johannes Moser, rispettivamente una pianista di enorme talento, che le ha permesso di suonare nelle sale da concerto più prestigiose, come la Carnegie Hall newyorkese; e un violoncellista nominato due volte “strumentista dell’Anno” agli ECHO Klassik, che ha suonato con le migliori orchestre internazionali, compresa la Filarmonica di Berlino. La serata scorrerà tra musica e le Pietre Sonore di Pinuccio Sciola, artista di fama che ha dato vita alle sculture attraverso un’incessante ricerca. Secondo Gloria Campaner “sarà un’esperienza per tutti i gusti, quasi un viaggio musicale, sono felice e onorata di proporre questa esibizione a Taranto”.
La (splendida) cornice sarà quella del convento dei Battendieri, perfetto connubio tra natura e storia; al termine del concerto si potrà gustare un aperitivo, continuando a godere dell’atmosfera suggestiva del luogo, perseguendo quel senso di comunità ritrovata caro al festival.

convento Taranto
Un evento al convento dei Battendieri di Taranto

Sabato 11 ecco poi Drum Circle, evento ritmico ad accesso gratuito in cui cento non professionisti creeranno musica dal vivo insieme all’Orchestra della Magna Grecia. Scenografia della session (unico evento  trasmesso in streaming sui social) sarà l’isola di San Pietro, che ospiterà un concerto per la prima volta. Lunedì 13, al Museo Archeologico Nazionale, si svolgerà la lezione di Purini, che esporrà idee e soluzioni urbanistiche innovative confrontandosi con l’arte millenaria del MArTA

isola San Pietro Taranto spiaggia
L’isola di San Pietro, a Taranto

Il progetto dei Deproducers, il dj set di Ultra Naté, il concerto di John Rutter

Mercoledì 15, nel capannone di Five Motors – esempio da manuale di architettura industriale – sarà il turno dei Deproducers, progetto nato dall’estro di Vittorio Cosma (ex membro della Premiata Forneria Marconi e vincitore di numerosi dischi d’oro in collaborazione con – tra gli altri – Fabrizio De André e Pino Daniele), Gianni Maroccolo (in passato bassista dei Litfiba e dei CCCP – Fedeli alla linea), Roberto Angelini (chitarrista che vanta collaborazioni con Niccolò Fabi e Pino Marino) e Riccardo Sinigallia, cantautore e produttore di canzoni come La descrizione di un attimo dei Tiromancino o Non erano fiori di Coez. Il gruppo musicherà DNA: brani inediti, immagini suggestive e una scenografia ad hoc per rendere spettacolare la conferenza del filosofo, romanziere ed evoluzionista Telmo Pievani, che ripercorrerà la storia del genere umano, dall’Homo Sapiens alle conquiste più recenti della genetica. 

Deproducers project
Il team dietro al progetto DNA

Giovedì 16 è previsto un flash mob sulle note del dj set di Ultra Naté, regina dell’house anni ’90, autrice della hit dance Free. A conclusione del festival, sabato 18, il concerto Look at the world di John Rutter, compositore e direttore d’orchestra tra i più noti e apprezzati. L’evento, all’interno della concattedrale, vedrà la partecipazione di 130 coristi e 70 professori d’orchestra; saranno presenti ARCoPu, l’Associazione Regionale dei Cori Pugliesi, L.A Chorus e i maestri del coro Andrea Crastolla, Annarita Di Giovine Ardito e Agostino Ruscillo. Lo stesso Rutter si lascerà ispirare dalla cattedrale di San Cataldo per comporne il quadro sonoro, opera multisensoriale che diventerà un appuntamento fisso della manifestazione.

John Rutter concerti
John Rutter

Per tutta la durata della rassegna piazza Garibaldi verrà animata dall’installazione/mostra a cielo aperto di Francesco Di Dio alias Effe; con #leragazze l’artista, ricorrendo a un linguaggio pop, restituirà l’incisività delle donne che hanno fatto e fanno la differenza. La città, inoltre, sarà “colonizzata” da installazioni firmate, in esclusiva per il festival, dallo studio New Fundamentals Research Group di Giuseppe Fallacara e Ubaldo Occhinegro.

Nell’immagine in apertura, un concerto sulla scalinata della concattedrale di Taranto, progettata dal grande architetto Gio Ponti

Il segreto della musica per d.whale: una punta di inquietudine

Scrivo canzoni da una vita, da quando sono bambino. È sempre stato l’unico modo per capire me stesso e per esorcizzare il male.

Sono nato  come autore di canzoni e solo in un secondo momento sono diventato produttore. Produco da sempre i brani che scrivo, per questo il passaggio è stato molto naturale. Il mio approccio parte sempre dalla canzone, difficilmente lavoro su cose che non scrivo direttamente.

Va così: ci si trova in studio, si beve un caffè, ci si racconta e si inizia a scrivere. Ma solo se ritengo che una canzone sia forte passo al secondo step, che è l’arrangiamento.

Ho ancora una sorta di rispetto antico per la musica. Non mi prendo mai gioco di lei e non faccio mai una cosa solo perché si tratta di lavoro.

La musica mi ha letteralmente salvato la vita, e ogni volta che entro in studio è come se entrassi in un tempio.

Davide Simonetta d whale

Lì ho il mio team di lavoro, è lo stesso da una vita. C’è Paolo Antonacci, autore con me di molti successi in radio negli ultimi anni, e c’è Stefano Clessi, l’amico di sempre. Con lui abbiamo iniziato in una realtà indipendente, inventandoci ogni giorno. È stato lui a introdurmi al mestiere dell’autore, perché fino a dieci anni fa per me era impensabile che un’artista cantasse le canzoni di un altro. Ora invece mi trovo a lavorare con tanti artisti diversi tra loro, che spaziano tra differenti generi e mondi musicali.

Ciò che accomuna i miei lavori è sicuramente uno strato di malinconia ed emotività, che mi porto dentro da sempre. Non ho mai creduto alla musica impacchettata, quella “di plastica”, per intenderci.

Per toccarmi le corde più profonde un pezzo deve conservare una sorta di inquietudine.

Allo stesso modo, in ogni produzione inserisco quelli che sono i miei ascolti e la mia formazione. Dall’hip hop della golden age a Berlino, all’elettronica figlia degli anni ‘80. Sono davvero innamorato del pop e di tutto ciò che ti fa canticchiare il pezzo dopo il primo ascolto.

La scena musicale in Italia cambia di mese in mese e ora la trovo assai stimolante. Non ci sono più distinzioni nette. Le regole sono saltate completamente. E questo mi tiene sveglio e mi stimola moltissimo. Pensiamo a Mahmood e Blanco: due artisti che solo un anno fa sarebbero stati definiti “urban”, ora vincono Sanremo con un pezzo squisitamente pop, con una bella melodia nella migliore tradizione italiana. È il trionfo del pop. Cambiano un po’ le metriche, certo, ma l’urban si mischia al pop e non ci sono più regole.

Siamo il paese che esalta la melodia, e una bella melodia  vince sempre su tutto. Vince  sui tentativi di essere sempre e solo super cool a discapito della canzone, e vince anche sui tentativi inutili di rendere una produzione forzatamente sfarzosa, impoverendo la scrittura.

Alla fine vincono solo le canzoni. Un concetto così semplice che è capito solo da pochi.

Alle radici del talent factor: il successo globale di Luca Tommassini

«Ho sempre creduto nei sogni, e ho sempre creduto che per raggiungerli bisogna coltivarli costantemente, pensarci quasi in modo ossessivo»: è questo il mantra di sempre di Luca Tommassini. Ballerino e coreografo, attore, regista e direttore artistico, un artista a 360 gradi. Sopra le righe, dalla personalità travolgente, ha saputo conquistarsi uno spazio di primo piano attraverso creatività e grandissimo talento.

Il debutto avviene da giovanissimo nel 1987 in Festival di Pippo Baudo, poi il lavoro in moltissimi spettacoli, ballando con Lorella CuccariniHeather Parisi. Nel 1993 decide di trasferirsi in America, e la sua carriera ha una svolta clamorosa. Madonna lo sceglie come primo ballerino per il suo tour mondiale The Girlie Show, partecipa anche al video di Human Nature e al musical Evita. Da quel momento, tutte le star statunitensi lo cercano per i loro spettacoli. Balla con Diana Ross, PrinceWhitney Houston, Kylie Minogue e Janet Jackson. E riesce a realizzare un altro suo grande sogno: quello di ballare con colui che, sin da bambino, è stato il suo mito, il suo idolo, Michael Jackson, che nel 1997 lo chiama a ballare nel video di Blood on the Dance Floor.  Come coreografo ha collaborato inoltre con Geri Halliwell nel celebre video It’s Raining Men e in quello di Mi Chico Latino, curando poi la regia del videoclip di Ride it.

Nei primi anni Duemila rientra in Italia e lavora con Paola e Chiara, con Giorgia (della quale cura il restyling dell’immagine), torna a lavorare con l’amica Lorella Cuccarini e con Ambra Angiolini, Elisa, Marco Mengoni, Anna Tatangelo. Per dieci anni è coreografo dell’edizione italiana di X Factor, e nel 2018 è direttore artistico del serale di Amici.
La fine del 2020 segna l’inizio della collaborazione di Luca con Tim per la realizzazione del mega spot istituzionale, il più lungo della storia, in onda il 31 dicembre con l’inconfondibile voce di Mina, realizzando così uno dei sogni di sempre di Luca, collaborare con la più grande artista italiana di tutti i tempi.

A maggio 2021, cura la direzione artistica della performance della rappresentante di San Marino, Senhit, con il brano Adrenalina all’Eurovision Song Contest, di cui ha firmato anche la regia del video featuring Flo Rida, uno dei più grandi rapper americani. A giugno Luca firma la collezione We Are Dreamers in collaborazione con Dream Project Spa, con un progetto speciale a favore di Pangea ONLUS per supportare i sogni di mamme e bambini con la creazione di un laboratorio ludico pedagogico.

Manintown intervista Luca Tommassini

Nella tua lunga carriera hai lavorato con i pesi massimi dello star system internazionale (tra gli altri Michael Jackson, Prince, Madonna, Diana Ross) e nostrano, dalla Carrà a Claudio Baglioni, fra tutte c’è un’esperienza che ritieni particolarmente significativa, cui sei più legato perché ha rappresentato un punto di svolta?

Difficile dire quale esperienza sia stata la più significativa, ho avuto tanti punti di svolta: iniziare a lavorare in America, diventare il primo ballerino di Madonna, e ancora quando mi chiamò Michael Jackson. Se parliamo di danza, ognuno di questi eventi ha dato una spinta al mio successo e, nel tempo, il mio lavoro si è evoluto. Sono stato regista della pubblicità di Coca-Cola, ho lavorato in televisione dietro le quinte, come giudice in programmi televisivi italiani e stranieri. Tanti punti di svolta in diversi ambiti della mia carriera.

Si diceva delle numerose star con cui hai avuto occasione di collaborare, guardando invece al panorama odierno, chi pensi abbia le potenzialità per affermarsi ai massimi livelli, in Italia e non?

In ambito musicale certamente i Måneskin hanno aperto ancora di più la scena italiana al mercato internazionale, rendendola più interessante. Ancora, Mahmood, Madame, Blanco. Penso che in Italia si tende a essere critici verso i nuovi artisti, quelli che conquistano subito il successo ci rendono meno “stronzi” nel giudicarli.
In ambito cinema invece siamo sempre stati conosciuti e apprezzati e ora sempre di più, anche con le nuove generazioni di attori. Mi piace molto Luca Marinelli che sta avendo un grande successo mentre, tra i giovanissimi, Filippo Scotti nel film di Sorrentino.

Nel 2015 usciva per Mondadori il tuo libro – in parte autobiografico – Fattore T, in cui partivi dalla domanda su cosa sia il talento; la riproponiamo, cos’è secondo te il talento?

Il talento è un valore molto sfaccettato e ha diverse chiavi di lettura. C’è un talento naturale, innato, che riguarda l’arte (un dono di natura), però c’è anche un talento “imprenditoriale” che può compensare quello artistico. Essere famosi, quindi, non significa avere talento, oggi spesso è sufficiente vendersi bene per avere successo e costruire un personaggio su altre basi. I social, in particolare, contribuiscono a questo processo. Il talento è arte, diversamente sei solo una persona famosa.

Quali qualità deve possedere oggi un ballerino/a  e, in generale, un new talent della scena artistica musicale per emergere e affermarsi, professionalmente parlando?

Quando sono stato in America non c’erano ballerini italiani, oggi Los Angeles ne è piena. Questo significa che il livello tecnico si è globalizzato ed è diventato molto più alto, e anche che gli italiani hanno una marcia in più, pensiamo tra gli altri alle nostre eccellenze come Jacopo Tisci, che è stato primo ballerino del Bol’šoj di Mosca.
Se parliamo di un ballerino commerciale, invece, è importante che questo tipo di profilo conosca tantissimi stili e abbia alla base tanti anni di studio. Certo, non basta solo la tecnica, personalmente scelgo persone che si sentano libere mentre ballano, sappiano giocare, essere buffe senza paura di risultare ridicole. Bisogna essere un po’ attori a livello di struttura, non mi interessa il ballerino perfetto. Devi essere sveglio e calarti nella parte, altrimenti diventi poco interessante per il pubblico ma anche per te stesso.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

Al momento i progetti più recenti sono lo show di Enrico Papi in cui ho il ruolo di direttore artistico, poi ho in corso anche la serie Le fate ignoranti di cui ho curato le coreografie. Ho appena finito di girare con i Manetti Bros. Diabolik 2, inoltre sto lavorando a tanti video musicali e numerosi progetti, al momento top secret. Saranno mesi intensi!

Nell’immagine in apertura, Luca Tommassini tra Álvaro Soler e Fedez

Da DJ a modello, l’altro mondo di Andrea Damante

Modello, influencer (il suo profilo Instagram conta 2,4 milioni di follower), volto televisivo noto al pubblico per la partecipazione a programmi dal largo seguito, Andrea Damante si concentra da tempo sulla carriera di deejay e producer musicale.

Nel 2017 il suo primo singolo, Follow my Pamp, scala rapidamente le classifiche del periodo, da allora ha sfornato una serie di hit da milioni di streaming (Forever, Think About, Understatement Pt. 1 e l’ultima All My Love, uscita lo scorso dicembre). Per lui la consolle è un habitat naturale, come dimostrano i tour che l’hanno portato a suonare in club di culto, nazionali e non (dal Fabrique milanese al Cavo Paradiso di Mykonos, al Pacha di Ibiza) e a curare per Radio 105 la trasmissione Swipe Up, selezione di tracce dance in onda ogni sabato notte.

Andrea Damante Instagram
Tapered cargo pants Dockers, necklace stylist’s archive
Andrea Damante dj set
Nail textile jacket Gaëlle Paris, necklace stylist’s archive

Credits

Talent Andrea Damante

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Davide Musto

Stylist Alfredo Fabrizio

Ph. assistants Riccardo Albanese

Stylist assistant Federica Mele

Hair & make-up Eleonora Bianucci

Location Sheraton Milan San Siro

Nell’immagine in apertura, Andrea Damante indossa T-shirt Gaëlle Paris

Dai film alla musica, un nuovo debutto per Sergio Ruggeri

Sergio Ruggeri testate
Pants Versace Jeans Couture, knit MRZ, sneakers Antonio Marras, earring Nove25

Sergio Ruggeri, romano, segni particolari: bellissimo, artista a 360 gradi. Lo abbiamo potuto apprezzare come attore in diverse serie tv (come Baby) e al cinema, ma ora siamo qui per conoscere il nuovo lato di Sergio, il più introspettivo, quello del cantautore. La passione per la musica c’è sempre stata, ora però ce la sta regalando canzone dopo canzone. La prima è stata Testate, poi Farmacie ed in ultima battuta Patatrac; fanno tutte parte di un EP che completerà il quadro, che ci presenterà in estate.

La sua attenzione e cura di livello cinematografico, invece, la possiamo vedere soprattutto nei video che accompagnano i tre brani, nei quali ci racconta tutto ciò che prova e ha provato, andando a scavare nel profondo delle relazioni tossiche, narrandole e mettendole a fuoco a modo suo.

Sergio Ruggeri farmacie
Shirt and leather pants Desa 1972, boots Bruno Bordese, jewelry Nove25

Un giorno di qualche mese fa, aprendo il tuo Instagram, si era azzerato tutto, come mai?

Avevo voglia di mettere in primo piano, e di far capire alla gente, che stavo lavorando a un progetto nuovo, qualcosa cui tengo tantissimo, ovvero le mie canzoni. Ho voluto concentrare l’attenzione delle persone che mi seguivano sul fatto che mi sto dedicando anima e cuore alla scrittura e alla musica.
Bisogna sempre azzerare per ripartire, il che non vuol dire che nella vita reale faccio solo questo, continuo a studiare e fare provini, però non ti nascondo che sto impiegando tantissimo tempo ed energie per completare l’album. Era un po’ come dire “Sergio è anche questo, ve lo sbatto in faccia, fatemi sapere cosa ne pensate”.

Da dove parte il tuo progetto musicale?

La verità è che ho sempre avuto dei pezzi che curavo da solo in camera, senza sapere come, però scrivevo e mi facevo le mie cose da solo. Poi due anni fa ho avuto la fortuna di conoscere il mio socio, Matteo Gasparini, che adesso è anche il mio produttore, da lì ho iniziato ad andare in studio e lavorarci seriamente. Comunque scrivo da sempre, non è una novità per me, anzi, io quando sono fermo a un semaforo prendo lo smartphone e segno qualcosa sulle note. Solitamente di notte sviluppo quello che ho pensato, elaboro una canzone. Di solito non ci impiego tantissimo, se sento che ci sto mettendo troppo vuol dire che c’è qualcosa che non va e lascio perdere.

Sergio Ruggeri Baby
Total look Antonio Marras, earring Nove25

Come ti sei avvicinato alla scrittura?

Le prime volte che andavo dallo psicologo, non avevo questa capacità di raccontarmi, quindi – tra virgolette – perdevo tempo, e lui allora mi aveva consigliato di scrivere tutto ciò che mi faceva stare bene o male, come fosse un compito in classe, e quando andavo da lui potevo leggerglielo a voce alta.

Cosa vuoi raccontare di te con la musica?

Racconto davvero tanto, soprattutto per chi non mi conosce, nel senso che son cose che trapelano quando sono in giro nella mia vita quotidiana. Da febbraio sono usciti tre brani, ora ne usciranno altrettanti.
Mi concentro soprattutto su quello che provo all’interno di un rapporto tossico, cioè quel tipo di amore che, anche quando arrivi alla consapevolezza che non ti fa stare bene, fai di tutto per non vedere, continui a sbatterci la testa e soffrire; a quel punto, vuol dire che si sono davvero innescate dinamiche tossiche. Due persone che sanno di non farsi bene non dovrebbero starsi vicino.

Parlami dei video che sono usciti insieme ai brani, piuttosto grafici e forti.

Se abbassi il volume sono tre cortometraggi, abbiamo puntato tantissimo sull’unire le due mie passioni, quella cinematografica e la musica. Nel terzo video hanno lavorato per me due attori bravissimi, Francesco Gheghi e Giulia Maenza, li ringrazio molto.
Nel video di Patatrac racconto proprio questo, il suicidio d’amore, si tratta però di due persone che, prima di uccidersi, fanno l’amore, consapevoli di non essere divisi anche se alla fine dovrebbero.

Mi avevi detto che volevi raccontare del tuo essere introverso...

Raccontare cose che non vengono raccontate: mi fa davvero piacere, credo sia questa la mia chiave di trasposizione. Ad esempio nel secondo video, Farmacie, abbiamo narrato un momento molto, molto intimo ed introverso di Sergio, nonché dell’uomo in generale; penso che la cosa peggiore che possa succedere a chi soffre per una relazione finita sia proprio masturbarsi sulla sua ex. Ditemi tutto insomma, ma non che sono banale.

Quindi scrivere è terapeutico?

Per me vedere un foglio pieno è un segno di riuscita, riesco a dirmi che ce l’ho fatta.

Sergio Ruggeri musica
Total look Iceberg X Kailand O. Morris
Sergio Ruggeri artista musica
Vest Di Liborio, cargo pants Antonio Marras, earring Nove25, leather bracelet stylist’s archive

Credits

Talent Sergio Ruggeri

Editor in Chief Federico Poletti

Text Fabrizio Imas

Photographer Davide Musto

Stylist Alfredo Fabrizio

Photographer assistant Valentina Ciampaglia

Stylist assistant Federica Mele

Hair & make-up Laura Casato @simonebelliagency

Hair & make-up assistant Chiara Crescenzi @simonebelliagency

Location Novotel Roma Eur

Nell’immagine in apertura, Sergio Ruggeri indossa maglia MRZ, orecchino Nove25

Aka 7even, l’astro emergente dell’urban-pop italiano

Sette è un numero dai molteplici significati, particolarmente importante per il 21enne Luca Marzano alias Aka 7even, tra gli astri nascenti della scena urban-pop nostrana. Rimanda, infatti, a un episodio doloroso del suo passato, la settimana trascorsa all’ospedale in coma per un’encefalite, quando aveva sette anni, tramutato però in un elemento di forza e speranza: non a caso la sua autobiografia, uscita l’anno scorso, si intitola 7 vite. Un artista poliedrico insomma, che ha saputo convogliare la voglia di riscatto nella musica: ammesso nel 2020 alla fase finale di Amici, durante il talent show firma la prima hit, Mi manchi. Uscito dal programma, pubblica l’album che porta il suo nome d’arte e contiene il brano Loca, tormentone certificato triplo disco platino (vanta anche una versione in spagnolo).
Il 2021, d’altra parte, è un annus mirabilis per il cantautore: vince il premio “Best Italian Act” agli MTV Ema e viene selezionato per il Festival di Sanremo 2022, cui partecipa con Perfetta così.

Aka7even Mi manchi
Tank and trousers Yezael by Angelo Cruciani, jacket Christopher Raxxy, shoes Acupuncture

Tra le influenze che hanno inciso maggiormente sulla propria cifra musicale, Luca cita Bruno Mars, Justin Bieber, The Weeknd, ma in realtà la sua è una sigla personalissima, che concretizza in una musica definita «versatile, con forti influenze di sound americano a livello di topline e produzioni»), risultato dello «spaziare tra generi e stili diversi».

Tra pochi giorni, Aka 7even inaugurerà il tour estivo che lo porterà in varie città d’Italia e, dopo le tappe iniziali di Roma (3 giugno) Napoli (5-6) e Milano (9), proseguirà con quelle – tra le altre – di Gallipoli, Civitanova Marche, Santa Marinella, per concludersi il 23 agosto in Costa Smeralda, a Porto Cervo. Con l’occasione, presenterà dal vivo la nuova canzone Come la prima volta.

Loca Aka 7even
Total look Ferrari, shoes Lanvin

Cos’è per te il talento, come lo definiresti?

Penso sia un dono, una benedizione da mettere a frutto.

Com’è nata la passione per la musica? Quali sono le tue principali influenze, in questo senso?

La mia passione per la musica è nata da piccolo, all’età di 5 anni, quando ho iniziato a suonare la batteria, per passare poi a pianoforte, clarinetto e altri strumenti.
Le mie principali influenze sono Bruno Mars, Justin Bieber e The Weeknd.

Aka 7even tour 2022
Tank and trousers Yezael by Angelo Cruciani, necklace Radà

Il brano cui, per un motivo o per l’altro, sei più legato.

La distanza di un amore e Cambiare di Alex Baroni, sono i due brani con cui ho iniziato a cantare.

Come descriveresti la tua musica a chi non l’ha mai ascoltata?

Versatile, con forti influenze di sound americano a livello di topline e produzioni. Amo spaziare tra generi e stili diversi, senza fossilizzarmi sulle categorie.

Dove ti vedi tra qualche anno?

Mi vedo o meglio, aspiro a vedermi in giro per il mondo, a portare ovunque la mia musica. Il sogno è riempire gli stadi, duettando con artisti internazionali.

Aka7even Amici 2022
Total look Versace Jeans Couture, necklace Radà

Credits

Talent Aka 7even

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Filippo Thiella

Stylist Simone Folli

Photographer assistant Andrea Lenzi

Stylist assistant Nadia Mistri

Grooming Cecilia Olmedi

Nell’immagine in apertura, Aka 7even indossa giacca Moschino

Chiamamifaro, il nuovo progetto musicale di Angelica Gori

Voce calda e avvolgente, sorriso dolce, un timbro unico: Angelica Gori, 21 anni ancora da compiere, figlia di Cristina Parodi e Giorgio Gori, ha ampiamente dimostrato di avere tutte le carte in regola per diventare un’artista, scrollandosi così di dosso la fastidiosa etichetta del “figlio di”. Studentessa al CPM Music Institute di Milano, sui social (dov’è seguitissima, in particolare su Instagram) è conosciuta anche come Gispia, nomignolo affibbiatole in famiglia, cui è rimasta molto legata. Proprio celandosi dietro questo nickname, nel 2018 Angelica incide le prime tracce in inglese, per dare poi vita al duo chiamamifaro, col chitarrista ed ex compagno di liceo Alessandro Belotti. Il debutto avviene nel luglio 2020 con Pasta Rossa, che supera rapidamente il mezzo milione di stream, seguito da brani quali Domenica, Bistrot, Limiti, Londra, riuniti l’anno seguente nell’EP Macchie. I suoi due ultimi singoli sono Addio sul serio e Pioggia di CBD, uscito alla fine di febbraio.

Nel 2021 la cantautrice bergamasca nell’orbita di Sony (il suo produttore è il frontman della band Pinguini Tattici Nucleari, Riccardo Zanotti) è stata una dei new talent italiani supportati da Spotify Radar, oltre a girare il Paese con un tour promozionale che l’ha portata a condividere il palco con artisti come Sangiovanni, Ariete e i rovere, con la sua musica «da post-nostalgia – come la descrive lei – che parla sostanzialmente di addii (a persone, situazioni, abitudini) e di un tentativo un po’ disilluso di accettazione».

Angelica Gori cantante
Dress Beatrice .B, earring and bracelet Barbara Biffoli, choker and rings Invaerso, necklace Ami Mops

Cos’è per te il talento? Come lo definiresti?

Ho paura a dare una definizione di talento, perché più passa il tempo e più imparo a riconoscerlo nelle cose minime, e ogni volta si presenta in modo diverso.
Scrivendo canzoni, comunque, mi rendo conto che ci sono sostanzialmente due step: il momento dell’intuizione, dell’idea, e quello del lavoro da metterle intorno per fornirle una base. Un tempo avrei detto che il talento andava ricollegato al momento dell’intuizione, ora invece lo individuo nel lavoro con cui, razionalmente, si plasma il contesto e il supporto più consono a quell’idea. Sembra strano a dirsi, ma si può costruire negli anni e con la fatica, oltre che con quel guizzo di genialità che, se anche esiste, va coltivato e incanalato ogni giorno.

Com’è nata la passione per la musica? Quali sono le tue principali influenze, in questo senso?

La musica per me è sempre stata legata alla sfera familiare. Ho tanti ricordi di mia madre che davanti al camino suonava canzoni di Bob Dylan, o di mio padre che – con la stessa chitarra che oggi è mia, dalla quale non mi separo mai – strimpellava le canzoni di Fabrizio De André. Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia in cui alla fine di ogni cena si cantava tutti insieme, innamorandomi della magia che si creava in quei momenti, dell’atmosfera quasi tangibile in cui sembra che anche il tempo si fermi. Così a quattordici anni ho cominciato a suonare la chitarra di papà, da lì è venuto tutto il resto.

Angelica Gori album
Jacket Nolita, dress Gianluca Capannolo, necklaces Ami Mops, sandals Kallisté

Il brano a cui, per un motivo o l’altro, sei più legata.

Questa è una domanda difficilissima. C’è una categoria di brani cui sono particolarmente affezionata perché, anche dopo anni, riescono sempre a emozionarmi; uno di questi è ad esempio Mama, You Been on My Mind nella versione di Jeff Buckley. Tuttavia, anche se come risposta è scontatissima, i pezzi cui sono più legata in assoluto sono alcuni di quelli che ho scritto; in un modo o nell’altro, rappresentano il mio cercare di aprirmi timidamente al mondo, un qualcosa di delicato, speciale e goffo allo stesso tempo.
Ora che ci penso molte delle mie canzoni del cuore non sono state ancora pubblicate, lo saranno presto, se tutto va secondo i piani.

Pasta rossa canzone
Choker Absidem, necklace Barbara Biffoli, top and pants Silvian Heach, shirt Martino Midali, sandals Bruno Bordese

Come descriveresti la tua musica a chi non l’ha mai ascoltata?

È musica da post-nostalgia, canzoni che parlano sostanzialmente di addii (a persone, situazioni, abitudini) e di un tentativo un po’ disilluso di accettazione

Dove ti vedi tra qualche anno?

Vorrei vedermi in un ideale Roxy Bar con tutte le persone che ho intorno e, ciascuna in maniera diversa, mi stanno accompagnando in questo percorso. Mi piacerebbe ripensare col sorriso a quanto fossi ingenua in ciò che facevo, ma sarebbe ugualmente bello realizzare che, tutto sommato, fosse quella la strada giusta. L’unica, forse.

Credits

Talent Chiamamifaro

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Marco D’Amico

Fashion editor Valentina Serra

Make-up Giorgia Palvarini @simonebelliagency

Hair stylist Giacomo Marazzi

Location Giuliano Cairoli Garden (Socco di Fino Mornasco, CO)

Nell’immagine in apertura, Angelica Gori indossa dress Oblique Creations, choker Absidem, earring Barbara Biffoli

Moda e musica. Dietro l’immagine, una folla di emozioni

Nella moda e nell’industria che la produce, la diffonde e la comunica, si parla tanto di trasparenza, tracciabilità, consapevolezza a proposito della sostenibilità e dell’impatto con l’ambiente. E se invece fosse arrivato il momento di applicare questi requisiti non solo al dato materiale di un abbigliamento amico del pianeta, ma a quello intangibile – non per questo meno importante – relativo alla creatività, in nome di una ecologia delle idee o meglio, di una tutela delle utopie

Mahmood stile foto
Mahmood, uno dei tanti clienti eccellenti della celebrity stylist Susanna Ausoni

Mi spiego meglio: mai come negli scorsi due o tre anni, non a caso corrispondenti a quella grande rivoluzione socioculturale, oltre che sanitaria, rappresentata dalla pandemia, si è parlato di come il sistema del vestire, quando si tratta di trasferirlo nella rappresentazione del sé, non sia il frutto di un singolo designer colpito da improvvisa e imprevista ispirazione né tantomeno sia il frutto di una scelta solipsistica da parte di chi sceglie come farsi vedere da mondo. Si è finalmente dato rilievo alla figura professionale rappresentata da quel corpus globulare che è il team, composto da varie persone i cui cervelli e le cui anime collaborano collettivamente per giungere alla definizione di una determinata immagine o di come un capo possa essere interpretato, indossato, vissuto. Finalmente si è squarciato il velo sulla figura dello stylist  sia editoriale, sia dedicato all’immagine delle celebrity, sia alleato del fashion designer – come responsabile di un gruppo di persone che tirano a lucido, esaltano e celebrano un determinato linguaggio vestimentario di cui il direttore creativo di un marchio è sì il portabandiera e l’alfiere, ma circondato da una serie di figure professionali che lo aiutano e finora erano rimaste nell’ombra.

Michelle Hunziker abbigliamento
Michelle Hunziker, altra celebrity seguita per i look da Ausoni

La centralità dello stylist nell’industria della moda di ieri e di oggi

Sono rimaste talmente al buio, negli anni Ottanta, Novanta e anche nei primi Duemila, alle sfilate come alle grandi serate si mormorava a mezza bocca, tra noi addetti ai lavori, chi avesse dato quell’idea in più, quello scatto estetico nel regno dell’avanguardia unendo mondi diversi, prendendo spunto dall’arte o dalla strada (ancora non c’era il termine streetstyle). Ma i loro nomi, per una nebulosa quanto soffocante omertà collettiva, non potevano e non dovevano essere pronunciati. E questo valeva anche per i giornali, dove il termine stylist appare ufficialmente stampato solo nel 1985, a proposito del meticoloso lavoro di puzzle estetici-emotivi rappresentato dai modelli vestiti da un vero artista morto troppo presto per colpa dell’Aids, Ray Petri, per un’indimenticabile rivista come The Face.  

Noemi Sanremo 2022 abiti
Gli outfit di Noemi a Sanremo 2022 erano curati da Susanna Ausoni (ph. Daniele Venturelli/Getty Images)

La riprova di questa situazione anomala è arrivata quando ho deciso di studiare, per classificarlo in maniera sistematica, questo fenomeno per il libro L’arte dello styling per i tipi di Vallardi, che ho scritto insieme con Susanna Ausoni, la più nota e longeva celebrity stylist italiana. Bene: tranne qualche manuale americano e alcune biografie di grandi stylist-muse del passato, non c’erano fonti scientifiche o di indubbia rilevanza culturale. Il lavoro di ricerca si è rivelato assai più complicato e difficoltoso del previsto, perché non vi era una documentazione necessaria, che abbiamo raggiunto parlando sia con i diretti interessati, sia leggendo articoli, saggi di studenti, tesi di laurea. Abbiamo cercato di colmare questo vuoto che colpevolmente era rimasto tale nel tempo perché siamo (stati) prigionieri di una concezione ottocentesca che vedeva nel fashion designer un eroe o un’eroina solitaria che si alzava ogni mattina profetizzando il modo in cui ci si sarebbe abbigliati: un’idea a suo modo molto romantica, ma che non corrispondeva al vero.

Dai look delle celebrity alla ricerca della propria identità modaiola, il ruolo degli stylist

Elisa Sanremo 2022 abito bianco
Elisa a Sanremo con un look pensato per lei da Ausoni (ph. LaPresse)

Oggi, che per l’appunto invochiamo maggiore trasparenza nel processo di produzione della moda, dovremmo pretenderlo anche nella comunicazione di tutti coloro che partecipano all’attestazione di una tendenza in quanto simbolo e sintomo dello Zeitgeist e, contemporaneamente, oggetto transizionale («i vestiti sono macchine per comunicare», sosteneva la grande epistemologa Eleonora Fiorani) che possa sostenere la volontà di esternare la propria identità. O, più semplicemente, di calarci letteralmente nei panni del personaggio che vogliamo essere quel giorno in quella situazione.
Per esempio, Petra Flannery, che cura l’immagine di divi tra cui Emma Stone, Zoe Saldana, Renée Zellweger, sottolinea come desideri che i suoi clienti impongano la loro personalità. «Adoro quando qualcuno indossa qualcosa e dice: “Ecco fatto. Questo è quello che voglio indossare”. E lo traspirano sul red carpet», sostiene. Il duo di stylist Zadrian Smith e Sarah Edmiston afferma che se un cliente inizia a ballare quando indossa un look particolare, sa di avercela fatta. Smith ha spiegato: «Concludo sempre ogni prova dicendo: “Sei a tuo agio, sicuro di sé e felice? E se uno di questi è un ‘no’, allora non hai il look. Se tutto è un ‘sì’, allora ci siamo riusciti. La nostra priorità, e la cosa più importante per noi, è il comfort dei nostri clienti, sopra ogni cosa. Finché sono a loro agio, sicuri di sé e felici, allora hai fatto il tuo lavoro».

Mahmood Sanremo 2022 abiti
Mahmood al 72° Festival di Sanremo, styling di Susanna Ausoni (ph. Daniele Venturelli/Getty Images)

Quote di Susanna Ausoni

«Vestire una persona significa prima di tutto conoscerne la più vera natura. È da lì che parte tutto. Per me gli abiti sono ponti tra differenti aree culturali e la fisicità. Solo quando si riescono a costruirne di solidi, allora il mio lavoro è compiuto»

Nell’immagine in apertura, l’attrice Valentina Bellè posa per uno shooting, con lo styling di Susanna Ausoni

Guardare in faccia la realtà: la musica secondo Bresh

Non ha eroi e nemmeno li vuole, perché il mondo reale non è quello che gli ha raccontato la Disney da bambino. Il disincanto che porta nei suoi testi forse parte proprio da lì: gli Articolo 31 cantavano che la vita non è un film, e Bresh torna a dirci che non è tempo per miti e leggende, che non si può più credere neanche agli antichi greci.

A renderlo chi è oggi, piuttosto, sono state tre persone nella sua vita: i suoi genitori e De André. «Io vedo la virilità in un uomo come lui, nella sua consapevolezza» mi confida parlando di modelli sociali, del suo ultimo album Oro Blu, e di chi l’ha cresciuto e ispirato. Per riferirsi a lui la gente parla di “cantautorap”, termine che gli garba poco e non ha tutti i torti. Ma che Andrea Brasi in arte Bresh riesca a portare nella sua produzione grandi picchi di riflessione, analisi sociale e schemi coraggiosi di mascolinità, è un dato di fatto. Ed è uno degli aspetti più potenti della sua musica.

Bresh rapper
Total look Hermès

Molte persone stanno ascoltando il tuo ultimo album in questi giorni, Oro Blu. Come lo vivi questo limbo, il primo periodo in cui le nuove canzoni iniziano a girare e sai di essere sotto una lente d’ingrandimento? È un bel periodo. Personalmente mi dà tanta carica, anche inconscia. Non è poco per una persona come me, che invece cerca di rimanere sempre con i piedi per terra. Devo dire la verità, questo momento qui serve per tutto.

Non hai neanche un po’ d’ansia?

Come dico sempre, cerco di delegare le ansie. Credo di essere ansioso per natura e quindi cerco di combatterlo. E di vincere la battaglia.

Clementino ha scritto pubblicamente che è in loop con un brano in particolare del tuo disco, Andrea.

È vero, che grande. Mi ha fatto piacere di brutto, lui lo conosco da un po’, ci siamo incontrati a Milano e poi grazie al calcio, quando giocava il Napoli. C’è feeling.

Bresh Oro blu intervista
Varsity jacket Philipp Plein

È interessante che uno dei pezzi più amati dell’album sia anche uno dei più intimi, perché in Andrea racconti del tuo passato, di quando cantavi ma senza lezioni, senza chitarra e senza tour. Eppure credo ci siano degli aspetti molto universali qui dentro, sei d’accordo?

Sono d’accordo, sicuramente l’universalità sta in quel concetto di provare a conoscersi. Sono certi passaggi di poesia che magari può sembrare anche ariosa, e invece è molto concreta come idea. Soprattutto in tempi come questi, dove è difficile trovare il proprio gusto perché si pensa tanto al gusto degli altri e si prova ad omologarsi. Quell’aspetto lì della canzone credo funzioni, credo crei empatia. Pensa che le prime parole sono state proprio «Andrea cantava, cantava, cantava». Sono uscite mentre ero in macchina da solo e alla fine mi è sembrato giusto tenerle. Ci ho costruito un testo intorno ed è come se fosse venuta fuori una canzone che doveva venir fuori da sola, anche senza che la cercassi. Quando è uscito il pezzo mi sono preso un po’ male, le prime ore…

Perché è uno di quei pezzi intimi che hai bisogno di buttar giù, ma poi speri quasi che non lo ascolti nessuno?

(Ride) Esatto, brava, è veramente quella roba lì! Doveva rimanere nel disco, ma era troppo bella e l’ho fatta uscire come singolo. Avevo quasi dimenticato che parlava di me, che mi ero spogliato.

I tuoi testi sono anche pieni di riflessioni e pulsioni sociali, mi piace l’idea che tu scelga di portarle in campo.

Sì, la ricerca del punto di vista è fondamentale per me. Perché è anche la ricerca della convivenza: provi a combattere gli altri e a non scottarti, ma alla fine devi comprendere e convivere.

Bresh Angelina Jolie
Total look Dolce & Gabbana

Pensi che il tuo pubblico sia legato a questo aspetto della tua musica?

Ti dico che lo spero. Io non ci penso quando scrivo, è una roba mia, ma in effetti credo che mi abbia anche un po’ distinto.

Toglimi una curiosità: se fosse dipeso da te quale canzone avresti reso il tuo tormentone al posto di Angelina Jolie?

Sai che non ci ho mai pensato? Se ne scelgo una mi sembra di far torto alle altre.

Allora te ne concedo tre.

Se me ne dai tre, allora ti dico: Svuotatasche, poi La Presa B e La Presa Male, perché racconta proprio uno stato di alterazione delle emozioni, gli alti e bassi, gli sbalzi di umore. E poi dai, sì, Angelina piace anche a me.

«Non ho eroi / e non li vuoi nemmeno», ma anche «Per essere una leggenda non è un gran momento storico». Nella tua produzione è molto forte questa visione: parli di un disincanto verso il mito, che siano gli antichi greci o i supereroi Marvel. Quando hai iniziato a vederla così?

Sai, io sono una vittima della Disney. Quel meccanismo un po’ sognante è difficile poi da applicare alla realtà della società di oggi. Succede che a un certo punto, come hai detto tu, ti disilludi e subentra il disincanto. Credo sia questo… la voglia di sognare ma lo scontro con la realtà.

E quando l’hai capito che questo mondo non era Disneyland?

(Ride) Forse l’ho capito da subito, è per quello che sono stato rapito. Il punto è sempre la ricerca della verità: quando ti scotti devi anche fare un passo indietro, capire la tua infanzia. Quali sono stati i passaggi per arrivare alla personalità che hai oggi? Io ricordo che fin da piccolo guardavo quella roba, fa parte della mia educazione e non nascondo niente. Forse la vera novità di questi tempi è provare a non nascondere più niente, no?

Direi di sì. Se non possiamo parlare di eroi, possiamo forse parlare di ispirazioni? Ci sono state persone che ti hanno ispirato, ma intendo ispirato davvero?

Sicuramente per me l’educatore maggiore, al di là dei miei genitori, è stato Faber. Questa mia parte apparentemente meno virile, che mi porta anche a raccontare aspetti poco machi, è un’ispirazione che arriva da chi mi ha insegnato a non nascondere niente. Io vedo la virilità in un uomo come De André, in quel suo modo di fare, nella sua consapevolezza.

Siamo ovviamente d’accordo sul fatto che il rap rientri nel cantautorato, ma secondo te perché in Italia non ha ancora questo diritto di nascita rispetto al pop, all’indie e via dicendo?

Il gap sta forse nelle generazioni che non lo accettano ancora. Le nuove generazioni invece l’hanno capito, per chi ha un po’ di visione è tutto chiaro. Il cantautore era uno che cantava quello che aveva scritto, e nel rap è uguale. Cambia la forma ma il modello è quello. Considera che l’ambiente che vivo io non è ostile, non la vede proprio questa distinzione. Vai a vedere Marra o Guè Pequeno, è gente che ha studiato, che ha letto libri. Gente che sa scrivere e che conosce il senso delle parole e della comunicazione. La meritocrazia della curiosità è importante in questo mestiere.

Bresh musica disco
Total look Zegna

Sto leggendo il terzo libro di Sally Rooney, giovanissima autrice di bestseller. Lei come te mette in discussione il binomio fama-vita privilegiata, perché sennò poi di cosa scrivi?

Io forse un po’ la faccio la vita privilegiata, però (ride).

Anche lei. Però tu hai detto spesso di voler schivare i vizi di fama, o sbaglio?

Non sbagli, soprattutto certi vizi sociali. Perché come dico in Come stai, «sono una scena, pure la parte, sono la curiosità». Se io devo immedesimarmi in qualcosa per scrivere, mi immedesimo anche nel contesto. Se però resto in casa, tranquillo nella mia fortezza, come posso immedesimarmi?

Hai paura di contaminarti?

Sì, ma so che lo farò. So che in qualche modo succederà. La sfida sarà quella di contaminarmi mantenendo sempre la mia matrice.

Da ragazzino ti chiamavano Bresh e non ti piaceva, poi è diventato il tuo nome d’arte. Mi racconti una volta in cui quel soprannome ti ha fatto arrabbiare e il momento in cui, invece, hai iniziato a riconoscerti in Bresh?

Come parola ci ho messo un po’ a sentirla mia, ha un suono inglesizzato. Mi sarei dato un nome più italiano che cosmopolita. Una volta mia zia Marina mi ha chiamato Bresh e son rimasto un po’ così, le ho detto «non ti permettere zia, almeno tu chiamami Andrea» (ride). Ma credo di essermi riconosciuto nel nome d’arte solo durante i primi concerti, mi sono reso conto che c’era ciccia, c’era qualcuno che stava ascoltando davvero e si ritrovava nella mia musica… Allora anche Bresh ha preso un valore diverso.

Bresh cantante Instagram
Print bomber jacket and shorts Roberto Cavalli

Quando dici «nome d’arte» te la ridi. Ti imbarazza definirti un artista?

È molto imbarazzante. Perché è una definizione grossa, quindi autoriferirsela è una responsabilità. Sono quelle cose che è giusto che ti dicano gli altri.

Concordo. L’ultima domanda te la faccio al contrario: come definiresti tu la tua produzione fin qui? E che scenari prospetti?

C’è il discorso del cantautorato e del rap, e c’è anche una parola che unisce il tutto ma che per me suona malissimo: cantautorap. Tremenda, no? Quindi cercherò di non pensarci, come faccio sempre, e lascerò che a guidarmi sia l’istinto. Farò quello che mi piace di più. E in fondo penso che se uno ascolta il mio disco, capirà da sé per cosa sono portato.

Credits

Talent Bresh

Editor in Chief Federico Poletti

Text Chiara Del Zanno

Photographer Davide Musto

Ph. assistant Riccardo Albanese

Stylist Simone Folli

Stylist assistant Nadia Mistri

Grooming Giorgia Palvarini @simonebelliagency

Nell’immagine in apertura, Bresh indossa total look Antonio Marras

Art direction e non solo: il talento rivoluzionario di Laccio

Giovane, eclettico, poliedrico, Emanuele Cristofoli (in arte Laccio) rappresenta un talento non convenzionale e rivoluzionario nel mondo della danza e non solo.
La sua carriera intraprende diverse direzioni: prima ballerino, poi coreografo e direttore artistico. Oggi grazie all’esperienza, Laccio è in grado di curare, coordinare ed organizzare un evento, che sia di natura teatrale, musicale o televisiva, definendolo in ogni suo dettaglio. La sua direzione artistica si avvale di un’impronta cangiante ed innovativa, è evidente il suo stampo nella realtà del Modulo Project, la compagnia di danza urbana più attiva ed originale nel panorama nazionale, e della Modulo Academy, la prima accademia ad avviamento professionale dedicata a ballerini specializzati nell’ambito delle danze urbane.

Laccio art director
Laccio (ph. Umberto Nicoletti)

Il tuo è un percorso sui generis: hai studiato Interior Design allo IED, quindi la moda, con collezioni vendute in prestigiose boutique e department store, e progetti nei quali hai spaziato tra programmi come X Factor, cinema (Loro di Sorrentino, Muccino), teatro, show per brand del calibro di Calzedonia, Alberta Ferretti, Benetton. Ritieni che questo mix di versatilità ed eclettismo sia decisivo per affermarsi nel mondo dello spettacolo odierno? Cerchi di trasmetterlo anche ai tuoi allievi e ai giovani con cui hai a che fare?

Oggi il mondo dell’intrattenimento è sempre più ricco di contaminazioni. Si parla spesso di “performance” perché si mescolano linguaggi e forme di comunicazione. La danza, La musica, l’arte visiva ma anche  grafica e styling sono ingredienti necessari, ognuno necessita dell’altro per completare un racconto. Lo studio dell’ interior e l’esperienza nella moda mi permettono di parlare il linguaggio dei professionisti che lavorano con me, così da capire cosa è fattibile e cosa no. È fondamentale conoscere le risorse e saperle sfruttare.
I giovani dovrebbero sapere che oggi il settore dello spettacolo è fatto di commistione tra i reparti (costumi, luci, scenografia, musica e coreografia), la conoscenza è fondamentale per far si che l’unione di questi elementi crei qualcosa di armonico.

Laccio coreografia x factor
Courtesy Sky Press Office, ph. Bianca Burgo

Cos’è secondo te il talento?

Difficile descriverlo, oggi bisogna avere la capacità di raccontarsi e di sapersi raccontare. Il “genio” è colui che ha delle idee, delle cose da dire e che sa farlo usando i mezzi che la società offre. Non ci può essere spazio per la “sregolatezza”, ma c’è bisogno di organizzazione e pianificazione.

Puoi parlarci nel dettaglio del tuo lavoro da Modulo Academy (accademia che forma e avvia al lavoro ballerini specializzati nella danza urban)? Quali sono le caratteristiche irrinunciabili per un emergente che intenda farsi strada in questo settore?

L’Academy è un luogo in cui i ragazzi lavorano su loro stessi e su come trovare il proprio linguaggio passando attraverso quello degli insegnanti. Si trova a Milano e questo ci permette di portare al suo interno diversi professionisti che lavorano nel mondo dello spettacolo, artisti che riportano le proprie esperienze. Cerco di coinvolgerli nei progetti, dandogli la possibilità di completare la loro formazione vivendo direttamente delle esperienze straordinarie. Non ultima, la finale di X Factor al Forum di Assago.
Oggi per distinguersi come danzatori bisogna avere una forte base tecnica, ma anche cura di stessi e della propria immagine come artisti, con la A maiuscola. Conoscere ciò che ci circonda, vedere il lavoro degli altri per poi lasciarsi ispirare da qualsiasi forma d’arte.

Laccio x factor
Courtesy Sky Press Office, ph. Bianca Burgo

Quali tra i nuovi nomi e talenti in ascesa ritieni abbiano la possibilità di diventare volti di spicco dello showbiz?

Sicuramente Blanco ha portato una ventata di energia che ha “spettinato” la scena musicale. In generale credo ci siano molti artisti della scena underground con grande talento e voglia di raccontarsi. Come in ogni cosa però, bisogna avere l’occasione di mostrare le proprie capacità, quell’occasione che ci permetta di far vedere, provare a molti ciò che spesso rimane chiuso in una cameretta, in un cassetto o in un mp3 dentro il nostro laptop.
Con X Factor diamo la possibilità di “urlare” ad un pubblico selezionato le proprie canzoni. In particolare le ultime due edizioni hanno dato la possibilità ai ragazzi di portare i propri pezzi e abbiamo lavorato molto sulle loro personalità. Devo dire che è stato uno spettacolo nuovo!

I tuoi progetti futuri?

Al momento sto seguendo Laura Pausini, un’artista che stimo molto per la sua sensibilità e per la capacità di farsi ispirare da tutto ciò che la circonda.
Inoltre è in arrivo l’Eurovision Song Contest, forse l’evento nella mia carriera più esposto mediaticamente! Oltre a seguire Laura per le sue performance, curerò le coreografie di tutta la parte show, sarà un lavoro faticoso ma sicuramente indimenticabile.

Per l’immagine in apertura, courtesy Sky Press Office, photographer Bianca Burgo

Musica con un twist artistico: Gemello

Il primo dei romantici, non l’ultimo. Gemello ci ha abituati alla nostalgia e alla malinconia già in epoca non sospetta. Le infilava entrambe tra le maglie hardcore dei pezzi che hanno fatto storia insieme al TruceKlan e In The Panchine. Le ha dipinte su tela, aggrovigliate tra i dettagli fittissimi dei suoi quadri.

Perché la sua è una lunga storia d’amore tra due arti diverse, rap e pittura, ovvero tra Gemello e Andrea Ambrogio. E allora capita che a New York o a Miami, chi compra un quadro di Andrea non sappia neanche che dietro al pittore ci sia il rapper. Senza gabbie e senza rinnegare niente, Gemello si racconta. L’ultimo disco, La Quiete, i tempi del Ministero dell’Inferno, la scena rap che forse invecchia meglio di quella pop, l’etichetta di genio incompreso che gli hanno messo addosso. Probabilmente l’unica a piacergli e l’unica possibile, per uno che fa arte in disparte da vent’anni:

«Non sarò mai un McDonald’s che fattura col sorriso – mi dice – Io sono il ristorantino piccolo, che se lo conosci ci vai da una vita e te lo tieni stretto». E non avremmo potuto dirlo meglio di lui.

Gemello Andrea Ambrogio
Shirt Ardusse

Esci da un ritorno forte, La Quiete è un album che ha soddisfatto aspettative trasversali. È qualcosa su cui avevi ragionato, quella di allargare il target anche nelle scelte che hai fatto in fase di produzione?

Ti devo dire la verità, il disco è venuto un po’ da sé, perché io non sono ‘sto grande stratega. Ho fatto un sacco di album, di recente c’è stato anche Verano Zombie con Noyze, quindi diciamo che la mia parte hardcore era già abbastanza soddisfatta. Delle canzoni che mi hanno proposto sia gli amici che le nuove conoscenze ho scelto quelle che mi piacevano davvero. Quindi in realtà è nato così, non ho ponderato molto perché non sono bravo a farlo. Ma sperimentare è stato divertente, provare nuove cose mettendoci il mio. Le cose belle alla fine vengono quando non le decidi a tavolino, no?

Per molti fan della prima ora hanno funzionato anche le nuove contaminazioni. Sai che non era scontato?

Vero. Anche perché in questo momento storico la gente percepisce la musica in modo strano, ascolta prima una canzone, poi magari un’altra, e si ferma lì. Come per i film e le serie tv: è più facile andare avanti a episodi quando c’hai mezz’ora, e poi metti in pausa. È difficile che uno ascolti tutto l’album di fila, il concetto di lavorare a un disco compiuto infatti è un po’ finito. Ma io essendo della vecchia scuola ho sempre l’idea di seguire un iter, dalla uno alla undici, in modo che abbia un senso anche pipparsi undici tracce sentendosi appagato.

Gemello rapper quadri
Shirt Ardusse

Non credo che lo sforzo ripaghi solo in gloria, sai? Quando un disco è progettato come un iter, ti invoglia ancora a «pipparti undici tracce di fila».

Sì, hai ragione. È un po’ come con i quadri. Puoi passare e guardare di sfuggita, ma se ti fermi ad osservare ci puoi perdere un sacco di tempo per assorbirli. È la mia arma a doppio taglio, io sono così e non ci posso fare niente.

Questo è stato anche definito un disco importante. Che ne pensi? Secondo te quand’è che un album si impone come importante sulla scena?

Quando cambia un po’ le regole o almeno i canoni delle aspettative. Quando uno si rimette in gioco, per esempio. Ci sono stati vari dischi che personalmente mi hanno segnato tanto, come Kid A dei Radiohead. Lì l’approccio magari è stato usare l’808, hanno fatto una cosa nuova mantenendo la loro identità. Chi ha sentito La Quiete all’inizio avrà pensato: «Che è ‘sta canzone di Gemello?», e poi riascoltandolo avrà scoperto un equilibrio. È come vestirsi eleganti ma con le Jordan sotto.

Tu sei stato spesso un apripista prima del tempo: adesso se ti guardi intorno cosa vedi? Recentemente per te ci sono stati dischi importanti di altri artisti?

Beh sì, credo siano quelli dei nomi storici. Marracash. Gué, Noyz, Coez. Ci stanno troppi più contenuti e troppa più roba da dire in dischi come i loro. C’è maestria nel raccontare ma anche nel flow. Per quanto possano diventare famosi i pischelli nuovi con milioni di follower, che a me piacciono tutti pure loro, alla fine i lavori che rimangono sono degli artisti storici. Hanno un sacco da dire, sperimentano, spaccano davvero e non si smentiscono mai.

Gemello rapper disco
T-shirt Bally

Di te dicono che sei un genio incompreso.

(Ride, ndr) Esatto. Incompreso mi fa ridere e mi si avvicina anche. Non è che mi fanno schifo i numeri, però per farli c’è da crepare. E soprattutto in questo momento, tra pandemie e guerre, la nostra è una musica più di contorno. Il mondo va di fretta e la gente cerca di prenderlo per come viene.

Incompreso ti ci sei mai sentito, in questi anni?

Io sono incompreso dalla massa. Non ci riesco a essere un McDonald’s che fattura col sorriso. Io sono il ristorantino piccolo, che se lo conosci ci vai da vent’anni e te lo tieni stretto. E mi piace come cosa, è tipo una spiaggia segreta. Va detto anche che è un compromesso che non ho mai accettato, sia perché non sono in grado di fare cose troppo regalate, sia perché sono molto geloso di tutto. Dei miei quadri, della mia musica.

Invece sul fronte quadri ti sei aperto di più alla massa. Ci siamo abituati alla complessità delle tue opere, che tecnicamente sono sature di elementi da decifrare. L’hai trovata subito questa cifra stilistica o hai dovuto sbatterci la testa?

È come per la musica, non riesco a mettermi a tavolino. Sapevo fare quello, in quel modo. Però ho cercato di migliorare e di ammorbidirmi un po’. Evitare di mettere centomila parole in un testo e anche di saturare troppo i quadri. È un andare a togliere verso l’eleganza, rispetto al mappazzone da cui ero partito. Che comunque era bòno, però un po’ pesante.

I quadri inediti delle prime sperimentazioni noi non li vedremo mai: me lo dici com’erano?

Erano ancora peggio, un inferno. Tipo un film di quattr’ore coi sottotitoli in polacco.

Gemello rap disco
Total look Salvatore Ferragamo

Penso a Roma 2015, dopo anni ancora scopro dettagli. Sarò banale, ma da romana è tanta roba.

Oddio, qual era? Sai, a me piace proprio l’idea di andare a Milano, Roma e New York e pensare che dei collezionisti o dei privati abbiano i miei quadri. Passo sotto le case, vedo una luce accesa e immagino che là dentro, magari, c’è un pezzo di me. Come fosse un figlio mio. È un po’ come con le canzoni, no?
Ad alcuni ricordano un periodo della loro vita, altri ancora devono scoprirle. Mi piace tanto l’idea di camparci quanto quella di sapere che girano tra le case degli altri.

C’è ancora gente che compra un quadro di Andrea senza sapere che dietro c’è anche Gemello, e viceversa?

Alcuni sì, soprattutto all’estero. Spesso comprano il quadro ma poi ci conosciamo, mi portano a casa loro, mi presentano i figli, mi chiedono di me. È un mood che mi ricorda la New York degli anni Settanta, con l’artista che non è che vende e basta, ma gira e crea contatti.

La solita domanda sulla convivenza tra rap e pittura, invece, te la lascio aperta.

Allora ti dico che io di base non è che c’ho un rapporto poligamo con questi due aspetti della mia vita. Faccio ping pong tra le due arti. A volte mi rompo di scrivere musica, altre vado a vedere una mostra e allora voglio correre a casa a dipingere, come un bambino.

Il vantaggio però si vede nella tua produzione: non sei mai costretto a far uscire un singolo nuovo solo per riempire a caso dei vuoti.

Il vantaggio è anche che non sento di stare mai veramente in panchina. Non sto fermo un attimo.

Gemello dipinti
Total look Federico Cina

Parafrasandoti: c’è stato un tempo per essere ‘truce’ e un tempo per diventare più ‘intimo’. Te li riascolti mai i pezzi che facevi con il Klan?

Certo. Quello sono sempre io, non rinnego niente. Quando capita di tornare a cantare vecchi pezzi o fare uno spin off mi prende troppo a bene. Sento come se c’avessi ancora sedici anni, per me quello è un periodo indimenticabile. Insomma, è sempre il mio cuore, ho sempre fatto convivere la mia vena più malinconica con un’attitudine hardcore, così come i brani con In The Panchine hanno sempre avuto una nota nostalgica.

Ministero dell’Inferno ha fatto storia per chi ha vissuto quel periodo. Pensi che i ragazzini di oggi ce l’abbiano ancora come riferimento di un tessuto underground?

I ragazzini di oggi sicuramente hanno tutti i mezzi per scoprirlo. Se uno dice: «A me piace il Noyz», io gli risponderei: «Allora, ciccio, sentiti il Ministero dell’Inferno». Con Internet non rischiano di perdersi niente, magari hanno giusto bisogno di una sorella maggiore che li indirizzi.

Dai tempi di Vecchia Scuola (2006): «La cura è che guarirò da tutte queste malattie», fino all’ultimo album: «Ma non ti viene voglia di tuffarti? Di scordare? Di lasciarti andare via?». La nostalgia è una costante nella tua produzione, anche se spesso è stato posto l’accento su altro. Oggi che effetto fa, se provi a tirare le somme?

Niente, me viene sempre da piagne. Non è cambiato un cazzo. Scrivere e non riuscire troppo a entrarci dentro, fare un quadro e venderlo senza goderselo a pieno… Ecco, quando risento pezzi di mie vecchie canzoni, rileggo una scritta su un muro o rivedo un quadro mio, mi sembra che l’abbia fatto un altro Andrea. E non solo mi viene da piangere di felicità o di tristezza, ma c’è un po’ tutto in quell’emozione. E forse questa è la mia forza.

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Talent Gemello

Editor in Chief Federico Poletti

Text Chiara Del Zanno

Photographer Davide Musto

Stylist Davide Pizzotti

Photographer assistant Valentina Ciampaglia

Grooming Alessandro Joubert @simonebelliagency

Nell’immagine in apertura, Gemello indossa total look Zegna

Mr. Rain, una forte fragilità

Trent’anni compiuti a novembre, età cruciale. Nato nel ‘91 a Desenzano del Garda, provincia di Brescia, quando ha iniziato a far musica nel 2011 Mattia Balardi ha scelto un nome d’arte che racconta già molto di lui: Mr. Rain. Noi due però ci sentiamo al telefono in un giorno di sole, e la prima cosa che mi dice è che sta vivendo un periodo luminoso, ancora scorre l’emozione per l’uscita dell’ultimo album, Fragile. Poi osserva anche che mentre parliamo c’è un tempo pazzesco: «Sembra il primo giorno d’estate». Ma come gli ricordano sempre tutti, lui è l’uomo della pioggia. «Esatto, e infatti oggi scapperò».

Nonostante l’aura cinematografica che aleggia sull’elemento “pioggia” e su di lui, dietro lo spettacolo non c’è retorica: «Davvero io scrivo bene solo quando piove – mi racconta – e questa cosa non cambia. Non sono mai riuscito a capire il perché. Mi sento più malinconico e allo stesso tempo più cosciente della persona che sono e di quello che ho vissuto. Se non ci credi, sappi che quando ho provato a scrivere con il sole poi ho sempre buttato tutto».

Fragile è il suo quarto album in studio, arriva dopo lavori già amati dal pubblico e promossi dalla critica, Memories (2015), Butterfly Effect (2018), Petrichor (2021). Questo però è un progetto diverso, prodotto in modo insolito rispetto agli altri. Nato letteralmente tutto d’un fiato. E nei famosi due giorni in cui ha scritto di fila otto dei dieci brani presenti nel disco, me lo giura: pioveva.

Mr Rain rapper
Total Look Ferrari

Fragile è uscito da qualche settimana: come va il primo bilancio?

Ti confesso che inizialmente ero un po’ teso, perché sono uscito molto dalla mia zona di comfort. Questo è un disco vario, meno omogeneo degli altri, è un insieme di mondi. Ma sentire la gente contenta mi stimola. Ho deciso di sperimentare, e dai feedback che mi arrivano forse ho fatto bene.

Lo hanno raccontato anche come «un album che dispensa forza all’umanità». Una definizione importante. Senti di meritarla?

Sicuramente è una cosa gigantesca, quindi mi mette un po’ di ansia. Se però dovessi guardarla dall’esterno, considerando quello che mi scrivono le persone, in effetti ogni canzone le ha colpite in modo particolare. Parlo di argomenti molto privati, cosa che non ho mai fatto in passato. Ho cercato di cambiare il mio approccio alla musica, è stata una liberazione. Ho riscoperto la sensazione che provavo ai tempi in cui scrivevo le primissime canzoni.

Anche il ritmo produttivo è stato insolito per te. Sei passato da periodi di blocco al produrre otto brani in due giorni: tutto vero? Come è successo?

Tutto verissimo. In genere per fare un disco, essendo sia il produttore che quello che scrive i brani e i videoclip, ci metto circa due anni. A questo giro invece è partito tutto da Crisalidi e Neve su Marte (feat. Annalisa), ma dopo un mesetto ho scelto di fare una session in studio di un paio di giorni. Volevo ritrovare quel senso di divertimento e spensieratezza nel fare musica. E lì mi sono uscite otto canzoni, una cosa che ha spaventato anche me. Ovviamente nei mesi successivi ho fatto un gran lavoro di produzione, ma l’anima dei pezzi è nata così, tutta insieme.

Mr Rain Sanremo 2022
Total look Ferrari, shoes JordanLuca

Penso a frasi come: «Poco importa se entrambi saremo lontani / Finché avremo i pensieri intrecciati», oppure «i ricordi fanno male quando il presente non è all’altezza del passato». Nel disco c’è il tipico mal di pancia da fine di una grande storia d’amore, possibile?

Tutto l’album raccoglie piccoli pezzi di puzzle di varie esperienze. Più storie, più persone. In quei due giorni ho concentrato tutti questi ricordi, e quando ripenso a qualcosa che mi ha segnato ho la fortuna di saper rivivere esattamente quell’istante. C’è un bagaglio di esperienze che ho tirato fuori, in questo disco.

Racconti spesso che il nome Mr. Rain nasce dal fatto che riesci a scrivere solo durante i giorni di pioggia. Molto cinematografico, ma è sempre così? O negli anni è cambiato qualcosa?

È esattamente lo stesso. Anzi, io ti dico che veramente scrivo solo quando piove. E non sono mai riuscito a capire fino in fondo il perché.

Quindi pioveva, in quei famosi due giorni di session?

Pioveva, giuro. Per le basi è diverso, riesco a produrne tutto l’anno. Sole, pioggia, è indifferente. Ma la scrittura è una cosa molto intima, e credo che la pioggia mi aiuti a scavare meglio dentro di me. Mi sento più malinconico e allo stesso tempo più cosciente della persona che sono, di quello che ho vissuto. Ho provato a scrivere anche nelle giornate di sole, ma poi ho sempre buttato tutto.

Non è che espatri a Londra?

(Ride, nda) È possibile che prenderò una seconda casa lì.

Mr Rain cantante
Total look Lanvin

In realtà la tua musica ha un legame costante anche con altri elementi atmosferici, direi con la natura nella sua versione più prorompente. Da dove arriva?

Io amo la natura, i viaggi più belli che ho fatto mi hanno portato da lei, come quello in Islanda. Amo i paesaggi fuori dal mondo perché mi sembrano un mondo che non è la Terra. Anche nei videoclip cerco spesso di inserire posti che mi trasmettono queste sensazioni, sono andato sull’Etna per girare Meteoriti. In Crisalidi invece ho girato quasi tutto in interni, ed è stata un’eccezione.

A proposito di cinema, so che ti piacerebbe comporre colonne sonore, ma tu scrivi e dirigi anche molti dei tuoi videoclip. A un esordio alla regia ci hai pensato?

Prima di fare musica ero un grandissimo appassionato, fino a I Grandi Non Piangono Mai ho girato e montato tutti i miei video. La regia è qualcosa che mi piacerebbe fare in futuro, magari partendo da un cortometraggio, perché un film sarebbe un sogno. Mi incuriosisce come la musica.

Rap con archi, orchestre e chitarre elettriche. Sicuramente una scelta produttiva dettata dal gusto, ma è anche una presa di posizione?

Guarda, io non ho mai seguito il trend. Andava la trap? Mai fatto trap. Andava un mood? Facevo il contrario. In questo disco ho cercato di dare priorità ai musicisti, agli strumenti e ai suoni veri. Ho preso batteristi, chitarristi, un quartetto d’archi, un’orchestra intera solo per Crisalidi. Credo sia un valore aggiunto che incide molto sul risultato complessivo. Si sente se c’è un musicista vero, perché arricchisce tutto. Fragile è un album suonato al 99%, pensa che ai pianoforti ci siamo io e un mio amico. Quello di circondarmi di strumentisti era un mio grande sogno e penso che continuerò a farlo.

Mr Rain Fragile album
Total look Ind Fashion Project, shoes Acne Studios

Tra i tuoi colleghi che come te si autoproducono, c’è qualcuno che stimi particolarmente?

Che io sappia, un pazzo come me non c’è. Intendo un altro che suona tutto, che si produce, si scrive i testi e si gira pure i videoclip, non credo ci sia. Ma forse meglio così, eh, perché io faccio una brutta vita. Amo la musica, amo il mio lavoro, ma sono schiavo di me stesso. Perennemente in sfida.

Dormi poco?

Pochissimo. E mentre dormo sogno quello che devo fare il giorno dopo. Tutto questo perché sono sempre stato convinto che nessuno possa rappresentarmi meglio o realizzare esattamente quello che ho in testa. Perciò anche se ci metto il doppio degli altri, non mi interessa. Io stesso, quando cerco di collaborare con qualcun altro, mi sento sempre distante nell’approccio, nei gusti, nel metodo.

Alcuni trovano punti in comune tra te, Coez e anche Fedez, parlando di timbro. Ti infastidisce essere associato ad altri?

Non mi fa impazzire. Io sono molto obiettivo e non vedo reali somiglianze tra quello che faccio io e altri artisti. Ognuno è libero di pensare e dire ciò che vuole, ma trovo che non sia così. Sono molto easy nel risponderti. Se uno invece dovesse dirmi: «Mi ricordi molto lo stile di Macklemore» gli darei completamente ragione. Sono un fan, cerco di fare quella roba lì e sono molto in linea con il suo percorso.

Siamo sempre noi giornalisti a decretare i testi migliori di un disco. Proviamo a scambiarci il ruolo?

A me ovviamente piacciono tutti, ma credo che Crisalidi sia scritta davvero molto bene. Ogni volta cerco di superarmi, ci sbatto la testa per ore di fila, ma forse è quella più accurata dell’album, con più tecnicismi e frasi anche molto pesanti.

Mr Rain canzoni
Suit Vìen, long sleeve shirt Çanaku

Sei andato al Liceo De André di Brescia per confrontarti con gli studenti sul tema della fragilità. Due cose: credi che le loro paure siano anche quelle di noi adulti? E soprattutto, un artista sovraesposto (nel tuo caso oltre 300k tra Instagram e TikTok) può ancora spogliarsi di fronte a una platea di fan e azzerare le differenze per parlare tra esseri umani?

Io credo proprio che sia una questione di dovere morale, per le persone nella mia posizione. Avendo così tanta potenza mediatica anche tra i giovanissimi, bisogna provare a dare un buon esempio o quantomeno a non darne uno sbagliato. Sensibilizzare è fondamentale. Quella al De André è stata una delle più belle esperienze dell’ultimo periodo, era la prima volta per me. Abbiamo parlato dei nostri punti fragili, loro all’inizio erano un po’ spaventati. Ma lo ero anch’io, perché non è mai facile raccontare quello che ci fa paura: cioè le stesse cose. Le abbiamo segnate su un cartellone, e in quella classe tutti avevano le mie stesse debolezze, a prescindere dall’età. L’unica cosa che cambia è che crescendo capisci che parlandone puoi esorcizzarle, conviverci e accettarle per vivere meglio.

Curiosità personale sul mio pezzo preferito: Carillon in versione acustica. Che rapporto hai oggi con quella canzone?

È quella a cui sono più legato. L’ho scritta in un momento particolare, e lei ha scelto il mio cammino. Mi ha fatto capire che genere dovevo fare, cosa scrivere e raccontare, il modo di produrre. È stata la mia prima canzone orchestrale, e da lì si è aperto tutto il mio mondo cinematic-pop. E poi è il pezzo che mi ha fatto esplodere ovunque, il mio primo disco d’oro da indipendente. La canto sempre, ad ogni live, perché anche i miei fan sono legatissimi a Carillon. E io le devo tanto.

Mr Rain Mattia Instagram
Total look Kids Of Broken Future, shoes JordanLuca

Ti emoziona ancora cantarla?

Molto. È una di quelle che, nonostante siano passati anni, continua a farmi sentire i brividi quando la canto.

Cos’è che oggi rende fragile Mattia, e cosa invece rende fragile Mr. Rain?

Eh, bella domanda. Credo che la cosa che rende fragile Mattia sia proprio Mr. Rain. Per tutto quello che ti ho raccontato prima: soffro molto il non sapermi vivere il presente, essere sempre proiettato nel futuro. Ossessionato da questa sfida che ho con me stesso e dal tentativo di superarmi. Purtroppo il più delle volte trascuro le persone che ho intorno e la mia vita privata per il mio vero grande amore, che è la musica.

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Talent Mr. Rain 

Editor in Chief Federico Poletti

Text Chiara Del Zanno

Photographer Filippo Thiella

Stylist Caterina Michi, Davide Turcati

Photographer assistant Bryan Durante

Grooming Francesco Avolio @W-MManagement

Nell’immagine in apertura, Mr. Rain indossa total look Ferrari

Motta, la disciplina del talento

La bravura di Motta, riflesso di un talento coltivato e perfezionato metodicamente fin dai tempi dei Criminal Jokers, è ormai conclamata. Numeri, riconoscimenti, i semplici dati della carriera da solista del cantautore pisano, avviata nel 2006, stanno lì a dimostrarlo: stabilmente ai vertici delle classifiche nazionali, due album – La fine dei vent’anni, del 2016, e Vivere o morire, del 2018 – premiati entrambi con la Targa Tenco (un unicum), rispettivamente nella categoria miglior opera prima e miglior disco in assoluto, un terzo (Semplice, uscito l’anno scorso) concepito come racconto del suo percorso di maturazione creativa e umana, che ne certifica la statura di chansonnier con pochi eguali nel panorama musicale italiano.

L’impressione che dà, parlandoci, è quella di un artista maturo, appunto, profondamente consapevole. Dosa con attenzione le parole, sempre puntuali, ponendo l’accento sulla positività che sembra permeare oggi il suo lavoro, sulla gioia («un’esperienza meravigliosa», dice) di ritrovarsi sul palco attorniato da una folla festante, sulla conquista della libertà, fondamentale (lui la mette in termini di «non sentirmi schiavo di me stesso, artisticamente parlando»), sulle parentesi – felici – che esulano dal suo ambito in senso stretto (la colonna sonora de La terra dei figli, il libro Vivere la musica), sul «godermi le cose semplici», sulla volontà, pensando soprattutto agli anni che verranno, di «essere in pace con me stesso», come rivela alla fine dell’intervista.

Motta cantautore talento
Shirt and pants Di Liborio, bracelets Nove25, rings and necklace stylist’s archive

L’intervista con Motta, tra i protagonisti dell’issue Hot child in the City di Manintown

Si è appena concluso un tour che ti ha portato in varie città italiane. Com’è stato l’impatto col palco, esibirsi nuovamente dal vivo dopo la pausa forzata del Covid?

Pazzesco, assolutamente. Il palco in realtà l’avevamo riguadagnato già la scorsa estate, si era trattato però di stringere i denti davanti alla stranezza del live col pubblico seduto. C’era nell’aria un senso come di solitudine, perché il fatto di non potersi abbracciare, ballare o semplicemente alzarsi toglieva all’evento l’idea di comunità, che ho invece ritrovato, fortissima, in questi ultimi concerti.
Condividere uno stanzone con tanta gente che la pensa come te ti fa sentire meno solo. Un’esperienza meravigliosa, per me come per i musicisti della band.

Hai detto che la semplicità cui rimanda il titolo dell’ultimo album è una conquista. Quali altri conquiste, artistiche e non, senti di aver raggiunto nel periodo che ha preceduto, accompagnato e seguito l’uscita del disco?

La più importante, forse, consiste nell’aver ottenuto, con grande fatica, una libertà che mi consente di fare ciò che voglio. Può suonare come una banalità, ma prendere scelte drastiche, rispetto ai lavori precedenti, mi ha permesso di aprire un sacco di porte; ora posso decidere se passare per quelle già spalancate o aprirne di nuove (a livello di costruzione della canzone, intendo). La conquista principale, quindi, sta nel non sentirmi schiavo di me stesso, artisticamente parlando, a costo di provare – per paradosso – quelle vertigini date dal poter immaginare un album in maniera totalmente libera, per quanto possa esserlo chiunque fa musica.

Motta Carolina Crescentini
Shirt Di Liborio

Ricorre, in Semplice, il concetto di normalità, cui si rifà esplicitamente il brano cantato con tua sorella, Alice. Cos’è la normalità per Motta?

Sembrerà assurdo ma quella canzone è stata composta prima della pandemia, durante un periodo in cui provavo felicità nel passare le giornate senza girare come un trottola per l’Italia; una situazione davvero piacevole, sebbene durata pure troppo, visto quanto è successo dopo! Comunque sia, ho capito che godermi le cose semplici, che in passato mi erano mancate, mi faceva stare bene.
Scrivere e poi cantare il brano con mia sorella è stato un po’ come passare l’evidenziatore su questo tipo di normalità, guadagnando dal processo nuovi spunti, un punto di vista differente.

A proposito del duetto, la scelta di coinvolgere Alice è stata influenzata da un big della musica italiana, vuoi raccontarcelo?

Ho sognato De Gregori, telefonava per avvertire mio padre che sarebbe venuto a casa nostra, effettivamente è arrivato e ha ascoltato Qualcosa di normale. Una volta sveglio, ho chiamato Caterina Caselli per raccontarglielo; mi ha spinto a scrivergli, per cercare di rendere un minimo concreta quella “visione”. Perciò ho inviato una mail a De Gregori, motivata anche dal debito nei suoi confronti che, nella canzone, si percepisce chiaramente. Mi ha risposto, dicendomi che il brano l’aveva colpito positivamente, e suggerendomi di cantarlo con una donna. Alla fine, ho pensato ad Alice.

Motta concerti
Shirt and pants Di Liborio, bracelets Nove25, rings and boots stylist’s archive

Hai firmato la soundtrack del film La terra dei figli. Un ritorno alle origini, per certi versi, al corso di composizione del Centro sperimentale di cinematografia, frequentato nel 2013. Come ti sei trovato? È un’esperienza che vorresti ripetere?

Lavorare nel cinema mi piace molto, da sempre, tra l’altro non la percepisco come un’attività secondaria rispetto alla mia, anzi, credo ci siano dei parallelismi tra le due. Si potrebbe paragonare la realizzazione di una colonna sonora all’arrangiamento di un testo già scritto, che dunque va rispettato.
Altro elemento che apprezzo, del settore, è l’idea di un gruppo di persone che operano come una comunità per lo stesso risultato, ciascuna curandone una parte. Inoltre mi sono trovato benissimo sia con il regista (Claudio Cupellini, ndr) sia col montatore, Giuseppe Trepiccione, mi ha fornito parecchi consigli perché aveva ben chiara, persino più di me, la musica che poteva corrispondere a una determinata scena.
Finora, insomma, mi è andata particolarmente bene con i film, conto di replicare.

Nel 2020 hai pubblicato per Il Saggiatore Vivere la musica, come valuti a posteriori il tuo debutto nella scrittura?

Innanzitutto devo ringraziare l’editor che mi ha seguito nella stesura del libro, Damiano Scaramella, senza contare che la serietà della casa editrice mi ha responsabilizzato, da subito. Tutto è partito dall’esigenza non di raccontare una storia, né tantomeno da quella di buttar giù un’autobiografia (avevo 32 anni, troppo presto, decisamente), piuttosto dalla voglia di condividere con i lettori i miei trascorsi musicali, le esperienze con gli insegnanti, spesso tragiche, qualche (rara) volta magnifiche. Era un modo per affrontare l’aspetto didattico di quest’arte, che può avere risvolti oserei dire drammatici.

Motta Semplice album
Turtleneck and trousers Angelos Frentzos

In un’intervista del 2017 sostenevi che a cambiarti la vita fossero stati i giganti del cantautorato, Dalla, lo stesso De Gregori. Tra i colleghi emergenti di oggi, ce n’è qualcuno che per te ha ottime potenzialità, cui guardi – e ascolti, magari – con piacere?

Negli ultimi mesi, da produttore, mi è capitato di lavorare con una cantautrice 21enne, Emma Nolde. Mi ha trasmesso un’energia strepitosa, è stato come se avessi visto un me non solo più giovane, ma anche assai più bravo, io a quell’età non avevo idee tanto chiare. Emma, a mio parere, riesce a tirare fuori un’energia bellissima.

Vesti frequentemente Gucci, hai anche assistito ad alcune sfilate del marchio, cosa ti lega al brand disegnato da Alessandro Michele? Quanto conta, secondo te, l’abito e più in generale il look, per chi fa il tuo mestiere?

Mi sono avvicinato a quel mondo con divertimento, finendo per conoscere Alessandro Michele, Lorenzo D’Elia e altre persone del team Gucci. Ogni tanto dico a Carolina (Crescentini, sua moglie, ndr) che si può considerare la moda come un gioco estremamente serio. Sono convinto, infatti, che alla base vi sia una componente ludica, e per quanto il mio lavoro sia “indossare” le canzoni che scrivo, non gli abiti, averci a che fare è stato senz’altro divertente. Non so, sinceramente, quanto il look sia importante, penso però che, nel momento in cui ci si sforza di trovare se stessi, di capire chi siamo, cosa – e come – vogliamo comunicare, certi aspetti ci aiutino a sottolineare tutto ciò, a volte persino a scoprirlo.

Prendo in prestito il titolo del tuo primo, grande successo: come ti vedi alla fine dei prossimi vent’anni?

Mi vedo – o almeno lo spero – in sintonia con l’età che avrò, preso a godermi quanto costruito nei vent’anni precedenti per essere in pace con me stesso e, seppure sia difficilissimo, felice. Sto lavorando per questo, mettiamola così.

Motta cantautore stile
Suit John Richmond, rings and necklace stylist’s archive

Credits

Talent Motta

Editor in Chief Federico Poletti

Text Marco Marini

Photographer Davide Musto

Stylist Alfredo Fabrizio

Photographer assistant Valentina Ciampaglia

Stylist assistant Federica Mele

Hair & make-up Fulvia Tellone @simonebelliagency

Hair & make-up assistant Asia Brandi @simonebelliagency

Location Industrie Fluviali

Nell’immagine in apertura, Motta indossa total look Gucci

Baltimora, un talento in ascesa

Nello studio in cui si trova mentre facciamo l’intervista c’è una tastiera alle sue spalle. Edoardo si volta e improvvisa il riff di Baltimora per farmelo ascoltare: ha ventun anni, ma quel «riffetto», come lo chiama lui, ha già una lunga storia iniziata ai tempi del liceo e culminata sul palco del talent che l’ha lanciato. Come è andata lo sappiamo bene.

Prima scelta sorprendente: dopo la vittoria Edoardo ha preferito prendersi una piccola pausa, non di riflessione ma di produzione concentrata e intelligente, che ha portato all’uscita del suo primo EP: Marecittà. 7 brani autoprodotti, una serie di esperimenti coraggiosi che fanno già da manifesto. Il suo è quello di un sound sempre sperimentale e di un gusto internazionale per certi groove, tenendosi però saldo alle radici intime del cantautorato italiano.

Dai primi cd che gli regalava suo zio da bambino alle nottate passate a scrivere per sconfiggere il malessere e l’insonnia, poi quel boato al secondo live di X Factor («quando ho capito che forse dovevo smetterla di fustigarmi così tanto e pensare di non essere all’altezza»). Oggi Edoardo è un fiume in piena. Mi racconta il suo EP d’esordio e pensa già al prossimo che verrà, beata adrenalina in piena fase creativa:

«Devo togliermi la prospettiva che io sia un vincitore: ora devo far sapere al pubblico cos’è quello che faccio fino in fondo. Questa è la mia musica».

Baltimora artista
Total look Salvatore Ferragamo, earrings Radà

Marecittà è appena uscito, è il tuo vero debutto discografico. Sei in cortocircuito o tieni sotto controllo le emozioni?

Sai che per me l’uscita è la parte più semplice? Posso perfino fomentarmi di più, perché ormai è fatta. Il disco è finito, vai, facciamone altri! Però sto imparando a rallentare e a godermi il momento, questo sì.

Com’è convivere con un esordio discografico e insieme con le aspettative che ci sono dopo la vittoria a un talent come X Factor?

L’aspettativa del talent è proprio quello che ho cercato di evitare, ed è anche il motivo per cui siamo usciti così tardi con l’EP. Ovviamente a livello discografico sarebbe stato molto più giusto uscire subito e cercare di cavalcare l’onda della finale. Io però ho insistito per aspettare, perché credo che ogni cosa abbia bisogno del proprio tempo. X Factor è un programma che c’è sempre, l’anno prossimo ci sarà un nuovo vincitore. Quindi non è una cosa di cui si può campare tutta la vita, anzi, dura veramente poco. Ho cercato di non basarmi su questa grande cosa che mi è successa.

Qualcuno ti ha biasimato per esserti preso del tempo prima di lanciare l’EP, io invece ho apprezzato molto questo tuo non essere frettoloso bulimico in termini produttivi. Non era scontato, ma è stato difficile portare avanti questa idea?

È stata difficile come scelta personale, perché sapevo che sarebbe stata una grande occasione quella di pubblicare subito. Ma una volta espresso questo desiderio, avevo paura che comunque non contasse. E invece ho scoperto che la volontà dell’artista a volte conta, non ho dovuto insistere con nessuno.

Baltimora produttore
Sweater Alexander McQueen, trousers Maison Laponte, earring Radà, shoes Marsèll

Hai parlato di una produzione «senza pensieri». Cosa ha significato per te autoprodurti a vent’anni senza troppe regole né schemi?

Per me entrare in studio significa sempre sorprendermi, cercando di fare qualcosa di divertente e nuovo che neanche io mi aspetto. Io faccio musica perché mi diverte, non perché devo liberarmi da grandi macigni o perché è l’unico modo che ho per esorcizzare cose. Semplicemente mi fa sentire vivo, mi fa sentire a mio agio. Quando capita che sto al pianoforte, faccio un giro e mi sembra che abbia già una sua direzione, allora cerco sempre di aiutare la canzone a raggiungere il suo massimo obiettivo.

Autoprodursi e rimanere obiettivi sul proprio lavoro: quanto è difficile?

Credo che all’inizio sia stato limitante lavorare da solo da qui dentro, dove mi vedi adesso, nello studio che ho in casa. Non cercavo ancora un pubblico, facevo musica per me e basta, quindi diventava anche frustrante. Adesso invece lo reputo un vantaggio, riuscire a fare tutto da solo ed avere una visione unica e precisa.

Baltimora cantante
Total Look Prada, necklace Maison Laponte

A me vengono in mente delle scelte che puoi aver fatto, ad esempio in McDonald’s, in Marecittà ma anche in Fumo… Mi racconti alcune libertà vincenti che ti sei preso?

Le tre che hai citato sono sicuramente le scelte più forti. Marecittà perché è un singolo con una struttura coraggiosa, fuori dagli schemi. Ha questa strofa che si ripete due volte e un ritornello che non esplode, eccetto una parte che non definirei drop ma un vero sfogo strumentale.
Cerco di non essere mai egocentrico con la mia voce, ci sono parti bellissime di canzoni senza voce. È una teoria che porto avanti e che cerco di rendere dominante: per me la voce non è lo strumento principale. In McDonald’s l’utilizzo dell’autotune in maniera forzata ed esagerata è frutto dello stesso pensiero, e ovviamente sono arrivati commenti tipo «ma no, tu non sei un tipo da autotune! Devi cantare con la tua voce.

E invece se sperimenti sei un tipo da tutto, anche da autotune. La paura di osare troppo e di mettere troppa carne al fuoco c’è stata?

Il punto è che io volevo presentarmi anche a chi non mi conosce, essendo il mio primo progetto discografico ufficiale. Ad esempio McDonald’s all’inizio non doveva essere nell’EP, perché forse era un po’ troppo arrivando da X Factor. Anche qui ho insistito per questo: appunto perché vengo da X Factor devo togliermi la prospettiva che io sia un vincitore. Ora devo far sapere al pubblico cos’è quello che faccio fino in fondo.

Baltimora canzone
Cape and pants Davii

Del brano Baltimora hai raccontato che il riff è nato anni fa e che per te è stato complicato poi scriverci sopra, perché eri troppo legato a quel giro lì. Qual è la storia?

È stato estremamente difficile perché ero davvero piccolo quando ho creato questo riffetto qua (Edoardo si gira, alle sue spalle ha una tastiera su cui attacca il famoso riff di Baltimora, nda). Avevo giusto quindici anni, prima liceo. Ero con un mio amico con cui ho sempre fatto musica, Leonardo, una persona incredibile a cui devo tantissimo. Mi ha sempre ispirato e stimolato molto, così all’epoca siamo impazziti insieme per questo giro. Avevo un pianoforte con una timbrica strana, ho registrato il riff con due microfoni appena comprati. Nella canzone è rimasto poi quel piano lì, quello di sei anni fa. Era una produzione che mi tenevo da anni, non riuscivo a scriverci niente sopra, è stata una bella evoluzione vederla crescere.

Quand’è che hai capito che bisognava e che si poteva farlo diventare un pezzo? O meglio, il pezzo…

Semplicemente l’ho sempre pensato. All’inizio mi piaceva troppo e mi sembrava che qualsiasi cosa provassi a scriverci andasse a peggiorarla. Poi crescendo ho capito che il fatto che fosse difficile avrebbe valorizzato ancora di più il risultato. Un giorno ho scritto questo testo e casualmente è nata la canzone che conosciamo oggi. È stato merito di una frase: «Vedo il cielo per aria e vaneggiano nuvole», mi piace moltissimo perché può voler dire un sacco di cose. Mi evocava l’immagine giusta.

Da una parte la tua visione produttiva ha un forte sguardo internazionale, dall’altra c’è sempre il racconto intimo di una realtà localizzata, e qui penso all’omaggio che fai ad Ancona e ai testi in cui ti metti a nudo. Credi che il contrasto tra sound e tematiche possa essere l’anima del tuo stile?

C’è tutta la volontà di ritrovarmi in un suono che mi appartenga. Sperimentare a livello di sound in maniera anche internazionale è parte della mia identità, ma d’altra parte sono legato a un cantautorato più intimo e romantico, appunto, più italiano. Diciamo che la mia è un’anima da produttore e amante del suono, ma anche da amante delle parole e delle melodie più semplici.

Baltimora disco
Total look Dolce & Gabbana, earrings Radà

Ti descrivono sempre con l’immagine retorica del personaggio «cresciuto a pane e musica». Ma qual era il pane e qual era la musica? Cosa ascoltavi da piccolo?

Da piccolo, quando non avevo un mio gusto personale ma assorbivo quello che ascoltava mio padre in macchina, ricordo su tutti Safari di Jovanotti. Un disco che è stato consumato nel nostro lettore cd. L’altro era Ali e radici, di Eros Ramazzotti. Questo finché mio zio non iniziò a regalarmi alcuni cd, era il rito di Babbo Pasquale, perché me li regalava sempre a Natale. Erano perlopiù raccolte di canzoni che lui masterizzava per me… in modo totalmente legale (ride, nda). Quindi magari c’era quest’unico cd che io ascoltavo per un anno intero, fino al Natale seguente. È stato il momento in cui ho scoperto i Beatles, Jannacci, Conte, Celentano, ma anche i Black Eyed Peas. Subito dopo ho avuto la fase Ed Sheeran e quella Fedez, fino ad espandermi e ascoltare di tutto.

Dalle contaminazioni a un’identità musicale personale, che si trasforma poi in proposta discografica: è un passaggio cruciale. Com’è stato il tuo?

Io credo che un ruolo fondamentale l’abbia giocato questo mio amico di cui ti ho parlato prima, Leonardo in arte Atarde, musicista e cantautore pazzesco. Ci siamo sempre stimolati molto, ma quando eravamo più piccoli lui era davvero più avanti di me. Viene da una famiglia di musicisti, ha sempre vissuto con strumenti in casa, suona un po’ di tutto. Ero così affascinato dalla sua musica, per me era qualcosa di nuovo che non avevo mai sentito. Osservandolo ho imparato come lui prendeva ispirazione da Khalid o magari dagli Alt-J, e li faceva suoi in una maniera totalmente originale. In effetti all’inizio l’ho proprio copiato (ride, nda), poi ho capito come fare mio tutto questo.

Sembra sempre facile parlare di malinconia che si trasforma in arte, ma non è che sia un sentimento semplice da gestire. Tu hai dovuto farci pace prima di metterla in musica?

Diciamo che associo la malinconia a quella botta allo stomaco che mi fa dire: adesso mi metto al pianoforte e faccio un pezzo. In questo senso è un sentimento positivo, ed è la sensazione più elaborata che possa esistere. Perché la tristezza, la felicità o l’allegria hanno una direzione precisa, ma la malinconia ha diversi strati. Lascia spazio a tanta immaginazione…

Baltimora X Factor
Total look Moschino, earrings Maison Laponte

Te lo ricordi quand’è che hai capito che poteva diventare produttiva?

Al liceo era un periodo in cui non seguivo molto la scuola, la notte non dormivo, era abbastanza difficile. Potevo solo scrivere testi. Quindi quella sensazione negativa del pensare al giorno dopo mi ha portato a dire: se devi star sveglio e fare lo stupido, almeno scrivi. Era un modo per cullarmi, e poi anche per riuscire ad addormentarmi. Scrivere, rileggere, sentirmi soddisfatto di quello che avevo creato mi dava un senso di completezza. Credo proprio di averlo capito così…

Sulla vittoria a X Factor ti hanno chiesto di tutto, ma tra vent’anni cosa pensi che ricorderai davvero di quel periodo?

Penso che ricorderò con emozione il secondo live. Ho cantato Parole di burro e il pubblico si è alzato in piedi. Ha applaudito per un minuto una performance che forse per me non era così incredibile.

Lo definiresti il tuo momento topico? La prima volta in cui hai capito di piacere alle persone?

Sì, è sicuramente quello. Lì ho capito che forse dovevo smetterla di fustigarmi così tanto e pensare di non essere all’altezza, perché se per così tante persone quello era stato un bel momento, forse potevo iniziare a godermelo di più anche io.

Il tuo primo EP lo chiudi cantando: «La vetta a cui punto qui dalla mia stanza / la mia età che avanza / Volevo solo parlarti un po’ di me». Ci pensi già al futuro o domandartelo così presto è una follia?

Di progetti ne ho mille, in questo momento sono un vulcano di idee. Forse troppe. Devo cercare di ridimensionarmi e restare concentrato sugli obiettivi imminenti: il tour, la preparazione dei live, scoprire cose nuove e collaborare con altri artisti. La verità? Io faccio musica dalla mattina alla sera, ho tantissime canzoni e non vedo l’ora di fare il prossimo disco. Per me potremmo pubblicarlo anche domani.

Credits

Talent Baltimora

Editor in Chief Federico Poletti

Text Chiara Del Zanno

Photographer Davide Musto

Stylist Simone Folli

Photographer assistant Valentina Ciampaglia

Stylist assistant Nadia Mistri

Grooming Alessandro Joubert @simonebelliagency

Location TH Roma Carpegna Palace Hotel

Nell’immagine in apertura, Baltimora indossa total look Dolce & Gabbana, orecchini Radà

Moda e musica: l’arte dello styling

Moda e musica sono due facce della stessa medaglia, due universi di senso che dialogano e si ibridano l’uno con l’altro. Siamo da sempre portati a considerarle un tutt’uno e forse non riusciremmo neppure a immaginare l’una disgiunta dall’altra. Artisti come Elvis Presley, i Beatles, Madonna, Michael Jackson, Lady Gaga, ci hanno insegnato che l’immagine giusta può definire se non creare un personaggio, tanto quanto il suo talento.
Del resto sono molti gli studiosi che hanno indagato questo legame, primo fra tutti l’antropologo Ted Polhemus che ha più volte sottolineato come «nel corso della storia il musicista sia stato una figura che viene guardata, oltre che ascoltata». Moda e musica dunque sono due forme di comunicazione, due veri e propri linguaggi. Oggi più che mai, l’immagine dei talenti musicali viene costruita a tavolino e dietro questa operazione ci sono gli stylist, figure professionali capaci di dar vita a immaginari dal forte impatto emotivo, che attirano potentemente il nostro sguardo.

Gli stylist che stanno trasformando lo showbiz musicale italiano, da Susanna Ausoni a Ramona Tabita, a Nick Cerioni

«Vestire una persona significa prima di tutto conoscerne la più vera natura. È da lì che parte tutto. Per me gli abiti sono ponti tra differenti aree culturali e la fisicità: il mio lavoro è compiuto solo quando se ne costruiscono di solidi». Con queste parole Susanna Ausoni, regina del celebrity styling italiano, descrive la professione che l’ha portata a collaborare con grandi artisti musicali e dello showbiz; alle spalle una lunga carriera iniziata da MTV negli anni ‘90, oggi è artefice dei look di star del calibro di Mahmood, Elisa e Noemi.

Proprio con Susanna Ausoni si è formato Nicolò “Nick” Cerioni, creativo visionario che spesso e volentieri usa la chiave dell’ironia e dello stupore. Da più di dieci anni collabora con Jovanotti, un sodalizio che ricorda come «una grande scuola non solo professionale ma, soprattutto, umana. Lorenzo mi dato fiducia in un momento in cui nessuno credeva nel mio, nostro lavoro. Guardo ancora a quanto abbiamo fatto insieme con emozione. Per me è un maestro, un vulcano creativo, un artista enorme capace di elevare anche chi lo circonda».

La firma estetica di Cerioni è sicuramente d’impatto e spesso controversa, non a caso è proprio lui a dar vita a moltissimi look di Achille Lauro, tra cui quello firmato Gucci indossato durante il Festival di Sanremo 2020, una tutina di tulle e cristalli impossibile da dimenticare. Il cantautore romano, secondo lui, «è un artista prezioso perché unico e inimitabile. Incarna molti contrasti che rendono quello che fa potente e misterioso, in un dualismo incredibile di luci e ombre. Gli sarò sempre grato per avermi dato la possibilità di creare insieme l’intero progetto creativo di numerose performance, video e foto. Lavorare con Lauro mi ha fatto sentire libero, la sensazione più bella di sempre».
Anche lo stile glam rock dei Måneskin è opera di Cerioni, così come il trend adottato da Orietta Berti negli ultimi tempi; «Orietta è una donna libera, aperta, è la nostra Lady Gaga», sostiene, un paragone decisamente azzardato ma da cui traspare tutta l’ironia del restyling in questione.

A volte un cambio d’immagine può mettere il turbo alla carriera di un artista. Lo sa bene Ramona Tabita, tra gli stylist più richiesti, “responsabile” della metamorfosi di Elodie dallo stile Amici a quello di femme fatale. Collabora da anni con Ghali: «Volevamo un’immagine non standard, diversa da quella classica del rapper con i pantaloni larghi e le sneakers. Abbiamo optato per un’estetica curata, dalle silhouette sartoriali, che attraverso i contrasti valorizzasse la sua figura», specifica.

I celebrity stylist dietro i look di Levante, La Rappresentante di Lista, Blanco: “Mr. Lollo” e Tiny Idols

Levante stile
Lorenzo Oddo con Levante

Tra i nuovi nomi di punta del settore c’è Lorenzo Oddo, in arte Mr. Lollo, fashion designer (per anni nel team di Marco De Vincenzo) e stylist di riferimento di Levante, di cui dice: «Claudia ha una forza espressiva fuori dal comune, è come un foglio bianco che attraverso gli abiti si tinge di volta in volta di colori diversi. Ha un carisma straordinario, può indossare qualsiasi cosa senza che la sua immagine ne sia sovrastata». È proprio durante un suo concerto che incontra La Rappresentante di Lista (Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina), di cui ha curato l’immagine a Sanremo 2022. Commentando la collaborazione, ricorda: «Quando ho ascoltato il pezzo ho subito pensato di mettere in scena dei personaggi, abbiamo trascorso mesi nell’archivio di Moschino cercando i capi giusti che ci aiutassero a rappresentare visivamente i temi della canzone. Del resto il brano è apparentemente leggero, divertente, ma allo stesso tempo obbliga a riflessioni importanti sul mondo che ci circonda. Abbiamo scelto dei look apparentemente giocosi, ma che portassero un messaggio di spessore, outfit d’impatto che completassero il racconto in maniera perfetta. Lo styling parte dalla testa, deve esserci un pensiero dietro».

La rappresentante di lista Sanremo 2022
Veronica Lucchesi, Lorenzo Oddo, Dario Mangiaracina
La rappresentante di lista Moschino
Lorenzo Oddo con La Rappresentante di Lista

Se dell’ultimo Festival ricorderemo mantelli e bluse leggere indossate da Blanco, il merito è di Tiny Idols (Silvia Ortombina), che da anni collabora con l’artista.
«Volevo tradurre la carnalità in eleganza semplice, rappresentare più che il corpo lo spirito, raccontare un sogno lucido che vive di sentimento autentico, reale. Pierpaolo Piccioli ha la capacità di tradurre da sempre questo tipo di estetica in modo superbo e per me è stato un onora lavorare con il team Valentino partendo proprio dagli statement della maison: mantello e chiffon. Ho voluto dar vita a un messaggio forte accostando i ricami ai tatuaggi, ridisegnando il corpo in modo prezioso ma allo stesso tempo semplice, per dichiarare che la moda non è questione di trend, ma di stile». Come darle torto?

Blanco Fabrique Milano
Blanco al Fabrique di Milano (ph. Roberto Graziano Moro)
Blanco moda stilista
Blanco (ph. Roberto Graziano Moro)

Nell’immagine in apertura, Blanco in concerto al Fabrique, ph. Roberto Graziano Moro

‘Hot child in the City’, la serata-evento di MANINTOWN al MAXXI

MANINTOWN e Mediterraneo al MAXXI, un binomio d’eccezione nel segno del talento e della ricerca musicale, celebrato mercoledì 18 maggio con un appuntamento ad hoc. Si è svolto infatti nella cornice – a dir poco suggestiva – del locale lo speciale summer party Hot child in the City; una serata-evento per festeggiare il lancio del nuovo numero della testata, che dà particolare spazio alle voci più promettenti del panorama musicale italiano. Un lavoro di attenzione e scouting di new names che prende ora nuova forma sia nel formato print che in quello digitale.

Mediterraneo Maxxi events
Ph. Michele Provera

L’ispirazione dell’issue in questione, in particolare, viene dal brano eponimo di Nick Gilder, hit di culto già negli anni Settanta, le cui note e parole (“Hot child in the city | Runnin’ wild and lookin’ pretty”) sono rimaste scolpite nella mente di moltissimi appassionati.
Partendo da questo mix all’insegna del wild & pretty, la rivista riserva sei copertine ad altrettante personalità di spicco della scena artistica nazionale, tre provenienti dal settore musicale, tre da quello cinematografico.

I protagonisti delle sei cover di MANINTOWN Hot child in the City issue

Sulla prima cover campeggia il ritratto a tinte pop del fenomeno musicale del momento, Tananai, fotografato da Leandro Emede e vestito dallo stylist Nick Cerioni. Poi è la volta del cantautore Fulminacci (al secolo Filippo Uttinacci), raccontato nell’editoriale di Maddalena Petrosino e Simone Folli.
Infine il mix di arte, cultura, musica che caratterizza Ema Stokholma, figura eclettica, carismatica, tanto più nelle immagini evocative di Davide Musto e Alfredo Fabrizio.

Mediterraneo Maxxi events
Ph. Michele Provera
Mediterraneo Maxxi events
Ph. Michele Provera

Non è stato trascurato il cinema, con la cover story di Matilde GioliMaria Chiara Giannetta, attrici affermate oltreché bellissimi esempi di empowerment femminile. La loro verve viene colta al meglio dall’obiettivo di Davide Musto e, a livello di outfit, dallo styling di Valentina Serra. E ancora, Giacomo Ferrara, pronto a raccogliere sfide inedite dopo il successo di Suburra. Last but not least, il giovanissimo (è nato nel 2002) Francesco Gheghi, un’autentica promessa su cui scommettere; dopo l’eccellente prova fornita ne Il filo invisibile, lo potremo vedere presto in Piove, pellicola di Paolo Strippoli.

Le due performance live che hanno scandito la serata del Mediterraneo al MAXXI

Les Cactus
L’esibizione dei Les Cactus durante la serata Hot child in the City (ph. Michele Provera)
Gianmarco Amicarelli
Gianmarco Amicarelli canta con i Les Cactus (ph. Michele Provera)

La serata è stata animata da due performance live: a salire sul palco per primi sono i Les Cactus, cioè Gianmarco Amicarelli (chitarra/voce), Bea Sunjust (chitarra/voce), Alessandro Giovannini (basso/voce) e Lucio Castagna (cajón/percussioni), collettivo nell’orbita della factory White Rock Studio. Sebbene i componenti del gruppo siano attivi da tempo con i rispettivi progetti musicali (Amicarelli, ad esempio, è membro della band The Lira e della label MKS, e in passato ha pubblicato vari album con i San La Muerte e Vatycans, Sanjust affianca alla carriera di solista le collaborazioni con cinema e tv, Lucio Castagna suona con Carl Brave…), l’unione sotto l’etichetta Les Cactus gli permette di spaziare tra generi, sonorità e influenze, dal rock all’indie al pop, senza tralasciare suggestioni glam e riferimenti alla Nouvelle Vague, così da infondere un’eleganza e un gusto prettamente cinematografici alle loro cover rivisitate, muovendosi con disinvoltura tra pezzi dall’energia intensa, quasi tarantiniana (come Sugar Man o These boots are made for walkin’) e brani più soft.

Rbsn
Il concerto di Rbsn sul palco del Mediterraneo al MAXXI (ph. Michele Provera)

Si alternano sul palco con Rbsn, musicista diviso tra Roma e Usa, che nel suo lavoro fonde jazz, sensibilità cantautoriali, elementi folk, psichedelici ed electro. Ha presentato in anteprima il singolo Stranger Days (tratto dall’omonimo album, in uscita il 20 maggio), che marca l’inizio di un capitolo per lui inedito, concentrandosi – ci spiega – «sulla vita individuale e lo scorrere del tempo, che risulta alterato. The stranger days are gone for me significa centrarsi e riallinearsi, tornare all’essenza di se stessi dopo una lunga dissociazione». Ad accompagnarlo, una proiezione live realizzata da Brando Pacitto, con cui Rbsn sta stringendo un sodalizio creativo sempre più stretto, tanto che l’attore e regista romano, oltre a dirigere tutti i suoi video, cura interamente l’aspetto visivo del progetto, dalle fotografie ai visual dei concerti.

Gli ospiti dell’evento organizzato da MANINTOWN

Non sono mancati, all’evento ospitato dal Mediterraneo al MAXXI, i numerosi talent del cinema diventati ormai parte della community di MANINTOWN. Erano presenti i protagonisti delle cover stories Giacomo Ferrara, Ema Stokholma e Francesco Gheghi come pure volti noti quali Andrea Delogu, Giancarlo Commare, Brando Pacitto. Ancora, Claudia Gusmano, Riccardo Maria Manera, Joseph Altamura, Filippo Contri, Guglielmo Poggi, Giacomo Giorgio, Filippo De Carli, Ludovica e Ginevra Francesconi.

Il founder di MANINTOWN Federico Poletti e Davide Musto, head of scouting, commentano: «Con questo numero continua il supporto alle nuove generazioni, con particolare attenzione alla musica nel suo rapporto con la moda e l’immagine dell’artista. MANINTOWN è la piattaforma di riferimento per il panorama di talent che si sta consolidando e definendo. Siamo un ponte tra Milano e Roma, capitale del cinema che con la sua Bellezza nutre queste nuove generazioni, fonte d’ispirazione per il nostro lavoro».

Di seguito, il video del summer party Hot child in the City

Video by Federico Cianferoni

In apertura, foto di Jacopo Lupinella

Hu, artista sui generis dalle molteplici sfaccettature

Hu (all’anagrafe Federica Ferracuti, marchigiana di Fermo) nasce nel 1994. Artista poliedrica – cantautrice, polistrumentista e tecnico del suono – si appassiona alla musica fin da giovane, conseguendo poi una laurea al Conservatorio Rossini di Pesaro. Con uno stile personale fluido e libero da schemi o confini, il suo nome d’arte si ispira a una divinità egizia, né uomo né donna. Attraverso la sua voce melodiosa, arricchisce i suoi brani urban di contaminazioni elettroniche e pop.

È salita alla ribalta per la prima volta nel 2020 partecipando ad AmaSanremo, dove si è esibita – e distinta – con Occhi Niagara. Dopo aver intrapreso una direzione artistica sempre più sperimentale, ha pubblicato i singoli End e Millemila.
Ha partecipato, in tandem con Highsnob, all’edizione 2022 del Festival di Sanremo col brano Abbi cura di te, che fonde sonorità rock, electro e musica ambient. Il suo primo album – per cui ha collaborato col rapper spezzino e Francesca Michielin – Numeri primi è uscito a marzo.

Hu Sanremo 2022
Jacket and pants Fendi, sunglasses Tom Ford, brogues Marsèll, shirt and tie vintage

A Manintown, Hu confida: «Ho perso il conto di tutte le volte che ho camminato per le strade di Milano. Mi sono trasferita qui nel 2017, non so quanto tempo ci abbia messo a capire come funzionassero le direzioni della metropolitana. Ora viaggio spesso e, ogni volta che leggo i cartelloni delle fermate, sorrido e ripenso a come mi sentivo: senza direzione né una ragione. È nelle strade di questa città che ho cominciato a raccogliere i frammenti, per poi rimetterli tutti insieme nella mia anima. Non ho mai capito quale fosse la strada giusta, ma sapevo dove volevo arrivare. Ho scoperto chi sono e, di me, ho amato anche le paure».

Hu cantante capelli
Jacket and pants Alexander McQueen, shirt and tie vintage
Hu cantante foto
Jacket, dress and pants Thom Browne, rings Nove25

Credits

Talent Hu

Editor in Chief Federico Poletti

Photographer Antonino Cafiero

Stylist Sabrina Mellace

Photographer assistant Filippo Ragone

Stylist assistant Elisabetta Catalano

Make-up Greta Agazzi

Special thanks to Patrizia Ferro

Nell’immagine in apertura, Hu indossa giacca e pantaloni Emporio Armani, camicia e cravatta vintage

Fulminacci, sognando il cantautorato

Su un pezzo di carta, un articolo o un muro. Potrei scriverlo ovunque: menomale che sei arrivato, caro il nostro Fulminacci. Con le sembianze di un fumetto e per certi versi anche la missione: quella di rendere l’ordinario almeno un po’ straordinario. Menomale che sei arrivato quando gli altri rischiavano di venirci a noia, quando dal cantautorato indie-pop emergevano perlopiù tentativi pigri e forse un po’ demoralizzati di replicare uno stile preciso, ma già sentito.

Poi ecco qualcosa di nuovo, di fresco e assolutamente versatile. Una rivelazione con il primo album, La Vita Veramente, e una conferma ancora più sorprendente con il secondo, Tante care cose. Mentre scrive e canta semplicemente di quel che conosce (il traffico, l’amore, i dubbi di chi è nato negli anni Novanta), lui la fa sembrare una grande festa. Introspettivo un attimo prima, piano e voce, e poi irresistibilmente dance, tra batterie e ritmica serrata. Mai pigro, mai prevedibile, sempre attento a non ripetersi troppo (lui questa la chiama «paranoia», e ben venga).

Filippo Uttinacci è qui da poco (nato nel 1997 ed esordiente nel 2019), ma potrei scriverlo su un muro, un articolo o un pezzo di carta: Fulminacci resterà.

Fulminacci indie
Total look Maison Laponte

Voglio leggerti i numeri del mio Spotify Wrapped 2021: io ho ascoltato musica più del 95% degli ascoltatori in Italia, 105 generi musicali e 1407 artisti diversi. Insomma, c’è di tutto. Ma indovina chi è l’artista che ho ascoltato di più?

Oddio, se me lo chiedi così mi viene da pensare a me, ma questo sarebbe un onore. Soprattutto considerando la consistenza dei tuoi ascolti!

Questo era, sì, per confessarti che sono una tua fan, ma anche per dirti che credo tu stia rappresentando davvero qualcosa di diverso, di cui si sentiva il bisogno. Oggi dove ti vedi posizionato nella scena musicale italiana?

Io ho sempre avuto difficoltà a decifrarlo e comprenderlo, però penso di fare quello che mi passa per la testa. Fondamentalmente nelle canzoni ci metto quello che mi capita nella vita, niente di più.

Ma per te rappresenta un obiettivo, quello di distinguerti?

In realtà l’obiettivo di distinguermi non c’era all’inizio, io non avevo neanche capito che sarei riuscito a fare questo lavoro. La verità è questa: ho scritto il primo disco senza sapere che poi l’avrei pubblicato, senza nessun tipo di pressione, di logica di mercato o di paragone artistico. Solo dopo aver scritto un po’ di canzoni mi sono reso conto di qualcosa: «Lo faccio ascoltare alla mia fidanzata e ai miei genitori, così mi dicono cosa ne pensano». Ed è andata bene perché loro ne pensavano bene.

Fulminacci canzoni
Shirt and trousers Paul Smith

A un certo punto però la vita da cantautore te la sei immaginata?

L’ho sempre sognata. Per me è una di quelle cose reali che si avvicinano di più all’essere un supereroe. Anche il fatto di avere un nome d’arte è un po’ come il costume di Spider-Man, l’ho presa in questo modo. Non a caso il mio nome, Fulminacci, è abbastanza fumettoso. Non è certo un gioco la fatica che si fa per scrivere o per fare le prove di un tour, ma quello che deve arrivare al pubblico è che ci stiamo divertendo. Quindi ho capito che di mestiere faccio quello che fa divertire la gente, e che non deve far trapelare quanto si sta impegnando.

Funziona, io mi diverto di brutto. Ma Filippo che musica ascoltava prima di diventare Fulminacci?

Come molti di noi, sono cresciuto con i viaggi in macchina e i miei genitori che mi facevano ascoltare la musica che piaceva a loro. Sono partito dai Beatles, che per me rimangono tipo la farina della musica pop contemporanea. Poi i cantautori italiani degli anni Settanta, e questa è una risposta tanto banale quanto vera. Battisti, De Gregori, Dalla, Venditti, fino alla scuola più moderna con Silvestri, Fabi e Gazzè. Ho sempre ascoltato artisti diversi, sono anche un fan di Fibra. Sul decennio Settanta però devo dire che sono ferratissimo, Supertramp, Electric Light Orchestra, Elton John…

Fulminacci cantante
Shirt and trousers Paul Smith

Una volta ti ho definito così: «Fulminacci ti piace perché ti ricorda tutto quello che ti piaceva già, ma torni ad ascoltarlo perché in fondo non ti ricorda nessuno». Ti ci ritrovi?
Che bello, è bellissimo. E lo prendo come un enorme complimento. Per risponderti, in effetti ho avuto modo di notare come la mia fan base sia piuttosto varia, forse dipende da quello che dici tu? Ai concerti le prime file sono piene di sedicenni, le seconde di ventisettenni, e poi si arriva fino all’età dei miei genitori che sono nati negli anni Sessanta.

La Vita Veramente, 2019: un album d’esordio da cui emergevano le influenze felici di Fabi o Silvestri (vedi Borghese in Borghese), ma allo stesso tempo il tuo tocco si sentiva subito forte in brani come Davanti a te Resistenza. Come trovi l’equilibrio tra gli elementi che ti ispirano e quelli che ti rendono unico?

Io credo che bisogna stare in un equilibrio dinamico, cercando di esplorare senza definirsi mai, per evitare di cadere da una parte o dall’altra. Penso che ognuno voglia essere riconosciuto per la propria identità, ma questa non è altro che il frutto di una serie di influenze che continuano ad arrivarti addosso. Vivere in questo settore significa cercare di stare in equilibrio, rischiare, ogni tanto fare anche qualcosa di comodo.

Fulminacci Santa Marinella
Shirt Paul Smith, shoes Marsèll

Dietro alla complessità dei tuoi brani individuo due punti forti: non sei mai pigro, ma fai sembrare semplice questa ricerca costante. In realtà quanto ci rifletti? Quanto stai lì a chiederti: «Qui rischio di sembrare un po’ troppo Silvestri, qui potrei sperimentare ancora di più»?

Tantissimo. Questo tipo di paranoia è all’ordine del giorno per me, su ogni fronte. Banalmente anche sui testi, ho paura sempre di farmi inserire all’interno di una categoria. Cosa che non riesco ad accettare. Le persone completamente decise mi affascinano molto, ho sempre voluto essere come loro da bambino. Ma poi mi sono chiesto: ma perché? Quelli che ti dicono: «No tranquillo, adesso non piove», che fanno poi quando in realtà piove? Allora io sono il re delle paranoie.

E per fortuna, aggiungo io. Con il secondo disco, Tante care cose, per me è successo qualcosa di grosso: dieci tracce una più forte dell’altra, una sorpresa continua che non si esaurisce dopo la novità del lancio del disco. Come hai fatto a infilarne una giusta dietro l’altra?

È stupendo sentirlo da te, perché io ti risponderei che ho semplicemente messo quello che piaceva a me tra tutte le canzoni che ho scritto. Per spiegarti, io ragiono così: se sono il primo a voler ascoltare un mio pezzo, allora va bene, perché esisterà per forza qualcun altro come me che vorrà ascoltarlo.

Ogni brano dell’album potrebbe essere anche un singolo, ma allo stesso tempo l’insieme è un viaggio perfetto. Il tuo management che ruolo gioca qui?

Su questo tema sono completamente grato e affidato alla mia etichetta. Il primo ascolto professionale esterno è sempre il loro. Io non lo so capire se un pezzo potrebbe essere un singolo, non sono un giudice lucido di quello che faccio.

Fulminacci stavo pensando a te
Shirt Alexander McQueen

Vediamo se la pensiamo allo stesso modo: ci sono dei pezzi tuoi che per me resteranno negli anni…

Io credo che a rimanere nel tempo sia quello che non segue le tendenze. Quindi ti direi, forse, i brani meno elettronici. Potrebbero rimanere Giovane da un po’ Le Biciclette, perché è una canzone nuda.

Le Biciclette credo sia una delle cose più belle che tu abbia scritto. Uno di quei brani che non fanno rimpiangere i vecchi repertori, per me su un podio insieme a Maledetto tempo di Franco 126.

Caspita se sono d’accordo su Maledetto tempo! Lo considero anche io un pezzo senza tempo, mi piace tanto che tu lo abbia accostato a Le Biciclette, che è il brano a cui forse sono più legato emotivamente insieme a Sembra quasi. Sono due canzoni che parlano della stessa persona ma in due momenti completamente diversi. Sono quelle in cui metto a nudo i miei sentimenti, e mi viene pure da piangere al concerto. Non so come fare mentre le faccio. È talmente una cosa mia che forse può diventare universale proprio per questo.

Che storia c’è dietro? Perché sono sicura che una bella storia c’è.

È il racconto di più fasi della stessa relazione, fin dal primo giorno in cui è iniziata. Con i suoi momenti di assenza, i periodi in cui sentivo la mancanza, e poi quelli di ricongiungimento con pizzichi di speranza. C’è dentro un po’ tutto quello che riguarda una storia d’amore. Pensa che ho iniziato a scriverla anni fa e l’ho finita poco prima di pubblicare il disco, è stata anche la prima canzone che ho scritto al pianoforte, che non è il mio strumento perché io suono la chitarra.

Fulminacci canzoni famose
T-shirt and sweatshirt Roberto Cavalli

Vedi che una bella storia c’era? Veniamo a pezzi come Tattica Canguro: il tuo gusto del ritmo crea dipendenza, te lo dico, dentro c’è un sound che ricorda la disco anni Novanta e poi diventa solo tuo. Non è che segretamente sei pure un ballerino?!

(Ride, ndr) In effetti quella di Tattica è una batteria disco, intesa alla vecchia maniera. È semi-vera, ma suona un groove che potrebbe essere completamente elettronico. L’aspetto ritmico per me è fondamentale, spesso penso prima al groove o alla metrica della canzone, e poi al testo. Credo fermamente nel fatto che le consonanti della nostra lingua siano utili come fossero delle percussioni, perché ci permettono di enfatizzare e accentare nel modo che vogliamo… Lettere come le T, le Z…

«Del fat-to che ti-amo / di brut-to”»…
(Gliela canto e giustamente ride, ndr) Esatto! E credo che questo sia il risvolto positivo di essere uno che pensa prima alle copertine e poi al libro che scrive. A scuola era vista come superficialità, ora per me significa decidere prima di tutto l’effetto che una canzone deve fare. Nel caso di Tattica avevo l’esigenza di scrivere un testo che esprimesse ritmicamente quello che mi serviva per il pezzo, quindi mi sono soffermato sul suono e ho iniziato a canticchiarci qualcosa, a partire dall’argomento del traffico. Da romano che vive in periferia per me è il quotidiano, io passo la vita in macchina e lì mi sfogo. La vita veramente è nata tutta in macchina durante uno sfogo nel traffico. È forse l’unico caso della mia vita in cui mi è venuta fuori tutta insieme una canzone, testo e musica in una volta sola. Ho iniziato a cantarla come fosse la canzone di qualcuno che conoscevo, è una magia che capita raramente.

Fulminacci brani
Shirt, gilet and trousers Maison Laponte, shoes Marsèll

Tu sai scrivere, ma sul serio. Che rapporto hai con la scrittura e quando hai capito di saper mettere in parole dei pensieri e delle emozioni?

È molto difficile rispondere perché nella vita, quando succedono le cose, non ti accorgi che stavano per succedere. Vieni travolto e ti scordi perché sei arrivato dove sei. Io fondamentalmente ho iniziato da bambino, hai presente quelle cose che scopri solo con l’ipnosi regressiva? (ride). Ricordo che effettivamente a dieci, dodici anni, scrivevo cose su dei fogli ma non sapevo cosa farci, però sentivo l’istinto di cantare quello che scrivevo. Una mattina avevo dedicato persino una canzone improvvisata al mio cane, che stava in giardino e mi fissava. È stata una delle mie prime esibizioni.

Finché non è arrivata anche la chitarra.

Sì, e mi sono concentrato su quello. Ma cantare era una cosa che mi bloccava ancora, mi vergognavo tantissimo. Ho acquistato fiducia canticchiando nella mia cameretta, sempre quando casa era vuota. Una delle prime canzoni che ho fatto e registrato è stata Una sera, mi aveva convinto e ho avuto l’esigenza di farla ascoltare. Poi è successo lo stesso con Resistenza.

«Tu che sei una e mi circondi»«C’è una specie di senso di vuoto, l’ho riempito coi film e le foto»«Anche se sembra di cadere, la parola di Dio e l’infinito ci basterà»: che effetto ti fanno le frasi che emozionano il tuo pubblico?

Domanda bellissima. Io non lo so, perché non riesco davvero a percepirmi. C’è un nesso tra le frasi che emozionano il pubblico e quelle che soddisfano me? Forse sono quelle facilissime da dire, poche parole ma che racchiudono più concetti. «Tu che sei una e mi circondi» è una frase di cui sono molto contento, perché è innanzi tutto vera, io lo penso. E poi esprime un senso di avvolgimento però usando il verbo «circondare», che potrebbe quasi far pensare ad un accerchiamento, se ci pensi lo leghiamo alla polizia. Quindi c’è una doppia situazione: sei in ostaggio di un sentimento bello. E che bello essere vittima di un sentimento.

Fulminacci canzoni famose
Shirt, gilet and trousers Maison Laponte, shoes Marsèll

Riesci a riascoltarle, le tue canzoni?

Ogni tanto sì. Mi emoziono quando sto su Spotify, ascolto le nuove uscite e poi di botto penso: «Vabbè, però pure io so’ uno di questi».

In Giovane da un po’ canti: «E grazie se avete lottato / Mi spiace se non ero nato». Sei nato negli anni Novanta, ma il disincanto non ti ha annichilito. Ci hanno sempre detto che non c’era più niente di nuovo da dire o fare, soprattutto nella musica. Invece?

È vero, la nostra generazione è stata martellata da questo concetto, ce lo hanno sempre detto. In realtà, tirando le somme, si vedrà che alla fine è capitato qualcosa di forte anche a noi. Il Covid, la crisi, assistere alla guerra in Europa. Noi siamo solo una delle tante generazioni, niente di più e niente di meno. Ma di certo nessuno può più dirci che siamo fortunati. Poi vabbè, se dovessi esprimere una preferenza, io avrei voluto vivere altri anni. Essere come De Gregori e Venditti, andare a sentire i Beatles in concerto da adolescente, fare gli anni Settanta a bomba…

Anche io, ma per fortuna te ne vai in giro in questi anni qua. Ci servivi.

Credits

Talent Fulminacci

Editor in Chief Federico Poletti

Text Chiara Del Zanno

Photographer Milli Madeleine

Stylist Simone Folli

Photographer assistant Giacomo Gianfelici

Stylist assistant Nadia Mistri

Grooming Alessandro Joubert @simonebelliagency

Nell’immagine in apertura, Fulminacci indossa total look Maison Laponte

Musica, arte e cultura: il talento incredibile di Ema Stokholma

Alta, esile, jeans e camicia, un paio di Converse nere. Arriva come una studentessa che torna a casa dall’università. Penso che il suo nome, Morwenn, le doni: ha il sapore delle antiche leggende celtiche e delle storie elfiche. Per tutti è Ema Stokholma, artista italo-francese ormai romana.
Si prende il suo spazio: una sigaretta nel giardino privato dell’agenzia che la segue, tra i vecchi edifici di Trastevere, in una giornata di aprile dove una timida primavera ancora non riesce a mandar via un inverno che sembra non voler finire.

Ha pubblicato lo scorso anno il suo primo libro Per il mio bene, edito da HarperCollins, dove ha raccontato la sua infanzia difficile e che le è valso il Premio Bancarella 2021. Lo ha scritto per aiutare altri giovani in difficoltà, per accendere una luce in quel tunnel che lei ha già attraversato. Vittoriosa.

Ema Stokholma libro
Dress Antonio Marras, jewelry Marco De Luca Gioielli, rhinestone net stylist’s archive

Quando illuminiamo la strada per un’altra persona, illuminiamo anche la nostra. Cosa hai visto di te scrivendolo?

Che devo lavorare sugli episodi raccontati nella parte finale del libro, come la morte di mia madre. Cerco sempre di tenere le emozioni lontane da me, soprattutto quelle troppo forti. Mentre scrivevo, ho cercato di mettere distanza tra me e alcuni episodi dolorosi. Non volevo un racconto drammatico: già la storia lo è. Ma ho visto i sentimenti non ancora elaborati.

Ema Stokholma musica
Dress Antonio Marras, jewelry Marco De Luca Gioielli, rhinestone net stylist’s archive

Per il mio bene. Siamo abituati a dire: “lo faccio per il tuo bene”. I soggetti maltrattanti dicono frasi come “non sono io che ti picchio, sei tu che me le levi dalle mani”. Addossano la colpa alla vittima mentre si dipingono caritatevoli…

Mia madre mi picchiava e diceva “lo faccio perché me lo stai chiedendo tu, hai bisogno di questo, io lo so perché sono tua madre e lo faccio per il tuo bene”. Ma quella cosa non ti fa bene. C’è un distacco tra il bene che vorresti avere e quello che ricevi. E quando sei bambino, non capisci più cosa è per il tuo bene. Da adolescente, poi, quando affronti un rapporto sentimentale, pensi che nel tuo bene ci debba essere anche la violenza, perché l’amore te lo hanno insegnato così. Se mi picchi per il mio bene, vuol dire che poi io devo andare a cercare questo tipo di rapporto. È difficile capire che quello non era per il tuo bene.
Sono scappata senza pensarci, per istinto di sopravvivenza. Se ci pensi non lo fai, perché subentra la razionalità, il senso di colpa, la paura di non farcela. E poi ti dicono sempre che nella vita devi affrontare le situazioni, che non devi scappare davanti alle difficoltà. Non è sempre vero: a volte, per affrontare le situazioni, devi vederle da lontano. Ho provato a scappare tante volte, dall’età di cinque anni, ma mi riportavano sempre lì, senza neanche chiedermi “perché sei scappata?”. Ci sono riuscita a quindici anni, quando ero in grado di nascondermi, di confondermi, e nessuno mi ha riportato a casa. A trent’anni sono entrata in analisi: era ora di mettere le mani nel mio passato.

Ora non ti troveresti coinvolta in una relazione tossica?

Sono io la persona tossica. Non cerco relazioni tossiche, non cerco un uomo, una donna, una persona, un’amicizia, che riproduca quello che ho già vissuto e che rifuggo. Sono io che devo gestire la mia violenza, i miei sentimenti, le mie mancanze, i miei vuoti. Per questo sono andata in analisi, perché ho capito che il problema non era che cercavo le persone sbagliate. Ho sempre avuto delle persone fantastiche al mio fianco, ma sono io la persona problematica della coppia. Lo ammetto.

C’è una grande amicizia nella tua vita, Andrea Delogu. Come vi siete incontrate?

Era il 2009. Io facevo la cubista e lei la vocalist. Un giorno ho detto: non voglio più fare la cubista. Guadagnavo bene, ma non vedevo un futuro. Ho cominciato a fare la dj, dal nulla, ma era quello che volevo. Così ho conosciuto Andrea. Insieme, abbiamo cominciato a lavorare nelle discoteche più sperdute delle province italiane. Non è stato un colpo di fulmine. Prima un incontro, poi lentamente ci siamo aperte e abbiamo capito di avere bisogno l’una dell’altra.
Io sono cresciuta nella violenza e nella solitudine, solo con mia madre e mio fratello. Lei in un ambiente violento, ma con tantissime persone, in una comunità dove erano tutti zii, fratelli, dove i bambini erano di tutti. Questo ci rende completamente diverse. Però è l’unica persona che davvero mi capisce e io capisco lei. C’è una forte empatia tra noi e ci siamo compensate.

Ema Stokholma Andrea Delogu
Lace dress Antonio Marras, jewelry Pomellato, shoes Giuseppe Zanotti

Cosa cerchi in un rapporto di coppia?

Una persona tranquilla. Ho una personalità conflittuale. C’è una parte di me che va sempre verso la luce e un’altra che deve ancora superare vecchi meccanismi. Dico sempre: “vado in analisi e non voglio far fare a te questo lavoro. Ma, se mi ami, devi prendere il pacchetto completo. Sappi però che io faccio di tutto per migliorarmi”. Lo faccio per stare bene con me stessa. Non è l’altra persona che mi deve salvare e non do la colpa dei miei problemi agli altri.

Sei riuscita a evitare disturbi alimentari e dipendenze?

Non posso dire di non esserci cascata. L’alimentazione era un problema già quando vivevo con mia madre. A scuola mangiavo dai piatti di tutti perché avevo fame, ma a casa non ci riuscivo. L’inappetenza è rimasta, ma mi impongo di mangiare cose sane per il mio bene.

Il tuo Instagram è un’esposizione permanente dei tuoi quadri. Come ti sei avvicinata alla pittura?

Sono fiera del mio Instagram. Fin da bambina mia madre mi ci trascinava per musei e di questo le sono grata. Mi è rimasta la passione.

Riproduci fedelmente le foto, tranne i tatuaggi…

Non mi piacciono più neanche su di me. Alcuni li sto cancellando e vorrei toglierli tutti. Il problema dei tatuaggi è che quel disegno dopo dieci anni o venti non ti rappresenta più.

Ema Stokholma madre
Feather detail dress Antonio Grimaldi

Il legame con tuo padre?

Avevamo rapporti sporadici. Passavano mesi o anni tra una visita e l’altra. Diceva “torno tra tre mesi” e poi non tornava mai. C’era già una distanza fisica, ma sono stata costretta a mettere una distanza affettiva, anche se con difficoltà. Non puoi vivere sempre in attesa. L’assenza la gestisci, ma quando una persona torna, va via e ti promette di tornare e poi sparisce di nuovo, è una tortura.
Credo sia sommerso dai sensi di colpa, ma non cambia. Il senso di colpa è come una palude: ogni giorno ci affondi sempre più. Invece dovresti dire “da adesso in poi cambio”. Per questo è difficile recuperare il rapporto.

Non sei schiava del perdono…

Non lo concepisco. Se sbaglio lo ammetto. Non ha senso chiedere perdono: io non sono inferiore per aver sbagliato e tu non sei superiore perché mi perdoni. Mia madre non mi ha mai chiesto scusa. Non posso perdonare una madre che fa del male ai suoi figli, ma posso comprenderla, capire le sue mancanze, la solitudine, la follia.
Quando si soffre troppo si rischia di impazzire. Se non sei circondata da persone che ti vogliono bene, che ti aiutano, che sono positive, è difficile. Mia madre era sola. Non voglio perdonarla, ma posso comprenderla. Se continui ad odiare per quello che ti hanno fatto, non vai avanti.
Ricordo benissimo il giorno che mi sono liberata dal rancore e ho provato empatia per mia madre: mi sono sentita in pace con il mondo.

Ema Stokholma modella
Dress and shoes Antonio Marras

“Non si è mai al sicuro in nessun posto”. Il libro inizia così. Ora che hai una casa tua, c’è un posto dove ti senti al sicuro?

Ora sì! Fin da piccola non mi sentivo sicura da nessuna parte. Quando andavo dagli assistenti sociali, non raccontavo cosa succedeva: facevo scena muta perché non ero sicura, non mi fidavo. Sapevo che mi avrebbero riportata a casa e, se avessero detto a mia madre che avevo parlato, per me sarebbe stata la fine. Nessuno mi ha mai detto “siamo qui per aiutarti, dimmi cosa succede”. Nessuno mi ha fatto sentire al sicuro, per raccontare, per aiutare me, mia madre e mio fratello. Già quando ho preso quel treno per l’Italia mi sentivo meglio. Ora mi sento al sicuro dove sto perché mi sento al sicuro con le persone che ho accanto.

Com’è la tua famiglia?

È figa. L’ho scelta io. Mio fratello è un’estensione di me e poi c’è Andrea (Delogu), ci sono altri amici, le persone che mi aiutano a fare il mio lavoro, che condividono con me le cose belle. Sono contenta.
Sono stata brava a scegliermi le persone che fanno parte della mia vita, sono loro la mia famiglia.

Ema Stokholma canzone
Dress Di Liborio, ring Marco De Luca Gioielli, sandals Giuseppe Zanotti

Giorni fa eri sul palco a Bologna per il concerto di Save the children per l’Ucraina. La musica non ferma la guerra, ma avete lanciato un messaggio, anche a chi questa guerra la sta negando.

È stato potente vedere tutte quelle persone cantare insieme e abbracciarsi.
La gente nega tutto. Ce ne siamo accorti in questi anni. Sai perché ho scritto il libro? Perché un giorno, su Facebook, ho letto un post su un bambino morto in casa sul divano, con il collo spezzato dal compagno della madre. Se è successo, è perché i vicini hanno sentito urla per mesi e non hanno fatto nulla. Neanche le maestre a scuola. Le persone negano perché non vogliono capire cosa succede.
Quando sono arrivata in Italia, mi chiedevano “perché non parli più con tua madre?”. Io dicevo “perché mia madre mi picchiava”. E mi rispondevano “però la mamma è sempre la mamma”. Sì, ma se la mamma è Hitler, perché devo chiamarla e dirle ti voglio bene? Le persone non vogliono vedere le tragedie che accadono dall’altra parte del mondo, come nella casa accanto. Ma se non vedi, non puoi agire e non aiuti nessuno. E allora qui che ci stai a fare?

Ema Stokholma dj set
Suit Gianluca Saitto, jewelry Marco De Luca Gioielli, sandals Giuseppe Zanotti
Ema Stokholma artist
Jacket and earrings Krizia

Credits

Talent Ema Stokholma

Editor in Chief Federico Poletti

Text Alessia de Antoniis

Photographer Davide Musto

Stylist Alfredo Fabrizio

Photographer assistant Michele Vitale

Stylist assistant Federica Mele

Hair Alessandro Rocchi @simonebelliagency

Make-up Giulia Luciani @simonebelliagency

Location TH Roma – Carpegna Palace Hotel

Nell’immagine in apertura, Ema Stokholma indossa un abito Antonio Marras

Il successo di Highsnob, immerso nella scena rap

Michele Matera, in arte Highsnob, 37 anni, originario di Avellino ma spezzino d’adozione, è tra gli artisti più affermati sulla scena rap italiana. Con alle spalle un passato turbolento, nel 2013, assieme al rapper Samuel Heron, fonda il duo Bushwaka; dal sodalizio nasce Pandamonium, disco pubblicato dall’etichetta Newtopia.
Dopo questo esperimento, l’artista intraprende la carriera da solista e a giugno 2015 pubblica il suo primo singolo, Harley Quinn (disco d’oro), in cui fonde la trap con le sonorità del rap classico. Anticipato dal singolo Wannabe, che vede la partecipazione di Junior Cally, il  primo album in studio Bipopular arriva nell’estate 2018. Nel 2019, 23 coltellate viene certificato disco d’oro dalla FIMI, nel 2020 è invece l’ora dei singoli Wannabe vol. 3 e Per odiarti non ho tempo. Nel 2022, Highsnob debutta al Festival di Sanremo in coppia con la cantautrice Hu, con Abbi cura di te, brano dedicato alla fine di un amore, in cui si mescolano pop, rap ed elettronica.

Highsnob discografia
Total look Hermès
Highsnob rap
Jacket Diesel, T-shirt Kangra

Credits

Talent Highsnob

Editor in Chief Federico Poletti

Photographer Filippo Thiella

Stylist Davide Pizzotti

Photographer assistant Andrea Lenzi

Stylist assistant Gianluca Sacchetti

Grooming: Ricky Morandin/W-MManagement

Nell’immagine in apertura, Highsnob indossa suit Vivienne Westwood, T-shirt Kangra, shoes Salvatore Ferragamo, sunglasses Tom Ford

Tananai, il fenomeno musicale della new generation

Dopo la partecipazione a Sanremo, Tananai, nome d’arte di Alberto Cotta Ramusino, ha conquistato il pubblico diventando uno degli artisti più di tendenza e seguito dai giovani. Dopo il Festival, il suo singolo Sesso occasionale è stato certificato disco di platino.

Tananai Instagram
Total look Alexander McQueen

Nato nel 1995 a Milano, Alberto è stato sempre appassionato, fin da adolescente, di musica elettronica, e si è dedicato da subito alla produzione musicale, pubblicando nel 2017 il primo album intitolato To Discover and Forget, utilizzando lo pseudonimo Not For Us. Presto inizia a esplorare vari generi musicali e a scrivere anche in italiano, pur occupandosi ancora principalmente di produzione.
Nel 2019 emerge come vero e proprio cantautore con il nuovo nome d’arte Tananai, e nel 2020 fa uscire il suo primo EP intitolato Piccoli Boati. Ci racconta lo stesso Alberto: “Il primo EP è nato dalla voglia di raccontare quello che mi succedeva nella vita, perché reputo che la quotidianità sia particolarissima a modo suo per chiunque. Quindi ho cercato di trasporre le mie giornate e storie d’amore, le mie delusioni e momenti in cui ero preso bene all’interno della musica che facevo. Venendo da un passato di produttore per la musica elettronica, dovevo imparare a scrivere e disimparare a produrre. Ho parlato di quello che conoscevo: la mia quotidianità”.

Nel 2021 la sua carriera prende una nuova piega con il singolo BABY GODDAMN, che arriva anche ad essere certificato disco di platino, con cui è ora in vetta alla classifica Top50 di Spotify Italia. Nello stesso anno arriva a collaborare con artisti come Fedez e Jovanotti, partecipando a Sanremo Giovani con la canzone Esagerata, grazie alla quale rientra nel podio dei vincitori.

Il 2022 si apre con la partecipazione al 72° Festival di Sanremo in cui presenta Sesso occasionale, un brano carico di ironia e positività. La partecipazione al Festival – nonostante le diverse critiche – gli restituisce grande visibilità, tanto che pochi giorni dopo la fine della competizione il singolo entra nella Top 10 tra i brani più ascoltati di Spotify Italia e anche BABY GODDAMN scala le classifiche, fino alle primissime posizioni della Top 50. Ci confessa Alberto: “‘Sesso occasionale’ è nata in maniera molto naturale durante una sessione in studio. È saltata fuori come continuazione di ‘Esagerata’- il pezzo di Sanremo Giovani, ci ha coinvolti da subito e abbiamo lavorato fino alla scadenza per mandarla. Non sapevo cosa aspettarmi dopo Sanremo. Sono andato a ruota libera perché pensavo solo a dare energie positive e al fatto di tornare a cantare sul palco davanti a un vero pubblico”.

Un successo che continua anche nel suo primo tour italiano che in poco tempo è finito sold out in molte date. “Il mio sogno nel cassetto lo sto realizzando, ovvero suonare dal vivo davanti a più persone possibili. E finalmente dopo tanti momenti di stop vedo che sta per succedere… Questo mi riempie di entusiasmo”.

Tananai social
Total look Gucci
Tananai Alberto
Total look Valentino, sunglasses Versace, shoes GCDS

Scoprite qui la videointervista completa a Tananai, realizzata in esclusiva per Manintown durante lo shooting per una delle sei cover dell’issue Hot child in the city.

Credits

Talent Tananai

Editor in Chief Federico Poletti

Text Federico Poletti

Photographer Leandro Manuel Emede

Stylist Nick Cerioni

Stylist assistants Michele Potenza, Salvatore Pezzella, Noemi Managò

Make-up & hair Mara De Marco

Nell’immagine in apertura, per Tananai total look Alexander McQueen

I diversi volti di Gianluca Ginoble

Enfant prodige di origini abruzzesi, Gianluca Ginoble è noto soprattutto come uno dei tre cantanti lirici de Il Volo. Ha iniziato a cantare ad appena tre anni, a 14 ha partecipato a un talent show dove ha incontrato Piero Barone e Ignazio Boschetto, con cui ha fondato di lì a breve il suddetto trio musicale.

Il Volo Gianluca Ginoble baritono
Jacket The Nick, pants FBMT, hat Lorenzo Seghezzi, jewelry Vitaly

Baritono, la voce profonda, delicata ha subito permesso a Gianluca di distinguersi, facendogli guadagnare un grande seguito sui social media, dove condivide con i fan momenti della propria vita quotidiana.
Fa parte tuttora del gruppo, che si sta preparando per un tour mondiale fra Stati Uniti e Canada.

Il Volo Gianluca
Shirt Saint Laurent from Antonioli.eu, jewelry Vitaly
Gianluca Ginoble lirica
Gianluca Ginoble moda
Total look Saint Laurent from Antonioli.eu, jewelry Vitaly, shoes Sonora
Gianluca Ginoble social
Jacket Alessandro Vigilante, jewelry Vitaly
Gianluca Ginoble songs
Vintage suit, stylist’s archive
Ganluca Ginoble cantante del Volo
Total look Ardusse
Gianluca Ginoble del Volo
Shirt Saint Laurent from Antonioli.eu, jewelry Vitaly

Credits

Talent Gianluca Ginoble

Photographer Leandro Manuel Emede

Styling Nick Cerioni

Stylist assistants Michele Potenza, Salvatore Pezzella, Noemi Managò

Make-up & hair Mara De Marco

Donnafugata Music & Wine

Donnafugata nasce in Sicilia dall’iniziativa di una famiglia che ha saputo innovare lo stile e la percezione del vino siciliano nel mondo. La Sicilia, isola al centro del Mediterraneo, è un territorio vitivinicolo dalle straordinarie potenzialità su cui l’azienda basa le proprie produzioni e i propri ideali.

La tenuta di Contessa Entellina (ph. A. Pakula)

L’azienda nasce a Contessa Entellina, nella Sicilia occidentale. Fondata da Giacomo Rallo e Gabriella Rallo, è guidata ora dai figli Josè e Antonio Rallo, che continuano la tradizione orientati all’eccellenza, con un patrimonio di quattro ulteriori tenute a Pantelleria, Vittoria (Acate), Marsala e sull’Etna.

La tenuta di Pantelleria

Il nome e il logo rimandano al romanzo Il Gattopardo e alla storia della regina in fuga, che trovò rifugio laddove oggi si trovano i vigneti aziendali. La cura dei dettagli e la passione per la Sicilia uniscono anche Dolce&Gabbana e Donnafugata in una collaborazione in cui si incontrano creatività e artigianalità. Nasce così una collezione di vini straordinari, ambasciatori dei colori, dei profumi e della cultura siciliana nel mondo: il seducente rosato Rosa, l’avvolgente Bianco Isolano, l’elegante Rosso Cuordilava e il prestigioso rosso Tancredi.

Cantina Marsala (ph. Fabio Gambina)

Inoltre l’azienda si è legata anche al mondo della musica con il progetto di “degustazioni musicali” Donnafugata Music & Wine, in cui è possibile incontrare José Rallo che canta i suoi vini in location uniche.
Dal 1993 uno dei valori del family business è quello di trasmettere l’amore e la cultura del vino aprendo le porte delle proprie cantine al pubblico. Tramite un’ospitalità diversa, piacevole a coinvolgente, l’azienda crede nello studio delle varietà autoctone e nella loro capacità di esprimere una Sicilia autentica e innovativa. Inoltre grande importanza è data alla formazione continua delle risorse umane con aggiornamenti professionali mirati alle esigenze di ciascun ambito lavorativo. Donnafugata è una squadra di persone, uomini e donne, orientata all’eccellenza. Nel dialogo con l’arte, trova un modo di essere che la rende speciale.

La tenuta di Vittoria

Dal 2012 sono innumerevoli gli artisti ospitati sul palco, che hanno presentato opere dedicate al rapporto fra l’uomo e la natura e al magico abbinamento fra il vino e l’arte, spaziando tra musica, danza, opera dei pupi.

Donnafugata Music & Wine è un progetto che nasce nel 2002 da un’idea di José Rallo e del marito Vincenzo Favara. Josè, voce solista del gruppo, propone dal palco un’esperienza live multisensoriale e racconta i suoi vini attraverso la musica; ad ogni vino è infatti abbinato un brano il cui andamento ritmico accompagna le sensazioni della degustazione.

Il progetto Donnafugata Music&Wine vanta una serie di concerti-evento in luoghi evocativi quali il Blue Note di New York e il Museo dell’Acropoli di Atene e la produzione di tre album. Un’esperienza replicabile da ogni wine lover attraverso l’ascolto dei tre CD nati all’interno del progetto, ora disponibili anche su Spotify e sulle principali piattaforme streaming. Il 1° aprile è stato lanciato il terzo album: “Con Rebirth proponiamo un repertorio di 11 brani che spaziano dal jazz alla musica brasiliana con un omaggio alla Sicilia, al vino e alla letteratura”, afferma José. I proventi dello streaming saranno donati alla Fondazione per borse di studio in favore di giovani musicisti siciliani.

Tenuta Etna (ph. Fabio Gambina)

Nell’immagine in apertura, la tenuta di Contessa Entellina, ph. Fabio Gambina

Johnnie Walker arriva in Italia con ‘Keep Walking Together’

Il premium whisky Johnnie Walker si affaccia alla scena italiana con l’iniziativa Keep Walking Together, che celebra il ritorno della musica dal vivo con una serie di concerti itineranti che si terranno tra aprile e maggio in alcune delle città più emblematiche per la canzone italiana.
Tre serate in puro stile Spaghetti Unplugged, durante le quali artisti emergenti si confronteranno con star della musica, dando vita a una festa ancor prima che un concerto: l’occasione perfetta per rendere omaggio alla musica che ci ha sempre accompagnato, seppur a distanza, negli ultimi anni.

Ad inaugurare la manifestazione il 6 aprile, all’Apollo di Milano, sarà Tananai, volto milanese sulla cresta dell’onda dopo l’esperienza sul palco dello scorso Sanremo (con Sesso occasionale). E non sarà solo. Dopo Milano, il testimone passerà quindi a Roma, il 4 maggio all’Alcazar, ed infine a Bologna il 18 maggio al Locomotiv Club, con altri due ospiti e “padroni di casa” d’eccezione.

Il percorso di Keep Walking Together prende vita due anni fa in altri paesi con una serie di concerti, volti a dare visibilità a band e talenti emergenti e a coinvolgere addetti ai lavori e club in un momento particolarmente delicato per l’industria musicale. La piattaforma è stata promossa da alcuni dei principali esponenti della musica internazionale, come i cantanti Dani Martín in Spagna e Konstantinos Argiros in Grecia. Il whisky numero 1 al mondo, dal sapore inconfondibile, promuoverà l’iniziativa ed offrirà agli ospiti la possibilità di brindare durante la rassegna di eventi con alcuni dei suoi signature drink, vivendo l’emozione dei concerti in prima fila.

Ora più che mai Johnnie Walker invita a sposare la filosofia del Keep Walking, festeggiando il presente con al proprio fianco le persone che ci hanno fatto compagnia e supportato per arrivarci, brindando al futuro perché questo cammino di sentimenti, gioia e convivialità prosegua ulteriormente.

Gli universi di stile di Silvia Ortombina (Tiny Idols), dal Super Bowl a Blanco

Stylist e Costume Director, Silvia Ortombina è la fondatrice della factory creativa Tiny Idols. Da sempre al fianco di artisti musicali, è proprio lei ad aver creato gli outfit (indimenticabili!) che ha indossato Blanco durante l’ultimo Festival di Sanremo.

Un ritratto di Silvia Ortombina

Quando e come la moda è entrata nella tua vita? Il tuo desiderio era quello di diventare una stylist o avevi altri progetti?

Sicuramente per me la moda è una questione “di famiglia”. Mia madre e sua sorella avevano un’azienda di tessuti tecnici sul lago di Garda, un distretto piccolo, ma molto riconosciuto. Spesso mamma mi portava a lavorare con sé e io adoravo stare in mezzo alle bobine di tessuti colorati, enormi. Quando tornavo a casa mia nonna mi cuciva gli abiti a mano e molto spesso la sera trascorrevo il tempo osservandola lavorare a maglia o ricamare. Ricordo anche mio zio, stilista per la Puma a Monaco, che quando passava a casa nostra portava i suoi bozzetti… Tutti in qualche modo hanno contribuito ad avvicinarmi alla moda, anche se all’inizio non pensavo che questa potesse essere la mia strada. Poi ho iniziato a studiare comunicazione e cinema, sono entrata nel mondo dei costumi attraverso una serie di collaborazioni con fotografi e registi… E sì, anche grazie ad un archivio di famiglia molto fornito.

Collabori da sempre con molti artisti del panorama musicale, come hai iniziato a lavorare in questo settore?

La mia prima esperienza è stata proprio un internship in una casa di produzione. Progetto dopo progetto sono riuscita a sviluppare un mio metodo nella ricerca e nello sviluppo del guardaroba. Era il 2006, anche se mi sembra ieri. Sono sempre stata legata alla musica anche nella vita personale, sono una musicista e tra i venti e i venticinque anni ho lavorato come art director in un club. Mi interessano moltissimo le interazioni tra mondi differenti e in generale la costruzione dell’immagine dei personaggi. Il mio cuore batte per la musica ma anche per il cinema e la fotografia: Fellini e LaChapelle sono i miei miti, le mie fonti d’ispirazione.

Silvia Ortombina e Blanco (ph. CHILL DAYS)

Cos’è Tiny Idols e quando è nato?

Tiny Idols è nato una decina d’anni fa come collettivo, un gruppo aperto in cui coesistono e collaborano figure diverse. Nella mia professione, mettere insieme “la squadra giusta” rappresenta un punto di partenza importante per la buona riuscita di ogni progetto e se all’inizio della mia carriera ero più autonoma, quando la mole di lavoro è aumentata ho ritenuto giusto dare un nome all’attività e alle persone che le ruotano attorno. Tiny Idols sono io in quanto stylist, ma anche in quanto coordinator di progetti molto articolati legati alla costume direction. A ottobre scorso, ad esempio, ho avuto il grande onore di lavorare con Floria Sigismondi grazie a un collega con cui collaboro spesso, Pablo Patanè.
Insieme a lui e a Fabiana Vardaro Melchiorri abbiamo creato una squadra per lo spot per il Super Bowl 2022 di Criteo. È stata un’esperienza molto forte e sicuramente la traduzione esatta dello spirito con cui ho dato vita a Tiny Idols.

Tra i tanti look che portano la tua firma, ci sono quelli di Blanco durante l’ultimo Festival di Sanremo. Come li hai costruiti?

Ogni progetto ha necessità di essere trattato in modo unico e ha bisogno di un metodo che si plasmi sulla sua natura. Per me il primo step è sempre il confronto con l’artista, devo capire chi sia, come si immagini, ma soprattutto devo “sentire” il suo rapporto col palco, visualizzarlo. Lavoro con Blanco da qualche anno, siamo davvero in sintonia. Per Sanremo, dopo aver delineato la strategia di branding ho presentato ai team di Valentino e The Attico alcune ispirazioni legate agli statement e all’immaginario dei rispettivi brand. Collaborare con la Maison Valentino è veramente un grande onore e un piacere immenso: Pierpaolo Piccioli è uno dei più grandi artisti della moda contemporanea e il suo gruppo di lavoro è davvero unico. Il completo azzurro di The Attico che Blanco ha indossato per la serata delle cover di Sanremo è stato una sfida; solitamente il brand realizza abiti femminili e per la prima volta è stato creato un outfit da uomo, è stata una grandissima soddisfazione.

Blanco e Mahmood (ph. CHILL DAYS)

Per lavoro crei outfit di ogni tipo, mood, veri e propri universi di stile che raccontano di volta in volta differenti immaginari… Ma quando si tratta di vestire te stessa come ti comporti? Adotti un “abbigliamento tipo” o segui la corrente? Insomma, a te cosa piace?

Il mio rapporto con l’abbigliamento è totalmente legato al mio stato d’animo, al periodo. Provo un grande rispetto per la moda, ma allo stesso tempo non riesco ad avere un approccio lineare. Probabilmente la verità è che se potessi non mi vestirei proprio. Sono rare le occasioni in cui seguo un trend, se lo faccio è perché mi piace davvero e lo rendo mio. La maggior parte delle foto che ho su set mi ritraggono vestita di nero, mi piace l’idea di dissolvermi e rendermi invisibile, soprattutto quando lavoro. Amo anche il bianco, colore della luce. Quando sono in casa spesso mi vesto di chiaro, mi fa sentire in pace con me stessa e con il mondo.

Nell’immagine in apertura, Silvia Ortombina con Blanco, ph. by CHILL DAYS

Lo straniamento cyborg di yeule, Principessa Glitch

I like sweet things
Physical and consumable
I like short sentences that say everything I felt at one go
I like obsessing over people
And then throwing them away
I like being a boy
I like being a girl

Con questa confessione (My Name Is Nat Ćmiel), un intro che suona quasi come un manifesto, si apre Glitch Princess, secondo album in studio di yeule. In questo brano l’artista si descrive parlando di tutte le cose che apprezza: un autoritratto in cui yeule si disegna utilizzando neppure un solo aggettivo per riferirsi a sé, ma lasciando comunque all’ascoltatore un’idea ben definita della propria persona.  


Ph. by Daniel Obradovic

Ćmiel, artista di Singapore in attività dal 2014, si identifica come un’entità cyborg non-binaria. Donna Haraway identificava nel suo celebre Manifesto Cyborg tali entità come «confini trasgrediti, potenti fusioni e pericolose possibilità». Non sembra quindi una coincidenza che nel brano sopracitato la spinta descrittiva dell’ego parta dall’osservazione dell’esterno e viva in uno spazio liminale fra il corpo e ciò che lo circonda.
Nella sua vita nomadica, yeule ha gravitato sempre attorno a cose non ferme che poteva portare sempre con sé, come videogame, anime e community online. Le sue ispirazioni musicali sono fra le più variegate, passando da Ravel e Debussy attraverso i Velvet Underground e Björk, fino ai compositori di videogame e A$AP Rocky.

yeule raggiunge una prima notorietà con il dream pop del suo primo album, Serotonin II (2019), album dai chiari segni glitch, in cui però le armonie ancora la facevano da padrone. Il debutto attira le attenzioni di HANA (frequente collaboratrice di Grimes che remixa il singolo Poison Arrow) e di Danny L Harle, artista del gruppo PC Music (l’avantgarde del pop contemporaneo) che diventa il principale co-produttore di Glitch Princess, contribuendo a portare il sound di yeule verso direzioni che già iniziavano a intravedersi.


Ph. by Daniel Obradovic

Un primo assaggio di del secondo album è stato The Things They Did for Me Out of Love (ora posto come coda del progetto), una fantasia ambient di 4 ore e 44 minuti in collaborazione con Harle, il quale definisce la traccia una «cattedrale della mente». Il brano ambient vuole rappresentare una sorta di morte dell’ego dell’artista, in cui poesie, suoni e immagini della mente si dissolvono in un silenzio di pace, in un sonno senza sogni.
Glitch Princess, uscito il 4 febbraio, è un’esplosione di umanità e suoni robotici, fusi insieme senza soluzione di continuità. I testi riflettono una ricerca artistica improntata all’indagine di stati mentali vulnerabili, frammentari, per non dire difettosi (appunto, glitchati). Anche la macchina è imperfetta, come la persona.
In Electric, i vocalizzi di yeule durante il ritornello vanno sempre più in alto e diventano pian piano sempre più robotici, fino a non riuscire più a distinguere se si tratti di una voce modificata o di veri e propri suoni emessi da un software. Gli acuti di Mariah Carey non sono mai stati così vicini e così lontani allo stesso tempo.


Ph. by Daniel Obradovic

Nel suo saggio L’Arte della Tecnica, il formalista russo Viktor Šklovskij parlava di un particolare elemento presente nella letteratura di Tolstoj, lo straniamento, attraverso il quale, tramite una descrizione che dissezionava cose, persone e sensazioni, il mondo normalmente vissuto in maniera automatica e abitudinaria veniva mostrato sotto una luce completamente nuova. È un’operazione che spesso si ritrova in Glitch Princess: testi molto comuni a volte sono stravolti da una base discordante; i vocals sono dissezionati, massimizzati, estesi; talvolta invece un sound molto pop e rassicurante è straniato tramite la giustapposizione di testi conturbanti e inquietanti. yeule descrive il singolo Too Dead Inside proprio in questi termini: vedere quale effetto potesse avere una scrittura più dark sovrapposta a qualcosa di familiare, brillante e allegro come un jungle beat; l’intento è quello di riflettere il senso di vuoto, di morte interiore e distacco dalla realtà che a volte l’artista sente osservando ciò che succede attorno a sé, bello o brutto che sia.

Glitch Princess è un album che abita uno spazio di confine fra bellezza e morbosità, che ben riflette il nome d’arte scelto da Ćmiel: Nsu-Yeul è infatti un personaggio del videogame Final Fantasy XII-2, perennemente intrappolato in un corso e ricorso di morte e resurrezione. Questa è soltanto la seconda reincarnazione di yeule, la conferma di ciò che pochi anni fa era una promessa. Al prossimo update, cyborg.


Ph. by Daniel Obradovic

In apertura e in tutto il servizio, ph. by Daniel Obradovic

La canotta è elegantissima: Sanremo, outfit e colori

Ultima puntata, share al massimo, sfida alle stelle.


Giovanni Truppi tra Amadeus e Lorena Cesarini

Giovanni Truppi esordisce così di fronte ad Amadeus che gli chiede delucidazioni e pareri sui commenti ai suoi look basati su una canottiera durante le esibizioni: la canottiera è elegantissima. Affermazione discutibile ma terribilmente attuale nel mondo sanremese. In mondovisione Amadeus e un cantante discutono di look. La rivoluzione del festival è sotto ai nostri occhi.


Orietta Berti in Rochart

Se fino a qualche anno fa la questione abiti era relegata alle cosiddette vallette con anche un certo disprezzo, oggi investe come un uragano anche i talenti delle generazioni passate.
E quindi abbiamo un Gianni Morandi la cui immagine è curata dallo stylist Nick Cerioni e veste Armani, e Orietta Berti che senza farlo troppo di nascosto si sta facendo trasformare in Lady Gaga.


Gianni Morandi in Giorgio Armani e Jovanotti in Brioni, ph. via Ansa

La sfida si dipana sul palco a suon di canzoni, giacche lanciate, mantelli persi. Abiti colorati, neri, eleganti, sportivi, disinteressati. Comunque vada il look, il colore, saranno commentati, nessuno escluso.
E così, senza che nessuno lo potesse prevedere, la moda ha fatto del festival la sua passerella. Tra brand emergenti e storici, la gara è di altissimo livello. Per Sanremo gli abiti spesso vengono creati ad hoc, pensati per una canzone, un ruolo o una performance.


Dargen D’Amico in Federico Cina, ph. via Ansa

Drusilla Foer in Atelier Rina Milano, photo by Daniele Venturelli/Getty Images

Dargen D’Amico si è affidato a marchi diversi e tutti emergenti: Alessandro Vigilante, Federico CinaWayeröb by Alessandro Onori e Çanaku. Drusilla Foer si è fatta vestire da Atelier Rina Milano, la sua sarta di fiducia. Amadeus e la moglie si sono affidati a Gai Mattiolo, scelta storica e riconfermata nel tempo. Emma e Achille Lauro vestiti da Gucci. Elisa in Valentino, Noemi in Alberta Ferretti, Michele Bravi in Roberto Cavalli by Puglisi.
Blanco e Mahmood hanno cambiato brand nelle serate, passando da Fendi a Burberry, da The Attico a Valentino.


Blanco in The Attico

Emma in total look Gucci, photo by Daniele Venturelli/Getty Images

Mahmood in Prada, Blanco in Valentino, photo by Daniele Venturelli/Getty Images

Un tripudio di lustrini, un po’ meno tripudio di colori devo dire.
Su una cosa quest’anno, oltre al Fantasanremo, erano tutti d’accordo. I colori. Bianco, nero e rosa.
Il rosa si distribuisce indisturbato in tutte le serate, da Dargen D’Amico ad Achille Lauro a Noemi, toni pastello o accesi, si dimena sul palco come un colore qualsiasi, ma non lo è. Il rosa è femminile, il rosa è tenue, ma oggi va di pari passo con i tempi e si tramuta nel colore della rinascita e della trasgressione.


Achille Lauro in Gucci, ph. AGF

Michele Bravi in Roberto Cavalli, photo by Daniele Venturelli/Getty Images

Il bianco e il nero sono classici ma simbolo dei tempi, scelti da Ditonellapiaga e Rettore, da Blanco e Mahmood, Elisa sempre in total white, Morandi e Jovanotti. Se il rosa ci è sembrato il colore della rinascita e della passione, il bianco e nero forse sono simbolo dei nostri tempi. Di fianco alla rinascita c’è la lotta che si fa strada, interna, intensa, drammatica e meravigliosa.


Donatella Rettore in Stefano De Lellis, Ditonellapiaga in Philosophy di Lorenzo Serafini, photo by Daniele Venturelli/Getty Images

Il festival è rinato e se come sempre sarà simbolo dei tempi e loro precursore c’è speranza che tutto un giorno sarà solo rosa.

In apertura: Noemi in Alberta Ferretti, ph. via Ansa

Fashion Police in… Sanremo day 4

Una della puntate più seguite di sempre, i dati lo confermano, la serata delle cover ha spopolato in televisione e sui social. Sanremo ha aperto le porte ai giovani, alla moda e al trash. Grandissimo Amadeus, giacche a parte


Rkomi, ph. Ansa

Rkomi, voto 0

Il Fantasanremo ci piace ma in verità la giacca l’ha lanciata via perché stava meglio senza. Suvvia, questa cosa del pistolero l’ha già proposta Elettra Lamborghini, ed era venuta meglio.
I punti al Fantasanremo li abbiamo, Fashion police potete prenderlo.


Francesca Michielin

Francesca Michielin, voto 5

Prometteva bene ma il vestito tovaglia non è piaciuto quasi a nessuno. Abbinato al trucco anche. Scelta difficile, surclassata fortunatamente dalla performance.
La Fashion police l’ha già inseguita con Emma l’altra sera.


Elisa, photo by Daniele Venturelli/Getty Images

Elisa, voto 3

Bellissima le altre sere, ieri sera sembrava infagottata in più camici medici. Pronta per una puntata di Grey’s Anatomy. In tutti i sensi. Probabilmente ha scelto il camice dopo aver sbattuto entrambi i lati del volto.
Fashion police intervento con il 118.


Sangiovanni e Fiorella Mannoia, photo by Daniele Venturelli/Getty Images

Sangiovanni, voto 2

Aveva fatto bene finora, ieri sera la reference doveva essere il figlio sconosciuto di Gusteau in Ratatouille. Fashion police direzione scuola di cucina.


Achille Lauro e Loredana Bertè, photo by Daniele Venturelli/Getty Images

Achille Lauro, voto 6Loredana Bertè, voto 8

Abiti similari ogni sera ma con un’attitude differente. Achille dovrebbe parlare di più e fare il finto avanguardista un po’ meno. Le sue parole nella lettera a Loredana erano più trasgressive della performance. Ammirevole la scelta di Loredana per il mini abito custom del giovane couturier Gianluca Saitto, che la segue da tempo. No big brand, ma spazio ai designer indipendenti.
La Fashion police era in ammirazione.

Fuori dai giochi

Fantasanremo, voto 8

La sua imposizione su outfit e scelte per ogni sera ha rivoluzionato anche il mondo dello styling. A lui si sono piegati cantanti, conduttori e celebrity stylists.
Anche la Fashion Police si inchina davanti al potere dei social.

Fashion Police in… Sanremo

La polizia della moda al servizio dello stile. Questa settima siamo al Festival di Sanremo.


La Rappresentante di Lista, photo by Daniele Venturelli/Getty Images

La Rappresentante di Lista, voto 6

Dopo il Valentino dello scorso anno mi sarei aspettata qualcosa in più che la versione Barbie e Ken sposi di Moschino. Per stasera non li arrestiamo.


Ana Mena, ph. Ansa

Ana Mena, voto 3

L’effetto è un po’ anni Novanta/Duemila in discoteca, quando a 15 anni con uno shorts sembri stupenda. Però lei è a Sanremo, quindi magari no. A sirene spiegate per prenderla.


Iva Zanicchi, ph. Ansa

Iva Zanicchi, voto 6

Sa di naftalina anche dalle foto, ma d’altronde è un’istituzione che ciclicamente arriva al festival. Mi riservo attesa. Lo stivaletto fingo di non averlo visto.


Dargen D’amico, ph. by Daniele Venturelli/Getty Images

Dargen D’Amico, voto 2

Il green carpet lo ha preso alla lettera considerate le calze, se voleva essere moderno e trasgressivo doveva chiedere consiglio a Mahmood su come farlo bene e con classe.


Ditonellapiaga e Donatella Rettore

Ditonellapiaga e Donatella Rettore, voto 5

La Rettore in versione dark metal e Dito in versione parigina fanno a pugni. Diamogli una quasi sufficienza rimandando alla serata. Per ora accendiamo le sirene, pronti per andarle a prendere.

Sanremo, la “sfilata” del green carpet dà il via alla 72esima edizione

Per il proverbiale marziano appena sbarcato in terra italica: questa è la settimana di Sanremo. Il 72esimo festival della canzone italiana prende il via stasera, al teatro Ariston (e dove sennò?), pronto ad accogliere i 25 artisti in gara, sotto l’egida, per la terza volta, di Amadeus, affiancato sul palco da cinque co-conduttrici (una per ogni serata), Checco Zalone e il “solito” Fiorello.

Nazionalpopolare per definizione, ospitato fin dal 1951 dalla cittadina ligure, tiene puntualmente incollati allo schermo milioni di telespettatori (grandi e piccini, come si suol dire), compresi i fashionisti più insospettabili. Da concorso un po’ stantio e ingessato qual era, tendenzialmente snobbato da maison e designer che, tutt’al più, vestivano alcuni big senza dare troppo risalto alla cosa, il Festival da qualche anno è riuscito infatti ad aumentare in modo consistente il proprio appeal sulle alte sfere della moda, ben felici, adesso, di contendersi gli abiti dei cantanti e blandirli con modelli custom made, magari portando sotto i riflettori gli ensemble più audaci delle passerelle.

Il merito di questa “svolta” glam è soprattutto degli stylist che curano fin nei minimi dettagli le mise di concorrenti e ospiti della manifestazione canora, vati dei look da palcoscenico ritenuti, a ragione, ingredienti essenziali per la riuscita di un’esibizione.
Nomi come Ramona Tabita, ideatrice nell’edizione precedente degli outfit mozzafiato di Elodie e Gaia; Nick Cerioni, artefice nel 2021 delle tenute da rocker provetti dei Måneskin e dei “quadri” di Achille Lauro, che torna nella Riviera dei Fiori per supervisionare (ancora) le scelte vestimentarie di Lauro De Marinis, Donatella Rettore, Rkomi, Tananai e Gianni Morandi; Simone Rutigliano, che seguirà Irama; Susanna Ausoni, tra le figure di riferimento del settore (autrice, insieme ad Antonio Mancinelli, del saggio L’arte dello styling), pronta a vestire Margherita Carducci alias Ditonellapiaga, Mahmood, Noemi, Elisa, Francesca Michielin, Giusy Ferreri e Matteo Romano.


Achille Lauro

Mahmood e Blanco

Insomma, da bastione della tradizione musicale nostrana, impolverato e alquanto démodé, a show ad alto tasso fashion, il passo per Sanremo è stato sorprendentemente breve. Se ne è avuta prova ieri, col green carpet inaugurale, solcato dai 25 concorrenti al gran completo. Se il bagno di folla precedente la kermesse non è di per sé una novità, di certo l’espressione sembra ammiccare al “tappeto verde” che, dal 2017, fa da contorno all’assegnazione dei premi per la moda sostenibile.
Scelte nominali a parte, gli outfit visti sono degni di nota: Mahmood e Blanco, coppia d’assi in gara con Brividi, sfoderano abbinamenti griffatissimi, spericolati, il primo (beniamino degli stilisti e, occasionalmente, modello per Burberry) opta per felpa “simpsonizzata”, giacca over e gonnellone borchiato, tutto Balenciaga, il secondo è in total look The Attico, una novità assoluta per il brand di Giorgia Tordini e Gilda Ambrosio.


Sangiovanni

Sangiovanni, abituato a osare con soluzioni genderfluid, brilla – letteralmente – grazie a giaccone e pantaloni dall’aspetto patinato Diesel. Achille Lauro è in versione damerino anni ‘70: aria tra l’indifferente e il sornione, foularino al collo, il suo tuxedo di velluto Gucci blu notte ha scampanature colossali; allure Seventies anche per Noemi, in pantaloni a zampa firmati Alberta Ferretti, come pure top scuro, cintura e blazer color miele.


Noemi

Frange, bolo tie, pelle e altri tocchi da cowboy posh per Rkomi, in Etro, Irama opta per il total black by Givenchy, variando però la grana dei tessuti, opachi e lucidi (come lo smanicato utility e le stringate), Emma Marrone va sul sicuro con lungo cappotto dalla tonalità cipriata, coordinato ai pants.
Almeno a giudicare da questa prima carrellata, il – non più – insolito connubio tra moda e Sanremo è destinato a rafforzarsi.


Rkomi

Irama

Emma Marrone

In apertura e in tutto l’articolo, ph. by Daniele Venturelli/Getty Images

L’inaspettato ritorno di Mitski: la bolla anni ’80 di ‘Laurel Hell’

Nel Cortegiano di Castiglione, un concetto fondamentale dell’estetica del cortigiano era la cosiddetta “sprezzatura”: un atteggiamento per cui lo studio dietro all’atto creativo e all’arte veniva celato, facendolo sembrare qualcosa di spontaneo e completamente naturale. La bellezza che ci viene offerta dall’arte è sempre frutto di uno studio, ma giunge ai nostri occhi e alle nostre emozioni come se fosse la cosa più spontanea.
Mitski, cantautrice giappo-americana, aralda del sad-girl vibe, è una campionessa di sprezzatura: le sue sono canzoni che sembrano semplici, ma in realtà non lo sono. Dietro a un’estrema musicalità sono mascherate strutture complesse; i testi sembrano emozioni direttamente trasposte, dietro alle quali vi è una scelta lessicale e retorica estremamente curata.



Dopo i trionfi critici di Puberty 2 (2016) e Be the Cowboy (2018), nei quali la cantautrice aveva sperimentato una grande varietà di stili musicali, Mitski aveva annunciato durante un concerto alla fine del 2019 che quella sarebbe stata l’ultima esibizione pubblica della sua carriera. Era anzi pronta ad abbandonare del tutto la musica. Questa fatica non è nuova alle anti-dive dell’art-rock e la accomuna ad artiste come Kate Bush e Róisín Murphy, entrambe note per lunghi, lunghissimi silenzi dalla musica in studio e dalle scene.

Tuttavia Mitski ha deciso di tornare non solo a fare musica, ma anche a performare, con un tour già in gran parte sold-out in partenza a febbraio. Working for the Knife, singolo apripista per Laurel Hell, album in uscita il 4 febbraio, può sicuramente essere letto in tal senso: la routine dell’industria musicale la fa sentire come se stesse lavorando per un “coltello”. La metafora si espande, con Mitski che confessa di pensare che a vent’anni ne avrebbe già avuto abbastanza; a ventinove sembra tutto la stessa cosa, ma forse a trent’anni qualcosa cambierà nel suo vivere per il coltello. Questa routine è ciò che le dà vita, ma è anche ciò che alla fine della giornata le mostra la verità, cioè che sta morendo per il coltello.


Artwork per Working for the Knife, ph. by Ebru Yildiz

Mitski è una presenza tanto elusiva quanto concreta ed esplicita, quasi “confessionale”, nonostante sia una definizione che lei stessa rifiuta. Per sua esplicita ammissione, non vuole fare musica per far piangere, ma arte. Allo stesso tempo rifugge la fama e la mitizzazione (inevitabile) della sua figura. Sui social network e nelle message board musicali sono frequenti infatti meme che la idolatrano e allo stesso tempo leggono la sua figura e la sua musica spesso in chiave ironica. Uno degli ultimi che mi è capitato di trovare ritraeva una felice Britney Spears insieme ai figli, con una caption che recita “R.I.P. Sappho, you would have loved Mitski”.



I pezzi di Mitski racchiudono tutta la brutalità e la bellezza del quotidiano. I suoi testi trasmettono tutta la poesia della trivialità, ma anche il sublime: caffè in cui trovarsi e parlare di nulla (Old Friend); Venere, pianeta dell’amore, distrutto anch’esso dal surriscaldamento globale forse per le troppe pretese dei suoi abitanti (Nobody). A volte la sua scrittura è invece così diretta da sembrare una trasposizione non filtrata di emozioni. Di cuori spezzati in canzoni pop se ne è sentito parlare fino allo sfinimento – non basterebbe un’enciclopedia del kitsch per farne una lista, ma in qualche modo The Only Heartbreaker (una delle top songs di Barack Obama del 2021) ha la freschezza che solo l’onestà più brutale può avere: «If you would just make one mistake / What a relief that would be / But I think for as long as we’re together / I’ll be the only heartbreaker».

Laurel Hell si apre col brano Valentine, Texas in maniera cauta, timida, quasi sussurrata: Mitski chiosa accompagnata solo dal piano «Let’s step out carefully into the dark», per poi giungere nella seconda strofa a un’improvvisa esplosione di synths anni ’80, più un organo, una celebrazione del dolore e dell’esplorazione dello stesso: «Let’s drive out to where dust devils are made».


Artwork per Heat Lightning

Tutto l’album è un trionfo influenzato dalla dance anni ’80: la scelta, per ammissione dell’artista durante una recente intervista con Zane Lowe su Apple Music, è influenzata dalla pandemia e dalla volontà di inserire il progetto in una sorta di bolla come quella degli anni ’80, in cui tutti volevano sentirsi felici. Nonostante i testi spesso dark, Laurel Hell vuole sollevare gli animi degli ascoltatori, mostrando luci e ombre della maestria compositiva dell’artista e della vita in generale. Non abbiamo dubbi che ci riuscirà.

Manintown editorial: the Iside

Nella musica degli Iside (ovvero Dario Pasqualini, Daniele Capoferri, Giorgio Pesenti e Dario Riboli, tutti di Bergamo) confluiscono diverse influenze e svariati immaginari: un flusso di parole e suoni che uniscono elettronica, pop e l’indie rock dell’ultimo ventennio in una proposta artistica energica, emozionante e ricca di sfumature, che si svelano ascolto dopo ascolto. Gli ascolti e gli spunti sono tanti: da Brockhampton a Frank Ocean, da Mk Gee a Toro y Moi.


From left: jacket, pants and tie Gabriele Pasini, shirt Odor, shirt Unicore, pants Red September, sunglasses Junk, sweater Altea, cap Gant, sweater Red September, sunglasses Junk


Dopo una manciata di singoli pubblicati tra il 2019 e il 2020, tra cui Maremoto in collaborazione con See Maw, gli Iside pubblicano il loro primo album, Anatomia Cristallo. Anticipato dai singoli Pastiglia v7 e Margherita v11, questo disco rappresenta l’emblema del cambiamento del collettivo: dalle giornate passate sui banchi di scuola a quelle passate interamente in studio di registrazione.



Iside è tra i 12 progetti italiani selezionati per Radar Italia, il programma globale di Spotify (per la prima volta in Italia) nato per supportare i migliori talenti della scena musicale emergente del nostro Paese. Il loro è un pop delicato accarezzato da morbida elettronica, sprazzi r’n’b, melodie leggiadre e lo sguardo introspettivo di chi ha il coraggio di mettere a nudo tutte le proprie fragilità.

Credits:

Photographer Simone Paccini
Stylist Francesco Mautone
Grooming Lorenzo Stella
Photographer assistant Enea Arienti

In apertura, da sinistra: jacket Youwei, pants Red September, shoes Giuseppe Zanotti, jacket and pants Red September, hoodie Unicore, shoes Scarosso, hat Subterranei, shirt and skirt Red September, jacket Odor, shoes Giuseppe Zanotti, jacket and pants Red September, shoes Giuseppe Zanotti

Il cinismo in chiave pop dei Santi Francesi

I Santi Francesi (ma in passato erano i The Jab) sono i piemontesi Alessandro De Santis (voce e chitarra) e Mario Francese (tastiere, synthesizer e producer). Vincitori presso alcuni contest e con un’esperienza televisiva alle spalle, hanno raggiunto il successo con un album totalmente indie che ha superato i due milioni di streaming su Spotify. Brillantemente riflessiva la visione che emerge nel nostro incontro a pochi giorni dall’alba del 2022.


Trench e t-shirt Esemplare, bowling shirt Grifoni, salopette Napapijri e sneakers Levi’s
Trench e t-shirt Esemplare, bowling shirt Grifoni, salopette Napapijri e sneakers Levi’s

Amate definire la vostra musica una visione filtrata sul mondo e identificarvi come baluardo dei giovani favolosi alle prese con un’intimità cupa e decadente. Insomma due ragazzi che sopravvivono quotidianamente, come tanti dei propri coetanei, nell’era della digitalizzazione massiva. Come traslate musicalmente questo status? 

Non abbiamo necessità di impegnarci particolarmente, in fondo raccontiamo le nostre emozioni quotidiane. Passiamo da mood profondamente malinconici a quelli estremamente felici e giocosi. Il contrasto è da sempre interessante ed è importante che ci sia un animo dark anche indossando la più bella delle corazze.



Le basi della vostra carriera hanno preso il via in chiave rock con la vittoria al Liga Rock Park Contest e la conseguente apertura del concerto di Luciano Ligabue al parco di Monza nel settembre 2016. Cosa raccomandereste ai Santi, pardon ai The Jab, di qualche anno fa?

Si tratta di una risposta veramente difficile. Magari rendere meno impattanti e più brevi le esperienze negative. Ci siamo sempre fidati di noi stessi e della nostra musica e senza dilungarci troppo ci direi “non perdete mai tempo!” . In fondo è quello che facciamo sempre.

Uno dei vostri brani, Birkenau è stato scelto per il docufilm La vera storia di Lidia Maksymowicz andato in onda su Rai Storia. Se poteste scegliere di musicare un altro prodotto visivo per quale tipologia optereste?

Siamo sempre stati affascinati dal mondo della pubblicità e ci siamo ritrovati a produrre brani anche in questa direzione. Inoltre, amiamo i magnifici immaginari del cinema. Mario, tra l’altro, è proprio un ingegnere cinematografico laureatosi a Torino.

Tutti Manifesti, un album che senza un’etichetta né promozione, ha superato i due milioni di streaming su Spotify e vi ha spianato la strada per lavorare al brano Giovani Favolosi, supportati dal musicista e produttore Dade (Salmo, Marracash, Margherita Vicario). C’è chi lo interpreta come uno uno sfrontato pezzo electro-pop, ma per voi è davvero così?

Ci risulta difficile proiettarci in un genere musicale. Grazie a Dade abbiamo ottenuto una spinta incredibile per produrre il brano mentre l’album è interamente frutto della nostra matrice indipendente e ne siamo fieri.


Completo Blue of a kind e bucket hat Jail Jam

Santi e vincitori, reduci dal trionfo presso il Festival musicale Musicultura, lasciando da parte il cinismo, dove proiettate la vostra mente e il vostro caleidoscopico talento?

I nostri pensieri sono solo onde positive per la risoluzione di questo difficile momento storico. Siamo in piena produttività musicale e presto uscirà molto materiale. Vorremmo tanto suonare nei teatri perché ne siamo profondamente affascinati. Amiamo l’intimità generata dal contatto ovattato con il pubblico.

Crediti 

Photographer Jacopo Noera

Production, interview and styling Alessia Caliendo

Grooming Eleonora Juglair using Bullfrog

Alessia Caliendo assistants Andrea Seghesio & Laura Ronga

Location Cascina Nascosta

Special thanks to Bullfrog

In apertura, a sinistra k-way Napapijri e  t-shirt Out/Fit Italy. A destra trench e t-shirt Esemplare, bowling shirt Grifoni

La macchina umana e la fede mutante di Arca

Corpo, mente e spirito: non è facile tracciare temi comuni nella produzione artistica e nel modus pensandi di Arca, DJ, cantante, icona fashion, produttrice venezuelana. Forse, più che di temi comuni si può parlare di linee guida.

Il ruolo del corpo è indubbiamente centrale. Corpo è tutto ciò che abbiamo alla nostra nascita; tuttavia, non è solo carne e sangue, ma anche corpo nelle sue estensioni. Nell’uomo vitruviano vinciano, il perimetro materiale del corpo umano coincideva nelle figure del cerchio (il divino) e nel quadrato (il terreno). Per Arca divino e terreno coesistono, ma la geometria è estesa, complicata. Le figure archiane rimandano esplicitamente all’uomo vitruviano: nel video di Prada/Rakata (le cui immagini vengono poi riprese anche come copertine dei suoi ultimi album) vediamo Arca in set quasi da laboratorio, con arti e teste sdoppiate, in pose che tracciano sì quadrati e cerchi, ma anche forme progressivamente sempre più complicate. Qui entra in gioco la mente, in grado di farsi portatrice di un incremento continuo del corpo: alterazioni, estensioni, duplicazioni, eliminazioni. Manifestazioni del corpo che sono tanto reali sia se su carne e sangue sia se in un video musicale, una copertina o una performance d’arte.



Arca tende a una (ri)soluzione in una serie di corsi e ricorsi vichiani, in cui persona e macchina diventano uno, si dividono, si ricombinano. Non a caso nel corso del suo ultimo progetto si presentano più volte i concetti di “prima morte” e “ultima nascita”, in un ciclo continuo di rinascita e reinvenzione. Arca è in questo senso il proprio deus ex machina: ed è qui che entra in gioco lo spirito. Se nella tragedia greca il dio portava risoluzione, qui la fede è terrena ed è una fede nel cambiamento costante, quella che Arca stessa definisce più volte una “fede mutante”. Mutant era il titolo del suo album del 2015, mentre la fede mutante appare esplicitamente per la prima volta come concetto nel suo output creativo con la residency di performance art Mutant;Faith, a New York per quattro notti nell’ottobre del 2019.

Questo credo sia uno dei fili rossi all’interno dell’ultimo ambizioso e massimalista progetto di Arca: una pentalogia di album dal titolo Kick, dal calcio prenatale, concepito come primo segno tangibile della vita di un essere umano. KiCk i ha aperto il ciclo di calci a metà del 2020, seguito poi a ruota alla fine del 2021 dalle sue iterazioni ii, iii, iiii e iiiii, rilasciate una per giorno nel corso di una settimana fra novembre e dicembre 2021. 59 canzoni in totale su cinque album, inizialmente concepiti come una trilogia, poi diventati una tetralogia, a cui è stato aggiunto un quinto pezzo a sorpresa. Solo questi dati possono dare un’idea di quanto in fieri sia la produzione dell’artista. Il processo è più importante del fine ultimo, ed è il viaggio stesso a dar senso all’esplorazione, alla sperimentazione.



More is always more per Arca. Descrivere il progetto sotto un profilo musicale non è semplice, proprio per via della sua costante mutevolezza, in cui si respira l’anelito a cercare punti fermi; questi traguardi sono tuttavia nient’altro che dei nuovi punti di partenza per un’ulteriore estensione e complicazione. Il primo calcio è l’elemento sotto un certo punto di vista più pop (non a caso, anche quello col maggior numero di artisti ospiti, come Björk, Rosalía, Sophie, Shygirl), ma anche quello che presenta la vastità e l’ecletticità degli stili presenti nei successivi quattro lavori. KICK ii parte con una serie di canzoni di stampo reggaeton, che nella seconda parte vengono dissezionate in una serie di tracce dalle atmosfere impalpabili in cui i ritmi e le melodie tendono a svanire. Il terzo volume trae invece la sua ispirazione dalla musica da club, in particolare la techno.



Le atmosfere dal primo al terzo volume tendono verso un’agitazione sempre maggiore, che va poi in qualche modo a risolversi negli ultimi due capitoli: in kick iiii Arca realizza una sorta di sintesi del suo meta-pop, in una collezione di canzoni ricca di melodie, piena di suggestioni poetiche e di manifesti di intenti. Queer è una canzone politica in cui Arca esalta la forza e il dolore della propria queerness, in lacrime che sono lacrime di fuoco, di un fuoco queer. Ospite del pezzo Planningtorock, celebre per un altro inno queer da dancefloor del 2013, Let’s Talk About Gender Baby. Shirley Manson dei Garbage (venuti al successo nel 1993 con un pezzo dal titolo Queer; un caso?) recita le parole di un altro manifesto, Alien Inside, celebrazione dell’alterità presente all’interno di ognuno, in quanto opportunità di costante rinnovamento. Il quinto e ultimo (?) calcio, rilasciato a sorpresa senza alcun annuncio, è una coda, una sorta di epilogo al progetto. Fra i cinque album è quello più nudo, in cui Arca ritrova strumenti ed elementi della musica classica che contraddistinguevano i suoi primi lavori come Xen. Al contrario dei lavori degli esordi, qui la musica è però meno claustrofobica, più ariosa, arricchita da elementi di ambient music, lasciando l’impressione di un finale aperto.



Rispetto agli esordi artistici del progetto Arca, il nuovo elemento sembra essere proprio quello di una maggiore apertura, che si respira in un afflato pop (nel senso più ampio del termine) a livello musicale, il cui riflesso è percepibile anche a livello estetico. Non è un caso che Arca da fenomeno di nicchia abbia esteso i propri tentacoli (metaforici e meccanici) nel mainstream, diventando recentemente anche una star della moda, con copertine per Vogue Mexico e campagne pubblicitarie per Bottega Veneta, e attirando l’attenzione di icone dell’arte contemporanea quali Marina Abramović e Hans Ulrich Obrist.

Con un output artistico sempre più profondo e variegato è difficile prevedere quale piega potrà prendere la carriera di Arca nel futuro. Una cosa si può però affermare con quasi totale certezza: difficilmente la vedremo fissa nello stesso punto per troppo tempo.

Perché la musica non può fare a meno di XFactor

A pochi giorni dalla conclusione di XFactor 2021, con una finale esplosiva e ricca di colpi di scena – compreso il suo vincitore Baltimora – possiamo affermare con orgoglio che la musica live è tornata in grande stile per il pubblico italiano. Chi ha avuto la fortuna di assistere allo spettacolo al Forum, è stato investito dall’energia del palazzetto illuminato da led fluo e animato da un corpo di ballo che tra un flash mob e l’altro ha scandito il ritmo del parterre, in un susseguirsi di duetti tra giudici e concorrenti su pedane plananti sul palazzetto e performance che ci hanno fatto rivivere il percorso degli artisti di questa controversa edizione di XFactor. Tema caldo, Ludovico Tersigni, conduttore di questa edizione che ci ha conquistato proprio per la sua capacità di sostenere sul palco le naturali imperfezioni di chi si trova su quel palco per la prima volta, accettando la titanica impresa di succedere al fenomeno Cattelan. 

Ospiti internazionali della serata i Maneskin – padroni di casa – che hanno letteralmente infuocato il palazzetto con il loro look glam-rock firmato Gucci e i Coldplay, complici ideali di un’atmosfera dai colori e sound super pop, celebrato da un arcobaleno scenografico letteralmente esplosivo.



Al di là di ogni possibile schieramento o delusione provocata dalla vittoria o l’uscita prematura dei protagonisti del talent show più amato al mondo in fatto di musica, non gli si può negare il fatto di avere riportato alla luce tutta l’energia che solo un vero live musicale può contenere nella sua complessa impalcatura. XFactor, infatti, nelle sue 15 edizioni ha sempre fatto tuonare palco e spalti senza risparmiarsi e anche quest’anno è stato fedele al suo DNA, con scenografie trasformiste di grande impatto visivo in cui ogni talent è stato raccontato da light designer, coreografi, costumisti e scenografi che hanno lavorato per mettere in scena piccoli universi ispirati nella forma e nei contenuti ai maestri dell’arte moderna e contemporanea.

Una vera boccata d’aria in un periodo storico come quello da cui siamo stati investiti, in cui l’intrattenimento televisivo e radiofonico dedica sempre meno spazio allo scouting di nuove voci, XFactor riesce a proporre sempre nuovi volti, decisamente meno mainstream – vedi Erio, Gianmaria, Fellow e i Baltimora, veri animali da palcoscenico, che speriamo di ascoltare ancora – e lo fa attraverso una spettacolarizzazione intensa e arrangiamenti un po’ più liberi dagli schemi, con tutte le carte in regola per assicurare quell’effetto “Wow” quando la tv è sempre meno in grado di stupirci.
E se ci chiediamo perché all’estero questo format ha perso credito nel settore di riferimento e interesse nel pubblico a casa, la risposta sta nel fatto che la qualità del format italiano, dal livello di spettacolarizzazione, allo scouting dei talent, non teme termini di paragone. Non sono poche le voci protagoniste del panorama musicale scoperte dentro il talent, e vale la pena di ricordare che i Maneskin, che il mondo ci invidia, non erano in cima al podio. È proprio il caso di dirlo “Italians do it better”!

Mahmood e Blanco in gara al 72° Festival di Sanremo

MAHMOOD – uno dei maggiori e più originali esponenti del cantautorato urban pop italiano con 12 dischi di platino e 9 dischi d’oro in Italia, 6 dischi di platino e 3 dischi d’oro all’estero e quasi 1,5 miliardi di streaming totali all’attivo – e BLANCO – voce tra le più dirompenti del panorama nazionale e rivelazione musicale del 2021 che ha collezionato in meno di un anno 27 dischi di platino, 6 dischi d’oro e oltre 640 milioni di streaming totali- parteciperanno in gara insieme nella categoria Campioni al 72° Festival di Sanremo (1 – 5 febbraio 2022).

‘On the Road’, l’epopea dei tour musicali nel Calendario Pirelli 2022

Dopo lo stop per la pandemia del 2020 (evento piuttosto raro nella storia della pubblicazione, interrotta, ad eccezione della sospensione nel periodo tra il 1975 e il 1983, solamente nel ‘67), il Calendario Pirelli torna in forma smagliante e rilancia, potremmo dire, con packaging e un brano concepiti appositamente, entrambi a firma di Bryan Adams, cantautore dal fulgido cursus honorum musicale – oltre 100 milioni di dischi venduti, tre nomination agli Oscar, cinque ai Golden Globes, 15 (con una vittoria) ai Grammy – che, dagli anni Novanta, ha abbracciato una carriera fotografica altrettanto fruttuosa, scattando cover ed editoriali per magazine quali Harper’s Bazaar, Vogue, Vanity Fair, L’Officiel e Zoo.



On the Road, questo il titolo di The Cal 2022, dà il nome perciò anche alla canzone dell’artista canadese, un’anticipazione del suo nuovo album So Happy It Hurts, in uscita il prossimo marzo. Sul calendario poi, custodito in una confezione quadrata tipo LP in vinile, accanto alla scritta con la caratteristica iniziale allungata della multinazionale dei pneumatici, campeggia un logo ad hoc, celebrativo del 150esimo anniversario dell’azienda.



Il filo conduttore dell’edizione di quest’anno è, dunque, il viaggio, declinato in un omaggio per immagini all’epoca, per molti versi lontana e irripetibile, dei grandi tour musicali, microcosmi a sé stanti con i propri riti, luoghi e tempistiche, nei quali la celebrity di turno si rifugiava al di fuori del concerto, tra pause relax in suite maestose (come quelle dello Chateau Marmont, buen retiro dei ricchi e famosi di Hollywood, location degli scatti patinati insieme al Palace Theatre, sempre a Los Angeles, e all’hotel Scalinatella di Capri), sessioni di trucco e parrucco, momenti di concentrazione nel backstage, enormi set di bagagli, spostamenti in limousine, studi di registrazione avveniristici.



Per interpretare un tema così composito, sospeso tra solitudine e vitalismo, atmosfere intimiste e cenni all’iconografia della rockstar, l’autore ha riunito dieci nomi di prima grandezza, tra i più rappresentativi della musica internazionale dai Sixties in avanti: in copertina (oltre che nella foto di febbraio, dove posa in déshabillé, illuminata debolmente dai raggi filtrati dalle veneziane) St. Vincent, performer camaleontica e restia alle classificazioni, qui con bob platinato, che nel fare la linguaccia all’osservatore mostra un plettro marcato Pirelli. A seguire Kali Uchis, fasciata in un abito (quasi) adamitico, con calze a rete e lingerie da femme fatale in vista; Cher, assorta in chissà quali pensieri davanti agli specchi a tutta parete del camerino; Iggy Pop, a torso nudo (e come, sennò?) e ricoperto di polvere argentata, pronto per una delle sue leggendarie esibizioni da istrione del punk; Rita Ora, che posa languida nella vasca da bagno con un dress in maglia metallica; la teatralità del rapper Bohan Phoenix, in piedi sul pianoforte vestito di pantaloni cargo, anfibi e guanti da opera silver. Il cast all star si completa con Grimes, Jennifer Hudson, Normani e Saweetie.



Chiude la carrellata, idealmente e non, lo stesso Adams, fotografato nelle pagine di dicembre a bordo di una classica auto americana, mettendo la parola fine all’itinerario on the road fra topoi musicali e divismo old school. Un tour visivo che merita di essere approfondito visitando il sito www.pirellicalendar.com, dove scoprire retroscena, filmati, testi inediti e interviste ai protagonisti del 48esimo The Cal.




Bagheria direzione Bologna : il gran bazaar musicale firmato Gen Z è Giuse The Lizia

Novembre 2021. Incontro sotto i portici bolognesi il giovanissimo palermitano Giuse The Lizia all’alba della pubblicazione del suo primo EP, Come Minimo. Un progetto musicale che nasce nel segno della contaminazione e dei generi che lo rappresentano rap, hip-hop, synth pop, indie e punk rock. 

Hai soli 19 anni e un a dir poco recente approccio allo strumento che, nella tua terra d’origine, ti ha portato a suonare in una cover band degli Strokes. Un carico indie rock così importante ha influenzato le tue attuali scelte stilistiche?

Sicuramente si. Ho ascoltato indie rock per tutto il periodo selle superiori e le influenze si sentono. In generale, ogni volta che mi metto a scrivere o a suonare prendo ispirazione da ciò che fa parte della mia memoria musicale.

Bagheria direzione Bologna,il confronto con un tessuto universitario ricco di stimoli adesso è parte della tua quotidianietà. Come minimo di sei visto proiettato in un ambiente totalmente diverso. Raccontaci le tue giornate tra lezioni , sessioni e una massima cura dei dettagli nel panorama social (Giuse ha un volto attoriale che su Instagram viene enfatizzato da scatti analogici che rispecchiano anche i suoi sound).

Le giornate passano sempre molto veloci, provo ad incastrare tutti i miei impegni e la sera sono distrutto. Quando sono libero scrivo o ascolto nuova musica.



Come Minimo, è anche il titolo del tuo primo EP, recentemente pubblicato, nato dalla collaborazione con il tuo amico Mr Monkey. Hai raggiunto dieci tracce ed è stato anticipato da ben 3 singoli. Affermi che si tratta di un brano “onesto” nato dall’emotività pandemica che ha profondamente segnato la Generazione Z. Quanta introspettività è presente nell’EP e come pensi si evolverà il tuo stile di produzione in futuro?

L’introspezione è presente in tutti i pezzi, ogni volta che scrivo qualcosa racconto di me al 100%. Tento di non essere troppo didascalico perché mi piace pensare che chi ascolta possa rivedersi nei brani. In Come Minimo mi metto particolarmente a nudo. Del resto, stavo veramente male e serviva una canzone che fissasse il sentimento.

Lo stesso EP è un gran bazaar di generi che si contamina e si fonde con ispirazioni indie, rap, hip-hop, synth pop ed un leggerissimo punk rock. Mi viene voglia di chiederti la tua playlist Spotify.

Ne ho diverse! Sono tutte molte contaminate, dal cantautorato all’indie rock, passando per il rap ed ultimamente anche un pò di trap! Ascoltare tanto aiuta ad essere elastici anche nel produrre la propria musica.

Quali sono gli obiettivi che ti sei prefissato per i prossimi mesi?

Tanti concerti e tanta musica. No spoiler ma voglio assolutamente far conoscere l’EP in giro per l’Italia. Stay tuned!

Cover: Stefano Bazzano

Taxi B: la promessa musicale della GenZ

TAXI B è senza dubbio uno tra i più giovani e promettenti della GenZ. ll suo percorso inizia come membro del collettivo di culto FSK, che ha ridefinito i confini della musica urban italiana distorcendoli, allargandoli e trasformandoli, con un linguaggio inedito e visionario e sonorità sperimentali.




Lui appartiene alla classe del 1998 e la sua musica raccoglie e unisce tutte le influenze del mondo del rap più hard-core e del punk, in un connubio inconfondibile, scandito dalla voce graffiante, a tratti urlata a tratti sussurrata, che riesce a raccontare ad ampio spettro e con cruda autenticità tutta la complessità dello sguardo sul suo mondo. All’attivo un album e diversi singoli certificati platino che portano la firma di FSK, ma conviene aspettare per riuscire ad afferrare il meglio che Taxi ha da offrire seguendo il suo percorso solista.



Cover look: Shirt | Dhruv Kapoor, Skirt | A Better Mistake, Tie | Caflor Due Vintage, Shoes | Marsèll

Taxi B

Creative & Fashion Direction Francesco Mautone

Photography Ilaria Ieie

Make Up Vanessa Icareg @blendmanagement

Hair Marco Minunno @blendmanagement

Set Design Edith Di Monda

Videomaker Alessio Esposto

Styling Assistant Maria Alessia Simonte

Make Up Assistant Noemi Auetasc

Location Daylight Studio

Sophie Xeon: nove mesi dopo

Nove mesi sono passati dalla scomparsa di Sophie a 34 anni. L’ineffabile DJ scozzese riuscì a plasmare il volto della musica pop e dance con un ampio ventaglio di collaborazioni che vanno dal mainstream di artisti pop come Madonna e Charli XCX ad artisti più fuori dagli schemi come la rapper Industrial Hip-Hop britannica Shygirl, la produttrice venezuelana Arca o l’avatar Hyperpop QT. Con il suo album in studio Oil of Every Pearl’s Un-Insides (un gioco di parole di “I love every person’s insides”) (2018), è diventata una delle prime donne trans ad essere nominata per un Grammy Award. Il suo sound era caratterizzato dallo scontro, o meglio dalla giustapposizione, degli opposti: melodie bubblegum pop incontravano l’abrasività sfacciata della techno, suoni industriali, il tutto con l’aggiunta di un pizzico di sensibilità house e sormontato dalle voci di software ibridi privi di un genere definito.



Si potrebbe probabilmente fare riferimento a un “approccio” Sophie alla musica piuttosto che a un genere, anche se in effetti la DJ diventò una delle precorritrici del cosiddetto genere “Hyperpop”. L’Hyperpop è accreditato come uno stile che ha aiutato a colmare il divario tra la sensibilità alternativa dei suoi araldi (come A.G. Cook, Charli XCX, 100 gecs, Dorian Electra, ecc.) con suoni e melodie che suonano come musica Pop sotto steroidi, il tutto privo di qualsiasi elitarismo snobistico. Infatti, solo negli ultimi 10 anni la critica musicale ha iniziato a parlare con un ritrovato “poptimismo”, per il cui insorgere possiamo ringraziare anche Sophie e il resto della compagnia Hyperpop.

Musica che prima sarebbe stata liquidata come confusionaria o addirittura inascoltabile è diventata il pane quotidiano delle popstar di serie A: non può essere un caso che Lady Gaga abbia appena pubblicato una rielaborazione del suo album Chromatica del 2020, con remix e guest spot gentilmente offerti da star dell’Hyperpop come Shygirl, Dorian Electra, LSDXOXO, A.G. Cook. Il pop mainstream ha raggiunto il suo cugino più edgy, ma allo stesso modo si può dire anche il contrario: la platea più indie e alternativa dell’Hyperpop più indie è stata anch’essa felice di invitare i ragazzi del Pop alla festa. 



Le imprese collaborative dei 100 gecs sono un esempio lampante di questo: dalle loro collaborazioni con artisti Pop vintage dei primi duemila come i Fall Out Boy e 3OH!3, ai loro remix bootleg di Taylor Swift e Katy Perry, nulla sembra al di là della presa dei loro tentacoli. Le influenze Pop sono perfettamente rifratte attraverso il loro prisma di strutture spezzate, strumentali imprevedibili e beat EDM. 

Parte dell’eredità che Sophie ha lasciato è proprio questo: la convinzione che i confini dei generi musicali non siano sacri e intoccabili; che il divertimento e la serietà possano essere ugualmente degni di rispetto; proprio come il genere sociale nella sua fissità e binarietà, i generi musicali sono un costrutto, una tela che può essere dipinta, ma anche fatta a pezzi e rimodellata in qualsiasi forma si voglia. Questo è visibile anche nelle ultime offerte di Sophie dei suoi ultimi anni: dalla contagiosa musica House del suo Sweat (Remix) alle sue sperimentazioni Industrial Hip-Hop nel banger SLIME di Shygirl, è possibile vedere la varietà di uno stile onnicomprensivo che non conosceva limiti preconcetti. L’importante era poter ballare.

Piove ancora: il nuovo album di Silent Bob & Sick Budd

Dopo lo straordinario successo virale del suo primo album d’esordio “Piano B” che solo su Spotify ha superato oltre 50 milioni di ascolti, esce Venerdì 5 Novembre in fisico e digitale “Piove ancora” l’atteso nuovo album di Silent Bob, una delle migliori penne della nuova scena urban contemporanea. Il disco in uscita su etichetta Bullz Records, licenza esclusiva Believe Artist Services, è prodotto interamente da Sick Budd, geniale producer che insieme a Silent Bob ha saputo disegnare un’identità musicale unica ed inconfondibile.



“All’inizio non sapevo da dove partire per scrivere questo disco – dichiara Silent Bob – Continuavo a scrivere pezzi e registrare provini ma niente andava come doveva e come volevo.

Era iniziato da poco il primo lockdown e mi trovavo con una casa affollata e senza privacy e tante insoddisfazioni. Una strana sensazione di fallimento mi perseguita da sempre ma pensavo si sarebbe affievolita dopo il successo del mio primo disco. Dopo settimane senza ascoltare musica o guardarmi allo specchio, all’improvviso una notte mi sono sentito come trainato da una forza esterna che mi ha finalmente spinto a scrivere tutto quello che volevo, come volevo, senza più pensare a chi c’era fuori e a cosa volesse da me. E’ così che quella notte nacque Piove Ancora, il brano che ha dato poi il via all’intero nuovo album. Da lì in poi sono riuscito ad approcciarmi ad ogni mood ed a ogni nuovo brano come volevo davvero. Era passato già molto dall’uscita del primo disco e tutto quel periodo di fermo di tristezza e di solitudine mi ha aveva inevitabilmente fatto crescere. Ero diverso dagli anni prima, lo sentivo. Non mi serviva più l’aiuto o la compagnia di altre persone, avevo tutto dentro quello che volevo esprimere. Ho scavato per mesi dentro di me senza trovare nulla ma quando stavo per mollare e crollare definitivamente, ecco una luce.  Piove Ancora è stato scritto da un ragazzo che scava senza sosta per trovare il peggio di sé stesso, una sorta di autolesionismo. Quando lo trova, come fosse un tesoro oscuro, lo fa suo e lo trasforma in parole. Piove Ancora è la lucida trascrizione della tempesta che avevo dentro di me e che spesso si ripresenta. Ogni brano che ho scritto è servito come a ripulire il disastro che era rimasto, a buttare fuori i vetri rotti e i cocci che si erano accumulati. Quello che vedono i tuoi occhi può sembrare più bello e più sereno ma se all’interno c’è ancora maltempo, nulla ti può soddisfare.

Ora che ho sputato fuori tutto e tutto è tornato pulito e limpido, all’interno non sono comunque tranquillo perché so che come sempre pioverà ancora.”

Grazie ad un sound ammaliatore che rimane nelle orecchie sin dai primi ascolti “PIOVE ANCORA” è un disco di autentica verità che unisce in un tutt’uno davvero inedito e sorprendente l’inconfondibile flow di Silent Bob e il tappeto sonoro a tratti old school e black di Sick Budd, una coppia ormai di fatto che negli anni è diventata affiatata, creando un legame indissolubile.

La rabbia che contraddistingue la scrittura di Silent Bob è la stessa di due anni fa, l’insoddisfazione maggiore e il processo di riflessione indotto dallo stato di isolamento anche a causa dei vari lockdown gli hanno consentito di scavare più a fondo nel suo essere artista portando a galla un’ “anima black” ancora più intensa. “Piove ancora” intende sancire la presenza stabile di Silent Bob nel panorama musicale contemporaneo, confermandosi a pieno titolo tra le nuove leve più interessanti ed originali della nuova scena italiana.

Il disco s’impreziosisce inoltre di collaborazioni con alcuni degli artisti più significativi della scena urban: da Emis Killa nel brano “Potevamo”, a Speranza in “9×19” non manca il feat con Drast (Psicologi) in “Baci di Giuda”, tutte collaborazioni sono dettate da reciproca stima artistica e personale.

Silent Bob al secolo Edoardo Fontana, è un giovane artista classe 1999 che arriva dalla provincia pavese capace di unire retaggi di un suono moderno con l’attitude del classico Rap in stile anni ‘90. In lui coesistono in perfetto equilibrio molteplici sfumature ed influenze musicali: dalle melodie della Trap, all’eleganza del Jazz, senza dimenticare il dolore del Blues e la rabbia autentica del Rap.

Dopo il più classico dei percorsi alla scoperta dell’Hip-Hop tra jam e battle di freestyle, nel 2017 partecipa ad un contest e si guadagna un posto nel roster di Bullz Records, etichetta indipendente milanese. Fondamentale nel disegnare la sua identità sonora e musicale è l’incontro con Sick Budd, beatmaker, producer socio della label, che lo porta ad una costante evoluzione della scrittura, via via più semplice e concentrata sul significato, e ad una sempre più caratterizzante valorizzazione del timbro.



TRACKLIST – PIOVE ANCORA

  1. Da 0 a 100

Autore: Edoardo Angelo Fontana

Compositore: Jacopo Luigi Majerna

Performer: Silent Bob, Sick Budd

  • Oh no

Autore: Edoardo Angelo Fontana

Compositore: Jacopo Luigi Majerna

Performer: Silent Bob, Sick Budd

  • Potevamo (feat. Emis Killa)

Autore: Edoardo Angelo Fontana, Emiliano Rudolf Giambelli

Compositore: Jacopo Luigi Majerna

Performer: Silent Bob, Sick Budd, Emis Killa

  • Gucci falsa

Autore: Edoardo Angelo Fontana

Compositore: Jacopo Luigi Majerna

Performer: Silent Bob, Sick Budd

  • Baci di Giuda (feat. Drast)

Autore: Edoardo Angelo Fontana, Marco De Cesaris

Compositore: Jacopo Luigi Majerna

Performer: Silent Bob, Sick Budd, Drast

  • Blood nero

Autore: Edoardo Angelo Fontana

Compositore: Jacopo Luigi Majerna

Performer: Silent Bob, Sick Budd

  • Piove ancora

Autore: Edoardo Angelo Fontana

Compositore: Jacopo Luigi Majerna

Performer: Silent Bob, Sick Budd

  • AK

Autore: Edoardo Angelo Fontana

Compositore: Jacopo Luigi Majerna

Performer: Silent Bob, Sick Budd

  • Sotto controllo

Autore: Edoardo Angelo Fontana

Compositore: Jacopo Luigi Majerna

Performer: Silent Bob, Sick Budd

  1. OK

Autore: Edoardo Angelo Fontana

Compositore: Jacopo Luigi Majerna

Performer: Silent Bob, Sick Budd

  1. Me VS Me

Autore: Edoardo Angelo Fontana

Compositore: Jacopo Luigi Majerna

Performer: Silent Bob, Sick Budd

  1. Come il mondo

Autore: Edoardo Angelo Fontana

Compositore: Jacopo Luigi Majerna

Performer: Silent Bob, Sick Budd

  1. Vedova nera

Autore: Edoardo Angelo Fontana

Compositore: Jacopo Luigi Majerna

Performer: Silent Bob, Sick Budd

  1. 9×19 (feat. Speranza)

Autore: Edoardo Angelo Fontana, Ugo Scicolone

Compositore: Jacopo Luigi Majerna

Performer: Silent Bob, Sick Budd, Speranza

  1. Pezzi di strada

Autore: Edoardo Angelo Fontana

Compositore: Jacopo Luigi Majerna

Performer: Silent Bob, Sick Budd

Ufficio stampa e comunicazione SILENT BOB & SICK BUDD

Christian Moioli – [email protected] – cell.366/8135202

Rehegoo Music: la nuova frontiera della produzione musicale

Una realtà musicale fondata dal padovano Marco Rinaldo nel 2014, in pochi anni è diventata una tra le 100 società di produzione musicale più influenti



Rehegoo crea e distribuisce contenuti musicali di artisti indipendenti che da soli non avrebbero modo di farsi conoscere ed apprezzare attraverso diverse piattaforme online e servizi streaming. La società si occupa di produzione di musica background ed è diventata in pochissimi anni la società più importante al mondo nella produzione di musica per artisti emergenti. Marco Rinaldo l’ha fondata insieme a Quincy Jones e, nel giro di pochissimi anni, è cresciuta tantissimo, tant’è che all’inizio del 2021 è stata dichiarata da Spotify come il quarto maggiore fornitore di contenuti musicali per la loro app. 


Il nome nasce dalla parola inglese king ,ossia re in italiano, più ego, con una doppia oo che richiama un po’ Google o Yahoo. Nel corso di questi anni l’azienda si è specializzata, ad esempio, nel Sync Music e quindi nella creazione di colonne sonore per il cinema e per le serie televisive. 

Un ramo dell’azienda che sta crescendo sempre di più è invece quello dedicato alla musica in-store; Rehegoo ha infatti un grande team che lavora con le catene di retail in Italia e all’estero per creare colonne sonore adatte e perfette per ogni singolo brand per i loro stores. In Italia, ad esempio, Rehegoo si occupa della musica per Timberland, New Balance, NonSoloSport, Roy Rogers, NorthSails, Napapijri, SuperDry, e molti altri.



Il rapido sviluppo della società all’insegna del motto We are different, ha incentivato la sua espansione globale, conquistando il mercato della musica digitale con oltre 150 dipendenti. I dati parlano: sono i leader nel settore della musica new-age e chill-out.
Inoltre, con il progetto REHEGOO STREAMING, il brand è presente in moltissimi negozi con delle playlist per le quali i titolari non devono pagare la Siae, ma solo la licenza alla società.

La musica italiana attualmente non è molto presente, ma Rehegoo punta ora ad inserirla anche grazie all’apertura di una sede a Padova.

3 nuove voci da seguire adesso

Siamo in pieno autunno e i cantautori hanno voglia di guardarsi dentro e far i conti con le loro emozioni. L’estate è finita, tuttavia il ritornello di “Topless” è ancora presente nei nostri pensieri, in ricordo dei bei momenti trascorsi con amici e amori estivi. Proprio ora Luchè ha deciso di interrompere un silenzio discografico durato diversi anni con un pezzo esplosivo assieme all’artista e produttore musicale Geeno. La fruttuosa collaborazione tra i rapper è una delle più longeve del panorama musicale italiano. Non solo rap , ma anche altri giovani cantanti hanno lasciato il segno nel cuore degli italiani negli ultimi mesi. Un esempio tangibile è Federica Marinari, artista emergente conosciuta al pubblico soprattutto per la vena malinconica contenuta nei suoi testi. 



Luca Imprudente, meglio noto come Luchè, inizia la sua carriera nel mondo dell’hip hop come rapper/producer del duo Napoletano CoSang, che si scioglie all’inizio del 2012. Chi segue Luchè dagli esordi è stato spettatore del suo passaggio artistico: primo album solista, dal napoletano all’italiano. Il disco esce il 19 giugno con il titolo L1, contenente collaborazioni di prestigio come quelle con i Club Dogo, Marracash ed Emis Killa. Nel 2014 esce il suo secondo album, L2, mentre il suo terzo disco, Malammore, viene pubblicato dalla Universal nel 2016 ed ottiene un ottimo riscontro a livello di vendite. Il suo ultimo lavoro, prima di “Topless”, è uscito nel giugno 2018, con il titolo Potere

Cosa ti stimola di più a scrivere i tuoi testi?

Quando scrivo prendo spunto esclusivamente dalle mie esperienze di vita, è un bisogno che ho di raccontare quello che mi succede, ovviamente cercando di aggiungere un tocco di poesia o magia per rendere i brani più interessanti e potenti emotivamente per l’ascoltatore. Diciamo che è una necessità che sento quella di comunicare con la gente, l’obiettivo che mi pongo è proprio quello di toccare le persone, sia nei pezzi più intimi dove punto a far ragionare l’ascoltatore sia nei brani più leggeri dove cerco di strappare un sorriso o ancora meglio, incoraggiare le persone a sentirsi forti.



Nei tuoi pezzi emerge molta sofferenza, nel tuo nuovo album ci sarà sempre questa vena malinconica o ipotizzi un’evoluzione diversa?

La sofferenza è parte della mia musica semplicemente perché è parte della mia vita. Ed è anche un bene quando la si usa nel modo giusto e la si trasforma in grinta. Nel nuovo disco ci sono sicuramente elementi che si trovano nei miei lavori precedenti: la matrice del mio stile rimane sempre quella, ma cerco di evolvere il sound, le melodie e anche gli argomenti, in base a come variano le fasi della mia vita. Ma il carattere di una persona resta quello, così anche la mia musica.



Geeno, nome d’arte di Guido Parisi, è un produttore italiano, originario di Napoli, noto principalmente per le sue collaborazioni con Luchè. Inizia la sua carriera con l’alias O’Nan formando il duo rap Insolens con il rapper El Niño. Formava con Luchè il duo di produzione First Million.

Quali sono gli ingredienti fondamentali per riuscire nel tuo lavoro?

In realtà sono molteplici i punti: quello che mi ha sicuramente aiutato è stato il fatto di essere curioso rispetto alla musica. Non essermi soffermato su un solo genere musicale mi ha permesso negli anni di avere un’apertura che ho notato, e poi apprezzato, solo una volta cresciuto. 

E lo ritrovo come l’ingrediente principale, perciò siate curiosi. Un’altra cosa che reputo quasi fondamentale è stare in un luogo che mi ispiri: troppo spesso si pensa che i lavori migliori nascano in studio, davanti a macchine costose. 

Amo lavorare anche da camera mia. È un posto dove mi ritrovo volentieri, è la mia comfort-zone. 



Pensi che ci sia tanta competizione nel vostro settore rispetto al passato? Perché? 

La competizione, come concetto, non esiste: è più un volersi affermare sull’altro. L’esercizio di stile che poteva esserci un tempo si è trasformato in un qualcosa che non riconosco ancora oggi, motivo per il quale per un po’ di tempo ho smesso di produrre.  

Vivere al di fuori di certe dinamiche mi ha concesso la libertà di formare quella consapevolezza che mi permette oggi di pensare solo al mio viaggio, avere un “focus” preciso su ciò che voglio fare e quello che voglio trasmettere con le mie produzioni. 

Cosa consigli a chi oggi ti dice che vorrebbe sfondare nel mondo della musica? 

Il primo consiglio è quello di lavorare alla musica con l’obiettivo di restare alle persone, e non di arrivare.  È un concetto che spesso si ignora, ma l’ascoltatore percepisce questa “voglia di successo”, che sfocia nell’essere banali in ogni cosa che si fa. Fare gavetta è fondamentale. Lavorare, ascoltare, conoscere, è questo quello che ti forma come artista. La musica come materia, per chi produce è fondamentale. Imparare a suonare uno strumento ti facilita in moltissime cose. Ogni genere, ogni canzone può essere motivo di ispirazione, e solo la cultura ti permette poi di superarti e stupire sempre di più chi ti ascolta e di conseguenza segue.



Appassionata di musica fin da bambina, Federica Marinari, nel 2019 prova a fare il suo ingresso nella scuola di Amici di Maria De Filippi e, dopo un duello con Daniel Piccirillo, riesce grazie alla sua voce a conquistare un banco. Anche il talent di Canale 5 si dimostra però avaro di soddisfazioni per lei. 

Ci parli del tuo rapporto viscerale con la natura? Come mai hai scelto di vivere isolata in Toscana? La malinconia che emerge nei tuoi testi è dettata anche da questo tuo isolamento?

Credo che natura significhi essere vivente. Noi siamo esseri viventi. Credo ci sia un rapporto universale di rispetto tra uomo, natura e animali. Quando il rapporto viene volontariamente interrotto, la pace finisce. L’uomo fa troppi torti ad altri esseri viventi, torti sgradevoli e tranquillamente evitabili. Non a caso tra calamità e pandemie l’essere umano sta perdendo la partita. I suoni della natura sono il nostro quotidiano. Dobbiamo imparare ad ascoltare fiumi, mare, temporali, vento e versi animali aiuta l’orecchio ad essere più sviluppato, la mente più attenta e il cuore più sensibile. A me piace stare in posti dove nessuno giudica nessuno e dove tutti rispettano tutti. Amo anche la città, per esempio Milano, dove spero un giorno di poter vivere. Il patto è che ci siano persone in grado di amare e vivere le diversità, senza sentirsi superiori rispetto al “resto”. Essere lunatica è il mio forte: un giorno sono blu l’altro giallo frizzante. Ci sono tante cose che mi disturbano e che mi fanno talmente “incazzare”… Cantare mi libera, mi aiuta a buttare fuori questa rabbia devastante. 



Raccontaci della tua esperienza ad Amici… Ti sei mai sentita inadeguata in quel contesto? Perchè?

“AMICI” è una grande opportunità certamente, una sorta di “servizio militare” di pochi mesi in cui bisogna tirare fuori gli “attributi”. Un’esperienza importante, sono felice di averla fatta anche se spesso mi sono sentita inadeguata per tanti atteggiamenti falsi e opportunisti. Effettivamente è una competizione e comprendo con maturità dopo qualche anno che in quel contesto “uno su mille ce la fa”. Quando si fanno i programmi televisivi ci si aspetta che dietro ci siano dei “programmi”, ma bisogna ricordare che dietro a quel “prodotto” c’è un essere umano, che crede in quello che fa, con un cuore e una distinta sensibilità.

Il rap senza confini di Random, dai social a Sanremo

Photography Simone Conte

Art direction & Production Miriam De Nicolò

Styling Sofia Radice & Miriam De Nicolò

Photographer assistant Luigia Imbastaro

Grooming Elisa Maisenti

Press Office Wordsforyou

Cover look: Coat, hoodie and pants | Collini; Shoes | Vic Matiè

Il freestyle ai tempi della scuola, la prima canzone pubblicata su Facebook a 14 anni, l’album Giovane oro col producer Zenit che sancisce l’avvio di una fruttuosa collaborazione, ascolti monstre sulle principali piattaforme di streaming, sei dischi di platino (tre per Chiasso, il singolo con cui è definitivamente esploso nel 2019), featuring di peso (Gué Pequeno, Carl BraveEmis Killa e Gio Evan tra gli altri), un EP – Montagne russe – rimasto per settimane nella top 10 dei più venduti. Sono questi i momenti salienti della repentina scalata ai vertici dell’industria musicale di Random, pseudonimo di Emanuele Caso, enfant prodige del rap nostrano. Ventenne, nato a Massa di Somma ma cresciuto a Riccione, indicato a suo tempo da Mtv New Generation come artista del mese, è già arrivato ai palcoscenici televisivi che contano (nello specifico, quelli di Amici Speciali, spin-off del programma di Maria De Filippi, nel 2020, e del festival della musica tricolore per eccellenza, Sanremo 2021), e sembra avere tutte le carte in regola per confermarsi come uno degli astri più fulgidi della new wave italiana. D’altra parte è lui il primo a volersi spingere oltre, affermando di aver ricominciato a  «vivere la musica come facevo quando non ero nessuno, è questa la chiave giusta per avere successo secondo me».



Sei molto attivo online e in particolare su TikTok, che ha veicolato il boom di Chiasso, brano certificato triplo disco di platino. Cosa apprezzi maggiormente dell’app di ByteDance e, più in generale, come vive i social un cantautore il cui successo passa (anche) da loro? 

Devo sicuramente parte del mio successo a questa piattaforma, ha rivoluzionato il modo di condividere la musica e trovo sia meritocratica, se sei costante e hai dalla tua bei contenuti, puoi arrivare a tante persone. Per un cantautore della nuova generazione i social possono essere davvero utili per farsi conoscere da migliaia di utenti con un semplice video, sono però anche un’arma a doppio taglio perché questi ultimi possono farsi condizionare, stabilendo che se una canzone non è particolarmente “tiktokabile” allora non è bella, ma non è vero; ogni brano ha la sua storia, il suo mondo, il suo modo di essere enfatizzato in un determinato contesto.

Quali canzoni o autori pensi abbiano influito di più sulla tua maturazione artistica?

All’inizio della mia carriera ero un fan scatenato di Emis Killa (se dovessi indicare una sola canzone direi Parole di ghiaccio, mi ha molto influenzato) e Marracash, la sua Sabbie mobili mi ha dato tanto. Con il passare del tempo mi sono lasciato ispirare da altri cantanti italiani, come Sfera Ebbasta e Jovanotti, e internazionali, ad esempio Ed Sheeran o Justin Bieber, adoro tutta la loro discografia, scegliere è difficile.

Se dovessi descrivere il tuo sound usando solo tre aggettivi?

Dirompente, vero, emozionante.



Hai collaborato con artisti di primo livello, da Gué Pequeno a Carl Brave, con chi immagini il feat dei tuoi sogni?

Mi piacerebbe collaborare con Sfera Ebbasta, come dicevo lo apprezzo molto, ha decisamente una marcia in più. Poi Ultimo, al quale mi sento affine, e Jovanotti.

Nel 2020 ti sei distinto tra i concorrenti di Amici Speciali, tra l’altro hai raccontato di aver provato a partecipare alla trasmissione di Maria De Filippi quando avevi 17 anni, com’è stato in definitiva l’approdo al principale talent italiano

L’esordio in televisione è stato un momento fondamentale del mio percorso creativo, grazie ad esso sono potuto entrare in contatto con il grande pubblico e, viceversa, quest’ultimo ha avuto la possibilità di conoscermi. Ho imparato tante cose, studiando per la prima volta canto, imparando a muovermi davanti alle telecamere. Ringrazio Maria e Stash (il frontman dei The Kolors con cui ha duettato nel programma, ndr) per la fantastica esperienza.

Hai partecipato al festival di Sanremo 2021, cosa puoi dirci a riguardo, com’è stato per un ventenne cresciuto – e affermatosi – sul web confrontarsi con uno dei massimi simboli della tradizione musicale italiana? 

Lo considero un altro enorme passo in avanti nella mia carriera, essere in gara a Sanremo mi ha tolto il fiato e mi ha formato, tantissimo. Ero incredibilmente emozionato, quasi incredulo di far parte di un cast di cantanti del genere, sono tuttora riconoscente per aver calcato il palco dell’Ariston.



Il rap è un genere fortemente connotato sotto il profilo dell’immagine, quanto conta per te lo stile, e come lo definiresti?

Penso sia cruciale avere un bel personaggio, la percezione che si ha di un artista passa anche da come appare dall’esterno; puoi fare della musica stupenda, ma se non hai una visione stilistica ed emotiva sei al 50%. In questo periodo sto lavorando parecchio in questa direzione.

A novembre il tuo tour farà tappa a Roma e Milano, cosa ti aspetti dalle due date? Come speri sia il ritorno on stage dopo tutto quello che è successo nell’ultimo anno e mezzo?

Saranno i miei primi due concerti veri e propri, un’emozione unica. Voglio che sia uno spettacolo in tutti i sensi e mi sto impegnando al massimo affinché lo sia. Mi piacerebbe ci siano persone che magari non conoscono nemmeno una nota delle mie canzoni e, sentendole, se ne innamorino.

Hai in serbo qualche novità che vorresti svelarci?

Posso dirvi che sto componendo diverse canzoni con produttori con i quali non avevo mai lavorato, e sperimentando nuove sonorità. Sto uscendo dalla mia zona di comfort e ricominciando a vivere la musica come facevo quando non ero nessuno, è questa la chiave giusta per avere successo secondo me.



Dal disco “You are the movie, this is the music”, di Joe Schievano arriva anche il videoclip di Agua Ventosa

Dopo il successo dell’ultimo album You are the movie, this is the music, il compositore e Sound Designer Joe Schievano presenta il videoclip di uno dei brani più significativi del disco: Agua Ventosa, che uscirà l’11 ottobre.

Originariamente, il pezzo è stato pensato per il docufilm portoghese diretto da Marco Schiavon Agua Nas Guelras (2020), interamente ambientato nelle Azzorre, in una terra solcata da vento e oceano. Tanto nel film quanto nel videoclip, l’elemento marino fa da sfondo concreto alla musica, esprimendo con poetica intensità carattere e passione.

Un ruolo fondamentale è quello del violoncello, “lo strumento più struggente e profondo che descrive ogni mare”, suonato dalla talentuosissima Laura Balbinot.

Attraverso immagini e suoni, Schievano riesce a creare una coinvolgente narrazione dell’elemento acqua e del suo incontro con il vento, un archetipo dei nostri confini interiori, dove i moti dell’anima s’incontrano e ne formano continuamente di nuovi.



Girato sulle spiagge tra Palo, Ladispoli e Marina di San Nicola, sulle coste laziali, il videoclip – fortemente evocativo e con la regìa di Jessica Tosi – mostra una ragazza, Teresa Farella, ideale personificazione della ninfa greca Actea (ninfa abitatrice delle coste marine), danzare avvolta da un abito creato ad hoc dalla costumista Maria Giovanna Spedicati, ispirato alle onde del mare, ma composto di materiale plastico, a denunciare l’alienazione umana delle leggi della natura.

Agua Ventosa, prodotto da Tàdan, vuole essere un brano passionale, struggente, con una sottesa vena di denuncia, ma anche un’opera riflessiva, capace di riconciliarci con una natura e con i suoi equilibri dati troppe volte per scontati.

Il futuro è la slow music e ce lo insegna Marianne Mirage

L’incontro visivo e il talk con Marianne Mirage è uno dei più attesi delle ultime giornate di caldo. Ci interessa scoprire come l’artista, nel corso degli ultimi anni, si sia evoluta fino a connettere la pratica dello yoga alla sperimentazione musicale. E a chiederle come Patti Smith, si proprio la Gran Madre della musica rock, l’abbia scelta per gli open act dei suoi concerti italiani.

Marianne ha un background fenomenale, una vita da giramondo con in tasca una laurea in Lettere e Filosofia e una borsa di studio, in qualità di attrice, al Centro Sperimentale di Cinematografia. Le sue classi yoga, che uniscono la musica alla pratica, sono sold out.

Misticismo e benessere, le rilassanti note di Marianne Mirage in esclusiva su Manintown.


Cappa Valentino, swimsuit Arrabal

Leggere la tua biografia è entusiasmante. Un padre pittore, una passione per il globe trotting, Sanremo con il brano firmato da Francesco Bianconi (Baustelle), soundtrack di pregio e una rosa di artisti che ti ha scelta per gli open act, tra cui spiccano Brunori, Patty Pravo e Tamino. L’occhio cade, però, su Patti Smith e l’interessante ingaggio avvenuto grazie a Youtube, è tutto vero?

INCREDIBILE EH? DREAM UNTIL IS YOUR REALITY. Quando vivi ogni giorno con tanta ricerca e voglia di scoperta non te ne rendi conto, infatti ancora oggi non guardo mai indietro. Ho anche imparato a non guardare troppo il futuro, senza fare tante previsioni. Mi godo il presente con tutte le cose che ha da offrire. Questo per me è la felicità. Tutti i ricordi restano ancorati nei miei comportamenti e nei modi di fare, diventando frutto di tutte le mie esperienze. Carver (scrittore americano) scriveva: “prendi tutto e mettilo a frutto”.



Possiamo affermare che tu sia stata un vero e proprio “miraggio” per tutta la fanbase che, dapprima ti seguiva come musicista, e ora ti segue anche per la pratica yoga. Infatti, durante il periodo di pandemia sei diventata un punto di riferimento per i tuoi follower, grazie alla condivisione della tecnica di meditazione personale accompagnata dal suono delle campane tibetane, della tua voce e della chitarra. Come è nata l’idea e che evoluzioni ha subito dopo tre lockdown?

La potenza dei gesti impulsivi è ingovernabile. Ricordo di aver preso una decisione netta. “Se a me lo yoga ha dato forza e mi ha insegnato a non avere più paura dovrà essere la mia missione farlo conosce alle persone che ne sentiranno la chiamata”. Pratico Yoga da 9 anni e il mio percorso è sempre stato una passione vissuta nel mio privato. I miei maestri Dharma Mittra a Nyc e Gaia Bergamaschi a Milano sono stati la fonte del mio sapere. Poi ho sentito di dover trasmettere quello che avevo imparato è così è nato Yoga Mirage che ora si espande sempre più con una community stupenda di persone sensibili e coraggiose, li conosco per nome e amo vedere i loro nuovi risultati durante le pratiche yoga. Yoga vuole dire unione, questo è il nostro mantra. Ci lega un forte filo d’oro prezioso. La musica oltre la pratica ci aiuta e creare un legame emotivo forte.



21 luglio 2021, la data segna la rinascita di Marianne Mirage grazie all’album “MIRAGE” che guida l’ascoltatore in un viaggio musicale ricco di sperimentazioni. L’album abbraccia davvero tante sonorità, grazie alla versatilità dell’artista, planando dal jazz all’atmosfera delle colonne sonore italiane degli ‘anni 60. La sua durata è di un’ora, proprio come la pratica yoga.

Quanto tempo ha richiesto e come si è sviluppata la sua realizzazione?

Bella domanda perché in realtà durante questo anno così strano, dedicato all’immersione dentro di noi, alla meditazione e alla consapevolezza delle nostre fragilità, è nata la necessità spontanea di creare una musica che ci accompagnasse in questi viaggi dilatati nel tempo. 

Ho conosciuto Marquis (giovanissimo produttore) che aveva la stessa idea. Abbiamo fatto i bagagli e siamo partiti per il Lido di Dante in Romagna (mia terra di origine) dove abbiamo preso uno studio al mare, per registrare il disco durante la pratica all’alba, immersi nella natura e nelle onde. Il disco è nato così, in simbiosi con la natura e gli strumenti musicali (moog, farfisa, vibrafono, arpa). Uno dei giorni di registrazione camminando ho incontrato un pavone per strada e da quel segno ho capito che stavamo facendo la cosa giusta. 


Total look Missoni, occhiali Isabel Marant

Marianne respira natura, vive in una casa giardino e la sua evoluzione è stata scelta anche da Nike che, per la sua audience worldwide, ti ha commissionato un video esclusivo che unisce la pratica yoga all’esperienza sonora. In programma, inoltre, una lunga tournée che ti vede interessata a portare le arti olistiche in tutto il mondo. Quali sono le tappe dell’immediato futuro?

La pratica che ho ideato per Nike è stata bellissima da realizzare perché il team era totalmente dentro l’esperienza. 

Ora, dopo i retreat in Grecia e Puglia ci sono stati i concerti e ci saranno appuntamenti di Yoga Mirage in tutta Italia per praticare insieme. Infine una bellissima sorpresa, il sito www.yogamirage.com, un luogo dove condividere pratiche di yoga, pensieri, musica ed emozioni, sempre nel mio mood molto Rock and Roll.



Ti abbiamo visto, in qualità di relatrice, sul palco del Tedx di Rieti. Il tema del monologo è stato “Respirare”, per chi non ha partecipato dal vivo come potresti riassumerlo? 

Nasciamo con un inspiro e moriamo con un espiro… lo sapevi?

Durante lo shooting l’esplosiva Marianne chiede di aggiungere un commento riguardante la giornata trascorsa insieme: “Questo nostro incontro è stato magico. Le fotografie non sono solo da guardare, sono da sentire. Ti devono far viaggiare, in un istante ti traghettano in un mondo. Questo secondo me è stato il nostro viaggio tra le dune di ghiaia. Ho amato tutto il team di lavoro che si è lasciato trasportare dal l’energia del disco e abbiamo messo in immagini quello che il disco racconta”.



Photographer Paolo Musa

Special content direction, production, interview and styling Alessia Caliendo

Make up Elena Bettanello @ Julian Watson Agency

Hair Gianluca Grechi

Location Cave Rivolta Inerti Rivolta srl

Beauty Faced

Special thanks l’Altro Tramezzino

Alessia Caliendo’s assistant Andrea Seghesio

Backstage Photographer Riccardo Ferrato

Il singolo estivo dei musicisti Pandem e Ange Biamba: Panda No Bamba

Dopo l’impegno politico e l’esperienza francese, il duo sperimenta sonorità raggae proponendo un pezzo tutto da ballare.

Stavolta si viaggia a Kingston: “Panda No Bamba” è l’ultimo singolo di Pandem (pseudonimo di Andrea Turchi) e Ange Biamba al cui ascolto sarà difficile rimanere fermi. Sonorità raggae, allegria e spensieratezza.

E’ questo il dna musicale del nuovo pezzo dei musicisti. Un metissage musicale frutto del sodalizio artistico e dell’amicizia di due giovani artisti: Pandem e Ange Biamba, rispettivamente italiano e francese. L’urban e le sperimentazioni hardcore del giovane francese
incontrano il cantautorato italiano che anima le vene del musicista italiano. Insieme i due sperimentano nuovi suoni incessantemente, pescando il meglio da ogni cultura di tutto il mondo.



Riguardo alla genesi del testo, Pandem dichiara: “Panda No Bamba è la canzone più recente del repertorio, è passata davanti a tante altre per essere il prossimo singolo. “Tutto è partito da una festa di compleanno fatta in pineta fra Marina di Grosseto e Principina nell’estate 2019. Lì c’erano amici carissimi di cui alcuni possono essere definiti dei Musi, (si, ho declinato il termine
femminile al maschile, talmente è forte l’affetto che provo per loro), i quali più di una volta mi hanno ispirato temi, musica e tanta fiducia.

Da un’improvvisazione alla chiatarra come facciamo di solito cantavamo utilizzando un linguaggio inventato. Ed è a quel punto che esce fuori la frase “Panda No Bamba!”: si è imposto quasi come concetto, così, nella mischia, nel fuoco delle risate, fra amicizia e ricordi di vecchie avventure.



Ha subito catturato la mia attenzione, quindi come capita spesso, mi sono messo a improvvisare altre strofe, per poi passare un’ora in un angolo con la chitarra, scrivendo il testo su un fazzoletto.
Questa è uscita così, irriverente, comica e provocatoria, altre escono in contesti, modalità e tempi diversi. In questo caso cambio registro rispetto ad altri testi carichi di sentimenti o riflessioni sociali, è per dimostrarmi e dimostrare questa capacità nel variare di stile e tematiche. Il tono resta comunque critico verso quelle ideologie in cui la felicità si basa sui soldi, il successo, il lusso, l’ostentazione, e la dimostrazione di tutto ciò nei modi più estremi e insensati.

Quello costruito intorno alla Fiat Panda è uno stile di vita (che poi è il nostro), dove si apprezzano anche le cose più semplici ed umane, senza per tanto farsi mancare niente. Al livello musicale è il primo pezzo in cui ho potuto registrare insieme ad altri musicisti, ed il groove ne è evoluto in maniera estremamente positiva.



Abbiamo trovato un sound asciutto e super ritmato: non è solo una canzone da ascoltare, direi soprattutto che è una canzone da ballare. Il tutto resta comunque un omaggio alla Fiat Panda, che ci ha accompagnato e salvato in tantissime avventure, e rappresenta un pezzo di cultura italiana dell’automobile.”

Il clip di Panda No Bamba è stato in Maremma. La realizzazione nasce da una collaborazione tra Andrea Turchi (alla seconda esperienza di scrittura e produzione di un videoclip) e Mario Salanitro, film maker. I due avevano già collaborato nel singolo “Il marinaio”. Salanitro ha realizzato diversi documentari dei suoi viaggi, sia in Africa sia in Mongolia, accompagnato da Pietro Zamorani. Ed è quello che fa insieme anche ad Andrea Turchi: raccontare avventure nei clip che realizzano come coppia creativa. Un pezzo si leggero, ma che riflette anche sul modus vivendi dei giovani e sui loro valori.

L’assordante leggerezza della musica

Vi siete mai soffermati a pensare al vero significato del Pop? Siamo abituati a definire Pop tutti quegli elementi direttamente legati al pianeta musica, ma spesso dimentichiamo l’origine etimologica di una parola che anzitutto è una abbreviazione di un termine propriamente inglese, cioè popular, ormai divenuto identificativo di una precisa caratteristica. Cosa può essere definito popolare se non tutto ciò che riguarda il popolo, la gente comune? È quindi chiaro che la parola Pop assume una connotazione ben più ampia rispetto a quella limitante del solo ambito musicale. 

Ed ecco che entra in gioco il fattore sociale, sempre presente in qualunque ambito si vada a cercare, musica e moda in primis, anche perché non dobbiamo dimenticare che la musica è spesso sinonimo di moda.

Colapesce e DiMartino, semigiovani cantautori siciliani, recentemente sono balzati in testa alle classifiche grazie al brano presentato al Festival di Sanremo dal titolo “Musica leggerissima”. Verrebbe da esclamare che, sì, ne avevamo davvero bisogno dopo un anno di pandemia, chiusure di attività e limitazione della libertà. Fosse così semplice risolvere i problemi.


Gli autori di Musica Leggerissima: Colapesce e DiMartino


Ma, c’è un ma, perché questo brano apparentemente banale, scontato e già sentito, forse tanto banale e scontato non è. D’accordo, un po’ già sentito sì, infatti ricorda da vicino Se mi lasci non vale di Julio Iglesias, tanto che persino l’affiatata coppia l’ha riproposta diverse volte in alcuni programmi televisivi coverizzandola fin troppo fedelmente. Un omaggio, certo, ma anche una fonte abbastanza evidente di ispirazione. E nonostante la somiglianza la nostrana Musica leggerissima è diventata inaspettatamente un tormentone capace di far dimenticare i trionfatori del Festival, quei giovanissimi Maneskin che tanto fanno discutere e il cui brano vincitore, per quanto valido, non viene cantato a gran voce quanto la nostra Musica leggerissima.

Curioso che una canzone popolare sia divenuta in così poco tempo l’elemento distintivo di due autori che, va specificato, non vengono dal nulla, ma anzi hanno alcuni lavori già pubblicati alle spalle e diversi anni di carriera vissuta sul campo. Immaginiamo che la loro strada non sia stata facile, né leggerissima, ed oggi sono qui a far parlare e cantare milioni di italiani.

Ma dentro questa canzone apparentemente leggerissima c’è la voglia di raccontare un periodo difficile per tutti. Le parole hanno un peso e spesso divengono evidenti messaggi per l’ascoltatore, talvolta veri inni ai quali l’autore, suo malgrado, deve sottostare.

Se fosse un’orchestra a parlare per noi sarebbe più facile cantarsi un addio denota un’attenzione nei confronti della solitudine, quella che ci fa soffrire, quella che non vorremmo trovarci a combattere nei momenti bui e che un’orchestra, con strumenti d’ogni tipo, riuscirebbe a farci dimenticare anziché ritrovarsi a riflettere soli con se stessi e piangere dei propri dolori.

Per essere una Musica leggerissima partiamo male, molto male. Ma di questo brano rimane scolpito il refrain che penetra nelle sinapsi e le ammalia con la sua genuinità e con la sua spettacolarità popolare. E allora scorriamo un po’ il testo all’interno di questo ritornello memorabile per cercare qualche elemento meno evidente eppure tanto popolare, almeno quanto il concetto di leggero.

Metti un po’ di musica leggera nel silenzio assordante per non cadere dentro al buco nero che sta ad un passo da noi.


DiMartino e Colapesce, i due cantautori siciliani autori del fenomeno Pop Musica Leggerissima

Il silenzio assordante, concetto ormai abusatissimo in ogni ambito, da quello musicale a quello letterario; cadere dentro al buco nero, altro luogo comune per descrivere un momento oscuro e triste. Elementi apparentemente innocui se presi singolarmente o individuati all’interno di un’opera diversa da una canzonetta, ma fondamentali per dare il senso all’essenza di queste liriche che di leggero non hanno proprio nulla. Ed ecco che allora si intuisce quale enorme lavoro si nasconda dietro alla stesura di un brano musicale, la fatica di essere capaci di individuare l’elemento determinante per il successo popolare. Un testo scorrevole, leggero e senza fronzoli all’interno di una struttura musicale dal piglio dance che richiama il concetto di moda più patinata come quella di fine anni Settanta.

Due simpatici cantanti che sembrano prendersi gioco di noi all’interno di una situazione fino a poco tempo fa impensabile come un Teatro Ariston privo di pubblico e che forse, proprio riuscendo a prendersi gioco di noi, ci fanno dimenticare di essere tutti personaggi di un’opera allucinante come quella di una incredibile pandemia globale.

Ricapitolando, abbiamo due cantanti simpatici, una canzonetta leggera dal refrain orecchiabile, luci di palco effetto anni Settanta, abiti appena usciti da un video dance, un testo facilotto. Direi che il gioco è fatto. L’effetto popular c’è, le classifiche parlano chiaro. E il messaggio è giunto, ma arriva lentamente. Prima ci sono lustrini e paiettes, l’orecchiabilità della melodia, il ritornello invadente, e poi un significato profondo che insinuandosi lentamente vuole portarci a pensare a questo grande e doloroso vuoto che ci unisce, nessuno escluso, ed a scacciarlo con la forza della leggerezza.

Se non è genio questo, allora cos’è? Se non è questo l’espressione di un certo tipo di moda, allora cos’è?

È leggerezza, è spensieratezza, è desiderio di far sorridere quei luoghi della nostra mente che altrimenti si perderebbero dentro ad un buco nero fatto di silenzio assordante, ed ora francamente non ne abbiamo bisogno.

E della musica leggera, Ladies & Gentlemen, invece sì, ne abbiamo bisogno proprio tutti.

Dai club alle discoteche, passando per la tv e la radio, il nuovo singolo di Ema Stokholma

La stampa la definisce “esplosiva” per la sua forte personalità artistica che spazia dalla musica in console nei club, a quella in tv e radio : Ema Stokholma, pseudonimo di Morwenn Moguerou, debutta nelle vesti di cantante con un inedito in uscita per Polydor il 18 giugno. 

Una personalità camaleontica , affascinante quella dell’artista francese che debutta con un brano dal titolo “Ménage à trois” ; il testo si presenta come una lista di tutte le parole francesi usate nella lingua di tutti i giorni , anche in italiano: nomi di marchi, modi di dire, luoghi iconici, personaggi celebri. Il tutto condito da un ritmo super dance incalzante e ipnotico.



 La canzone è stata prodotta  da Nicola Pigini e Leonardo Carioti (produttore e ideatore di vari progetti e collettivi come Stylus Funk e Feng Shui, nonché regista di vari programmi di Rai Radio2, dove è nata la collaborazione con Ema). 



Ema é un’artista poliedrica , Dj, cantante, pittrice e scrittrice (nel 2020 ha pubblicato per Harper Collins Per il mio bene, un libro autobiografico in cui racconta la sua infanzia travagliata e la voglia di non perdere mai la speranza). Dopo aver fatto capolino nelle maggiori capitali europee come Londra , Berlino e Parigi , Ema Stokholma si trasferisce a Roma, inizia parallelamente a farsi notare ai microfoni di Rai Radio2, con i programmi Back 2 Back (nelle ultime stagioni al fianco di Gino Castaldo), Let’s Play ed Esordi, e commentando i grandi eventi musicali per la Rai: il Festival di Sanremo, i BRIT Awards, l’Eurovision, il Tomorrowland. Inoltre, presenta su Rai 4 Stranger Tape in Town, un programma tv che fotografa i nuovi artisti del panorama musicale italiano. 

Non dimenticate, quindi, di ascoltare “Ménage à trois” , chissà se si qualificherà il titolo di hit dell’estate , grazie al suo ritmo  “surreale “. 

“La terza estate dell’amore” il manifesto in musica di Cosmo

È l’estate del 1967 quando nel decadente quartiere di Haight Ashbury, nella cittadina losangelina di Frisco, la micro-società degli hippie vive, in uno spirito di pacifismo rivoluzionario, l’ideale di un sogno comunitario che parla di fratellanza collettiva e di affrancamento dalle convenzioni. È la “Summer of Love” intrisa di pace, amore e libertà che si muove aggregante sulle note del rock. La musica, collante di socialità e cassa di risonanza, fa da colonna sonora anche alla successiva ondata, la ribattezzata seconda “Estate dell’Amore” o “Summer of Rave”. È la stagione calda del 1989 quando l’acid house risuona nei campi, nei magazzini, nelle feste illegali, nelle fabbriche in disuso e nei club in un clima di edonistica autodeterminazione.

Figlia ideologica delle precedenti, alba liberatoria, urgenza di unione e inno alla condivisione di gruppo, Cosmo, all’anagrafe Marco Jacopo Bianchi, a distanza di 32 anni da quest’ultima lancia il richiamo de “La terza estate dell’amore”. E lo fa a suo modo lasciando suonare le 12 tracce dell’album ad alcuni impianti lasciati, non a caso, in un bosco, in un palazzetto, in un centro sociale, in una casa di campagna, in un quartiere popolare, in uno spazio culturale occupato, in alcuni club e parchi pubblici. Tutti luoghi per loro natura diversi che la pandemia, da più di un anno, ha però lasciato orfani di musica e di tutti coloro che con essa e di essa vivono. Cosmo si fa messaggero di questo senso di abbandono e portavoce di un desiderio di ribellione alla rinascita e di riappropriazione sociale alla vita e mette a nudo e crudo il suo pensiero in una dichiarazione pubblica, un manifesto programmatico, artistico e politico che è alla base del quarto progetto discografico del cantante e producer di Ivrea.


“La terza estate dell’amore è un’invocazione, più che una realtà. È una possibilità, ma anche una necessità. Un qualcosa che deve accadere e che prima o poi succederà. Oggi la necessità di socialità e amore collettivo si fa sempre più forte. La pandemia e i provvedimenti per contrastarla hanno fatto a pezzi quelli che erano gli ultimi rimasugli di vita sociale. Stiamo camminando sulle rovine di un sistema di valori che ha fallito e che deve essere spazzato via: quello dell’individualismo, della competizione, della crescita illimitata e del conflitto. Ingiustizie, disuguaglianze, repressione e disastro ecologico sono i frutti di quel sistema.

La terza estate dell’amore è il manifesto di qualcosa che ancora non ha un nome. Un corpo pulsante e desiderante che spruzza il suo sudore sull’etica del lavoro. Un corpo erotico sbattuto in faccia al gelo di morte del capitalismo e della burocrazia, un ballo sulla carcassa di una società incapace di godere e di organizzarsi per essere felice. Una società che preferisce riempirsi di regole, leggi e divieti con lo scopo di individuare sempre un responsabile penale e parallelamente “mettersi in sicurezza”. Una società che mette il profitto davanti al coraggio e alla libertà e che ci vuole sempre più inoffensivi. Andrà tutto bene, purchè non arrechi disturbo alcuno. La nuova dittatura passa attraverso questa ragionevolezza, e sta erodendo ogni piccolo spazio di autonomia. La terza estate dell’amore è una pernacchia in faccia a chi nega l’essenzialità della festa e dello spirito di comunità. Non ce ne facciamo niente delle città cadavere, luoghi di morte dell’anima e del corpo. Le vogliamo cambiare. Vada a fottersi il pil, si fotta la Borsa. Questo messaggio è dedicato a chiunque si sia visto rubare tutto il tempo migliore della propria vita, a chi crede nell’aggregazione e nello spirito di comunità, a chiunque voglia prendere questa grande macchina e sedersi accanto al pilota per rallentare, sostare, ripartire quando è il momento. Verso destinazioni ed esperienze altre. Verso il futuro”.



La copertina dell’album si presenta con una veste grafica dagli accesi toni psichedelici misti ad una irriverente atmosfera di leggerezza bucolica inno all’amore e all’aggregazione; l’interno è un melting pot sperimentale, sincronico e sincronizzato di stili che, come in un cubo di Rubik, alla fine si incastrano e combaciano tutti nell’irresistibile orecchiabilità dei suoi ritornelli, quando presenti, e nelle architetture dei testi. Forma canzone, cantautorato, synth modulari, ispirazioni elettroniche, sonorità clubbing, folk tribale, cori, accenni di world music, atmosfere tropicali e psichedeliche sono queste le “armi sonore” che Cosmo impugna per rendere “la terza estate dell’amore” azione e reazione all’oppressione dei nostri tempi a partire dalla tensione implosiva, cupa e conflittuale che si respira nell’intro “Dum Dum” fino all’empatica e finale “Noi”, trionfo di quel sentirsi parte di un tutto di cui l’album è spinta, stimolo e incoraggiamento.

Estate 2021 : 6 talent da seguire e ascoltare su Spotify

Maggio è il mese che ci predispone nel guardare all’estate con l’occhio e la mente proiettati nei luoghi della fuga dalla quotidianità. Saranno probabilmente ancora italiani così come i giovani artisti che vi incuriosiranno sin dal primo play su Spotify. Millenial talentuosi pronti a contaminare le playlist del cuore con nuovi sound e beat accattivanti. Siete pronti a incontrarli con noi?

Bolo Mai

Compositore e polistrumentista, il tuo è un percorso ricco di skills che hanno consentito di spianarti la strada verso la discografia provando ad entrare da ogni singola porta…

Ho iniziato con i classici lavoretti per poi finire nell’ambito della produzione cinematografica, un mondo che mi ha sempre affascinato e che allo stesso tempo mi permetteva di continuare a coltivare la mia passione per la musica. Mi sono autoprodotto seguendo da autodidatta praticamente tutta la filiera di produzione del brano. Sono il primo musicista della famiglia e questo mondo per me era lontanissimo, non avevo contatti di alcun tipo. Ho bussato a molte porte, mentre iniziavo a lavorare alle mie prime colonne sonore e a sperimentare fondendole nel pop. Mi sento un naufrago che dopo tante onde è sopravvissuto sulla sua zattera, fatta principalmente da una manciata di canzoni.

Una passione smodata per il cinema che ti ha portato a comporre colonne sonore sperimentando e fondendo generi diversi in chiave pop. Se ti fosse data la possibilità di reinterpretare la soundtrack di un lungometraggio, quale sceglieresti?

Nel cuore Danny Elfman per Nightmare Before Christmas oppure, per rimanere su un grande classico, opterei per Ennio Morricone. C’era una volta in America è un must.

Bolo mai, un nome dalla parvenza esotica per un progetto che la tua casa discografica supporta nel segno del suo eclettismo. Proiettandolo nel futuro come ami immaginarlo?

Mi piacerebbe mantenerne l’autenticità e il signum artis con cui è nato. Di base erano soltanto due parole che suonavano bene insieme, facili da recepire e pronunciare, che non avesse nessun collegamento preciso se non un’assonanza con le bolo ties, cravatte texane che mia nonna mi ha regalato tornata da un viaggio oltreoceano.

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Bartolini

Colui che Rolling Stone definisce ”Uno dei talenti più interessanti in circolazione“, Bartolini, dopo un’esperienza britannica, sceglie la Penisola per affermare il suo sound in perfetto stile brit pop, new wave d’oltreoceano e cantautorato pop all’italiana. Schivo e riservato ma già sotto i riflettori, quanto è cambiato, e se è cambiato, il tuo modus operandi durante la Pandemia?

Durante la pandemia io, che abito a Roma, sono tornato nei luoghi della mia adolescenza in Calabria e questomi ha consentito di percepire vibes nostalgiche che hanno influito anche su un nuovo livello di scrittura.

La quotidianità che rincorrevamo nel passato ha assunto una dimensione diversa e nel bug pandemico ho fatti luce su alcuni aspetti che avevo dimenticato e che ho riscoperto.

Nato sotto la buona stella nella punta dello stivale, il video dell’ultimo singolo “Sanguisuga” tratto dall’album, Penisola, vede la firma d’eccellenza del duo creativo YouNuts. Il video è strutturato in quattro scene che ricalcano il tuo vissuto e scavano nel profondo delle tue esperienze più significative. Un approccio inedito per un artista che dell’introspettività ha fatto il suo punto di forza…

Sono stato un bambino sempre molto timido e introverso. La scrittura mi ha aiutato nell’aprirmi al mondo esterno e il video, tutto girato in presa diretta, ha ricalcato i momenti fondamentali della mia esistenza, rivelandosi un vero punto di svolta durante il lockdown. Non vi nascondo che sto pensando anche ad un sequel.

Corteggiato dal mondo del cinema e dello spettacolo, la tua produttività è stata scelta per raccontare i frame di una serie Netflix di successo come Summertime. Il tuo viaggio itinerante alla scoperta di esperienze e luoghi inesplorati, tassativamente in auto, dove ti condurrà l’immediato futuro?

Usciranno prestissimo una serie di singoli che fanno luce sull’intimità acquisita con il mio personale ritorno alle origini. Mi vedrete presto anche nelle vesti di produttore. Infine, vorrei riproiettarmi nello studio delle soundtrack come avvenuto con Summertime. Riascoltare brani prodotti tra le mura domestiche, sul grande e piccolo schermo di Netflix, è stata una bella emozione.

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Delmoro

Incontriamoci e incontratevi sulle note di Delmoro che esortano a un auspicabile “RENDEZ-VOUS” nel segno della dancefloor. Un inno all’ottimismo che pesca a piene mani dalla tradizione cantautorale italiana ispirandosi a baluardi come Lucio Dalla, Alan Sorrenti e Ivan Fossati. Come hai deciso di colorare sonoricamente questo 2021?

Scrivere mi fa proiettare sempre nel futuro, che per forza di cose ha colori diversi dal presente in cui viviamo. Musicalmente immagino un futuro solare e vitaminico, che si contrappone alle liriche che invece sono sempre melanconiche, un po’ come la saudade brasiliana.

L’architettura e il design accompagnano il tuo gusto estetico sui profili social. In realtà ci svelano anche una laurea lasciata nel cassetto (Delmoro è un archittetto) per dedicarti alla musica. Il tuo è un percorso già costellato di importanti collaborazioni con produttori come Davide Cairo e Matteo Cantaluppi (già produttore di Thegiornalisti, Canova, Dimartino…). Cosa cerchi nelle sinergie alle quali ambisci?

Le aspettative nei confronti delle collaborazioni in questi ultimi tempi sono molto cambiate. Costretti al distanziamento ne abbiamo ancora più voglia. Fino allo scorso anno ero concentrato sul mio universo individuale ma adesso ho capito che la sinergia è vita, è crescita, è condivisione.

Sospeso nell’”Aria”, uno dei tuoi ultimi video musicali, ricalca le visioni e la palette cromatica che ti contraddistinguono e il territorio delle tue origini. L’essere innanzitutto un creativo quanto influisce nella visioni che vuoi trasmettere come artista nel mondo della musica?

Da architetto pragmatico preferisco non parlare di creatività ma di oculatezza nel risolvere le situazioni utilizzando l’estro.

Nelle mie corde c’è l’architettura che mi guida, nella musica, nella creazione di uno struttura per raccontare storie attraverso mood visivi e sonori.

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Puertonico

Un’incalzante hit, “Ancora”, prodotta insieme a Winniedeputa, è l’ultima tappa del tuo percorso musicale. La prossima estate, tradotta in musica, sarà una stagione di sogni?

Me lo auguro perché ho in programma di realizzare il mio primo album. Un traguardo musicale che mi renderebbe molto felice.

Alla conquista delle playlist di Spotify, che ti ha premiato con la cover di “Anima R&B”, il pezzo fa da apripista al prossimo disco.  Come procede la sua lavorazione?

Sono in una fase meditativa in cui sto capendo qual è la direzione in cui voglio andare. Riascoltare dopo qualche mese i brani che scrivo mi aiuta a capire se funzionano ancora. Innanzitutto, sono alla ricerca di un balance tra la componente autorale e la cifra stilistica, al fine di plasmare la mia estetica musicale. Produco la maggior parte dei miei brani e, nel momento creativo, le direzioni generate dalla linea vocale e dal beat devono essere univoche e armoniche.

Social e musica, l’esposizione mediatica e l’interazione con la propria fan base è fondamentale per un artista.

Come gestisci le piattaforme che ti vedono protagonista e quanto ti tengono impegnato?

Anche in questo caso la cifra stilistica presente sui social è stata studiata a lungo. Avendo sfumature R&Bmescolate alla trap e al pop è stato inizialmente difficile trovare una quadra al livello visivo. Adesso ho optato per una gestione coerente, minimale ed elegante mirata alla promozione della mia figura in qualità di musicista. Preferisco scindere la mia quotidianità con il mio progetto artistico, Nicolò da Puertonico. Sui social troverete il secondo.

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MICHELANGELO VOOD

Michelangelo Vood un artista che possiamo definire sostenibile grazie alla forza della natura in cui affondano le sue radici. La Madre Terra è un elemento caratterizzante del tuo sound, quali sono i momenti in cui ti immergi in essa per trarne i benefici in termini autoriali?

L’elemento naturale per me è molto importante perché mi trasmette serenità e mi aiuta a ricongiungermi ai luoghi incontaminati nei quali sono cresciuto.

Amo ispirarmi partendo dalla mia terra, la Basilicata, e al piccolo paesino in provincia di Potenza, Rionero in Vulture, al quale ho dedicato il mio primo EP.

Divento piuttosto malinconico quando ne ricordo i suoni e gli odori, come quello della fuliggine che nasce dai camini del vicinato che ritrovo solo quando torno a casa d’inverno. 

Mi manca un po’ quel contatto con la natura tant’è che qui a Milano, dove vivo da qualche anno, coltivo decine di piante sparse tra il balcone e la mia camera. Una sorta di piccola serra nella casa in cui scrivo e compongo, tassativamente di notte.

Origini punk rock e un percorso costellato da concorsi e dal plauso di molti artisti come Angelica, Carl Brave e Myss Keta. Quale è stato il traguardo più importante raggiunto sinora?

Quando dico che fino ai 22 anni avevo una band punk rock nessuno ci crede! Cambiato il look, cambiata l’ispirazione, le radici punk adesso mi accompagnano nell’attitudine sul palco.

Sono tantissimi i traguardi che ancora voglio raggiungere, è solo l’inizio del mio percorso. Al momento, il mio più grande traguardo è quello di essere riuscito a ritagliarmi un piccolo spazio come artista indipendente e di aver trovato delle persone che si sono immedesimate tanto nella mia musica e nei miei testi. 

L’ambiente musicale è un “Campo minato”, citando il titolo omonimo del tuo ultimo brano, come pensi di destreggiartici nell’immediato futuro?

In un momento storico come questo, in cui c’è tanta frammentazione, la differenza è fatta dalle persone di cui ti circondi.

Parlo non solo degli affetti, ma di tutte le persone che mi aiutano a portare avanti il mio progetto, giovanissimi professionisti che credono in me e che mi supportano in ogni singolo step. Vengono da ogni parte d’Italia e sono arrivati qui a Milano con le fiamme negli occhi per ritrovarsi, grazie ad uno strano gioco del destino, a percorrere un percorso artistico e di crescita insieme a me.

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Santachiara

Radiohead, Mozart e i Nirvana, nei tuoi mood sonori, conditi anche dalle voci che giungono dai vicoli partenopei, non ti sei fatto mancare proprio nulla. E da qui lo studio di registrazione homemade dove, insieme al tuo compagno di studi Andrea, hai iniziato a sperimentare e a registrare i primi brani. Un neonato progetto che in un mese, nel giugno 2020, ha partorito tre singoli e che non accenna a fermarsi…

Quando ero piccolo ho girato il mondo insieme ai miei genitori, che erano artisti di strada. India, Thailandia, Brasile…mia madre canta e mio padre scrive, e io canto e scrivo le mie canzoni, non penso sia un caso. Sono stati loro ad avermi dato i primi stimoli e ad aver influenzato il mio modo di esprimermi. Sono due capisaldi della mia esistenza personale.

Il dialogo come punto cardine dei tuoi lavori che, nella bonus track dell’ album d’esordio “Sette pezzi”, vengono contaminati da audio di archivio tratti da interviste, film e discorsi con cui sei cresciuto e che ti hanno ispirato. Come si sviluppa il tuo processo di ricerca?

Sono un appassionato d’arte a 360 gradi e contestualmente studio Psicologia dei Processi Cognitivi. 

Nel nomadismo della mia infanzia ricordo un forte impegno nell’arricchimento culturale. Ho letto tutti i più importanti autori e cerco di approfondire ogni singola fonte che giunge ai miei occhi e alle mie orecchie: in quella traccia convivono Bob Marley, Memento, Pasolini fino a Manu Chao e molto altro.

Sette pezzi, sette frammenti diversi, per i sette giorni della settimana. Un melting pot che lascia decantare la profondità del tuo esordio sulla scena musicale. Innamorato della musica e di “Carmela” ci regalerai presto una traccia per ognuno dei 365 giorni dell’anno?

Me lo auguro! Visti i miei trascorsi, ho sempre cercato un posto da poter chiamare casa e Napoli con me lo ha fatto. Carmela è Napoli che metaforicamente diventa una figura femminile, un po’ mamma e un po’ amante, e che nei giorni in cui sei solo non può che farti compagnia. Le dovevo una canzone.

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Special content director, producer, interview and styling Alessia Caliendo

Photographer Simon171

Make up Eleonora Juglair

Hair Matteo Bartolini using Balmain Couture Balmain Couture Italia

Photo assistant Simona Pavan

Alessia Caliendo’s assistants Andrea Seghesio e Laura Ronga

Location Best Western Hotel Galles 

Special thanks to Hairmed

Healthy Colors

Ghettolimpo: il nuovo album di Mahmood ci trasporta nel suo “Olimpo” urban pop

Un nuovo scenario musicale che Mahmood ci aveva già annunciato con l’uscita dell’ultimo singolo Inuyasha , che ha conquistato subito il disco d’oro : è così che il cantante ci proietta subito nel suo “Olimpo” urban pop . Come un personaggio dei videogiochi, attraverso ogni singola traccia compie un percorso , che spazia tra simbologie e storie della sua stessa vita. 



Un mondo popolato da dèi dell’Olimpo insieme a svariati personaggi, dove il richiamo  alla mitologia greca si unisce alle esperienze di eroi moderni che combattono gli ostacoli della vita . Nel Ghettolimpo di Mahmood non troviamo figure onnipotenti appartenenti a un luogo irraggiungibile, ma la descrizione di semplici persone straordinarie che cercano di dare un senso alla propria vita. 

È uscito già dal 21 aprile “Zero”, brano scritto da Mahmood , D. Petrella, D. Faini e prodotto da Dardust, il brano che fa parte della colonna sonora e porta il nome della nuova serie originale disponibile su Netflix dal 21.4, nata da un’idea di Antonio Dikele Distefano, dove Mahmood ha inoltre curato un episodio come music supervisor.



Cantante poliedrico ed eclettico, si conferma come uno degli esponenti di maggior successo della scena urban pop attuale , classificandosi come uno dei giovani talenti che ha fatto della musica uno stile di vita. Tanti i suoi successi, come Gioventù Bruciata” (disco di platino) e il successo planetario di “Soldi” (quadruplo disco di platino) con cui ha vinto la 69ma edizione del Festival di Sanremo, Mahmood ha dominato le Top 10 anche nel 2020 con “Rapide” e “Dorado” che saranno inseriti in Ghettolimpo, collezionando un totale di 15 dischi di platino, 6 dischi d’oro e oltre 400 milioni di streaming.

Siamo curiosi di scoprire tutte le tracce del nuovo album Ghettolimpo che ci catapulteranno nel suo”Olimpo urban pop” dalle sonorità accattivanti e dai testi originali , in uscita l’11 giugno e già disponibile in preorder. 

Omogeneizzato, il nuovo progetto musicale del cantautore attore e doppiatore Gabriele Lopez

CREDITS:

Autori, CO: Gabriele Lopez (Acquari)

Produzione artistica: Francesco Arpino

SOCIAL:

IG: @acquari_insta

SPOTIFY: @Acquari

“Fresco e orecchiabile” l’ha definito Gabriele Lopez , cantautore del singolo “Omogeneizzato” in uscita il 23 aprile su tutte le principali piattaforme digitali . Gabriele Lopez, talentuoso cantautore nonché attore e una delle voci più celebri e rappresentative del doppiaggio italiano. Il brano in uscita per Maionese Project by Matilde Dischi su distribuzione Artist First segue alla pubblicazione dei precedenti brani Plastica, Tu non ci sei, Song 1 e 4.00 di Mattina.

Nato dall’unione artistica di Gabriele Lopez e del produttore Francesco Arpino, entrambi nati sotto il segno dell’ acquario , il progetto vuole dare alla musica un linguaggio comprensibile per tutti con un messaggio sociale di fondo. 



Il mondo si sta sgretolando rapidamente sotto i nostri occhi – dice Gabriele Lopez – , l’unica soluzione sembrerebbe quella di scappare via il più velocemente possibile, ma dobbiamo invece cercare una rinascita esclusivamente dentro di noi ed è necessario farlo subito, per salvarci e per salvaguardare il pianeta in cui viviamo. Sarà sempre più indispensabile rendersi parte di una collettività nel senso più ampio del termine, continuare ad agire e pensare ognuno per sè stesso non ci aiuterà” . 



Omogeneizzato rappresenta fedelmente la realtà attuale che con se, a volte , ci porta un senso d’angoscia che viene riprodotto attraverso un personaggio in fuga da un mondo distopico all’interno di un videogioco. Una corsa contro il tempo che ha ispirato anche il videoclip ufficiale del brano, una specialissima clip d’animazione realizzata appositamente da Anonimadisegni che prosegue il trend lanciato dai precedenti brani del progetto. Il brano dal sapore indie- pop ma che presenta dei forti richiami alla musica rock degli anni ‘90. Correte ad ascoltarlo!

La Divina Commedia a suon di rap: l'”infernvm” di Murubutu e Claver Gold

“Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, chè la diritta via era smarrita”. Nella sera di quell’imprecisato giorno di primavera del 1300 il Sommo Poeta “nato sotto gloriose stelle” ha costruito su questo verso iniziale la sua cattedrale perfetta, la grandezza sacrale e monumentale di una Commedia “Divina” e immortale. A distanza di anni, temporalmente tanti, l’allegorico peregrinar dantesco continua ad essere cibo prediletto per menti ed intelletti, più che mai nell’anno che segna il settecentesimo anniversario della sua scomparsa. E così le anime eternamente dannate e i loro aguzzini, demoni e guardiani antropomorfi di anime disumanizzate, si reincarnano, questa volta, per metempsicosi poetica nella sonata rap dell’”INFERNVM”. Il concept-album, distribuito dall’etichetta discografica indipendente di San Benedetto del Tronto, la Glory Hole Records, muove dalla prima cantica del poema madre per diventarne rilettura, immaginario traslato e adattamento dell’uomo e delle sue debolezze alla società odierna.



Daycol Emidio Orsini, in arte Claver Gold, l’ex ragazzo del quartiere popolare di Ascoli Piceno dalla penna intimista e introspettiva e dallo stile identitario nudo e crudo, e Murubutu, pseudonimo di Alessio Mariani, il professore liceale di storia e filosofia che ha fatto del suo rap didattico uno strumento di storytelling colto e letterario, hanno ricucito a quattro mani cerchi, gironi e bolge per intraprendere la loro catabasi, la loro discesa nel regno delle tenebre, della notte, del male, come auctor e viator, come autori e pellegrini, come Dante e Virgilio. Il cammino nell’aldilà intrapreso dai due rapper, da fedele riproduzione della struttura dantesca, ha inizio nella “Selva Oscura”, il luogo simbolo della dannazione e del peccato che diventa omonima traccia di apertura del disco. È la voce dell’attore Vincenzo di Bonaventura che, come un demoniaco eco oltretombale, sussurra e interpreta alcuni celebri frammenti di versi danteschi cavalcando suoni cupi, metallici, confusionari e armonicamente sgraziati come il luogo di immobile bruttezza di cui ne sono la rappresentazione. Prima di arrivare sulle rive dell’Acheronte, si apre alle nostre orecchie l’Antinferno sul ritornello parafrasato di Davide Shorty “con le anime nude e senza nome, senza infamia e senza lode, senza vita e senza morte”, quelle degli ignavi, anime peccatrici di vili e codardi che in vita non si schierarono né in nome del bene né in quello del male. Con il brano Caronte Murutubu e Claver Gold passano in rassegna i loro personaggi dolenti e maledetti, scelti tra gli altri come metafore trasversali e personificazioni allegoriche di fragilità e tematiche attuali. Il vecchio nocchiere, canuto e dagli infuocati occhi rossi, timoniero dell’impero delle anime perse e accompagnatore rabbioso di anime traviate, rappresenta così nella configurazione simbolica di questo viaggio il tema della dipendenza dall’eroina che traghetta alla morte “ogni anima che è una foglia che cade nell’ombra”. Minosse, il mitologico re di Creta, il giudice del cieco carcere che soppesa le colpe delle anime e assegna loro il cerchio al quale sono destinati, dove ogni pena si fa carne e corrisponde a un peccato, incarna la riflessione della vita dopo la morte e la possibilità di essere giudicati.



Paolo e Francesca i lussuriosi, gli amanti-cognati, i peccatori d’amore adulteri che in vita hanno ceduto alla passione ed ora sono dannati per l’eternità a fluttuare in una bufera infernale, il loro è la prova di un amore fatale e assoluto che resiste anche all’aldilà come canta nel ritornello Giuliano Palma “resta con me anche se non c’è un domani, resti per me il migliore tra i peccati”. Pier della Vigna simbolo di vessazione e ostracismo, cancelliere e notaio di corte, morto e indotto suicida dopo essere stato fatto accecare da Federico II di Svevia per corruzione. “L’animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto”. Il celebre suicidio-fuga terrena assume forma di denuncia contro la delicata e solitaria piaga del cyber-bullismo giovanile raccontato, in questo toccante pezzo, attraverso la storia di un adolescente, Pier, che sceglie di togliersi la vita “nella stanza, sul mio banco, all’alba giù in cortile. Oggi non ci sono più, c’è un albero di vite”. ”Dannata, sozza e scapigliata” che si alza e si siede continuamente senza trovare pace, è Taide, “la puttana”, personaggio della commedia del latino Terenzio, punita nell’Inferno perché adulatrice con l’inganno e immersa nello sterco. Murubutu e Claver Gold nobilitano questa figura, accennata e secondaria, dipingendola ora come una donna moderna e malinconica che ha perso la capacità di amare affrontando delicatamente il tema della prostituzione. E poi ancora Ulisse, assetato di una conoscenza che supera i limiti umani e divini, i Malebranche, i diavoli uncinati a guardia dei barattieri che diventano pretesto di accusa per quelli moderni che girano intorno al denaro che fa da perno, e Lucifero, l’angelo più bello del Paradiso conficcato nel ghiaccio di Cocito che nell’Infernvm svela un’inedita sofferenza che sa di umano. Sono loro a completare la mappa di questo ambizioso, raffinato e rispettoso viaggio lungo undici tracce.



I puristi della Divina Commedia, forse arricceranno il naso a tale contaminazione anacronistica dei generi, o magari no. In fondo “il fine giustifica i mezzi” soprattutto se il fine stesso è la divulgazione di un sapere e di un valore educativo che, sotto qualsivoglia forma si manifesti, ha la capacità di risvegliare l’interesse e la curiosità di chi li accoglie.   

“Parasite” è il nuovo singolo da ascoltare ora

Da Venerdì 26 Marzo sarà disponibile su tutte le principali piattaforme digitali “Parasite”, il nuovo singolo degli Shakalab feat Sud Sound System e Inoki. Il brano già disponibile in pre – order al seguente link https://backl.ink/144829515 esce su etichetta Believe Digital e anticipa l’uscita di nuovo album della band atteso per la primavera del 2021.

Considerata come una delle più interessanti e storiche reggae band italiane in grado di mixare sapientemente in un tutt’uno davvero inedito elementi reggae, soul, hip hop e sorprendenti melodie vocali, Shakalab dopo l’apprezzatissimo singolo “Giganti” in collaborazione con la reggae star internazionale Alborosie e il producer Shablo con  “Parasite” tornano in grande stile con la consolidata collaborazione con i salentini Sud Sound System  e il veterano del rap italiano Inoki, fresco di nuovi riconoscimenti per l’uscita del disco “Medioego”.

Parasite, brano chiaramente ispirato al pluripremiato film del regista corerano Bong Joon – Ho porta l’attenzione verso tematiche scomode e antisistemiche. 

Il parassita, viene rappresentato all’interno del pezzo come un insetto, una cimice o un avvoltoio, ma anche come un predatore senza scrupoli, un approfittatore, un arrampicatore sociale. Il significato letterale della parola infatti, si scontra con il significato metaforico, dando vita ad un tema che viene trattato nel brano sotto tutti i punti di vista e che descrive una realtà cinica e spietata dove il “parassita” è sempre pronto ad approfittarne. 

“Siamo molto felici di tornare a lavorare con i nostri amici Sud Sound system, con loro ci sentiamo pienamente noi stessi, è come se parlassimo la stessa lingua e ci troviamo subito al primo colpo. Anche con Inoki nonostante sia la prima nostra collaborazione insieme ci siamo trovati davvero bene sin da subito”

“Nella definizione classica, per parassita si intende un organismo che vive alle spese di un altro organismo, ma nel caso degli umani è un sostantivo usato spesso per descrivere una determinata condizione economica e sociale.

Il nostro invito – dichiara la band –  è quello di fare leva sull’empatìa e scoprire che spesso si guarda il mondo da due prospettive opposte, si punta il dito sul vicino di casa, su un mendicante per strada o su una persona che arriva disperata nel nostro paese in cerca di fortuna, senza pensare che è il sistema che ti suggerisce di farlo e dimenticandosi che un domani chiunque potrebbe essere in quella stessa condizione, noi stessi compresi. Il vero parassita per noi è chiunque guadagni su queste divisioni, chiunque alimenti il divario fra ricchi e poveri per trarne profitto. Loro sì che vivono alle spese di un altro organismo: l’umanità.”

La canzone è una fresca esplosione di elementi diversi in cui sonorità rap e urban s’intrecciano perfettamente con l’inconfondibile stile reggae con il quale la band ha abituato da sempre la sua fan base. Grazie ad un sound ammaliatore e ad un flow elettrizzante e cantilenato “Parasite” è così un brano di grande impatto che ben rispecchia l’evoluzione in corsa della band.

Attraverso “Parasite” Shakalab dimostrano ancora una volta di essere una band estremamente versatile in grado di intercettare le tendenze del momento, proponendosi in una chiave sempre attuale e all’avanguardia, spaziando agilmente tra diversi generi e stili musicali, senza dimenticare la loro forte vocazione reggae.

Saul Adamczewski: genio (suo malgrado)

Traduzione e adattamento: Valentina Ajello

Ph credits: Lou Smith

“Dov’è Saul?”. Questo slogan è diventato celebre tra i fedelissimi ammiratori degli immensi “Fat White Family” e dello stesso Saul. 

Infatti: dov’è Saul? Ma, soprattutto, chi è veramente? 

Premetto subito che questo articolo di certo non chiarirà in modo definitivo la personalità di un personaggio che fa del paradosso situazionista e della dissacrazione il suo “non modo” di essere. Credo che nessuno mai ci riuscirà. Forse neppure lui stesso. 

Ma la vera notizia è che, non solo sono riuscito a trovarlo ma sono riuscito addirittura ad intervistarlo. Quindi, forse, esiste. 

“Non ti rilascerà mai un’intervista. Non la rilascerebbe neppure a “Pitchfork” (potentissima ed influentissima webzine musicale americana), figurati se lo farà con te che non sei nessuno”. Questo è quello, in sostanza, che più persone mi hanno detto prima che, a dispetto di tutti e di tutto, mi sono arrischiato nel mettermi in contatto con lui. 

Saul fonda, ancora minorenne, una band indie/punk chiamata “The Metros” che riscuoterà un notevole successo di critica e pubblico per poi sciogliersi nel 2009. 



Ma è nel 2011 che succederà un evento destinato a destabilizzare in modo tellurico la sonnolente scena musicale dell’epoca: Saul fonda, assieme ai fratelli Lias e Nathan Saoudi i “Fat White Family” che poi, nel 2013 debutteranno con un disco che cambierà brutalmente le carte in tavola: “Champagne Holocaust”. 

Da lì in poi i “Fat White Family” inizieranno un’inesorabile operazione nichilista di dissacrazione e distruzione di certo “trasgressivo perbenismo” politicamente corretto che serpeggiava, e serpeggia tutt’ora, nel mondo musicale underground inglese e non solo.  

La band negli anni cambia molti elementi tranne Saul e i fratelli Saudi. 

In realtà Saul comincia a diradare le sue presenze live, venendo spesso sostituito da altri musicisti.  

Lo stesso succede quando la band viene intervistata: a poco a poco la sua presenza scompare lasciando a Lias (il cantante del gruppo) questa incombenza. 

Nel 2018 Saul sorprende tutti formando una band dalle sonorità completamente contrapposte a quelle dei “FWF”. La scelta del nome, a mio parere, è geniale: “Insicure Men” (Gli Uomini Insicuri). L’album, probabilmente, rispecchia almeno in parte il lato più fragile, poetico e delicato di Saul e fragili, poetici e delicati sono anche i contenuti dell’omonimo disco fatto, per lo più, di eteree e sognanti ballads accompagnate però spesso da testi grotteschi, surreali e strazianti. 

Saul ora ha preparato il suo primo disco solista. Una meravigliosa gemma che ho avuto la fortuna di poter ascoltare in anteprima e che, spero vivamente, possa vedere presto la luce dal punto di vista discografico. Si tratta di un album dalle sonorità a tratti spettrali e a tratti di una dolcezza e immediatezza quasi disarmanti.  

Un vero capolavoro. 

Tornando all’intervista che tutti davano per impossibile, non solo Saul me l’ha concessa ma si è dimostrato essere una persona dotata di una gentilezza e umiltà veramente sorprendenti. 

Posso ora con certezza dire ciò che ho sempre pensato di lui: qui abbiamo un vero genio. Cosa ce ne facciamo? Ce lo meritiamo? Ma, soprattutto, lui vuole veramente esserlo? Probabilmente no. Ma quella di essere geniale è una (meravigliosa) condanna che sono convinto si porterà con se fino a quando deciderà di fare musica. 

Amatelo, vi prego.

E se apparentemente lui sembrerà disprezzarvi, ricordatevi di ciò che diceva Oscar Wilde “Ogni uomo uccide ciò che ama”. 



1) Qual è il senso della vita? Ma, soprattutto, ha davvero senso vivere? 

Credo si possa dare un senso alla vita, ma è solo un espediente. In realtà nasciamo, cresciamo e poi moriamo: e non c’è un senso.

2) ‘Patheticism’ dovrebbe essere il titolo del tuo primo album da solista. Ci dici perché hai scelto questo nome e ci spiegheresti chi è per te una persona patetica o quale situazione può esserlo?

Non è  il titolo del mio album. E’ un manifesto scritto da alcune persone tra cui me, Lias e il nostro amico Lev Parker della casa editrice “Morbid Books” e dallo scrittore Rob Doyle. Suppongo che siamo persone patetiche. L’idea è fare delle nostre debolezze una virtù. Deriva dal fatto che abbiamo passato gli anni della formazione frequentando ogni genere di freak, perdente, fuori di testa e abbiamo visto che anche negli angoli oscuri c’è della luce. E’ anche un manifesto anti Woke-art. Speriamo di farlo uscire quest’anno.

3) Ho visto nel 2019 l’ultimo live degli “Insicure Men“ al Lexington di Londra. A fine concerto hai fatto gelare il sangue al pubblico dicendo che non avreste mai più suonato live. Poi, ti ho incontrato al volo tra la folla a fine concerto e ti ho chiesto conferma. Tu hai sorriso in modo beffardo rimanendo ambiguo.

Ci possiamo quindi aspettare in futuro un nuovo lavoro targato “Insecure Men” o è per te un capitolo definitivamente chiuso?

Sì, questa primavera registreremo un nuovo album. Se tutto va bene, uscirà entro l’anno. Per quanto riguarda i concerti, sono sicuro che se ci chiameranno, andremo.



4) Nel 2006 hai fondato, giovanissimo, il gruppo “The Metros” con alcuni tuoi compagni di scuola, che poi si è sciolto nel 2009.

Nel 2013 esce c’è lo straordinario debutto discografico dei Fat White Family “Champagne Holocaust” disco che, personalmente, mi ha cambiato radicalmente la vita. Cosa è successo negli anni che hanno preceduto l’uscita di questo capolavoro? Ci vuoi raccontare come hai conosciuto gli altri componenti del gruppo e come è nata quella che poi è diventata l’inconfondibile poetica iconosclasta e dissacrante che ha caratterizzato tutti i lavori a seguire della band?

Non mi piace analizzarlo troppo. Credo che l’idea sia venuta dalle nostre giovani menti degenerate. Ai tempi c’era un maggior senso di speranza e non c’importava se alla gente non piacessimo noi o la nostra musica. E’ stato quando abbiamo accettato il nostro completo fallimento come artisti e persone che siamo riusciti a trasformare i “Fat White Family” in qualcosa che assomigliava vagamente al successo. Gli anni precedenti alla band, lì abbiamo trascorsi per lo più all’ufficio di collocamento e al pub. Non sono sicuro di aver risposto, ma ti dovrai accontentare.

5) Apparentemente sembri avere un atteggiamento di distacco verso la musica che componi/suoni. Ma so che durante le prove sei un perfezionista e sei attentissimo agli arrangiamenti dei dischi oltre che alla qualità dei live. È così? 

Sono distaccato perché non penso che abbiamo mai fatto chissà cosa. Il prossimo progetto è quello che mi interessa. Ho fatto di tutto perché non diventassimo una band indie rock di merda e, sinceramente, non ci sono riuscito.



6) C’è molta attesa per il prossimo lavoro dei Fat White Family. Chi ha ascoltato i demo dice che il materiale è sensazionale.

Ci puoi dire qualcosa di più su quello che ci dovremo aspettare e, più o meno, quando potrebbe uscire l’album?

Al momento non partecipo a quel progetto. Non so se stanno registrando un disco.

7) Tornando a “Patheticism”(o a come si intitolerà il tuo disco), ci puoi dire come si differenzia musicalmente dai tuoi precedenti lavori? Che musicisti sono coinvolti? Anche qui ti chiedo per quando è prevista l’uscita. 

Se Dio vuole, uscirà quest’anno. Ho avuto problemi con la label e abbiamo dovuto rimandare un paio di volte. Il disco in sé è molto più personale di qualsiasi cosa abbia mai fatto prima. Sono canzoni che parlano di tristezza e rimpianto. Le persone più importanti che partecipano sono Lias, Alex White e il produttore, il mio vecchio amico Raf Rundell.

8) Oltre a far spesso politica in modo provocatorio e situazionista, un po’ come succedeva in certo ambito punk ma in maniera totalmente personale e riconoscibilissima, spesso durante i concerti (e non solo) inneggi a Satana ringraziando il pubblico tra una canzone e l’altra: anche qui vi è un motivo puramente provocatorio e dissacrante o c’è qualcosa di più? Politica e religione sono temi che hanno un reale peso nella tua poetica o ci troviamo davanti ad un operazione nichilista ed iconoclasta?

La politica e la religione occupano uno spazio importante nel mio universo, ma il saluto a Satana è stato ispirato da Lev Parker. Ha fatto da supporto a Insecure Man durante il tour e ha sparso il suo seme demoniaco. Durante il tour ripeteva spesso “Ave Satana”. Credo di essere facilmente influenzabile.

https://morbidbooks.net/feed/2019-11-19-king-baby-syndrome/

9) Sono venuto spessissimo dall’Italia a Londra solo per vedere i live dei “Fat White Family”, “Insicure Men” e anche te come solista o accompagnato dal magnifico sax di Alex White. Hai un pubblico che ti adora ma, per sentito dire, anche ti teme. Hai la fama di avere un carattere molto spigoloso ed un indole anti-sociale. Avendo avuto la fortuna di parlarti un paio di volte, mi son trovato di fronte un essere umano gentile, alla mano e molto umile.

C’è forse una distorsione tra come vieni visto e percepito da chi ti segue artisticamente ma che non conosce il tuo lato privato?

E’ difficile per me farmi un’idea di come sono percepito dalle persone che non conosco, ma non mi interessa neanche molto… Forse la gente confonde la mia timidezza con l’arroganza. 

Meno penso a cose simili meglio è.

10) Sei anche un bravissimo disegnatore/illustratore. Hai mai pensato di pubblicare i tuoi lavori?

Non l’ho preso in considerazione. Ma se qualcuno volesse pubblicarli ne sarei felice.



11) Parlando di letteratura, osservandoti e ascoltandoti mi vengono i nomi di Luis-Ferdinand Céline, Emil Cioran, De Sade, Arthur Schopenhauer, Nietzsche, Pier Paolo Pasolini, Jean Genet, Guy Debord…ci sono tra questi nomi alcuni dei tuoi scrittori di riferimento? 

Altrimenti ci potresti dire quali libri hanno influenzato la tua vita personale e artistica? 

Credo sia esatto dire che alcuni di questi scrittori hanno influenzato noi come band e soprattutto i testi di Lias, in particolar modo Emil Cioran, Luis-Ferdinand Céline e Jean Genet.  Sono costantemente influenzato dai libri che leggo e da molto altro… Proprio oggi ho letto un brano in un libro intitolato “Low Life” di Jeffrey Bernard che mi ha fatto alzare e danzare in onore degli alcolizzati di tutto il mondo. Ma per me la musica migliore che abbiano fatto è quella anti-intellettuale, anti-artistica.

12) Domanda un po’ banale ma che interessa molto a chi ci legge e a chi ti conosce: cosa stai ascoltando al momento e quali solo le band e gli artisti che hanno maggiormente influenzato? 

Le tre band che hanno avuto una maggiore influenza su di me sono state “The Fall”, “Make up” e “Country Teasers”… Il nostro sound è una miscela delle tre… con un pizzico di “Manson Family” per andare sul sicuro… Attualmente sto ascoltando cose molto diverse: soprattutto musica strumentale e molto più lenta. Troppa da nominare qui.

13) “Where’s Saul?” è un tormentone creato dal geniale e amico comune Lou Smith che poi è diventato una maglietta e una stampa disegnate da te; in effetti, spesso non ci sei: rilasci pochissime interviste, a volte capita di non vederti nella line-up di un concerto dei Fat White Family, sui social appari molto sporadicamente. Personalmente, a prescindere dalle ragioni che ti spingono a “non esserci” ad “essere assente”, trovo questa cosa molto affascinante specie in un epoca come questa fatta di egotismo e patetica ricerca di “visibilità h24”. Ci puoi dire di più su questo tuo bellissimo lavoro di “sottrazione mediatica”? 

E’ più facile per me fare quello che faccio senza la voce di altri costantemente nella testa. Uso i social ma raramente posto qualcosa e non ho interesse ad esprimere  le mie opinioni attraverso essi. Sembrano un campo minato… Preferisco abbassare la testa e cercare di fare musica.  



14) Che canzone utilizzeresti per torturare qualcuno?

Breaking into Aldi dei “Fat White Family” o qualcosa dei “Pregoblin”.

15) Qual è l’aspetto più ridicolo di tutta la cultura pop?

La consapevolezza della salute mentale.

16) Quale membro dei “Fat White Family”, sia passato che presente, ti piace di meno?

Una volta era Dan Lyons il nostro primo batterista, ma oggi è una persona diversa. 

Ora direi Lias. Da quando fa un sacco di soldi con le pubblicità delle auto è diventato un divo.

18) Cosa pensa la tua famiglia della tua musica?

La tollerano amorevolmente.

18) Finisco in modo patetico. Forse apprezzerai. Non ci conosciamo ma sento di avere molte cose in comune con te. Ti voglio bene come se fossi il mio migliore amico e amo la tua unicità. Inoltre, attraverso la tua/vostra musica la mia vita ha preso un percorso non previsto e immaginifico. Grazie per l’intervista. Conserverò questa esperienze tra le poche veramente speciali della mia vita. 

Dici che sono stato sufficientemente patetico? 

Ce l’hai fatta. Anch’io ti voglio bene, compagno! Combatti la battaglia giusta. Ave Satana!

I Måneskin a Sanremo, l’intervista

I Maneskin per la prima volta a Sanremo – l’intervista

Grandi novità per la 71^ edizione del Festival di Sanremo che, oltre a mettere in scena esibizioni senza pubblico, rimescola le carte anche nella sezione “big cantanti” dove presenziano tanti gruppi della new generation; tra questi senza dubbio i più acclamati sono i Måneskin, gruppo pop rock composto da Damiano David, Victoria De Angelis, Thomas Raggi ed Ethan Torchio.

I Maneskin, per la prima volta sul palco dell’Ariston, portano in gara la canzone “Zitti e buoni” e si esibiranno già dalla prima serata di martedì 2 marzo.
Li abbiamo intervistati per voi:


Prima volta a Sanremo, impressioni a caldo
Damiano: “Già arrivando all’Ariston si percepisce l’importanza di un palco che ha fatto la storia della musica italiana, quella sensazione che stai facendo qualcosa di diverso dal solito, di grande. Un po’ di amaro in bocca per l’atmosfera ovviamente più restrittiva, per l’assenza di pubblico, ma che ci permette dall’altra parte di viverla con più serenità e forse meno pressione. Siamo più leggeri, ci stiamo divertendo molto e non vediamo l’ora di salire sul palco.”

Abituati ad un pubblico scalmanato, come sarà suonare su un palco vuoto?
Thomas: “La gavetta ci ha portato a suonare anche con sole due/tre persone che ci ascoltavano, quest’assenza non ci spaventa e riusciamo a dare sempre il massimo, non ci lasciamo influenzare e soprattutto sappiamo che il pubblico a casa è immenso, che la nostra esibizione arriverà a moltissime persone, la nostra energia è per loro.” 

Damiano: “3 minuti e mezzo, 3 minuti di fuoco e non ci pensi”.

A proposito, abbiamo sentito che sarà un’ esibizione “sudata”, come sarete vestiti?
Damiano: “Un look per ogni sera con Etro che contorni l’esibizione senza distogliere l’attenzione dalla musica. Sappiamo bene che la gente si aspetta molto dalla nostra immagine, ma diamo sempre più rilevanza alla parte musicale; un outfit ci aiuta ad esprimerci e non a recitare, ma ad interpretare noi stessi per fortuna. Questo nostro Sanremo è davvero dedicato alla canzone, il nostro intento è farla arrivare ad un pubblico grande.”

“Zitti e buoni”, la canzone in gara, di cosa parla?
Damiano: “Il testo è differente da tutti i nostri altri, che necessitavano di interpretazione, che avevano un messaggio velato dietro le righe, fatto di metafore. Questo è invece un linguaggio semplice per renderlo il più diretto possibile e legato ad una musica molto potente e scarna, solo power trio. Concetti un po’ diretti, una vera dichiarazione di intenti “Siamo qui, siamo una realtà e abbiamo intenzione di restarci per un po’ di tempo.

Ethan: “Negli anni passati abbiamo acquisito esperienza per raggiungere ora un sound personale ed unico, che ci rappresenti in pieno; abbiamo sperimentato, ricercato raffinatezza, e portare oggi il nostro nuovo linguaggio ci rende orgogliosi e molto onorati.”

Foto Francis Delacroix


Un tema ricorrente nei vostri testi è quello del pregiudizio 
Damiano: “E’ un macro tema il pregiudizio, attraverso la musica cerchiamo di estirpare l’incasellamento, le definizioni assolute. Noi siamo liberi, artisticamente, personalmente, sessualmente.

Quanto di questo pregiudizio c’è nelle vostre storie personali?
Damiano: “Siamo dei ragazzi molto giovani, arriviamo da un talent, abbiamo dovuto scegliere tra il lavoro e la scuola, ci trucchiamo, ci mettiamo lo smalto, ci vestiamo molto femminili, insomma è un po la nostra spada di Damocle.”

Giocate molto con l’ambiguità della vostra immagine. Quanto è marketing e quanto è vero
Thomas: “E’ tutto vero! Siamo così come ci vedete, quattro caratteri forti, testardi, istintivi.”
Ethan: “Il nostro principio di vita è di fare e dire ciò che si vuole, liberamente ma sempre nel rispetto altrui”.

Ma vi capita di litigare? 
Damiano: “Sempre meno”. 
Thomas: “Abbiamo imparato a fare litigate costruttive”.

E come si ricrea l’atmosfera sul palco dopo una discussione? 
Damiano: “Prima di esibirci c’è il quarto d’ora zen, dove nessuno deve parlare (ridono). E mezz’ora prima di esibirsi si è talmente concentrati che non si ha nemmeno la lucidità mentale di pensare ad altro.
La priorità è portare a termine una buona performance quindi anche se ci arrabbiamo, ci dimentichiamo tutto quando suoniamo insieme.

Foto Francis Delacroix

Arriva Victoria e le chiedo subito pregi e difetti di Damiano
Victoria: “Simpatico, intelligente, è un buon amico Damiano, ma un po’ iracondo anche se sta migliorando.

Damiano, pregio e difetto di Victoria
Damiano: “Molto organizzata, è una professionista, mai in ritardo. Il suo difetto è l’impazienza.”

Ethan, pregi e difetti di Thomas
Ethan: “Empatico, socievole, parla con chiunque. Difetto: distratto; quando si fa un briefing importante, alla fine della riunione lui chiede sempre “Scusa mi puoi ripetere l’inizio?!

Damiano: “Quello che parla meno di tutti sono io, addirittura meno di Ethan, perchè per me vige la regola che se non si ha niente da dire, è meglio stare zitti, “Zitti e buoni“.

Thomas, pregi e difetti di Ethan
Thomas: “Molto buono, un ottimo ascoltatore, cerca sempre di comprendere il punto di vista dell’altro, anche se differente dal suo. Difetto: prolisso.

Nella serata dei duetti avrete accanto Manuel Agnelli, il vostro coach a X Factor
Damiano: “E’ nata per caso questa scelta, ci siamo incontrati in treno e abbiamo iniziato a chiacchierare e ad ipotizzare il duetto; siamo felici di stare sul palco con Manuel Agnelli, che stimiamo come professionista e come persona.

Damiano e Manuel Agnelli in sala prove


Qui il testo dei Måneskin, “Zitti e buoni”.

Loro non sanno di che parlo
Voi siete sporchi fra’ di fango
Giallo di siga’ fra le dita
Lo con la siga’ camminando
Scusami ma ci credo tanto
Che posso fare questo salto
Anche se la strada è in salita
Per questo ora mi sto allenando
E buonasera signore e signori
Fuori gli attori
Vi conviene toccarvi i coglioni
Vi conviene stare zitti e buoni
Qui la gente è strana tipo spacciatori
Troppe notti stavo chiuso fuori
Mo’ li prendo a calci ‘sti portoni
Sguardo in alto tipo scalatori
Quindi scusa mamma se sto sempre fuori, ma
Sono fuori di testa ma diverso da loro
E tu sei fuori di testa ma diversa da loro
Siamo fuori di testa ma diversi da loro
Siamo fuori di testa ma diversi da loro
Io
Ho scritto pagine e pagine
Ho visto sale poi lacrime
Questi uomini in macchina
Non scalare le rapide
Scritto sopra una lapide
In casa mia non c’è Dio
Ma se trovi il senso del tempo
Risalirai dal tuo oblio
E non c’è vento che fermi
La naturale potenza
Dal punto giusto di vista
Del vento senti l’ebrezza
Con ali in cera alla schiena
Ricercherò quell’altezza
Se vuoi fermarmi ritenta
Prova a tagliarmi la testa
Perché
Sono fuori di testa ma diverso da loro
E tu sei fuori di testa ma diversa da loro
Siamo fuori di testa ma diversi da loro
Siamo fuori di testa ma diversi da loro
Parla la gente purtroppo
Parla non sa di che cosa parla
Tu portami dove sto a galla
Che qui mi manca l’aria
Parla la gente purtroppo
Parla non sa di che cosa parla
Tu portami dove sto a galla
Che qui mi manca l’aria
Parla la gente purtroppo
Parla non sa di che cazzo parla
Tu portami dove sto a galla
Che qui mi manca l’aria
Ma sono fuori di testa ma diverso da loro
E tu sei fuori di testa ma diversa da loro
Siamo fuori di testa ma diversi da loro
Siamo fuori di testa ma diversi da loro
Noi siamo diversi da loro

Sanremo 2021: si vola con Wrongonyou

Da prodigio del calcio a polistrumentista e compositore per il piccolo e grande schermo. Manintown incontra in esclusiva Wrongonyou poco prima di atterrare a Sanremo dove non mancherà di stupirci. 

La storia di Wrongonyou inizia da un strano caso del destino. A soli 9 anni, vieni notato come piccolo prodigio del calcio e, poco prima del provino con Bruno Conti, ti rompi una caviglia. Qualche anno dopo, per uno strano scherzo del destino, accade un episodio similare prima del tuo debutto con una squadra di basket. Tutto ciò dà la spinta per interessarti alla musica a 360 gradi prima da polistrumentista e poi da autore. Possiamo dire che il fato ti ha proprio illuminato la strada…

È evidente che il mio destino da sportivo fosse segnato (ride n.d.r.). Il calcio e al basket non mi bastavano e quindi, da buon ragazzino iperattivo, ero impegnato anche nel salto in lungo. L’essere fermo in convalescenza mi ha portato ad ascoltare e approfondire la musica grazie ai vinili di mio padre, partendo dagli album di Bruce Springsteen.

Un debutto in lingua inglese nato sotto la buona stella perché incoraggiato da un professore di Sound Technology all’università di Oxford che ha ascoltato i tuoi demo su Bandcamp e ti ha inviato a perseverare. Wrongonyou è una miscela di ispirazioni e influenze, con lo sguardo e l’orecchio inizialmente rivolti oltreoceano e sucessivamente aperti verso il grande cantautorato italiano. Quali sono i generi e gli artisti che tuttora sono la linfa della tua produzione musicale?

Il tutto è partito da un’offerta libera su Bandcamp per scaricare la mia musica, pari a una sterlina e venticinque. Questa offerta è stata seguita dalla mail di un professore inglese alla quale non ho dato peso (pensavo fosse un fake!). Qualche tempo dopo nelle aule di Oxford, dove studiava un amico, risuonavano le note delle mie canzoni. E solo grazie a lui ho scoperto che in realtà si trattava di pura verità, perché il mio amico era studente proprio di quel professore che mi mandò l’offerta su Bandcamp!
Il mio orecchio ama il folk leggero grazie al cantautorato americano. Sono approdato agli italiani molto tardi e per me è stata una scoperta sensazionale. A volte penso quanto le armonizzazioni vocali di Mango siano state per me una rivelazione.



Nel corso degli anni hai curato gli opening act di moltissimi artisti italiani e stranieri, come Niccolò Fabi, Daniele Silvestri, Levante, Mika, i The Lumineers, James Blake gli Austra, e la tua internazionalità ti ha permesso di calcare i palchi dei più prestigiosi festival europei e americani come l’Europa Vox in Francia, l’Eurosonic Noorderslag in Olanda, il Primavera Sound di Barcellona e il South by Southwest festival ad Austin in Texas. Quale sarà il primo brano che intonerai al ritorno davanti ad un pubblico in carne ed ossa?

Spero davvero di portare questo disco in tour perché l’idea di ricominciare, non so come e non so quando, mi riempie di gioia . Aprirei con la title track del disco o un pezzo dei miei esordi come “Rodeo”.

Un’artista prestato più volte al grande e piccolo schermo. Nel tuo curriculum, infatti, è presente il sound di lungometraggi, serie TV e del brano “FAMILY OF THE YEAR” che Real Time ha scelto come colonna sonora del Pride Month. Sei stato molto apprezzato da Gigi Proietti, Anna Foglietta, Rocco Papaleo e Alessandro Gasmann che ti ha anche inserito nel cast de il Premio. Come è stata la tua prima esperienza da attore?

Un’esperienza senza precedenti per la quale avevo molto timore. In realtà mi sono ritrovato in un’ambiente ricco di cordialità. Con i baluardi del cinema italiano è nata una bellissima amicizia e abbiamo condiviso molti momenti insieme, essendo una produzione itinerante in giro per l’Europa.



Lezioni di volo è stato il brano con cui hai concorso alla finale di Ama Sanremo e che ti ha consentito l’accesso alla categoria nuove proposte di Sanremo 2021 risultando il brano con il maggior numero di streaming sulle piattaforme digitali tra quelli in gara a Sanremo giovani. Un inno che sprona al coraggio, un invito a lasciarsi andare, a lanciarsi senza timore e con sicurezza per affrontare le esperienze che la vita ci mette di fronte. Sarà lo stesso spirito con cui affronterai la manifestazione canora più prestigiosa del nostro Paese?

La priorità è affrontare il tutto con divertimento insieme alla mia squadra. Mi dispiace molto esibirmi senza pubblico in quanto ho bisogno della positività generata dalla sua presenza delle persone. Ad ogni modo ho una gran voglia di godermi l’esperienza nel migliore dei modi. Non vedo l’ora!

Special content direction, production, interview & styling Alessia Caliendo

Photographer Matteo Galvanone

Grooming Alessandro Pompili

Styling assistant Andrea Seghesio

Beauty by

Bionike

Gli Elementi

Maria Nila

Miamo

WeMakeUp 

Special thanks to 

Leonardo Hotel Milan City Center

Soulgreen

Il ritmo caldo del reggaeton: Vergo

Cantautore dall’animo nero, sexy beat e voglia di raccontare tipica del Meridione. Vergo, romantica anima sicula incontra in esclusiva Manintown, presso NH Milano Touring, parlando di ricordi, legati alla sua terra e all’experience di X Factor, e alla costante sperimentazione musicale sotto l’ala di FLUIDOSTUDIO, etichetta con la quale ha prodotto e lanciato “L’Animo Nero” e “Bomba”. 

Famiglia siciliana e la carismatica gestualità che solo il Sud riesce a donare, Vergo si apre ad una ricerca artistica senza precedenti in cui la multiculturalità e la libertà espressiva si lasciano andare al ritmo caldo di un reggaeton mediterraneo fuso alla tradizione popolare siciliana. Da dove parte e come si evolve la tua sete di contaminazioni, suggestioni e visioni? 

La scintilla d’amore verso il reggaeton è scattata quando ho sentito il bisogno di avere nella mia vita più spensieratezza e vibrazioni briose e “peligrose”. Dai primi approcci ho avvertito un sound caloroso, accogliente e inclusivo. Sento di aver trovato la chiave giusta per affrontare ed esprimermi sulle tematiche anche più profonde a me vicine, mantenendo una vena ottimistica e romantica. 



Una vera e propria “Bomba” che, grazie al brano omonimo, presentato alle audizioni di XFACTOR ha fatto ballare tutti, dai giudici allo staff dietro le quinte, fino a convincere Mika a volerti con sé. Una hit che ha da poco superato i 2 milioni di stream su Spotify e un ottimo biglietto da visita per entrare nel cuore degli italiani. Svelaci tutti i retroscena della sua nascita. 

La nascita di Bomba è avvenuta in un anno difficile e di profonda riflessione personale. L’incontro con il misterioso producer ilromantico e la sua bozza di beat hanno aperto una prospettiva del tutto nuova sulla musica che stavo cercando, con richiami all’estate e alla voglia di ballare all’aria aperta che tanto ci mancava. Da lì insieme a ilromantico e FLUIDOSTUDIO ho iniziato a giocare, a sperimentare con i suoni, dando vita a BOMBA che è diventata una vera e propria terapia messa in musica. Un beat contagioso che ha coinvolto tutt* coloro che volessero liberarsi dalle proprie catene. 



Lo stage e il backstage di XFACTOR hanno visto anche il lancio dell’ inedito “Nella Balera”, scritto con Paolo Antonacci e prodotto da sixpm (producer di Elisa, Fedez, Guè Pequeno, Marracash e Arisa) con la supervisione di Taketo e del team leader Mika. Quanto ti hanno segnato le luci dei riflettori di uno show mainstream e cosa porterai con te da questa esperienza? 

Partecipare ad XFactor mi ha reso più consapevole del mio essere artista. Mi ha fatto scoprire quanta forza e bellezza risiedono nel mio modo di scrivere e fare musica, mi permettono di condividere me stesso con chi mi ascolta. 

FLUIDOSTUDIO è l’etichetta discografica indipendente che possiamo definire la famiglia milanese e che ti ha seguito e ti segue nella crescita artistica e professionale. Quali sono i focus su cui vi state concentrando in questo particolare momento dove la musica live è penalizzata? 

Appena conclusa la partecipazione al programma, mi sono rimesso subito a lavorare con FLUIDOSTUDIO. Il mio percorso musicale prende le mosse dalla ricerca personale e dalle mie origini, infatti amo raccontare storie dando risalto ai linguaggi siculi. Qualche giorno fa ho deciso di acquistare un dizionario italiano-siciliano in modo da studiarne ogni singola inflessione anche vernacolare. 



In cantiere ci sono nuove tracce in collaborazione con il duo Bautista e con Populous, coordinato da il producer ilromantico e dal direttore artistico Protopapa, con l’intenzione di raggiungere un pubblico ancora più vasto e raccontare la tua visione romantica della realtà. Suggeriscici una playlist poetica che può farci entrare nel tuo mindset musicale mentre siamo alle prese con le grigie giornate in smart working. 

Lavorare con i Bautista potrei definirlo positivamente strano perché nella loro calma assoluta riescono a produrre musica a gran velocità. 

Scrivere oggi della mia collaborazione con Populous rappresenta un enorme traguardo. Sognavo di arrivare a questo punto e sono orgoglioso di esserci arrivato con le mie forze e l’aiuto del team FLUIDOSTUDIO che mi segue. 

Ci sono in cantiere altre collaborazioni molto interessanti delle quali non possiamo svelare ancora nulla ma che saranno una sicura sorpresa per tutt*. 

Vi lascio con la mia playlist: 

Blaya – Faz Gostoso
Arca feat. Rosalia – KLK
Boyrebecca – Dulce de leche
Populous – Petalo
Major Lazer – QueloQue
Rosalia – Juro que
Urias – Diaba
FKA Twigs – Sad Day
Grimes feat. Majical Clouds – Nightmusic Sophie – It’s okay to cry 

Special content direction, production, interview & styling Alessia Caliendo

Photographer Clotilde Petrosino

Make up Serena Polh

Hair Alessandro Pompili

Beauty by

Bionike

Gli Elementi

Maria Nila

Miamo

WeMakeUp 

Special thanks to 

Fluido Studio

NH Touring Hotel Milano 

Soulgreen

Va bene piangere, grazie SOPHIE

“I can see the truth through all the lies

And even after all this time

Just know you’ve got nothing to hide

It’s okay to cry”

Lyrics from “It’s okay to cry” by Sophie



Spesso cerchiamo un senso a tutto ciò che ci accade, come se ci debba essere obbligatoriamente una spiegazione ad ogni cosa. SOPHIE, prima di essere una cantante, dj e producer è stata un faro per tutti coloro che hanno creduto che non ci fosse un senso.

Potremmo iniziare questo elogio citando la nomination ai Grammy o le collaborazioni con Madonna, Charli XCX ed altri artisti di fama internazionale, ma SOPHIE è la stessa adolescente che nel 2013 rilasciò il suo primo singolo “Nothing More To Say” eppure ha parlato ed ispirato le nuove generazioni ad uscire dall’ombra, la stessa oscurità che le ha privato di esibirsi in piena libertà.



Nel 2018 SOPHIE dichiara a Paper Magazine: “Il fatto di essere trans abbatte qualsiasi aspettativa basata sul corpo in cui sei nata, ma il tuo corpo è in linea con la tua anima e il tuo spirito. Non è più necessario adempiere a dei ruoli sociali, ma riesci a vivere secondo le tue passioni, la tua essenza” abbattendo ogni velo di timore e lanciando un messaggio a tutti coloro che tutt’oggi hanno bisogno di sentirsi in pace con loro stessi, partendo dal loro corpo.
Ad oggi non crediamo importi davvero sapere come, quando o dove SOPHIE ci abbia lasciato, ma conti di più sapere che il messaggio che ci ha donato è un forte segnale di cambiamento, di libertà e consapevolezza, un segno indelebile che viaggia con immagini e musica in ogni luogo.




“Fedele alla sua spiritualità, si è arrampicata per raggiungere un posto da cui guardare la luna piena ed è scivolata. SOPHIE sarà sempre qui con noi” – Transgressive Label

New faces: Blanco è l’inno ribelle degli adolescenti

Il tentativo critico d’incasellare un artista in un genere preciso è sempre più complesso. La cultura musicale contemporanea è un assalto alle barriere, e quest’ultime stanno diventando pressoché invisibili. Lo sa bene BLANCO, classe 2003, pseudonimo del bresciano Riccardo Fabbricone, che si lamentava pochi giorni fa, sui suoi social, riguardo a questa tendenza tecnicistica di trovare sempre un nome a tutto.



“Faccio musica perché mi piace, non perché voglio essere chiamato cantante o rapper” dice lui che, a prescindere da come viene definito, è ormai alle luci della ribalta. Pochi singoli sulle spalle, ma un corteo di fan e un’aurea senza pari. Sono le leggi del nuovo mercato: sganci un singolo su Spotify e con quello cogli il cuore delle persone – e perciò l’algoritmo. Non solo perché il singolo spacca, ma perché sei tu. E BLANCO, non c’è dubbio, è una creatura a sé stante.



Dal suo exploit, Notti in Bianco – il secondo singolo ufficiale, rilasciato dopo il suo primo, meno conosciuto ma comunque valido, Belladonna (Adieu) -, una community di teneri anarchici si è accerchiata attorno alla sua figura. L’immaginario che emana BLANCO sempre mezzo nudo (dice che lo fa sentire libero) e sfacciatamente acneico, è l’inno ribelle degli adolescenti. Non quelli scontrosi, sempre e per forza, ma quelli vivi, in qualche modo profetici, da cui tanti adulti, rinsecchiti, dovrebbero cogliere l’insegnamento e il vigore. Essere liberi, parafrasando BLANCO, nel suo ultimo singolo, LA CANZONE NOSTRA, assieme a Salmo e prodotta da Mace, significa “ballare sotto la pioggia”. Contro ogni intemperia, contro ogni sfiancante pandemia o bruttura di questo mondo, tu balla.



Ma torniamo agli inizi, a quella Notte in Bianco, prodotta dal fidato Michelangelo. Lì c’è il segreto del suo successo, il manifesto di una genuinità ribelle che non sarebbe potuta passare inosservata. Chiunque la scorsa estate si fosse trovato ad ascoltarla, ne sarebbe rimasto – per l’assoluta novità – romanticamente scandalizzato. L’atmosfera notturna e selvaggia del brano, mixata a un testo che nel suo essere esplicito trova profonde forme di lirismo, è l’essenza di BLANCO. Grida, salti che non vedi ma senti, la corsa verso l’alba degli after passati a scrivere, l’amore in fuoco, la carne bruciante: in sintesi la gioventù, quella vera ed eversiva. È una canzone catartica che purifica tutte le particelle di amore tossico che sono rimaste: ho strappato mille pagine, baby, per descrivere le tue lacrime. Non c’è spazio per dormire, perché la notte resta tutta da ballare. Il filone romantico lo ritroviamo in Ladro di Fiori, uscita ad ottobre, che conferma il suo essere una voce fuori dal coro, rispetto alla trivialità di una trap, fino a qualche tempo fa imperante. Sono un ladro di fiori / amo i tuoi colori / e ho rubato te / in un campo di gigli / siamo tornati bimbi / e tu hai scelto me. Versi allo stato puro, recitati su una base ipnotica, sempre di Michelangelo, che lascia sbalordito l’ascoltatore.



In tre minuti di canzone, la musica italiana ha un sobbalzo di serenità: d’un tratto l’aulica semplicità, caratteristica del cantautorato, è nuovamente in auge. A coronare questa sua tendenza è la già anticipata LA CANZONE NOSTRA, con Salmo e Mace, che in questi tempi bui è sembrata una dinamite di luce. Sono sotto la pioggia / come la prima volta / a cantarti Nel blu dipinto di blu, / era la canzone nostra canta BLANCO, in un video in bianco e nero storico, in cui – sembra la preistoria – tutti ballano ammassati, ma vivi.



La buona musica – come la buona arte – risana il rapporto che c’è tra la realtà e l’utopia. BLANCO lo sa fare. Nella sua assoluta e intransigente sincerità, riesce a portare dei messaggi dimenticati, una certa vibes incandescente, che non si sentiva da un pezzo. Ha fatto uscire quattro singoli, eppure sembra aver già smosso le acque. La Universal Music ha in casa un soggetto che non è nemmeno più una promessa, ma una certezza. Come si fa a dirlo dopo così poco? La pretenziosità nel farlo è scusata dall’impatto che i suoi testi e il suo mood hanno portato nella scena. Una voce masticata e un po’ misteriosa che ci ricorda Madame – su di lei bisognerebbe aprire un altro immenso capitolo – e dei testi illuminati da un’ispirazione reale sono i suoi strumenti. Il futuro riserberà sorprese, nel frattempo, balliamo – per quanto possibile – con lui sotto la pioggia.

Il più eclettico tra gli eclettici: Saturnino

Saturnino Celani, è un vero artista a 360°, istrionico bassista, compositore ed anche designer della sua collezione di occhiali, trade mark che lo rende unico.

La sua amicizia nonché sodalizio artistico con Lorenzo Jovanotti proprio quest’anno compie trent’anni di musica e divertimento in giro per il mondo.



Un musicista come te ha suonato a Capodanno?

Beh, non esattamente, però ho suonato la mia chitarra classica sul divano di casa attenendomi alle regole imposte da DPCM, però devo ammettere che non è stato male perché quando non suono va benissimo così.

Non l’ho mai vista come una festa in cui bisogna divertirsi per forza, son stato bene anche con la mia Bulldoggina.



Quando è nata la tua passione per la musica?

In realtà da quando è arrivata la percezione del suono quindi credo intorno ai quattro/cinque anni, appena sentivo la musica iniziavo a ballare, ed il mio pubblico erano la mia sorella maggiore ed i miei genitori, quindi ho iniziato sin da subito.

Non hop fatto altro che perseguire quella che era la mia passione.

Parlami del tuo incontro con Lorenzo Jovanotti.

È avvenuto a Milano nel 1991, infatti proprio quest’anno festeggiamo trent’anni di amicizia, fratellanza e collaborazione.



Quanto ti manca suonare con il pubblico davanti?

Davvero indescrivibile da raccontare, mi manca come l’aria, è una sensazione di cui non ci si stanca mai, ti dirò che essendo un fruitore di musica, mi manca allo stesso modo l’andare ai concerti, quindi davvero speriamo di poter tornare il più presto possibile ad una vita normale.

Invece dimmi della tua passione per gli occhiali?

Esattamente così, nel senso che non è diventato un vero lavoro, rimane una mia grande passione, in quanto io ho iniziato ad indossarli anche quando non avevo bisogno, solo con lenti trasparenti, per darmi una di carattere in più.

Poi è successo che ne avevo rotto un paio a cui tenevo moltissimo, e l’ottico che mi seguiva mia ha proposto farne io una linea visto che tanto non ce ne era mai nessuno che andasse bene e volevo sempre quel dettaglio che mancava.



I primi son stati solo cento pezzi che abbiamo venduto solo da lui e poi piano piano siamo diventati una piccola realtà.

Con molte difficoltà ma ad oggi realizzare qualsiasi cosa è estremamente difficile.

Sei molto attivo sui social, lo sei sempre stato oppure è un effetto del lock down?

Lo sono sempre stato poi sicuramente si è amplificato con il lock-down, quindi non ho fatto altro che trovarmi pronto, e poi oltre che dal punto di vista artistico è stato fondamentale per quello umano.

Son riuscito anche ad insegnare a mia madre a fare le video chiamate, che son diventate una consuetudine ed è davvero stupendo.

Con tutte le difficoltà del caso con l’inquadratura della telecamera, che nonostante siano lucidissimi i miei, mancano di dimestichezza con IPAD, ma son migliorati.



Dimmi dei tuoi nuovi brani usciti alla fine dell’anno

Il primo è una collaborazione con un’artista indipendente di Bassano che si chiama Piol, il pezzo si intitola “Sotto il portone”, me lo aveva mandato tempo fa, però abbiamo scelto di farlo uscire sotto Natale con l’anteprima su Radio Italia.

L’altro invece è un progetto fatto con Tato di Radio Deejay,con lo pseudonimo SATUHOUSE GANG, ed è un collettivo di cinque persone che hanno tutte registrato rigorosamente singolarmente da casa e mixato da un nostro amico di New York, forse sarà il primo di una lunga serie, cambiando i personaggi.

Trap game: il nuovo libro di Andrea Bertolucci

Nato all’alba degli anni ’90, Andrea Bertolucci è un giornalista e scrittore esperto di cultura giovanile e si occupa di trap fin da quando questa ha mosso i suoi primi passi nel nostro Paese.
La sua attività professionale lo ha avvicinato negli anni ad alcune tra le principali redazioni televisive e web nazionali, con le quali tuttora collabora. Per Hoepli è appena uscito il suo libro “TRAP GAME. I sei comandamenti del nuovo hip hop”, che vede la partecipazione di alcuni fra i principali artisti sulla scena italiana. 



Raccontami della tua passione per la musica trap

Arrivare a raccontare la mia passione per la trap è impossibile senza prima raccontare quella per l’hip hop, che nasce quasi per caso, da ragazzino. Avevo quindici anni e nessun interesse per il rap: suonavo la batteria in una band punk, erano gli anni dei Green Day e dei Blink-182, degli Offspring e dei Linkin Park. La svolta è avvenuta nel 2006, anno dell’unico concerto di Jay-Z in Italia. Non ci volevo proprio andare, ma un’amica dell’epoca mi ci ha trascinato, quasi a forza. Eravamo vicinissimi, sotto al palco percepivo le vibrazioni newyorkesi di Mr. Carter: erano gli anni del “Black Album”, delle collaborazioni con Kanye West, della New York “Empire State Of Mind”. Sono rimasto letteralmente folgorato da quel live, durato quasi tre ore, e da lì ho iniziato ad appassionarmi a questa musica e a questa cultura. Crescendo poi ho iniziato a frequentare la scena di Milano – la città in cui vivo – dove dal 2010 hanno iniziato a svilupparsi le vite e le carriere di quelli che oggi sono i principali artisti trap italiani, alcuni dei quali sono diventati anche miei amici. Artisti che oggi riempiono i palazzetti, li ho visti soltanto sei anni fa con 50 persone sotto al palco. 



Come è nata l’idea del libro?

Ho iniziato a pensarci dopo la tragedia di Corinaldo, che aveva scosso l’Italia e portato la trap agli onori delle cronache. In quel momento, è iniziato un processo mediatico che non ha precedenti e si protrae tutt’oggi, in cui la colpa di qualsiasi problema o incomprensione generazionale è da attribuire alla trap. Magari la trap avesse tutte queste responsabilità: sarebbe anche molto più semplice risolverle!
Ecco che allora ho iniziato a lavorare su un libro che potesse far incontrare l’amore che tanti giovanissimi hanno per questa cultura, con la necessità dei loro genitori di capirci di più. E devo dire dai molti messaggi che mi arrivano su Instagram, di esserci riuscito. Proprio pochi giorni fa mi ha scritto una mamma per dirmi che grazie a “TRAP GAME” aveva trascorso del tempo per leggerlo assieme a suo figlio e aveva abbattuto molte incomprensioni generazionali. Cercare di capire una cultura complessa come questa, che ovviamente porta al suo interno profonde contraddizioni e cicatrici, è il primo passo per poterla anche criticare. 



Le 5 cose da sapere sulla musica trap?

Per capire innanzi tutto gli eccessi e le provocazioni che porta con sé questa cultura, occorre sapere che è profondamente legata ad un senso di riscatto, di redenzione verso una vita che prima non ha concesso niente se non povertà e preoccupazioni. 

Un altro trait d’union che collega molti artisti trap, è la totale indifferenza – che spesso si trasforma in provocante irriconoscenza – nei confronti della vecchia scena hip hop: alcuni di loro durante le interviste fanno addirittura finta di non conoscere i nomi portanti della old school.

Tutti gli artisti trap hanno un profondo legame con il blocco, che non a caso è anche uno dei “sei comandamenti” del mio libro. In questo senso, c’è invece un filo rosso che lega questa alla scena precedente: il legame territoriale è sempre stato essenziale e unisce oggi tutti i quartieri e le periferie del mondo che trovano negli artisti trap i propri rappresentanti territoriali.



Rappresentare un territorio o una scena, significa anche scontrarsi con gli altri per mantenerne alto il nome. Ecco che nascono i dissing, litigi che possono assumere di volta in volta forme diverse (dalle barre di una canzone fino alle Instagram stories) e che vedono gli artisti (e non solo) uno contro l’altro.
Infine, la quinta e ultima cosa da sapere è che la sostanza prediletta dalla cultura trap è la coloratissima – ma non per questo meno dannosa – lean, chiamata anche purple drank per via del colore viola. Si tratta una miscela ottenuta combinando sciroppo per la tosse a base di codeina insieme a una bevanda gassata, generalmente Sprite e la cui diffusione maggiore coincide con il boom dei social network, che ne fanno uno dei tanti ingredienti dell’ostentazione, al pari di una giacca di Vuitton o dell’ultimo modello di Lamborghini. 

Come è nato e si è sviluppato questo fenomeno?

La musica trap è nata ad Atlanta in un momento imprecisato all’inizio degli anni 2000 all’interno delle “trap houses”, delle case – molto spesso abbandonate – presenti nei sobborghi delle metropoli americane, nelle quali veniva prodotta, venduta e consumata ogni tipo di droga. L’ascesa di popolarità di questo genere ha coinciso però con l’ascesa dell’organizzazione criminale della Black Mafia Family, nota per le spese considerevoli e uno stile di vita esagerato. La BMF ha tentato di ripulire una buona parte dei proventi guadagnati dal traffico di sostanze, lanciandosi nel business della musica hip-hop e avviando la BMF Entertainment. Oltre al beneficio di riciclare i soldi, la musica trap era anche lo strumento narrativo e propagandistico di questa organizzazione: i primi trapper sono veri e propri aedi dei trafficanti e degli spacciatori. Bisognerà aspettare però i primi lavori di T.I. e Gucci Mane – fra il 2003 e il 2005 – per una diffusione più ampia di questa musica, fino agli anni ’10 del nuovo millennio in cui molti produttori iniziano a mescolare le sonorità trap con note decisamente più EDM, contribuendo alla sua diffusione a livello mainstream. 



Parlaci dei temi più frequenti e dei tuoi brani preferiti

I temi più frequenti sono proprio quelli che nel libro ho definito “i sei comandamenti”, dedicando un capitolo ciascuno. I soldi, da cui passa buona parte della voglia di riscatto di questa cultura, il blocco, di cui abbiamo parlato poco fa, lo stile, che si può declinare in tante sfumature differenti. Ma anche – ovviamente – le sostanze, che accompagnano la trap lungo la sua storia, le donne, uno dei temi su cui viene maggiormente criticata e la lingua, che indubbiamente sta contribuendo a trasformare. L’evoluzione di questi ultimi anni ha portato la trap a non essere più un unico blocco, ma ad avere molte sfumature differenti. Personalmente, amo molto artisti come Travis Scott, che stanno reinventando lo stile giorno dopo giorno, ma anche buona parte della scena francese, dai decani PNL – unici artisti ad aver girato un videoclip nel punto più alto della Tour Eiffel – fino ai più giovani MHD e Moha La Squale.



Come hai selezionato i musicisti?

Erano tutti perfetti portavoce dei rispettivi comandamenti, per un motivo o per l’altro. Con alcuni è nato casualmente, con altri eravamo già amici prima di lavorare al libro, con altri lo siamo diventati grazie a “TRAP GAME”. Quello che li unisce è l’appartenenza alla scena italiana e ovviamente una profonda consapevolezza della propria arte, che ha permesso di scrivere assieme i vari capitoli. Diversa è la storia delle prefazioni, che sono ben due. La prima è affidata ad Emis Killa, che non ha bisogno di presentazioni. Volevo uno dei padri dell’hip hop in Italia, che dicesse la sua e guardasse anche un po’ dall’alto questi giovani trapper. L’altra è una vera chicca per gli appassionati, ed è firmata da TM88, uno dei maggiori produttori al mondo e tra gli inventori del sound trap. Posso dire che è davvero un grande onore per me, non smetterò mai di ringraziare il mio amico Will Dzombak (manager di Wiz Khalifa e di molti altri artisti americani) per questo regalo.



Musica trap e moda: come dialogano questi mondi? L’identikit fashion del trapper…

Una delle più evidenti cesure tra la vecchia scena e quella nuova si gioca proprio sul terreno della moda, che assume anche in questo caso un carattere maggiore di ostentazione e provocazione. I comuni baggy jeans che indossavano i rapper negli anni ’90,si trasformano in costosi e attillati Amiri che cadono sopra sneakers sempre diverse e customizzate, linee firmate spesso in partnership con gli stessi artisti. Le t-shirt si riempiono con loghi di brand sempre più attigui all’alta moda e questi ultimi iniziano a strizzare maggiormente l’occhio agli artisti, portandoli a sfilare, uno dopo l’altro, in passerella e contribuendo alla nascita dello “streetwear di lusso”. 



Se oggi ci stupiamo e talvolta indigniamo di fronte a foto che ritraggono centinaia di ragazzi che passano la notte in fila per “coppare” un paio di Yeezy o di NikeXOffWhite, oppure di fronte ai video YouTube nei quali troviamo dei giovanissimi hypebeast intenti a mostrare il valore del proprio outfit, troviamo la risposta proprio nella trap e nei suoi protagonisti. Stessi brand, stesse movenze, stessa ricerca dell’esclusività all’interno di un mercato che tende a uniformare.

La playlist che consigli per avvicinarsi a questo genere?

Cinque canzoni americane e cinque italiane, per degustare entrambe le scene. In America piantiamo le basi con Gucci Mane e T.I., i due “padri fondatori”, per poi spostarci su vere e proprie hit che hanno fatto la storia, come “XO Tour Llif3” di Lil Uzi Vert (prodotta fra l’altro da TM88, che ha scritto la prefazione di “TRAP GAME”) “Sicko Mode” di Travis Scott e “Bad and Boujee” dei Migos. Venendo all’Italia, ho inserito “Cioccolata” di Maruego, che considero il primo brano trap prodotto nel nostro Paese e “Cavallini” della Dark Polo Gang feat. Sfera Ebbasta, che segue a ruota. Per finire, la mia canzone preferita di Sfera – “BRNBQ” – e due hit italiane: “Tesla” di Capo Plaza con Drefgold e Sfera, e la versione remixata da Achille Lauro e Gemitaiz del brano di Quentin40, “Thoiry”. 



“Transmissions: the definitive story”

La storia dei Joy Division & New Order in formato podcast



“I’ve been waiting for a guide to come and take me by the hand”, questo l’invocante incipit declamato, su un drumming ipnotico, dalla profonda e tormentata voce di Ian Curtis in Disorder. Non c’è stata però per lui alcuna guida “virgiliana” ad afferrargli la mano, ad attenderlo solo i suoi demoni interiori. Ironia della sorte, una frase pronunciata anni prima dall’inquieto “The Lizard King” Jim Morrison, del quale era un grande estimatore, sembra essere stata vate e precorritrice di un medesimo destino: “Quando il mio corpo sarà cenere, il mio nome sarà leggenda”. La morte di Ian Curtis non solo ha mitizzato l’uomo-artista, ma ha fatto del gruppo post-punk dei Joy Division, dei quali era una parte per il tutto, una pietra miliare della storia musicale e delle icone immortali di un immaginario collettivo. Una storia di vita e di morte che intreccia successi, fragilità e rinascite come raccontato nel podcast, in lingua inglese, dal titolo Transmissions: The Definitive Story, uscito il 29 ottobre e prodotto da Cup & Nuzzle, l’azienda di podcast che ha collaborato con Robert Plant in Digging Deep. Un corpus di interviste inedite affidate alle memorie dei membri dei Joy Division e dei New Order (Bernard Sumner, Peter Hook, Stephen Morris e Gillian Gilbert) e ai ricordi rivissuti attraverso le testimonianze degli ospiti coinvolti come Johnny Marr, Damon Albarn, Liam Gallagher, i fratelli Greenwood dei Radiohead, Bono, Thurston Moore, Karen O, Perry Farrell, Pet Shop Boys, Stereolab.


NETHERLANDS – JANUARY 16: ROTTERDAM Photo of Joy Division, Ian Curtis and Bernard Sumner (L) performing live onstage at the Lantaren (Photo by Rob Verhorst/Redferns)

Hot Chip, Anna Calvi, Bobby Gillespie, Shaun Ryder.

La voce dal sussurro solenne dell’attrice britannica Maxine Peake ci immerge nei colori tonali e narrativi di una storia che inizia con tre semplici parole “Band seeks singer” – “Band cerca cantante”- scritte su un annuncio affisso da un giovane Bernard Sumner in un negozio di dischi di Manchester. Risposero in tanti, tra loro anche Ian Curtis che all’epoca lavorava nei servizi sociali come assistente per disabili. “Incontrai Ian all’Electric Circus. Non riesco a ricordare quale concerto fosse. Potrebbe essere stato il terzo concerto dei Sex Pistols. Era facile da individuare, aveva un giubbotto con la scritta HATE scritta in vernice arancione sulle spalle…Sono andato a casa sua a Stretford. Ian mi disse, ‘Ehi, hai sentito questo nuovo album di Iggy Pop? È uscito questa settimana.’ Non avevo mai sentito Iggy Pop. Suonò “China Girl” da quell’album e pensai fosse fantastico, me ne sono subito innamorato e ho pensato… questo è il ragazzo.” Ricorda Peter Hook.


NETHERLANDS – JANUARY 16: ROTTERDAM Photo of Joy Division, Ian Curtis and Bernard Sumner (L) performing live onstage at the Lantaren (Photo by Rob Verhorst/Redferns)


Inizia, così, l’avventura dei Joy Division ripercorsa nel primo episodio di apertura della serie. Un viaggio dagli esordi acerbi ed inesperti dei Warsaw (omaggio omonimo al brano strumentale di David Bowie), nel 1977, alla fulminea popolarità raggiunta sotto il nome romanzato scelto dal “punk colto e introverso” Ian Curtis, la “Divisione della Gioia”, ispirato al libro La casa delle bambole di Ka-Tzetnik 135633 e al tugurio delle donne ebree prigioniere nei lagher nazisti destinate all’intrattenimento sessuale delle SS. Transmissions è una storia di amici, di musica, di case discografiche, club e studi di registrazione sullo sfondo di una Manchester vuota e arrabbiata, dalla tradizione proletaria e avvolta nelle nebbie e nel grigiume di ferro, acciaio e scheletri di fabbriche, ma attraversata nelle sue fondamenta da un energetico flusso di musica e creatività. È una storia che, puntata dopo puntata, indaga in otto episodi le tappe cruciali delle due band in un ricordo corale che diventa “memoria di massa”. Dalla nascita dei Joy Divsion all’alienazione introspettiva dell’album di debutto, “Unknown Pleasures”, pubblicato il 15 giugno del 1979 dalla Factory Records di Tiny Wilson e Alan Erasmus e passato alla storia per la sua iconica e idolatrata copertina realizzata dal graphic designer Peter Saville (l’immagine raffigurante le pulsazione della pulsar CP 1919). Dalla morte scelta di Ian Curtis, suicida a soli 23 anni nella sua casa al numero 77 di Barton Street a Macclesfield il 18 maggio del 1980, alla fondazione dei New Order. Riscattandosi dal peso della precedente eredità, la formazione orfana del suo carismatico frontman si reinventa in un gruppo che rinasce da un patto solenne stretto tra amici “se uno di loro fosse uscito dal gruppo, gli altri tre avrebbero dovuto cambiare nome e genere” e così fu. Con Blue Monday, il brano cult del 1983, la band si esibisce con uno stile completamente nuovo fatto di sintetizzatori e batterie elettroniche, spingendo la tecnologia ai limiti e trovando in questo successo inaspettato il loro futuro artistico.




L’ottava ed ultima puntata di Transmissions si chiude sulla scia delle parole di Bernard Sumner:“Niente ci avrebbe fermato, niente ci ha fermato, vero? La morte di Ian non ci ha fermato, la morte di Rob non ci ha fermato, il furto di tutta l’attrezzatura non ci ha fermato, la morte di Tommy non ci ha fermato. Non c’era alcun piano B, non c’era altra opzione”. La seconda stagione della serie non è stata ancora annunciata, ma potrebbe ripartire da qui per svelarci il resto della storia, fino allo scioglimento degli anni ’90 e alle reunion degli ultimi anni.

Jessica Winter, Pregoblin e altre magnifiche stranezze

Se doveste formare una band, che nome scegliereste? Sicuramente, a meno che non si tratti di una band Black metal, tutto ma non Pregoblin. Eppure la stramba scelta si è da subito rivelata vincente: quando, anni fa, leggevo questo nome tra quelli delle band inglesi emergenti era l’unico che mi rimaneva veramente impresso. Il mistero Pregoblin era infittito da uno scarnissimo profilo Facebook corredato solo da una foto sbiadita e rovinata di una bambina che sembrava esser stata presa da una lapide di campagna abbandonata alle intemperie e all’incuria. Nessuna ulteriore informazione se non altre enigmatiche foto-collage prive, apparentemente, di un senso logico. Poi, improvvisamente, nel 2019, il debutto con il singolo più accattivante e bello di quell’anno acclamato dalla critica specializzata, “Combustion”.

Scoprii che la band era formata da due componenti: l’affascinante Alex Sebley, un vero dandy Baudleriano di periferia completamente immerso nella creatività poetica e nei fumi dell’oppio e Jessica Winter, stupenda con i suoi occhiali da vista retrò e il suo look così (per fortuna) distante dai banali e scontati canoni estetici della scena musicale underground. Entrambi provengono da precedenti ed illustri collaborazioni con artisti come Fat White Family, Gorillaz e The Horrors.

Dopo l’esordio con “Combustion”, i Pregoblin sfornano una manciata di brani. Quattro, per l’esattezza. Quattro gemme, tra loro assai diversi ma ugualmente impeccabili nella loro scrittura di cristallino e strambo pop d’autore. L’ultima uscita è la meravigliosa e sognante “Snakes and oranges”, piccolo capolavoro pop con un ritornello che ti entra in testa e non ti esce più.

https://www.youtube.com/watch?v=30ZSwMg26KM&feature=youtu.be

Dal canto suo Jessica Winter inizia parallelamente una carriera da solista in cui la sua angelica voce viene subito magistralmente messa in risalto nel suo brano di debutto “Sleep Forever” del 2019. Seguono una serie di singoli che vanno poi a formare il mini-album di 5 canzoni “Sad Music”. Le sonorità rimangono pop ma, rispetto ai Pregoblin, gli arrangiamenti sono più sofisticati e le atmosfere teatrali.

L’ultimo singolo di Jessica è “Psycho” canzone dall’incedere epico e misterioso, accompagnato da un video particolarmente eccentrico ed inquietante.

Jessica e i Pregoblin sono un’adorabile anomalia composta da ingredienti spesso volutamente (e solo apparentemente) sgangherati ed improbabili ma sempre attraversati da una vera vena poetica intrisa di meravigliosa malinconia che con orgoglio si contrappone allo scontato, sfavillante e artefatto panorama musicale contemporaneo. Per queste ragioni vi consiglio di scoprire la loro musica e di innamorarvene: non ve ne pentirete.

Ecco l’intervista che abbiamo fatto a Jessica Winter in cui ci racconta come si sono formati i Pregoblin e il perché della scelta dello strambo nome, dei suoi problemi di salute che non l’hanno mai abbattuta e altre stranezze…


Ph: NAN MOORE

Ciao Jessica, intanto grazie di questa intervista per i lettori di MANINTOWN! Ci racconti come hai conosciuto Alex Sebley e come è nata l’idea di formare i Pregoblin e perché avete scelto questo nome per la band?

Io e Alex ci siamo conosciuti su Facebook – lui stava promuovendo a un concerto di Harry Merry e io sono una grande fan di Harry. Per com’è fatto lui, Alex aveva creato l’evento, ma non il link per comprare i biglietti. Io gli ho inviato un messaggio per comprare un biglietto e da li’ ci siamo messi a chattare. E’ strano perché successivamente abbiamo scoperto di essere entrambi di Hayling Island; un’isola al largo di Portsmouth. Abbiamo scelto PREGOBLIN perché dovevamo fare un concerto ma non avevamo ancora un nome. E’ iniziato come come scherzo, ma poi ce lo siamo tenuti. Il Pregabalin è una medicina che cura la dipendenza da eroina, ma agisce anche contro il dolore cronico. Quindi abbiamo quel farmaco in comune.

Definite vostra musica come “weird pop”. In effetti è difficilmente catalogabile. È molto fruibile ma, allo stesso tempo, sembrerebbe non voler essere mainstream. Cosa ci dici al riguardo?

Alla gente piacciono le sfide.



Ti ho sempre ammirata per il modo del tutto naturale in cui non hai mai fatto mistero di un tuo problema fisico dovuto ad una displasia dell’anca. Ci racconti il tuo rapporto con questa malattia e se ha influito sulla tua carriera artistica?

Ho vissuto molti lockdown nella mia vita in ospedale. Ho trascorso sei settimane alla volta stesa sulla schiena incapace di muovermi dalla vita in giù e questo ha probabilmente influenzato la mia etica del lavoro. Sono molto grata di aver potuto fare della musica la mia carriera e lavoro sodo quando sto bene abbastanza per farlo. Non mi lascio stressare e sono felice di poter condurre attività come camminare, stare all’aria aperta e più in generale essere viva. La vita e’ un grande privilegio e temo sempre l’improvviso che ci possa essere tolta da un momento all’altro..

Avendovi visti più volte dal vivo trovandovi sempre fantastici, mi ha sempre molto intrigato la presenza scenica che trovo originalissima e fuori da ogni cliché: la tua voce unica, il tuo look, il tuo muoverti in scena sembrano sovvertire quelli che sono gli stereotipi di una frontwoman. Cosa ne pensi di questa osservazione e ti piace esibirti?

Grazie! Ad essere sincera non ci ho mai pensato molto. Mi esibisco nel modo che mi e’ più comodo. Amo danzare, mi e’ sempre piaciuto… sul palco non sento più il dolore… dev’essere l’adrenalina. Ne pago il prezzo il giorno successivo, ma in quei momenti ne vale la pena. Mi piace intrattenere e dare un po’ di gioia a chiunque mi guardi. Penso che in qualsiasi cosa sia importante non prendersi troppo sul serio!

È uscito da pochissimo il tuo ultimo bellissimo singolo “Psycho” accompagnato da un video molto affascinante e abbastanza inquietante. Ce vuoi parlare di come è stato realizzato?

Questa canzone e’ nata in un contesto sterile. La Warp Publishing mi corteggiava e mi aveva offerto di partecipare a un ritiro di scrittura di una settimana. Ogni giorno avrei incontrato una persona nuova: alcuni erano produttori, altri artisti, altri scrittori e alla fine di ogni giorno dovevo scrivere una canzone nuova . L’intera cosa mi pareva cosi’ repellente che DOVEVO farla. Al terzo giorno avevo imparato a gestire l’ansia di dover conoscere gente nuova e mi avevano assegnato Bobby aka S Type e un artista chiamato LYAM. Entrambi si rivelarono fantastici: trascorremmo la giornata a scrivere una canzone che, ricordo, era piuttosto bella, ma poi YAM dovette andarsene. A me e Bobby rimanevano due ore, per cui iniziammo una jam session…. 2 ore dopo PSYCHO era nata. Era successo tutto cosi’ rapidamente che non avevo pensato potesse essere un buon brano. L’anno dopo l’abbiamo ripresa in mano entrambi e abbiamo pensato “e’ bella”, cosi’ ho fatto una vera e propria registrazione e ho chiamato Gam dei SWEAT per avere l’accompagnamento delle corde ed era fatta. C’e’ da dire che quando crei qualcosa cosi’ alla leggera, senza pensarci troppo, o darci troppo peso, hai meno probabilità di rovinarlo.

Quando è prevista l’uscita del tuo album solista?

Sto ancora decidendo. Per ora sto solo scrivendo scrivendo scrivendo. Tuttavia adoro gli EP: una piccola raccolta di canzoni, non poche, non troppe.

Quali sono i tuoi rapporti con la mitica scena di South London? Ci sono degli artisti o gruppi con i quali ti senti più in sintonia?

La ’South London Scene’ – ci sono cosi’ tante scene nel sud di Londra, ma credo che tu di riferisca a quella che fa capo al Windwill. Credo che sia merito di Tim Perry di aver creato una comunità li’. Invita sempre gruppi di generi differenti. Mi ha appoggiato sia come solista che con PREGOBLIN e trova sempre modi nuovi perché la gente si ritrovi insieme. L’ho incontrato circa un mese fa per strada e benché la musica live sia stata bandita quest’anno, mi parlava di voler fare una space opera e chiamare diversi musicisti di band differenti per quella serata. Lo adoro!

Qual è il tuo background musicale e cosa ascolti maggiormente in questo momento?

A due anni le mie gambe erano tenute separate da un tutore… le tastiere mi intrattenevano per ore. Mia nonna inizio’ a pagarmi le lezioni di piano quando avevo quattro anni e fu allora che iniziai a imparare la musica classica. Sto ascoltando Amara ctk100, 100 Gecs, Jazmin Bean, Salvia, ShyGirl, A G Cook, Sorry, Grace Lightman, Deep Tan, SWEAT, Comanavago, Lauren Auder, Eartheater, Daniel Johnston, Cottontail, Slayyter, Lynks, Diane Chorely, Lucy Loone, Zheani, Sundara Karma, Squid, Tïna, ZAND e altri.

Tornando ai Pregoblin, dopo l’esordio con il capolavoro pop di “Combustion”, avete fatto uscire una serie di singoli, molto diversi tra loro: “Anna”, “Love Letters”, “Gangsters” e, forse il mio preferito, la stupenda “Snakes & Oranges”. Quando è prevista l’uscita del vostro primo attesissimo album e che cosa ci dobbiamo aspettare?

Speriamo di iniziare l’album all’inizio del nuovo anno. Abbiamo già scritto molte demo nuove…

Film e libro della vita?

“La famiglia Addams” e “Il Profumo” (di Süskind)

Ti piacerebbe diventare una popstar o è una cosa a cui non tieni particolarmente?

LOL


Traduzione e adattamento – Valentina Ajello

Il pionerismo elettronico delle “SISTERS WITH TRANSISTORS”

“La storia delle donne è stata una storia di silenzio. La musica non è un’eccezione”. Così viene introdotto SISTERS WITH TRANSISTORS, un inno documentaristico sui primordi inesplorati di una scena musicale elettronica fatta di solitudini creative, libertà individuali, ma soprattutto fatta di donne. Sovversive, emancipate e geniali. Un racconto che parla del coraggio sperimentale di pioniere innovative, compositrici visionare e audaci spiriti controcorrente che hanno ridefinito i confini musicali attraverso l’uso liberatorio di macchine, proto-sintetizzatori, bobine, nastri magnetici e tecnologie primordiali.



Sono le “eroine” portate in scena dalla regista Lisa Rovner e raccontate dalla voce narrante di Laurie Spiegel, una di loro. Una sequenza di filmati d’archivio, interviste, performance e registrazioni audio che, in un viaggio evolutivo e intimisticamente polifonico, rompe il silenzio sulle figure tenaci ed eccentriche della musica elettronica, oscurate dall’egemonica società patriarcale del XX secolo e ridotte a cammeo artistico di un milieu di cultori. “Noi donne eravamo particolarmente attratte dalla musica elettronica in un’epoca in cui già una donna che componeva musica era un concetto di per sé controverso – spiega la Spiegel – L’elettronica ci permise di fare musica che arrivasse ad altri senza che questa dovesse essere presa sul serio dall’establishment maschile dominante”. È l’esigenza di scoprire nuove forme, immaginare musiche e creare nuovi linguaggi attraverso suoni futuristici ed inediti all’orecchio umano, come quelli ipnotici, freddi e eterei del theremin, una scatola (cabinet) con due oscillatori armonici suonata attraverso la sola modulazione delle mani nello spazio.


“Ho concepito uno strumento in grado di creare suoni senza l’uso di energia meccanica, come un direttore d’orchestra”, dichiara l’inventore del primo strumento elettronico della storia, il fisico russo Lev Sergeevič Termen. Ma è nel 1928 quando la sua eccentrica creazione diventa storia grazie al sodalizio artistico e al cammino di sperimentazione intrapreso con, l’allora diciassettenne Clara Rockmore. La bambina prodigio, colpita giovanissima da un’impetuosa forma di artrite, che fu costretta ad abbondonare il suo violino e destinata a diventare la “virtuosa del theremin”, la più grande interprete di ogni tempo. “Ero affascinata dalla parte estetica, dalla bellezza visiva, dall’idea di suonare nell’aria. Mentre suonavo pezzi più difficili, ho sempre dovuto inventare un modo per poterli eseguire. Ci sono stati molti tentativi ed errori, ma il theremin ha salvato la mia vita dandomi uno sbocco nella musica. È stato molto gratificante riuscire a realizzare qualcosa da uno strumento che nessuno si aspettava e che forse non era nemmeno immaginabile. Ma avevo bisogno di esprimere me stessa”.

Un bisogno di espressione e di insaziabile curiosità che fa da apripista alle altre tenaci donne dell’elettronica e protagoniste di Sisters with Transistors. Daphne Oram, co-fondatrice dell’autorevole Radiophonic Workshop (il laboratorio di effetti sonori della BBC). La prima donna a dirigere in completa autonomia uno studio di registrazione, gli Oramics Studios for Electronic Composition a Tower Folly, nel Kent. Una tra i primi compositori, nella Gran Bretagna degli anni ‘50, a produrre suoni interamente elettronici. Ideatrice della tecnica sonora Oramics che, utilizzando segni grafici tramite un apposito strumento elettronico monofonico, battezzato Oramics Machine, genera suoni di sintesi. Bebe Barron, con suo marito Louis fonda, nel 1949, uno dei primi studi privati di registrazione nel Greenwich Village. Nel 1956 il duo avanguardista realizza la prima colonna sonora elettronica della storia per il film Forbidden Planet realizzata con “ronzii, pulsazioni, urla, gemiti, mormorii” generati da circuiti cibernetici, chiamati “modulatori ad anello”. Pauline Oliveros, influente compositrice del ventesimo secolo e membro fondatore del San Francisco Tape Music Center, lo studio elettronico determinante nella creazione di uno dei primi sintetizzatori, il Buchla 100. Delia Derbyshire, laureata al Girton College di Cambridge in musica e matematica, ha dato il maggior contributo tecnico e compositivo al genere. Eletta “Cult-hero” per aver realizzato, nel 1963, l’arrangiamento elettronico della serie televisiva di fantascienza Doctor Who. Maryanne Amacher, pioniera della sound art e della speculazione musicale nel campo della psicoacustica. Eliane Radigue, nel 1970 dalla Francia si trasferisce a New York. “Quello era l’unico paese in cui c’era una grande disponibilità di sintetizzatori. Moog, Buchla, i sistemi modulari, tutte macchine che avevano come vantaggio quello di permetterci di produrre suoni con un controllo che non riuscivamo ad avere con i due vecchi registratori”. È una delle prime ad aver sperimentato la drone music, figlia del minimalismo, è una forma musicale basata sulla ripetizione prolungata di un tono. Suzanne Ciani, musicista statunitense di origine italiana, la “computer wizard”, come l’apostrofa David Letterman nel suo Show, o più comunemente conosciuta come la “Diva del Diodo”. Specializzata in sound design. Con il suo mentore e inventore Don Buchla collabora alla progettazione di un nuovo sintetizzatore, il Buchla 200. Compositrice di colonne sonore e di albumdi musica elettronica, tra cui Hotel Luna che le valse una nomination ai Grammy. “Fare musica elettronica in quei tempi era un’esperienza strana, anche piuttosto solitaria”, ricorda Ciani. “Si programmava la musica e la si fissava su schede perforate che sarebbero state elaborate dai computer solo il giorno dopo. Quindi tu immaginavi la tua musica e poi la potevi sentire il giorno dopo”. Laurie Spiegel, apprezzata autrice di musica ambient, una delle maggiori esponenti di musica elettronica degli anni ’70, grazie all’utilizzo di composizioni che sfruttano algoritmi logico-matematici, e famosa per il software Music Mouse del 1986. Alla fine degli anni’70 Jef Rakin le regala il prototipo dell’Apple II, diventando una delle prime compositrici ad utilizzare il computer come mezzo creativo.

Sisters With Transistors è molto più della semplice storia di un genere musicale. È il racconto del ruolo cruciale, ma ancora poco conosciuto, che queste donne pioniere hanno giocato in questa “narrazione”.


Playlist Spotify


Clara Rockmore – The Firebird: Berceuse (Arr. For Theremin and piano)

Daphne Oram– Melodic Group Shapes

Bebe Barron – The Forbidden Planet

Pauline Oliveros – Alien Bog (1967)

Delia Derbyshire – Doctor Who Opening Title Theme

Maryanne Amacher – Excerpt from Stain – The Music Rooms

Eliane Radigue – Jetsun Mila / Birth and Youth

Suzanne Ciani – A Sonic Womb

Laurie Spiegel – Old Wave

Luca Chikovani: “Dalle cover su YouTube al Festival di Cannes anche grazie alla meditazione”

Luca Chikovani è un vero e proprio concentrato di energia. La sua carriera ha avuto inizio con delle cover su YouTube per poi coronare il proprio sogno con la pubblicazione con Universal dell’album “Start”. Adesso Luca ha cambiato pelle, ha avuto una vera e propria evoluzione che l’ha portato prima al cinema interpretando ruoli importanti come Tancredi nel film “Lazzaro Felice” di Alice Rohrwacher e poi in tv nella serie Rai “Un passo dal cielo”. Nella nostra lunga chiacchierata abbiamo parlato dell’importanza del credere in se stessi e nelle proprie potenzialità e di come la meditazione può servire per capire realmente chi siamo.


Credits: c.d.a. Studio di Nardo s.r.l.

Luca com’è nata la passione per la musica?

Devi sapere che è nato tutto un po’ per caso anche se la musica mi appartiene fin da piccolo perché in Georgia (il suo paese natale, ndr) c’è proprio una cultura musicale, ogni famiglia ha un pianoforte e alla fine della cena si suona e si canta tutti insieme. Io nel corso degli anni non ho coltivato più di tanto questa passione finché un giorno il bidello della scuola mi ha prestato il dvd di “Moulin Rouge!”, l’ho visto e da lì ho iniziato a cantare senza però ottenere grandi risultati.

In quegli anni su YouTube andavano per la maggiore le cover fatte da Conor Maynard, Shawn Mendes e Justin Bieber e allora ho iniziato a pubblicarne anch’io. Se prima dovevi sperare nel colpo di fortuna per raggiungere le etichette e farti pubblicare, col web avevi il contatto diretto con il pubblico senza intermediari. Inizialmente a scuola mi hanno preso molto in giro, soprattutto i professori, ma io sono andato dritto per la mia strada con l’obiettivo di incidere i miei pezzi. Avevo bisogno di mettere da parte dei soldi per pagare l’incisione e un giorno, mentre cercavo proprio un lavoretto, sono entrato per caso in un negozio senza leggerne l’insegna ed era proprio uno studio di registrazione. Ho poi conosciuto il proprietario, il produttore Roberto Sterpetti, che mi ha visto super motivato, pieno di idee e ha deciso di mettermi alla prova. Dopo un po’ di mesi ho firmato con loro il mio primo contratto e abbiamo pubblicato i primi brani. Poi mi sono trasferito a Milano per l’università e ho conosciuto tra gli altri Michele Bravi che mi ha chiesto di aprire i suoi concerti; alla tappa di Milano mi hanno notato i suoi discografici della Universal che poi mi hanno proposto di lavorare insieme. Così è nato “Start”.



Poi è arrivata Alice Rohrwacher e il suo “Lazzaro Felice”…

Sì, e anche qui c’entra la musica! Quando è uscito il video del mio singolo “On my own” è stato trasmesso da MTV e casualmente un giorno Alice e Chiara Polizzi (la casting director del film, ndr) mentre erano insieme in un bar lo hanno visto e si sono chieste chi fossi, mi hanno cercato e proposto di fare il casting per il ruolo di Tancredi anche se io, sinceramente, non volevo farlo perché non avevo mai recitato in vita mia.

Il provino andò malissimo, ero molto timido. Ricordo che c’era un altro attore che interpretava Lazzaro ma era caratterialmente molto dominante rispetto a me tanto da mettermi in difficoltà e farmi bloccare. Alice lo notò subito e mi chiese “riesci a impegnarti se lo vuoi? Sì? Allora non esci dalla stanza finché non lo fai”. Fu lei a interpretare Lazzaro e io Tancredi e così il provino andò bene. Le sono molto grato, se non ci fosse stata lei avrei perso una grande opportunità. Molte volte si ha paura e si è insicuri senza un reale motivo e lei me l’ha fatto capire.

Tu sei tra i protagonisti del corto “Revenge Room” che tratta una tematica molto attuale…

Sì, dopo “Lazzaro felice” sono stato in giro per molti festival che mi hanno permesso di farmi conoscere. Mi hanno proposto un ruolo nel corto prodotto della Rai “Revenge Room” che parla del revenge porn, un argomento molto caldo in questo periodo, dove ho avuto il piacere di lavorare con Alessio Boni, Violante Placido ed Eleonora Gaggero. Avevo molta paura del ruolo perché era stato precedentemente rifiutato da tre attori a causa dell’immagine malvagia che trasmetteva il personaggio ma Alice mi ha insegnato che le parti bisogna modellarle sull’attore e così ho fatto.

E’ stata un’esperienza significativa perché abbiamo girato tutto in un giorno, era un lungo piano sequenza. Poi Alessio Boni è stato magistrale, mi ricordo che prima di iniziare a girare una scena di un litigio mi ha insultato perché era già entrato nel ruolo per rendere tutto il più veritiero possibile e infatti la scena è uscita benissimo.



Chi è Luca oggi?

Non lo so, come faccio a saperlo? Cambio ogni giorno! Ci pensavo ultimamente, molte volte la gente mi dice: “ora fai cinema? E la musica?”, abbiamo in testa l’idea che ognuno ha un percorso ben definito ma non è così. Se adesso voglio fare il cantante e tra un anno l’archeologo nessuno me lo vieta. Per me è stata fondamentale la meditazione che mi ha permesso di controllare la recitazione che non avevo mai studiato. Mi ha reso conscio del fatto che non sono definito, non so cos’era Luca ieri e cosa sarà domani. Bisogna essere fluidi, sapersi adattare, cambiare, distruggere il proprio ego che a volte ci blocca a non andare oltre.

Qual è il consiglio che vuoi dare a chi sogna di intraprendere un percorso simile al tuo?

Molte volte ci concentriamo solo sull’esterno: “voglio fare il cantante quindi imparo a cantare”, è giustissimo però all’inizio secondo me bisogna concentrarsi su sé stessi. Bisogna lavorare prima interiormente e io l’ho fatto attraverso la meditazione, lo studio delle religioni e guardando dei film. Bisogna prima capire le tue emozioni, i tuoi pensieri, rendersi consci di questo e poi fare ciò che si vuole. A livello tecnico per gli attori consiglio di vedere tanti film perché noi esseri umani copiamo senza rendercene conto, assimiliamo ciò che vediamo.

Progetti per il futuro?

Ho appena finito di girare per Sky Atlantic il film “Power of Rome” dove interpreto Augusto e sto completando le riprese della fiction “Un passo dal cielo” dove posso anticiparvi che canterò ma non vi spoilero troppo. Poi sto valutando dei progetti dall’estero ma la situazione causa covid è complessa, vedremo.

La musica per l’autunno: the Windmill playlist

Una playlist con una selezione di alcuni tra i migliori artisti della ricchissima ed eclettica scena musicale nata o cresciuta al “Windmill”, gloriosa venue di Brixton (Londra): 

Fat White Family, Warmduscher, Meatraffle, Pregoblin, PVA, Insecure Men, JackMedleyy’s Secure Men, Madonnatron, Black Midi, Goat Girl, Shame, Tiña, Misty Miller, Lazarus Kane, Squid, Muck Spreader, Deadletter, Lynks, Pink Eye Club, Peeping Drexels, Deep Tan, Black Country New Road, Scud FM, Sonic Eyes.


Photo Credits: Lou Smith


L’importanza di chiamarsi Lou Smith

Traduzione e adattamento – Valentina Ajello

Circa una decina di anni fa, la scena musicale rock era abbastanza in stallo. Non riuscivo a trovare nulla di particolarmente interessante tra i dischi che uscivano in quel periodo. Ricordo nitidamente che un giorno mi imbattei, in modo del tutto casuale, in un video su YouTube di un’esibizione live di un gruppo chiamato “Fat White Family”. Ne rimasi completamente colpito. Feci altre ricerche, sempre su YouTube, che confermarono ancor più quella mia prima sensazione: finalmente, dopo tantissimi anni, mi trovavo di fronte ad un gruppo musicalmente inclassificabile e dotato di una micidiale miscela di dissacrante anticonformismo. 



Andai avidamente a vedermi tutto quello che riuscii a trovare in video su di loro. Notai che quasi tutti i video erano di un certo Lou Smith. Investigai e scoprii che la firma di Lou Smith era presente anche in moltissime registrazioni live di altri interessantissimi gruppi e che, quasi sempre, la location dove avvenivano queste registrazione era un locale di Londra, più precisamente a Brixton, chiamato  “Windmill”. Rimasi sbalordito dalla freschezza e qualità di tutti quei gruppi. A parte i Fat White Family mi impressionarono molto gruppi come “Meatraffle”, “Warmduscher”, “Pregoblin”, “Goat Girl”, “Madonnatron” e molti altri. Facendo delle ulteriori ricerche venni a scoprire che abbastanza incredibilmente tutte quelle band venivano sì da Londra, ma in particolare dalla zona a sud della città. Una scena ricchissima di stili e generi nata intorno a pochissimi quartieri della città. 



Dopo alcuni anni, mentre continuavo avidamente a seguire tutte le nuove registrazioni di Lou Smith, andai a Londra e, per la prima volta, arrivai al Windmill a Brixton. Ricordo che ero molto emozionato. La stessa emozione che si prova quando si ha la certezza che un desiderio verrà realizzato. Entrai e rimasi subito positivamente colpito dalla gentilezza dello staff e dal fatto che la location era tutto tranne che scintillante e alla moda: un pub scarno e accogliente con un piccolo palco posto sul fondo del bancone addobbato da una tendina carnevalesca e con il logo del locale bene in evidenza. Mi sembrò incredibile e bellissimo che tutte quelle band, tutta quella scena fosse passata da quel palco così ridotto ed intimo. 

Ma quella sera successe un’altra cosa che mi segnò tantissimo: scorsi da dietro una sagoma che mi era familiare. Mi avvicinai a capii che mi stavo trovando di fronte proprio alla persona grazie alla quale mi stavo trovando lì in quel momento: Lou Smith! Mi presentai e lo salutai. Da lì cominciò un’amicizia che mi portò a frequentarlo tutte le volte che andavo a Londra per qualche concerto. Sempre al Windmill, ovviamente. 



A causa del COVID il “Windmill” rischia la chiusura. Sarebbe una tragedia immane. Ecco il link per chi volesse partecipare al crowdfunding e salvaguardare questa storica venue.

Ecco l’intervista che ho fatto a Lou in cui ci racconterà qualcosa della sua vita, del suo rapporto con il Windmill e i Fat White Family e di come e perché è nata quell’incredibile scena musicale proprio nel  sud di Londra. 


Puoi raccontarci qualcosa di te e dei tuoi svariati progetti?

Sono nato a Leeds. Mio padre era un geologo e mia madre un’artista e una creativa. Ci siamo trasferiti a Uxbridge, un sobborgo a ovest di Londra quando avevo 14 anni. Era la lunga estate calda del 1976 quando il punk raggiunse le strade e le onde radio di Londra. Fu in questo periodo che mi regalarono la mia prima macchina fotografica che, però, non portavo mai a quei primi concerti perché era pericoloso: c’erano le guerre tra bande di Ted, Rocker, Punx, Skinz ecc. Non mi sarei sentito sicuro con una macchina fotografica in metropolitana ai tempi. Allora fotografavo paesaggi, persone e animali e documentavo i miei primi viaggi. Iniziai a interessarmi alla musica alternativa ascoltando, tutte le sere dalle 22 alle 24, il programma radio di John Peel: i Clash, i Fall, i Cure, i Ruts, gli Undertones e numerosi altri inclusi musicisti Ska e Reggae. Questa mia passione mi distingueva dai miei compagni di scuola che ascoltavano heavy rock e più tardi heavy metal. In quel periodo, in concerto, ho visto, tra molti altri, i Joy Division, gli Strangers i Jam, i Clash, i Cure, gli Smiths e Kate Bush.

Dopo aver finito la scuola e non aver terminato la laurea in biochimica all’Imperia College, nel 1983, a 21 anni, mi sono trasferito in uno squat di Brixton. Da allora vivo e lavoro nel sud di Londra. Successivamente mi sono trasferito a Camberwell e poi a East Dulwich dove risiedo tuttora. Ho lavorato come ingegnere video, sui set come manovale, scenografo, assistente art director e  art director per numerosi video promo tra cui  “Firestarter” e “Breathe” dei Prodigy e “Where The Wild Roses Grow” di  Nick Cave/ Kylie Minogue e come fotografo freelance, videomaker, regista e montatore di video musicali. Ho imparato da solo a fare il fotografo, saldatore, argentiere, falegname. Recentemente sono diventato  serigrafo, un mestiere che mi permette di guadagnarmi da vivere organizzando feste per bambini e realizzando il merchandise per le band del sud di Londra.



Quando e perché hai iniziato a filmare e documentare tutto ciò che passava al Windmill e gli altri locali del sud di Londra?

Ho iniziato filmando  i musicisti che suonavano regolarmente alla serata Dog’s Easycome Acoustic all’Old Nun’s Head pub a Nunhead. Per me era una valvola di sfogo e un impegno lontano dalle mura domestiche durante i primi anni di vita di di mia figlia Iris. Caricavo sul mio canale YouTube materiale relativo ad artisti quali Lewis Floyd Henry, Boycott Coca-Cola Experience (Flameproof Moth), Andy (Hank Dogs) Allen, Ben Folke Thomas and i fratelli Misty and Rufus (Popskull) Miller. 

Il 9 febbraio 2011 sono sbarcati lì i Fat White Family, che allora si facevano chiamare Champagne Holocaust e hanno suonato la cover dei Monk “I hate You” oltre a una manciata  di canzoni loro tra cui “Borderline” e “Wild American Prairie”.  La formazione era composta dai fratelli Saoudi, Saul Adamczewski  e Anna Mcdowell e Georgia Keeling come coriste. Il batterista doveva essere Chris OC.  Lias (Saoudi) era alla chitarra e Saul alla voce e tamburino. Ho perso il filmato dell’intero concerto, ma mi è rimasto quello del brano “I Hate” che trovate sul mio canale:

I FWF hanno suonato molti altri set acustici all’Easycome nei mesi di febbraio e marzo. Da allora ho seguito la band fino al loro primo vero e proprio concerto intorno all’11 aprile. Insieme a Saul, Lias e Nathan (Saoudi), c’erano  Dan Lyons alla batteria e Jak Payne (Metros) al basso.

Avevo Canon 5D Mkll  e usando una versione “craccata” sel sotware Magic Lantern sono riusito a ottenere un suono decente e a documentare per la prima volta un evento live in HD.

Ti ricordi la prima volta che hai messo piede al Windmill? Qual è la tua serata che non scorderai mai?  

Come ho già’ detto è stato l’11 aprile  2011. Tuttavia ho un lontano ricordo di esserci stato trascinato anni prima visto che mi sono trasferito a Brixton negli anni ’80. Ci sono state molte serate grandiose, ma le migliori erano quelle il cui line-up comprendeva i FWF o i Warmduscher. La raccolta di fondi dopo la morte di Jack Medley è stata un evento intriso d’amore. L’amore era così denso che lo si poteva spalmare. All’evento hanno partecipato sia i Warmduscher che i Fat White Family. 

Adoravo l’atmosfera di anarchia dei primi concerti dei FWF e quella sensazione forte di appartenere a una famiglia, o a qualcosa di più grande della somma delle parti. Mi sono divertito molto anche alle serate dei  Meatraffle e della loro band consorella Scud Fm così come a quelle degli Shame, Sleaze, Amyl e gli Sniffers e Goat Girl. 

Quanto è stato importante il Windmill per la “creazione” di tutta quella che poi è diventata la scena di South London e se ci puoi raccontare quello che è stato il tuo rapporto con quella venue meravigliosa? 

Non credo sia eccessivo dire che la scena di South London (SLS) che conosciamo oggi non sarebbe stata possibile senza il Windmill. Non è facile capire il perché, ma la ragione principale è Tim Perry, l’organizzatore del locale, che coniuga buon gusto musicale con lo scouting di artisti su cui nessuno scommetterebbe (ma anche grandi talenti) e un fiuto allenato a capire le fregature. Il locale ha sempre attratto i migliori ingegneri del suono e la qualità’ del suono è sempre stata una delle sue caratteristiche distintive. Le band si aiutano a vicenda senza la rivalità distaccata e modaiola che ho visto nel nord di Londra. Una volta che il Windmill ha raggiunto la fama attuale, la gente ha iniziato ad assieparsi alle sue porte per partecipare alla magia che si creava al suo interno. Sono felice di aver contribuito  nel mio piccolo con il mio canale YouTube a far sì che quelle fantastiche band avessero un po’ di visibilità’ globale.



Sei stato il primo a documentare il lavoro dei Fat White Family. Hai capito subito quale poteva essere il loro potenziale? Puoi descriverci cosa ne pensi di questa band? 

Direi di si’. Ho capito subito che catturavano lo zeitgeist della crescente sensazione di nichilismo, disgusto e disprezzo totale per il trattamento riservato alla gente comune dall’ondata di gentrificazione, dalla politica neo liberista e dalla finanza globale. Mi ricordavano lo spirito del ’76 e hanno riacceso in me la passione che provavo per le prime band punk. La loro fama si allargava e la famiglia cresceva, non in modo gonfiato, ma per l’entusiasmo che i loro concerti  riuscivano a trasmettere La relazione ambigua e violenta tra i membri della band, in particolare Saul e Lias, e la prontezza se non maestria con cui affrontavano tabù e temi scabrosi con una sorta di humour che confinava con la morbosità’ li rendeva irresistibili. I testi tribali e totemici che nessuno osava mettere in questione accompagnati da ritmi sexy, sporchi, lo-fi country psichedelici rendeva la miscela inebriante. Lias perfezionando il suo falsetto gollomesco gracchiante e imprevedibile mandava il pubblico in estasi, mentre Saul alimentava l’euforia emanata dal sound con il suo sorriso sdentato e il ritmo della sua chitarra. Il resto della band doveva per necessità essere degenerata o geniale.

Secondo te come è possibile che così tante band interessantissime vengano tutte da quella zona di Londra? 

Credo che dipenda dall’ondata di gentrificazione che e’ iniziata da Covent Garden nei tardi anni ’70. Poi gran parte del nord e in seguito l’est ed il sud est sono stati conquistati da orde spietate di yuppy. Brixton, con la sua forte identità culturale, gli squat e la sua popolazione afro-caraibica ha resistito almeno temporaneamente. Gli affitti erano ancora abbordabili e gli studenti del Goldsmith e Comberwell College trovavano qui una comunità e la possibilità di esprimersi sui muri delle strade. I musicisti si riunivano in quei pochi locali dove potevano ancora sopravvivere, esplorare e crescere, ovvero una manciate di pub di cui il Windmill è senza dubbio il più importante, ma di cui fanno parte anche il Grosvenor, l’Amersham, il New Cross  Inn, il Queen’s Head, il Montague Arms, il Five Bells.

Quali sono le tue band preferite di questi ultimi anni? 

Mi appassiono raramente a band diverse da quelle che vedo da vivo, per me la musica deve essere per forza live. Se non fosse così, ascolterei ancora le band che seguivo da giovane, ricordando le glorie passate, come fanno molti uomini della mia età. Ho avuto la fortuna di vivere a due passi dal Windmill e di aver costruito un’amicizia con i proprietari e i musicisti.

Ci puoi anticipare quelle che, secondo te, sono le più interessanti e promettenti tra le band più recenti? 

E’ bello vedere che arrivano ancora band nuove nonostante il COVID. Mi piacciono soprattutto le seguenti: Addywak, STV, Deadletter, PVA, Muckspreader, Misty Miller.


Vi segnalo il suo sito, il suo canale YouTube e quello LBRY.

Photo Credits: Lou Smith

New faces: Bl4ir

Classe 2000 e napoletano DOC, Simone Scognamiglio in arte Bl4ir (@call_me_bl4ir) è originario del quartiere San Giovanni a Teduccio. Esploso nell’estate 2018 con Te Botè Remix, si è da subito distinto per le sue attitudini musicali latine. A seguito di successi come “Me Vo” e “Tu Olor Remix”, è riuscito ad affermarsi nel contesto pop reggaeton italiano, anche grazie ai numerosi consensi ricevuti dai suoi colleghi e dai suoi fan sui social, da lui stesso definiti “famiglia”. Tra il 2019 e il 2020, esce con nuovi singoli, in particolare “Me Iama” e “Caramella”, frutto della collaborazione con l’artista Ivan Granatino. Come ci racconta lui stesso, la sua carriera è solo all’inizio, i nuovi progetti sono molti e le aspirazioni e le ambizioni sono altissime!



Come nasce la tua passione per la musica?

È una passione che mi è stata trasmessa dalla mia famiglia, in primis da mio padre, da piccolo non ero mai davanti ai cartoni ma davanti a mtv music. Poi la scena rap emergente ha iniziato ad incuriosirmi sempre di più finchè non è diventata la musica, il mio pane quotidiano.

Parlaci di Chica Dominicana, su Youtube è già un successo..

Sono super felice che Chica dominicana stia piacendo ai miei fan, è un pezzo molto felice; credo che in un periodo così difficile era proprio ciò che serviva per sollevare l’umore. Spero di poterla portare presto in live.



Alcuni dei tuoi pezzi, come “Me Iama” e “Caramella” sono stati prodotti in collaborazione con Ivan Granatino. Che rapporto hai con lui e che influenza ha avuto questa collaborazione sulla tua crescita musicale?

Con Ivan ho un rapporto speciale, sicuramente abbiamo fatto delle grandi hit insieme; chi ha avuto una forte influenza su di me è stato sicuramente Vinz (Vinz Turner) con le sue produzioni, creando un sound inedito a Napoli e in Italia, legando generi come l’hiphop, la trap e il reggaeton.

Come ti relazioni con la tua community social?

Sono molto legato alla mia famiglia, è cosi che li considero, parlo con loro tutti i giorni per quanto sia possibile, sono loro la mia motivazione ed è per questo che meriano la mia attenzione. Con qualcuno gioco anche alla playstation!



Che legame hai con la tua città natale, Napoli? Hai mai preso in considerazione la possibilità di trasferirti in un’altra città?

Napoli per me è speciale, infatti il dialetto è sempre presente nei miei testi. Difficile allontanarsene, sicuramente sarebbe stimolante fare qualche esperienza all’estero, magari dove è nato il reggaeton, al caldo!

Il tuo rapporto con la moda e i capi a cui non rinunceresti mai…

Non riuscirei mai a rinunciare alle tute. Sono molto legato a dei brand sportivi perchè si avvicinano di più ai miei gusti, anche se la camicia ha sempre il suo perchè.

Quali sono i tuoi progetti e aspirazioni per il futuro?

Per il futuro ci saranno importanti novità, siamo in fase di costruzione per cosi dire… mi avvalgo della possibilità di stupirvi! Sicuramente le aspirazioni e le ambizioni sono altissime, lavoro tanto su me stesso e non mi accontento mai, d’altronde chi si ferma è perduto !

#MITPARADE Le fashion #collab celebrano le icone dell’arte e della musica pop

Continua il nostro viaggio tra i fashion brand che si raccontano attraverso i valori della musica e dell’arte. Due forme di espressione che non conoscono confini e nazionalità, ma sono fatte di colori e di frequenze, scandiscono il tempo e influenzano stati d’animo. Ci tengono uniti grazie a un ritmo che batte all’unisono o un’immagine che va dritta a cuore ed è proprio questo il motivo che li rende indispensabili: perché ci fa sentire vivi. Oggi più che mai il loro ruolo ci ricorda da dove veniamo e quanto questo può essere d’impulso per non mollare. Allora vestiamoci di questi valori: di bellezza, di musica, di arte.

Un messaggio positivo condiviso dalla nuova campagna Kappa che ha come protagonista HELL RATON, che porta avanti il valore di squadra e dell’antica saggezza popolare che l’unione che fa la forza. Una dedica allo spirito di squadra, a chi vince spalla a spalla, come insegna il logo del brand.
Essere una squadra significa giocare la stessa partita, allenarsi correndo verso la stessa porta, dividere il merito con qualcuno che s’impegna per il tuo stesso obiettivo. Il nuovo giudice di X Factor racconta la sua idea di squadra, con il suo progetto, Machete Gaming, legato agli Esports. Dopo appena un anno ha già un enorme successo sui social e nella piattaforma Twitch, dove i gamer si sfidano.

Sostenendo la capacità di unire i ragazzi, anche nel corso degli allenamenti -“Gli Esports sono esattamente come un vero sport” – Manuelito ci svela la sua passione per il mondo del videogioco oltre a quello per la musica che già conosciamo, e il successo raggiunto della sua label, grazie al suo carisma innato che rende cool qualsiasi cosa in cui si lanci. Il sesto senso vincente di due generazioni positive, Z e Millennials, un omaggio a chi trova nelle passioni comuni, un modo di sentirsi parte dello stesso team.



Moleskine, nel rispetto del suo DNA, dichiara la sua attrazione per il mondo dell’arte, con una nuova limited edition che celebra una degli esponenti femminili di maggior impatto del 900, Frida Kahlo. La sua sua lotta e il suo amore per la vita sono stati la sua più grande fonte d’ispirazione, che riscontriamo nelle sue potenti opere d’arte, oggetto di grande interesse per tutte le generazioni.
Nelle sue parole tutta la sua resilienza, l’affermazione dell’Io e il suo attaccamento alla vita, a dispetto della Pelona (la morte) che ha danzato attorno al suo letto nel corso della  sua quasi intera esistenza. Non è un caso se a questo spirito ribelle, Moleskine dedica la sua attenzione. Nelle due edizioni limitate e un cofanetto speciale, le parole potenti di una donna che aveva dentro tutto il fuoco del Messico e pensieri, come un fiume in piena, di uno spirito ribelle. Questa edizione è un inno alla libertà.

Vans, marchio simbolo degli sport d’azione, sigla per la seconda volta la sua collaborazione con il Museum of Modern Art (MoMA). T-shirt, giacche, sneakers e accessori diventano tele d’artista per catturare tutta la forza dell’espressionismo astratto delle opere selezionate per questo straordinario progetto, disponibile in tutto il mondo a partire dall’11 novembre.

Dal cubismo al costruttivismo di Lybov Popova, all’urlo straziante di Edvard Munch (1895), che a distanza di più di un secolo, lancia un messaggio di grande attualità. Dal rivoluzionario dripping di Jackson Pollock, pioniere dell’action painting, che conquistò l’interesse di Peggy Guggenheim, alle esplosive trapunte che urlano per la difesa dei diritti civili di Faith Ringgold. “Faith Ringgold ha lavorato a stretto contatto con il team di designer Vans e con la squadra del MoMA per raccontare una storia attraverso i dettagli, introducendo i bordi trapuntati per contestualizzare il suo lavoro in Vans.” Ha dichiarato Angie Dita, responsabile Global Footwear Design for Lifestyle Footwear di Vans.

Questa Classic Slip-On, prende ispirazione dalla prima serie di dipinti astratti di Ringgold, “The Windows of the Wedding”, realizzata negli anni ’70. Sul fianco è incisa una citazione di Ringgold, stampata con la sua calligrafia: “My mother said I’d have to work twice as hard to go half as far” (Mia madre mi disse che avrei dovuto lavorare il doppio per raggiungere anche solo la metà dei miei obiettivi).

Una capsule collection firmata Ciesse, ha un sapore street e si abbandona in un’esplosione di graffiti. La collezione, che prevede l’uscita di altri due pezzi, esprime la perfetta sintesi tra l’appartenenza di J-Ax al sogno americano delle due ruote, il suo spirito ribelle e desideroso di libertà e l’alto standard qualitativo di Ciesse Piumini, senza spostare l’attenzione dal tema del dinamismo urbano in armonia con le esigenze di sicurezza, comfort e stile.

La capsul è stata attivata sulla pagina IG del cantante martedì 27 ottobre, con uno SWIPE UP collegato direttamente al sito di Ciesse Piumini, per preordinare la street jacket in edizione limitata. Solo un’anticipazione in vista della messa in vendita degli altri due modelli, a partire da novembre solo in alcuni store selezionati.

Dankan DJ: da appassionato di musica elettronica a promessa della scena musicale milanese

Da un piccolo paesino a nord della Puglia all’Amsterdam Dance Event. Abbiamo intervistato Francesco Lopez, che ci racconta i suoi viaggi, la sua passione per la musica elettronica e di come un giradischi può influenzare per sempre la tua vita, al suono di Radiohead, Daft punk e Giorgio Moroder.

Quando hai iniziato a fare il DJ, quali erano le tue prime passioni, che aspettative avevi?

Ricordo bene l’episodio in cui è scoccato il colpo di fulmine per la console: ero molto piccolo, non ricordo l’età. Un giorno, io e mio padre siamo entrati in un negozio di dischi e, mentre lui chiedeva informazioni a un commesso, io iniziai a giocare con un giradischi e col vinile che era in negozio. Da allora, anche dopo vent’anni, non ho più smesso di pensare alla musica e a quel giradischi.

Le prime aspettative erano di convincere i miei genitori che quello non fosse solo un capriccio, ma una vera e propria passione.

Che tipo di musica ascoltavi?

Avevo come figura di riferimento “il deejay” ed ero attratto dalla musica da club, ovviamente. Seguivo la corrente dance degli anni 90 che spopolava in Italia, caratterizzata dai beat aggressivi ed energici. Contestualmente, iniziai anche a scoprire artisti e produttori di musica elettronica, come i Kraftwerk, Radiohead, Daft punk, Giorgio Moroder, Chemical Brothers e house come Frankie Knuckles, Bob Sinclair, Antonie Clamaran, Erick Morillo, Roger Sanchez, Arman Van Helden.

Guardando indietro, c’è una canzone che riassume l’atmosfera di quel tempo?

Ci sarebbero tanti brani, ma uno in particolare, che ho scoperto proprio durante i miei inizi, è One more time dei Daft Punk. È un disco che ho apprezzato sempre più col tempo e mi è entrato nel cuore.



Quali momenti considereresti come “la svolta” nella tua carriera fino ad ora?

I momenti che fino ad ora hanno segnato la mia carriera sono: la collaborazione come sound designer della Bookin Agency, con cui ho iniziato a collaborare nel 2016. Ho iniziato a suonare ai party, sfilate, eventi legati alla moda e al design, per poi partecipare all’ADE nel 2019.

Prima DJ, e poi producer, come sei entrato nel mondo della produzione musicale?

É stato un passaggio automatico, spinto dalle necessità espressive e dalle richieste lavorative. Ho affinato un po’ le mie competenze tecniche, frequentando un corso di sound design e da lì ho continuato a sperimentare con le mie passioni, mettendole al sevizio della comunicazione, producendo musica per eventi, spettacoli, show e sfilate.

Negli ultimi due anni, quali luoghi, città o culture ti hanno lasciato un’impressione particolarmente positiva?

Per me Ibiza rimane “la Mecca” per chi vuole cercare vibe giusti e ispirazioni. Sull’isola si concentrano stili e culture e, soprattutto in estate, puoi venire in contatto con nuovi trend, conoscere persone nuove, ampliare i tuoi orizzonti. É un’isola che ti fa crescere.



L’anno scorso hai partecipato all’Amsterdam Dance Event (ADE), raccontaci di questa esperienza.

È stata un’esperienza bellissima, che mi ha fatto sentire parte di un’industria che, nonostante i periodi difficili, è sempre attiva. All’ADE si ha modo di conoscere artisti, deejay, producer, discografici, manager, promoter, agenzie di booking, ed è un’ottima occasione per chi è appassionato o lavora nel settore della musica elettronica per capire le dinamiche di settore.

Io sono grato alla Delights Entertainement per avermi dato l’opportunità di suonare al loro party con artisti del calibro internazionale come CECE ROGER e ALEX GAUDINO.

Cosa ne pensi della correlazione tra moda e musica? Come s’influenzano l’un l’altra?

Una delle ragioni per cui ho iniziato a lavorare sulla produzione musicale è perché ho capito che la musica può essere uno strumento importante per comunicare. Quest’assioma si manifesta in maniera decisa soprattutto in ambito moda, dove il concetto e lo stile del designer, grazie alla musica, può arrivare in maniera diretta a chi guarda una sfilata o un video campagna.

Ci sono molti designer che, quando iniziano a disegnare una collezione, ascoltano musica che suscita loro ricordi o sensazioni. Può essere infatti molto d’aiuto nell’inventare cose nuove.

Quale diresti essere una delle abilità più importanti che qualcuno deve possedere per essere un buon DJ?

A mio avviso la figura del deejay è diventata sempre più importante e ricercata e la vera chiave del successo è essere sé stessi, senza essere scontati o banali. Avere uno stile proprio, meglio se unico ed identificabile.


Dove ti vedi nel prossimo futuro? Quali sono i tuoi progetti?

Mi piacerebbe entrare nel vasto ed infinito mondo della musica, imparando sempre più.

Al momento continuo a sviluppare progetti di musica elettronica, che spero per il prossimo anno di poter pubblicare. Inoltre, porto avanti tante collaborazioni con agenzie di produzione che mi coinvolgono come consulente per i loro eventi.

I 3 Podcast più interessanti di Spotify

Nel gergo professionale il podcast è una tecnica che permette di ascoltare i file audio su internet. Nel linguaggio colloquiale, per podcast intendiamo quei contenuti audio di tipo narrativo o discorsivo che vengono diffusi tramite siti o app.

Il fenomeno dei podcast inizia attorno ai primi anni del 2000, ma negli ultimi tempi sta davvero spopolando. Ascoltare potendo nel frattempo fare altro, proprio come si fa con i programmi radio tradizionali, sembra essere la caratteristica che rende vincente questa tipologia di contenuto, sempre più diffusa.

 Perché si ascoltano i Podcast

Quando siamo imbottigliati nel traffico, o il tragitto che stiamo percorrendo non ci permette di distogliere lo sguardo per leggere un buon libro, ci viene in soccorso il nostro senso dell’udito. Siamo abituati ad ascoltare la musica che più ci piace o ci appaga in quel momento (a tal proposito, clicca sul link, per scoprire le 3 migliori playlist di Spotify), oppure, possiamo ascoltare qualcos’altro. Qualcuno che ci legga un libro, per esempio, oppure qualcuno che tratti di argomenti che ci interessano particolarmente. Il podcast colma proprio questo vuoto, ci dà l’opportunità di essere intrattenuti mentre stiamo facendo qualcos’altro. Possiamo considerarlo come la rivincita dei programmi radio, rivisitati in chiave moderna.

Dove ascoltare i podcast

Esistono diverse piattaforme dove poter ascoltare i podcast, Apple Podcast, Google Podcast, Speaker, ma sicuramente la più famosa è Spotify. Con un account gratuito si possono seguire moltissimi podcast, sugli argomenti più disparati. Ve ne lasciamo tre interessanti da seguire.  

 I 3 podcast più interessanti su Spotify

In base all’argomento c’è davvero solo l’imbarazzo della scelta, ne abbiamo selezionati 3, ognuno appartenente ad una categoria diversa, per accontentare tutti i gusti.

1 Muschio Selvaggio

Dedicato a temi di cultura e società, in ogni puntata ospita personaggi famosi diversi. Vi hanno partecipato anche lo chef Bruno Barbieri, Beatrice Borromeo, e tanti altri. Il progetto è nato da un’idea di Fedez e Luis Sal. Forse grazie anche alla notorietà dei fondatori, questo podcast domina le classifiche dei più ascoltati. Le tematiche affrontate sono sempre diverse e toccano argomenti forti ed attuali, come l’eutanasia, l’aborto, ma anche cucina ed educazione. Il filo conduttore dell’approfondimento su tematiche scottanti e importanti nella società moderna, sono alternati a momenti di gioco ed imprevedibilità.

2 Blu Notte- misteri italiani

Per gli appassionati dei gialli della storia del nostro paese, ecco che vengono tradotti in formato audio le puntate della celebre ed omonima trasmissione della Rai. La voce di Carlo Lucarelli ci racconta in modo avvincente le storie ed i retroscena dei casi più oscuri che hanno segnato l’Italia. Ottimo per chi ama il genere noir.

3 Morgana

Michela Murgia e Chiara Tagliaferri ci raccontano le storie di donne che sono diventate ricche grazie alle loro grandi capacità e che non hanno avuto bisogno di sposare un uomo ricco. Un podcast tutto al femminile, che racconta di donne ribelli, fuori dagli schemi, che non hanno avuto paura di sfidare la società ed i pregiudizi di genere. Ispirazione e riflessione, sono i punti cardinali di tutti gli episodi di questo podcast.

MTV la storia del canale che ha segnato una generazione

Il primo agosto del 1981, alle 12 la rete tv americana MTV, acronimo di Music TeleVision, inizia la sua avventura in Europa.

In poco tempo il canale si accaparra anteprime ed esclusive, come il celeberrimo video di “Thriller”, di Michael Jackson o la prima del film Purple Rain, entrambi del 1983.

Ad Ottobre 1992, il canale raggiunge 40 milioni di utenti in 29 paesi europei. Un successo strepitoso che tiene incollati allo schermo giovani da ogni parte d’Europa a suon di musica.

L’organizzazione del palinsesto è lo stesso per tutte le Nazioni: video musicali alternati a programmi a tema specifici per ogni nazione con vee-jay (l’evoluzione dei dee-jay) come presentatori, giovani ed appassionati di musica.

MTV in Italia

MTV non è il primo canale a tema musicale, su Elefante tv andava in onda Videomusic, che per prima ha lanciato programmi in italiano sull’argomento.

In Italia MTV sbarca nel 1991 appoggiandosi alle reti locali, poi, conclude un accordo con Rete A, canale dedicato allo shopping, nel 1997, e inizia la sua programmazione a base di musica h24.

Così a mezzanotte del primo Settembre con il video di un unplagged girato a New York va in onda il video dei Nirvana “About a girl”.

Un anno più tardi iniziano i programmi pensati per l’Italia, fino a quel momento erano andati in onda programmi originali delle altre edizioni europee in inglese, non sottotitolati.

Da quel momento il canale sforna programmi di grandissimo successo, come Sonic e Stylissimo, condotto da Andrea Pezzi ed Enrico Silvestrin, che raggiunge il successo anche in altri Paesi europei.

Nel 1999 l’Autorità per le Comunicazioni italiana e il Ministro Cardinale decisero di bloccare la collaborazione con Rete A, a causa della programmazione no stop sulla rete “subbappaltata”. Si rischiò un oscuramento del canale, ma il Tar diede ragione a MTV.

I personaggi che hanno esordito su MTV Italia

Andrea Pezzi, ideatore di Kitchen, dove ospitava in cucina un personaggio famoso mentre cucinava un piatto a sua scelta. Un’idea informale di fare televisione e di intervistare i grandi esponenti della musica, che li rendeva in qualche modo meno irraggiungibili e più umani. Questo format ebbe un successo strepitoso, tanto da essere rivisitato da moltissime altre emittenti televisive.

Marco Maccarini, tutte le adolescenti erano pazze di questo simpatico ragazzone dagli occhi azzurri e con i biondissimi capelli rasta. Esordisce con il programma The Beach, andando in giro sulle spiagge più belle del mondo alternando giochi ed interviste. Lo stesso programma aveva già lanciato Daniele Bossari e Victoria Cabello.

Fabio Volo, con il suo Ca’Volo, basato sull’idea di una casa aperta in cui si poteva entrare e partecipare al dibattito in corso.

Alex Kapranos & Clara Luciani in “Summer wine” di Nancy Sinatra & Lee Hazlewood

Lui è Alex Kapranos, frontman dei Franz Ferdinand, la band scozzese che fa ballare tutto il mondo da quasi venti anni. Ha vinto con la sua band molti premi (un Mercury Prize, dei BRIT Awards, diversi MTV Awards tra gli altri) ed è stata nominata ai Grammy. Lei è la splendida Clara Luciani, astro nascente della musica francese, che ha esordito nel 2018 con Sainte-Victoire e nel 2020 ha vinto il premio come Artista femminile dell’anno ai Victoires De La Musique.

Insieme hanno realizzato una cover del brano “Summer Wine” di Nancy Sinatra e Lee Hazlewood.  

La traccia è stata reinterpretata con testo in inglese e francese ed è stata registrata e mixata tra lo studio scozzese di Alex e il Motorbass di Zdar a Parigi. A supporto della canzone hanno girato un video, diretto da Ryder The Eagle, con ambientazione “karaoke nel deserto”, che li vede protagonisti con la stessa attitudine di due attori in un film di Tarantino.

Coltivano questa amicizia da tempo, tanto che nell’ultima stagione pre-covid, i due artisti sono stati visti insieme alla sfilata di Prada di Gennaio 2020. Non solo, a Ottobre si erano già esibiti insieme sul palco dell’Olympia, l’iconica location parigina, dove hanno cantato “Summer Wine” insieme per la prima volta.

Alex ha dichiarato: “Siamo grandi fan di Lee e Nancy e l’interazione tra le due parti che nasce in questo brano è molto bella. Clara ha tradotto il ritornello in francese, così ne è venuta fuori una versione bilingue. 

Abbiamo deciso di registrarla appena iniziato il lockdown, più per noi stessi che per altro. Volevamo creare un mondo immaginario in cui rifugiarci, dal momento che eravamo rinchiusi in casa. Non che non fossimo felici, ma la fantasia è sempre il modo migliore di fuggire e partire per un’avventura. È stata registrata a casa mia, in Scozia, e mixata dai nostri amici Antoine e Pierre al Motorbass Studio di Parigi. Quando l’abbiamo fatta ascoltare alle nostre etichette ci hanno suggerito di pubblicarla, quindi eccoci qui. 

Cantare con Clara è stato bellissimo, lei ha una voce meravigliosa e tutta un’altra prospettiva. Una volta finito il lockdown, abbiamo incontrato i nostri amici Adrien, Leo, Fiona e Hugo per girare il video. Le loro idee mi sono piaciute tantissimo, perché rispecchiavano il mood del brano e rappresentavano anche la nostra… beh, la nostra passione per il Karaoke!”

Testo di Cristina Fontanarosa

Foto di Fiona Torre

Editorial: Riviera Lusitana

Christian Vismara (@black.pomade) 30 anni, originario di Milano, è arrivato a Lisbona per la prima volta nel 2014 e ci è tornato stabilmente nel 2017. “Non è stata una scelta molto pianificata” dice lui, “ci sono venuto la prima volta perché avevo ottenuto una borsa di studio, mi è piaciuta l’atmosfera e sono finito per restare.” Da allora ha collezionato varie collaborazioni con artisti attivi a Lisbona, come ad esempio la musica per il pezzo di danza contemporanea “flattened” di Lua Carreira, HugoMarmelada e Patricia Keleher, presentato allo spazio MONO, e ancora la musica per il pezzo di danza “Home” di Patricia Keleher, presentato alla prima edizionedi Interfer̂encias (Compagnia Olga Roriz) fino alla Direzione musicale per il pezzo “Don’t ask, don’t tell”, presentato durante la LisbonFashion Week SS2020.

Come definiresti il tuo stile personale e quanto è “italiano”? E quello musicale, invece? Ci sono punti in cui i due stili si mescolano?
Mi ispiro molto all’abbigliamento classico maschile, dai vestiti stessi ai prodotti come la brillantina o il dopobarba. Preferisco soprattutto articoli semplici e versatili, con materiali di qualità e un bel taglio. In generale, mi piace sempre avere una storia da raccontare sulle cose che indosso. In termini di musica, di solito passo molta Disco, House, Italo Disco e Funk. Le tracce devono avere groove, ritmo e anima, ma rimanere eleganti. Sia per la musica che per l’abbigliamento pesco molto dal passato, ma cerco di proporne una versione rivisitata e contemporanea.

Da chi trai inspirazione nel tuo stile musicale? E Perché?

Sono un avido consumatore di nuova musica, in realtà di arte nuova in generale: sono costantemente alla ricerca di nuovi esempi di espressione umana che mi emozionino e mi influenzino. La ricerca della novità è essa stessa la mia maggiore ispirazione, ciò che rimane constante è l’atmosfera che cerco di creare con la musica: ho sempre guardato aluoghi come il Warehouse di Chicago o il Loft e il Paradise Garage di New York come se fossero qualcosa di mistico. Anche in Italia abbiamo avuto i nostri club storici, come la Baia Degli Angeli con Daniele Baldelli, il Plastic di Milano o l’Echoes negli anni ’90, solo per citarne alcuni. Non ho mai avuto la possibilità di passare una notte in nessuno di quei posti, perlomeno non quando erano davvero al loro meglio, forse è per questo che nel mio immaginario hanno un non so che di magico. Ho sempre trovato bellissima e stimolante l’idea del club come una specie di rifugio, dove chiunque possa unirsi a ballare ed esprimersi senza paura del giudizio altrui. Se, con la musica, riesco a portare il pubblico in quel mondo anche solo per pochi minuti, allora posso ritenermi soddisfatto.

Come dev’essere, secondo te, un buon set?
Un buon set deve innanzitutto e soprattutto far ballare le persone. Generalmente preferisco farlo con tracce che non ti aspetti, il classico disco che non sapevi di voler ascoltare, piuttosto che optare per la scelta più facile. A volte, però, mi capita di essere troppo preso dalla selezione e devo costantemente ricordarmi che le persone sono venute al club per ballare e sudare! Secondo, mi piace accompagnare gli ascoltatori in un viaggio: c’è posto per la felicità, la nostalgia, l’introspettività, la tranquillità e l’energia. Alla fine di un buon set, mi sento sempre una persona diversa di quella che ero prima di iniziare.

@black.pomade ci invita a goderci l’estate con 10 tracce da ballare nei pomeriggi più torridi.

  1. Akendengué – Epuguzu – https://www.youtube.com/watch?v=8M2mtwNuIRI
  2. Bernardo Pinheiro – Deixar A Peteca Cair – https://www.youtube.com/watch? v=kHAutCe5v6s
  3. Mind Enterprises – Monogamy – https://www.youtube.com/watch?v=9TKMVoxbIp8
  4. Bombsquad – Fēizhōu Wǔdǎo – https://www.youtube.com/watch?v=QhoMd5qZNP0
  5. Vasco Rossi – Fegato (Ferrari Edit) – https://soundcloud.com/rollovermilano/fegato-ferrari-edit
  6. Auroro Borealo – Gli Occhi del Mio Ex (Tamati Remix) – https://www.youtube.com/watch? v=XOvrBh2JSv0
  7. Black Pomade – Marine – https://www.youtube.com/watch?v=JJtymelnkXg&t=94s
  8. Larry Quest – Conun Drum – https://www.youtube.com/watch?v=GcVY-nxeSpE
  9. Jad & The – Transatlantica Fantastica – https://www.youtube.com/watch?v=bi38m6E30ow
  10. Original Sin – Sunny Skies – https://www.youtube.com/watch?v=F-eIwk7t4Zk

Produzione: @sexpersonalities / Foto: @pugaimages @impuga / Modello: @black.pomade / Stylist: @dn.carrillo – Daniel Carrillo

Hair Stylist: @blue.haired.barber – Hanna Key Valentina

Intervista a Marco Guazzone: “sono uno studente privilegiato”

Abbiamo incontrato Marco Guazzone, cantante, pianista e frontman del gruppo STAG. Il suo percorso inizia con gli studi di pianoforte al Conservatorio di Musica Santa Cecilia e composizione per musica da film al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Nel 2010 poi, auto-produce e pubblica il suo primo singolo Love Will Save Us, che viene scelto come colonna sonora ufficiale dello spot Fox Life di San Valentino. Ma è solo l’inizio, tra il 2012 e oggi sono diverse le apparizioni in televisione e i lavori per la televisione ed altri nomi noti del panorama musicale italiano. Lo scorso Aprile esce la sua cover di Azzurro di Adriano Celentano, che diventa la sigla ufficiale del programma radio C’è sempre una canzone – Live da casa.



In che modo le tue radici inglesi e la tua esperienza nel Regno Unito hanno influenzato la tua carriera da musicista?

La parte della mia famiglia dal lato di mio padre che vive a Londra mi ha permesso di poter visitare fin da piccolo la città più volte e quindi viverla sentendomi sempre un po’ a casa imparando subito la lingua. Nel tempo che poi ho passato lì dopo il liceo, grazie alla facilità in cui ci si può esibire davanti a un pubblico, (si chiamano “open mic nights” quelle serate in cui ti segni su una lista e suoni in locali sempre pieni di gente) sono venuto a contatto con delle realtà di musica dal vivo molto forti che quando sono tornato in Italia mi hanno spinto a mettere su una band con cui lavorare.

Come si è evoluto nel tempo il rapporto con gli altri membri degli Stag?

Sono quasi dieci anni che ci conosciamo e siamo praticamente diventati una famiglia. La vita in sala prove, in studio di registrazione e in tour ti avvicina così profondamente che a un certo punto ti ritrovi ad avere dei fratelli acquisiti, non si è più solo amici o collaboratori. E poi scrivere una canzone é un processo così intimo che richiede un grande atto di fiducia. Diventa indispensabile quindi poterlo fare con le persone giuste che ti conosco per davvero.



Che tipo di immagine cerchi di avere sui diversi social network e perché?

Ho un rapporto controverso con i social perché se da una parte sono fondamentali per chi fa il musicista al giorno d’oggi, dall’altra parte non mi ci sono mai impegnato seriamente. Nel senso che non sono uno che bada ai numeri e nonostante riconosca l’importanza di una piattaforma che ti da la possibilità di azzerare la distanza tra te e chi ti ascolta dall’altra parte ho sempre preferito fare musica sui palchi, sui dischi e concentrare le mie energie sulla creatività piuttosto che sull’esposizione di questa. Sicuramente quando lo uso mi ci confronto un po’ come uno specchio che in maniera molto affascinante mi permette di far riflettere la mia immagine sul mondo esterno.

Come vivi le diverse collaborazioni con artisti di fama internazionale? 

Ho avuto la fortuna di lavorare con degli artisti di fama mondiale che mi hanno insegnato tantissimo. In queste occasioni mi sento come uno studente privilegiato che ha l’opportunità di ascoltare una lezione di vita, di umanità e mestiere che mi ricorda sempre come la musica sia capace di unire e cancellare i confini geografici, di genere e di lingua.

Hai qualche tour in programma, da solista o in gruppo?

Con gli STAG abbiamo concluso prima dell’estate una tournée in cui presentavamo in versione acustica i brani del nostro disco ultimo disco, “Verso Le Meraviglie”. Ora siamo in fase di scrittura di nuovi brani.



Qual è la differenza tra lo scrivere musica per una colonna sonora e scriverla per un artista? Quale delle due suscita maggiormente il tuo interesse?

Direi che sono due stimoli diversi che richiedono metodi creativi differenti. Da una parte hai le immagini di un film e dall’altra un artista con un mondo musicale ben preciso. In entrambi i casi secondo me il risultato è già lì, nascosto nelle immagini o nelle corde di chi hai davanti, sta a me guardare, ascoltare per farmi guidare e tirar fuori l’abito migliore con cui vestire un film o la voce dell’artista.

Quanto ha influito la tua comparsa a Sanremo Giovani con i lavori che hai realizzato in seguito?

Potermi esibire dal vivo suonando un mio brano con un’orchestra di sessanta elementi di fronte a milioni di persone è un’esperienza magica che mi porterò sempre nel cuore. A livello professionale mi ha permesso di “entrare” ufficialmente nel mondo discografico. Per esempio, a Sanremo ho conosciuto Arisa (che era in gara con “La Notte”) che dopo quell’incontro mi ha chiesto di scrivere l’inedito di X Factor dello stesso anno. Da lì è nata una collaborazione che mi ha portato a scrivere per il suo disco “Se Vedo Te” fino a ritrovarla quest’anno di nuovo a Sanremo dove per lei ho scritto e curato la versione inglese del suo brano “Mi Sento Bene” per il duetto con Tony Hadley.

I 50 anni di Glastonbury nell’estate silente dei festival

“Do you recognise this noise?” È il suono del calpestio danzereccio dei piedi, del battito secco e ritmato delle mani, è l’odore dell’estate e l’eco corale di milioni di voci che colorano i luoghi di “culto” della musica dal vivo. È il rumore insonne e festoso dei figli putativi di “Woodstock” e dell’”Isola di Wight”, di quell’itinerante comunità di revellers che, ogni anno, affolla i “vivai del suono” a partire dai palchi del Coachella, nei californiani Empire Polo Fields di Indio, fino ad arrivare nel cuore dell’Europa, nella campagna verde e fangosa della contea del Somerset, per il Glastonbury Festival.

Nel settembre del 1970, il giorno dopo la morte di Jimi Hendrix, il lattaio di Pilton Michael Eavis allestisce, nella Worthy Farm di 150 acri ereditata dal padre, il primo sperimentale antesignano del “Glasto”, il Pilton Pop, Blues & Folk Festival. Marc Bolan, Keith Christmas, Stackridge e Al Stewart si esibiscono davanti a un pubblico di 1.500 persone simbolicamente paganti, il prezzo di una sterlina incluso il latte gratuito della fattoria. L’anno successivo prende forma e sembianza il Glastonbury Fayre, un grande raduno hippie dal libertino e idealistico spirito da “Summer of Love” documentato, in chiave cut up, nell’omonimo film diretto da Nicolas Roeg e Peter Neal.



La seconda edizione è ricordata come uno degli avvenimenti leggendari della musica underground inglese, una delle rare occasioni in grado di superare le barriere tra il pubblico e i musicisti, con musica, danza, poesia, teatro ed esibizioni estemporanee. È anche l’anno in cui a esibirsi è un giovane capellone, sconosciuto ai più, un certo David Bowie che si presentò bizzarramente vestito in foggia androgina con cappello da moschettiere, pantaloni a zampa e scarpe con tacco alla “Re Sole” e cantava, al levar del sole, il viaggio spaziale di Major Tom di Space Oddity.

Gli anni ottanta hanno visto il Festival trasformarsi in un vero e proprio evento annuale che, nonostante il clima non sempre favorevole, ricordiamo le piogge torrenziali del 1985 (che non impedirono di certo agli audaci partygoers di assistere agli spettacoli con la fanghiglia alta fino alle ginocchia), resta uno degli appuntamenti più attesi e longevi. Uno straordinario melting pot di arte, musica (non c’è nome che conti che non abbia calcato il suo palco) e persone. “Puoi sederti intorno ad un falò qualunque o fare la fila a una bancarella e sentire come un caldo abbraccio collettivo. Guardi un estraneo e ti rendi conto di avere tantissime cose in comune”. Ci sarà un motivo perché i biglietti (al costo di 250 sterline) sono sold out in una manciata di minuti mesi prima dell’evento, quando ancora non si ha la più pallida idea di quale sarà la line up dei cantanti?

Il Glastonbury è un “luna park” ideato su misura per i bambini e fatto a misura di “festival habituè”, è intergenerazionale, è un punto di unione tra culture, è respirare per tre giorni una libertà parallela e anacronistica, è immergersi in una gioviale atmosfera atemporale. 



La bucolica Valle di Avalon, la leggendaria isola di Re Artù e del Sacro Graal, e la distesa da 900 acri della tenuta di Michael Eavis, anche quest’anno, erano pronti ad accogliere gli oltre 180.000 festanti “pellegrini” per celebrare tutti insieme quello che sarebbe stato il Festival dei Festival. I 50 di Glastonbury. Ma il 24 giugno non ci saranno “wellies”, tende e campeggi a calpestare le verdi campagne della storica Worthy Farm. Il Pyramid Satge di Bill Harkin dall’alto dei suoi 30 m non si illuminerà a festa. L’evento è annullato. Così come non ci sarà il consueto raduno, in mezzo al Danubio, della “Love Revolution” con i suoi 400.000 Szitizens e la baldoria dei 60 palchi dello Sziget sull’isola della libertà di Óbuda, a nord di Budapest. Gli spettacoli pirotecnici e i colori iper saturi delle scenografie idilliache e favoleggianti del Tomorrowland non illumineranno il cielo della piccola cittadina belga di Boom. Anche il tempio della musica elettronica spegne le sue console. Nel cuore del deserto del Nevada il grande fantoccio di legno non brucerà nel rituale del Burning Man. La sua comunità non celebrerà il solstizio d’estate nell’immaginaria città dall’anarchia organizzata di Black Rock City. Per le strade di Perugia, nell’Arena Santa Giuliana, in Piazza IV Novembre e nel Chiostro di San Fiorenzo non echeggerà il beat del jazz. 

Dal Sonar di Barcellona all’Ariano Folk Festival, la musica dal vivo indossa la fascia nera al braccio. Tutti gli eventi sono annullati a causa dell’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia di Coronavirus. I lavoratori dei concerti sono stati i primi a chiudere e saranno gli ultimi a riaprire. Se per gli altri ambiti culturali di “visione”, come il teatro o il cinema, è possibile pensare a protocolli di ripartenza, per i luoghi di “interazione”, come i festival musicali, ciò crea dei cortocircuiti. 



Un Festival, come ci suggerisce l’etimo stesso, è una grande “festa” che non conosce, per sua natura, forme di distanziamento. È aggregazione, socialità, condivisione. È massa, contatto, è il piacere di stare insieme. L’idea di contingentare la folla riducendola a mò di soldatini di terracotta trincerati in quadrati divisori, apparirebbe difficile e contro natura. Per questo, in tanti pensano che una vera ripresa del settore dei concerti non avverrà fino alla scoperta e alla distribuzione del vaccino: cioè quando il rischio del contagio sarà riportato allo zero o quasi. Spesso abbiamo sentito la frase “Music will save the world|La musica salverà il mondo”, questa volta ha incontrato un avversario più temibile della sua forza. Ma ritorneremo laddove abbiamo lasciato. È solo un momentaneo “a data da destinarsi”.

I grandi brand diventano i nuovi direttori d’orchestra del mondo digitale

Moda e musica è lo spettacolare binomio al quale i divertiti spettatori del mondo digitale stanno assistendo. Alcuni dei più famosi e conosciuti brand hanno scelto una via di comunicazione alternativa e sorprendente, e quale mezzo migliore se non la musica per veicolare emozioni, idee e ridestare sentimenti sopiti dall’ambiente domestico. La moda approda su Spotify, la piattaforma musicale entrata a far parte della nostra vita e che ora, è teatro di playlist e poadcast che colgono nel segno; le fashion house sono la cassa di risonanza di evergreen e grandi classici della musica, per intrattenere, condividere e riportare con la mente ai set di quelle sfilate che per la prima volta, il prossimo giugno, non andranno in onda. Da Philosofy di Lorenzo SerafiniBottega VenetaMonclerBurberryPrada, Msgm e Gucci, i big della moda prendono per braccio gli utenti e li accompagnano in un percorso musicale personale che evidenzia i tratti distintivi del proprio marchio. ­

Moncler presenta una serie di playlist che hanno la particolarità di essere curate dai designer della serie Moncler genius, fin’ora le prime quattro uscite vedono come protagonisti personaggi come Matthew Williams, Hiroshi Fujiwara e Craig Green; si passa dai Joy Division ai pezzi più cool di Post Malone per poi tornare a sognare con la voce di Frank Ocean. Bottega Veneta ci intrattiene settimanalmente con una playlist aggiornata dal titolo #BottegaResidency, una selezione di brani senza tempo, originali e in puro stile Daniel Lee

John Gosling, creatore della musica degli show di Alexander McQueen, crea una raccolta per celebrare gli oltre vent’anni di carriera chiamata #McQueenMusic.

Prada ha scelto di condividere varie playlist divise per stagioni, una femminile e una maschile dal gusto vintage e un’altra più vivace che richiama la capitale francese #PradamodeParis.

Gucci ci stupisce ancora una volta, infatti propone svariate playlist ispirate alla fragranza del suo profumo ‘Mèmoire d’une Odeur’ e alla playlist ‘Chilling with Massimo Bottura’, rinomato chef delle Gucci Osterie: le raccolte suonano i più grandi successi dagli anni ‘70 fino ai primi anni 2000. Interessante notare come siano soprattutto le maison italiane a scommettere su questa nuova via di comunicazione, ora non vi resta che scegliere la vostra playlist preferita, chiudere gli occhi e sfilare ovunque voi siate. 

European Vampire: il nuovo mondo di Lorenzo Sutto

Il cantante e modello Lorenzo Sutto, e il producer Mark Ceiling hanno portato alla luce del mondo musicale il loro nuovo album European Vampire. La gemma che darà lo slancio a questo nuovo esperimento è Tom Ford, singolo che è stato lanciato il 5 maggio 2020. 

European Vampire è un progetto che trova nella profondità della passione e nella sua conseguente inesorabilità le colonne portanti di questa esperienza, forgiata dalla amicizia tra il cantante e modello Lorenzo Sutto e il producer Mark Ceiling. 

Proprio il cantante, aveva in cantiere questa idea sperimentale da molti anni, nella convinzione che tale progetto, si potesse incanalare più virtuosamente in un contesto segnato dalla fantasie cinematografiche che in una prospettiva musicale.

European Vampire è un coacervo di realtà che sembra non obbedire a nessuna regola precisa, la cui linearità è da scovare brano dopo brano, e così, veniamo toccati dalla personalità di un romantico antagonista simile a qualcuno che abbiamo già incontrato. 

Il vampiro rappresenta l’incarnazione delle forze sotterranee, divoratore di una luce che proietta un mondo corrotto e delirante, questo è EV. Esso perversa con la sua presenza gli evanescenti palcoscenici quotidiani, gli After party di moda, i giochi di potere e il loro piacevole godimento.

Il suo ruolo è di attento spettatore, con lo sguardo di chi ha negli occhi la brama di vivere, che rinasce ogni volta, e che invano cerca di dominare. EV è pervaso dalla consapevolezza delle sue nefandezze, e proprio la riconoscenza di esse, lo eleva fino a diventare uno spirito etereo, immateriale, condotto quasi alla trascendenza. 

Ogni traccia dell’album simboleggia un passo del percorso metaforico che vede coinvolto EV e, quindi, l’evoluzione di un essere che prima è stato traviato dalle leggi dell’immoralità per diventare, poi, lui stesso corruttore e solo alla fine capace di affrancarsi dalle corde della depravazione.

Tom Ford è la prorompente giovinezza che ha sete di potere, escogitando una fervida perfezione, intesa come il più alto senso di partecipazione alla vita: EV è una kermesse musicale che lascia spazio ad una fantasia distopica, costellata da quella frenetica dissolutezza che attira e cattura. Il legame con la moda appare evidente, oltre per l’omaggio dell’omonimo marchio, anche per l’uso della lingua francese che richiama i gli after party parigini. 

Dalle note che risvegliano una vivacità primordiale, accompagnate da un velato tono di malinconia, European Vampire sembra portarti a spasso nel tempo.

Intervista a Paolo Borghi – Il suonatore di Hang

Era il 1976 quando, per le strade di Berna, alcuni musicisti provenienti dall’isola caraibica di Trinidad suonavano una sorta di tamburo metallico, lo steelpan. «Non si può definire musica. Era una specie di bagno di suoni», ricorda Felix Rohner (l’artigiano inventore dell’hang insieme a Sabina Schärer).

«Tutti ballavano attorno ai musicisti. Sono rimasto colpito dall’effetto di questo strumento sulla gente e così il giorno dopo ho cercato di costruire una sorta di tegame da questo tamburo metallico». 

Da quel giorno Rohner, ha creato diversi tipi di pentole di acciaio e dopo anni di tentativi, modifiche e miglioramenti riuscì a mettere a punto l’”archetipo”, il primo esemplare. Così nel 2000 dalla fusione del gong, del ghatam, del tabla e dei cimbali tibetani prende forma un disco lenticolare a percussione metallica formato da due semisfere di acciaio, l’HANG, che in dialetto bernese significa “mano”.

Il suono, infatti, viene emesso tramite il contatto corporale con il metallo. I polsi, i palmi e le dita toccano e sfiorano a mani nude il corpo dello strumento che, nelle sue vibrazioni ferrose, emette all’udito suoni trascendentali, mistici e intensi con il suo effluvio armonico di colori tonali.

Sulla strada di questo ancestrale “suono idiofono” ci imbattiamo nella storia di un busker dell’hang, Paolo Borghi. Emiliano, classe 1983, performer autodidatta, costruttore di strumenti inusuali e ricercati, musicoterapista e ideatore del metodo di rilassamento Sonum Sound Healing. 

Raccontaci il tuo primo incontro con l’Hang. E di come, questo strumento, ti abbia cambiato (professionalmente) la vita.

Il mio primo incontro con l’Hang è avvenuto 14 anni fa, sbirciando per caso la stampa di un foglio A4. Durante una chiacchierata col fidanzato della mia vicina di casa, anche lui appassionato di percussioni e in attesa del momento “giusto” per acquistare questo strumento, mi disse: “Il suono dell’Hang? E’ una figata!”.

Sulle prime non mi sono fidato della sua opinione. Non essendo riuscito a sentirne il suono, non mi colpì. Il vero e proprio colpo di fulmine avvenne solo dopo. Facendo delle ricerche di musicoterapia mi imbattei in uno strumento simile, lo steeldrum.

Lo cercai disperatamente, ma risultando introvabile mi spinsi più in là con delle ricerche incrociate fino a scoprire l’esistenza dell’Hang e del suo fantastico mondo. L’incontro con questa percussione ha dato il via a ciò che, ora, è la mia vita professionale.

Ero un falegname, costruivo scale in legno, e questo strumento mi permise di intraprendere dapprima il mio percorso lavorativo come suonatore di Hang e, successivamente, di integrarlo e completarlo con la musicoterapia.


Se dovessi spiegare a chi non hai mai visto o sentito il suono di un Hang, emozionalmente come lo descriveresti? 

Ricco, affascinante e armonico. Questi sono i 3 termini che maggiormente descrivono il suono unico dell’Hang. Un suono che rapisce i sensi, tocca l’emotività e, talvolta, può risultare anche sconvolgente.

Spiegare a parole l’impatto di questo suono non è facile. Per me è come un’onda che ti investe per poi lasciarti andare. Coloro che costruiscono gli Hang sostengono che sta tutto all’ascoltatore capire e percepire l’effetto del suono dell’Hang sul proprio “Io”.


Come performer hai viaggiato molto, ma qual è stato il luogo che ti ha dato di più. Quello in cui come musicista ti sei sentito più a “casa”? 

Sembrerà strano ma il luogo dove mi sento più a casa è proprio casa mia! La mia terra mi ha sempre fatto sentire a mio agio.

Tra i luoghi che mi sono entrati nel cuore ci sono la “Casa della Musica” di Quito e “Casa Bocelli” dove ho avuto l’onore di partecipare ad un evento di beneficienza. In quell’occasione ho potuto respirare davvero aria di “Musica” tra i tanti ospiti celebri di quella serata, tra i quali John Legend, Lyonel Ritchie e lo stesso Andrea Bocelli.

Se, invece, parliamo di un luogo unico allora parliamo della Biblioteca Solvay di Bruxelles. Una biblioteca difficilmente visitabile, in quanto privata, un luogo dove l’architettura in legno e le grandi ricchezze bibliografiche sono contenute in un ambiente di pregio e fascino. Parlando, invece, del luogo dove mi sono sentito più in “simbiosi” con la natura è stato Cape Town. Una città dove ho vissuto e dove ho sentito il reale attaccamento alle origini della musica a percussione.

Quali messaggi si celano dietro le note delle tue due ultime composizioni “Shap Shap” e “Okeanòs”?  

“Shap Shap” e “Okeanòs” nascono in questo periodo di quarantena dovuta al Coronavirus, quindi da un punto di vista emotivo hanno un significato particolarmente importante.

Specialmente “Shap Shap”, che in lingua Xhosa significa “Va tutto bene”, è un messaggio di speranza e di positività e proviene dal lembo più meridionale dell’Africa, da un luogo vicino al Capo di Buona Speranza dove i due oceani, Indiano e Atlantico, si uniscono alla terra.

“Okeanòs”, invece, è un brano composto dal mix di ritmo e dolcezza, che ricorda la divinità greca, il Titano Oceano, capace di dominare e placare anche le peggiori tempeste marine per riportarle allo stato di “Calma”.

Qual è il brano, o i brani, ai quali sei più legato? E perché?

Ci sono diversi brani a cui, per motivi diversi, sono particolarmente legato. “Electronic Flight” mi è entrata nel cuore perché è nata di “getto”. In poco più di una giornata ho composto la ritmica di uno dei brani di maggior successo.

Per il significato, invece, tengo particolarmente a cuore “Antika Goree”, un brano che si intreccia alle origini della musica a percussione ma soprattutto si lega alle “Ninne Nanne” che le donne africane cantavano ai propri piccoli per lenire i dolori provenienti dal rapporto conflittuale della popolazione con la loro terra d’origine. Non posso nascondere, però, che anche “Ametista” e “Verso il Sole” siano entrati nel mio “Io”. 

In un momento “entropico” e disarmonico, come quello che stiamo vivendo, forte è il bisogno di riarmonizzare il nostro equilibrio interiore, da musicoterapista quale consiglio puoi dispensarci da poter mettere in pratica mentre siamo ancora a casa?

Il segreto per affrontare questo periodo disarmonico? Cercare l’armonia. L’armonia si può raggiungere anche e soprattutto attraverso la musicoterapia.

Una disciplina che trova il suo essere proprio nell’ascolto della musica, e dei suoni, come strumento riabilitativo sulle emozioni di cui il nostro animo ha bisogno per stare bene. La musica suscita diversi sentimenti ed emozioni: dal pianto alle urla di liberazione alla felicità.

Affidarsi alla musica risulta, quindi, di importanza rilevante specialmente in periodi dove il nostro “io” è messo maggiormente alla prova e necessita di una profonda pulizia e trasformazione. Il mio consiglio è quello di creare delle playlist personalizzate che rispondano alle necessità individuali nei vari momenti della vostra giornata.

Progetti lasciati in sospeso in attesa di essere realizzati? 

Da buon ex falegname sono abituato a “programmare” le mie attività ed i progetti a seconda del tempo a disposizione, quindi, fortunatamente non ho mai avuto grandi progetti pendenti e sospesi.

Attualmente, nel periodo di stop forzato delle mie attività, ho approfittato per andare ad affinare le mie tecniche sonore seguendo a mia volta dei corsi, ho dato una rinfrescata alla mia immagine ed al mio brand e mi sono sperimentato su alcuni aspetti che non avevo avuto il tempo di provare, come ad esempio le dirette social sulla mia pagina facebook.

Gregory Porter: the jazz storyteller

“Jazz got me out of the pain of losing my mother”. Poco prima di morire di cancro la madre Ruth gli disse: “Quello che sai fare meglio è cantare, non preoccuparti di essere povero, pensa solo a inseguire la tua passione. Son, your gift will make room for you at the tables of royalty”. 

Da qui nasce il percorso musicale di questo straordinario huge man in giacche sartoriali, dall’inconfondibile flat cap indossato con un bizzarro passamontagna nero e dall’imponente fisico da ex giocatore di football cresciuto a suon di Nat King Cole, Joe Williams e Donny Hathaway.

Un’infanzia, quella di Gregory Porter, vissuta, con i suoi numerosi fratelli, nel quartiere bianco della città californiana di Bakersfield, segnata dalla povertà, dagli abusi razziali del Ku Klux Klan (“bruciavano crocefissi nel cortile e lanciavano contro le finestre bottiglie piene di urina”), dall’assenza della figura paterna e dall’amore incondizionato per sua madre, un ministro della Chiesa Battista che era solito seguire nelle sue celebrazioni per cantare nei cori gospel. 

La vellutata potenza baritonale della sua voce fa da eco a questa segreta malinconia che veste il suo vissuto e le sue canzoni e che si denuda in una musica fluida che unisce la raffinata eleganza del jazz, la mesta tristezza del gospel blues e l’energia vibrante dell’R&B scandita dal ritmo pieno e gioioso del suo inconfondibile hand-clapping.

Una voce carezzevole nella sua vibrante potenza, versatile e piena di armonici che ha fatto di Gregory Porter il volto più interessante dello scenario jazz contemporaneo. Arthur Rubinstein diceva “non dirmi quanto talento possiedi, dimmi quanto lavori sodo” e lui il suo talento l’ha dimostrato nei sacrifici di una gavetta lunga venti anni, spesi nei piccoli club newyorkesi di Brooklyn, ma che alla fine l’hanno portato ad essere quello che è oggi, il Gigante Gentile del jazz.

Vincitore di un Grammy per il “Best Jazz Vocal Album” con Take Me To The Alley, sei album all’attivo, tour sold out. Ha calcato la celebre Pyramid Stage del Festival di Glastonbury, i più prestigiosi palchi internazionali, si è esibito davanti a sua Maestà la regina Elisabetta e con eleganza ha portato il jazz, da un milieu di estimatori, al cuore del grande pubblico.

In attesa del 28 agosto, data di uscita dell’ultimo intimistico album “All Rise”|“Tutti in Piedi”, scritto in collaborazione con il produttore Troy Miller e accompagnato da un coro di 10 membri e dagli archi della London Symphony Orchestra, possiamo iniziare a pregustare il sound del nuovo disco ascoltandone il primo estratto “Revival”. 

Una canzone che parla di rinnovo spirituale, che si abbandona ai gioiosi beat delle atmosfere gospel e che si lascia narrare in un video ad alto impatto emotivo. Diretto da Douglas Bernardt e interpretato dal ballerino Jemoni Powe, il video, nelle sue toccanti metafore, racchiude anche un velato messaggio politico. Un omaggio a un giovane uomo nero di Baltimora, Freddie Gray, caduto in coma durante il trasporto in un furgone della polizia e morto qualche giorno dopo.

Mentre sulla scena vediamo un ragazzo di colore, spaventato e oppresso dal mondo che lo circonda, rimpicciolirsi e ingrandirsi come un Alice in Wonderland sulla scia delle sue emozioni.

Solo nella gioia di inseguire il suo amore per la musica e la danza si salverà dalle sue paure. “Nella vita ci sono molte cose che ti buttano giù e che ti fanno sentire minuscolo, che si tratti di razzismo, mancanza di fiducia in sé stessi, precarietà o difficili situazioni economiche. In questa lotta tra oppressione e ricerca della verità come individuo, tutto sta nel trovare la fonte della propria forza, la stessa che ti farà ritrovare il coraggio di ritornare ad essere il gigante che ora sei”.

10 album da riascoltare in quarantena

La musica, si sa, é catartica, ci consola, ci rallegra, é una musa ispiratrice e anche un rifugio dove “nascondersi” nei momenti di nostalgia. E in questo periodo così difficile per il mondo intero, non possiamo far altro che consolarci ascoltando gli album che hanno fatto la storia e quelli che, invece, diventeranno dei cult. 

Ecco, quindi, una lista di 10 album in cui immergersi e che faranno da sottofondo alle vostre giornate in isolamento: alzate il volume del vostro dispositivo e abbandonate la negatività ascoltando l’album che più vi piace. 

Trovate anche il link per un ascolto “on the go” tra gli album che abbiamo scelto . 

Pink Floyd – Wish you were here (1975) 

É il nono album in studio del gruppo rock inglese Pink Floyd . Probabilmente dedicato a Syd Barrett ex membro della band, l’album esplora i temi dell’assenza , dell’industria musicale e del declino mentale di Syd. L’album ebbe subito  successo raggiungendo la prima posizione nella Billboard 200 per ben due settimane. L’album ci riporterà agli anni del progressive rock! 

The Beatles – Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (1967)

Ottavo album della band leggendaria , é considerato come uno degli album più importanti del ventesimo secolo . L’album si caratterizza per la complessità di stile, testi , contenuto, scelte creative e tecnologie utilizzate. Un’icona del cosiddetto periodo “psichedelico” , premiato con ben quattro Grammy Awards. Immergetevi nel fantastico mondo dei Beatles, 

George Michael – Faith (1987) 

É il primo album solista dell’ex membro degli Wham! , prodotto e scritto dallo stesso George Michael . É il tipico album anni ‘80 ascoltato anche dalle generazioni successive, divenuto un cult per la musica pop di quel periodo. Tra le hit più ricordate c’è “I want your sex”, chiaro riferimento a Prince per sonorità e ritmo.  Da ascoltare in modalità “chilling “ per i vostri momenti di relax. 

Frank Ocean – channel ORANGE (2012) 

É l’album di debutto del cantautore americano e si affaccia sul grande mondo della “black music” . Ricco di generi , l’album si presenta come un capolavoro della musica del suo genere, in cui a far da protagonista sono le parole, i testi quindi, e la sua voce. Perfetto per chi vuol immergersi nel sound “black” . 

Madonna – Confessions on a dancefloor (2005)

È il decimo album in studio della cantante americana che si discosta dal precedente, (American LIFE ). Le sue sonorità dance sono tipiche degli anni ‘70 e ‘80  con un occhio alla musica elettronica contemporanea. Strutturato come un DJ set , le tracce sono un continuum musicale : sono suonate continuamente senza interruzione. Le canzoni attraversano un viaggio : le prime sono allegre e divertenti per poi mutare in “oscure” con  testi che descrivono sentimenti e situazioni personali. Portate il volume al massimo e cominciate a ballare. 

Radiohead – OK Computer (1997) 

Musica sperimentale e testi astratti , questi i cardini del terzo album della band britannica m considerato dalla critica come uno dei migliori album rock di sempre. L’album diede una svolta grazie alla sua impronta rock alternativa , malinconico  e atmosferico . Un salto nel passato in cui la musica rock sveglierà i vostri animi. 

Rosalía – El Mal Querer (2018) 

É il secondo album dell’artista spagnola che scala subito le classifiche mondiali , diventando uno degli album più ascoltati di tutti i tempi. Il segreto ? L’artista mixa sonorità pop, r’n’b, folkloristiche in un complesso filo di musica sperimentale in cui la cantante ci porta in un viaggio che attraversa il ritmo del flamenco e delle sonorità spagnole , per approdare a un mix in cui la tradizione spagnola viene impreziosita da impronte contemporanee , elettroniche, tra le digitali. Perfetto per le giornate in cui vi viene voglia di ballare. 

Sade- Love Deluxe (1992)

Sonorità pop arricchite da un’impronta sfacciatamente jazz con un ritmo decisamente anni ‘90. 

Un album che scava a fondo l’animo umano , con le sue fragilità ma non solo: il disco declina tutte le sfaccettature dell’amore. Precursore di quello che poi avremmo chiamato “trip-hop” . 

L’album è da ascoltare in sottofondo a una cena, un momento speciale, grazie alle sue sonorità sensuali e non scontate. 

Lucio Battisti – Una donna per amico (1978) 

La sua musica risuona anche oggi, soprattto oltre oceano , in cui Battisti sembra essere uno dei simboli della musica italiana nel mondo . Il tredicesimo album di Battisti , è rimasto per ben quattordici settimane nel picco delle classifiche divenendo uno dei più grandi successi del cantautore. Da cantare a squarciagola , magari organizzando delle sessioni di karaoke in quarantena. 

Queen – A night at the Opera (1975)

Quarto album del gruppo musicale britannico, viene definito dalla critica come  l’album migliore della loro discografia”. Il disco abbraccia una varietà di stili musicali non indifferenti come ballate, music hall, hard rock, rock progressivo, inciso con vari strumenti come l’arpa, il banjo, l’ukuele. Non a caso viene inserito nella Grammy Hall of Fame grazie al suo successo planetario. Da ascoltare per chi ha bisogno di una carica esplosiva! 

“The artist is present”, Citazionismo da videoclip

L’arte “democratizzata”, diversamente accessibile e poliespressiva la ritroviamo, piacevolmente, anche tra le scelte di setting di molti musicisti che fanno del citazionismo artistico una scelta estetica per il background dei loro videoclip. 

Ecco una selezione di video “matching” per allenare l’occhio all’arte

DRAKE “Hotline Bling”

“Hotline Bling”, diretto da Julien Christian Lutz, in arte Director X, e coreografato da Tanisha Scott, è un video dallo stile minimale, ipnotico e a cromie grafiche. Il rapper canadese e i suoi ballerini si muovono e danzano in cangianti lightbox, spazi a ritmate policromie che si ispirano alle geometrie di luce dell’opera sensoriale “Breathing Light” di James Turrell. Un omaggio al visionario artista di Pasadina, esponente del movimento “Light and Space” in voga negli anni 60, che ha fatto della luce e della percezione visiva il materiale della sua arte.

JAY-Z “Picasso Baby”

Un video della durata di 11 minuti diretto dal regista statunitense Mark Romanek e girato nella Pace Gallery di Chelsea a Manhattan. Jay-Z si cala nei panni del performer, sceglie il tempio dell’arte contemporanea newyorkese come “stage show” e tra i visitatori coinvolti spuntano gli attori Taraji P. Henson e Alan Cumming, il rapper Wale, il filmmaker Judd Apatow, il critico Jerry Saltz e l’artista concettuale serba Marina Abramovic, alla cui celebre installazione “The Artist is Present” si ispira l’intero progetto performativo del videoclip “Picasso Baby”.

WHITE STRIPES “Fell in love with a girl”

Un video in stile “De Stijl” interamente realizzato con i Lego. Il gioco dei colori primari e delle loro geometrie rimanda visivamente alla corrente artistica del Neo-plasticismo e al suo fondatore Piet Mondrian. “Il rosso dei vestiti e della bocca, il giallo dei piatti della batteria e della cintura della chitarra, il bianco dei volti e il nero deciso di occhi e capelli, sono colori primari incastrati dentro strutture altrettanto “quadrate”: i cubi del Lego.”

BEYONCÈ E JAY-Z “Apeshit”

Un video “ad opera d’arte” diretto da Ricky Saiz e ambientato nella suggestiva cornice parigina del Louvre. La scena iniziale si apre nella Sala degli Stati dove Mr e Mrs Carter, ieratici e statuari dinanzi al quadro della Gioconda, ci accompagnano in un susseguirsi magnetico e conturbante di tableau vivant, cortocircuiti visivi e solenni capolavori. Da Beyoncè che balla in abito bianco ai piedi della Nike di Samotracia alle ballerine nude ispirate alle modelle di Vanessa Beecroft, dalla sfinge di Tanis alla Venere di Milo, dalla Pietà di Rosso Fiorentino al Ritratto di nera di Marie-Guillemine Benoist considerato un manifesto dell’emancipazione dei Neri e del femminismo.

KENDRICK LAMAR, SZA “All The Stars”

Colonna sonora del film della Marvel, Black Panther, e un video caleidoscopico curato dallo stesso Lamar sotto la direzione di Dave Meyers. Scene cinematografiche intrise di spunti artistici come la pittura dorata su fondo nero, timbro stilistico dell’artista britannica-liberiana Lina Iris-Viktor, la simbologia della cultura africana e un richiamo alle “Infinity Mirror Rooms” dell’artista giapponese Yayoi Kusama.

HOLD YOUR HORSES “70 Million”

“70 Million” è un giocoso video parodia che mette in scena una carrellata di 24 famosi quadri ironicamente interpretati dai sette membri del gruppo franco-americano: dalla Nascita di Venere alla Splendida Olympia di Manet, dalla morte di Marat alle serigrafie di Warhol.

KANYE WEST “Famous”

Il video è un “blow up” su un’installazione di 13 sculture di cera che rimanda, a sua volta, al dipinto “Sleep” del pittore realista Vincent Desiderio. La telecamera è fissa su un letto enorme e inquadra i corpi nudi e dormienti di altrettante statue-celebrities: Kanye West, Kim Kardashian, Taylor Swift, Rihanna, Amber Rose Donald Trump, Caitlyn Jenner, Bill Cosby, Ray J, Chris Brown, Anna Wintour, e George Bush. 

RIHANNA “Rude Boy”

Un video “urban” costruito intorno all’uso di greenscreen e diretto da Melina Matsoukas. Colori bright, forte mood anni ‘80 ed echi espliciti al mondo dell’arte contemporanea: dalla pop art di Andy Warhol passando per i graffiti di Keith Haring e alla foto scattata nel suo studio newyorkese da Annie Leibovitz fino ai simboli riconducibili alle opere di Jean-Michel Basquiat, come la celebre corona a tre punte.

Daniele Innocenti: la voce della Maremma

Conserva gli occhi birbanti e curiosi di un bambino, una lingua tagliente che cela a tratti un velo di malinconia, ma sopra ogni cosa una verve invidiabile con cui conquista tutti gli ascoltatori radio della Bassa Toscana. Passione si: per la musica e per i giovani che come ogni bravo pigmalione sa fare, consiglia nelle carriere e nelle mosse da intraprendere affinchè i loro sogni si realizzino. Daniele Innocenti, che delizia le serate della costa d’Argento nel suo affascinante format radiofonico Funk Shack, si racconta in esclusiva a Man in Town.

Agli albori della tua decennale carriera ti sei trasferito in Inghilterra. Parlaci di questa esperienza


Londra, non l’Inghilterra, che sono anni luce dall’essere la stessa cosa. E niente a che fare con la carriera quanto con l’inquietudine di un ragazzo di provincia che amava la musica alla follia (ero già un DJ ma sapevo che a Londra il massimo a cui potevo aspirare, perlomeno agli inizi, sarebbe stato un posto come lavapiatti ne solito ristorante italiano). E Londra era la musica, più di qualsiasi altra città al mondo. Una città che ha culturalmente, e sottolineo culturalmente, la musica pop nel suo DNA. 

Anche solo leggere la stampa specializzata (NME, ad esempio) mi comportava una goduria quasi fisica. Ho imparato l’imparabile. E soprattutto ho imparato a rispettare il pop, a comprenderne i complessissimi meccanismi che lo rendono imprescindibile dai tempi, dai costumi e dalla cultura di ogni epoca. E ovviamente veneravo la radio, di cui ero assolutamente drogato: la BBC nella fattispecie, e i suoi leggendari fuoriclasse, da cui ho imparato a calibrare ogni singolo respiro lavorando non solo sul tono della voce ma sui tempi, sui silenzi e, a rischio di suonare ampolloso, sulla psicologia. 

Londra è stata anche il primo impatto di uno “small town boy” con una comunità gay vastissima (che sino a quel momento non mi ero neppure mai sognato che potesse esistere), con la militanza (Act Up), una nightlife che mi avrebbe reso un vero e proprio castigo frequentare locali una volta rientrato alla base (il gap con la vita notturna italiana non è robetta) e certo che si, il sesso per il sesso: sempre, ovunque, in quantità industriale, per misurarmi con la mia fisicità, compresi i limiti, e acquisire una consapevolezza di me e del mio corpo che mi ha semplicemente stravolto la mia vita. Sono tornato scheletrico ma con due spalle di granito.

Cosa consiglieresti a un giovane appassionato di musica che sogna di fare lo speaker radio?
Consiglierei di prepararsi tecnicamente, musicalmente, e culturalmente. Non diventi farmacista senza una specifica, solidissima preparazione. E non vedo perchè dovrebbe essere altrimenti per una professione bella, importante (e difficile!) come quella del DJ: Ecco, questo gli direi: è un lavoro bellissimo. Ma non così facile come pensi. Se è un hobby, ok: fallo come vuoi. Ma per farlo diventare una professione, preparati.  E preparati duro.

Sei anche un event planner: cosa serve per realizzarne uno di successo?


Dipende dal tipo di eventi. La mia formulina magica però è sempre stata quella che io chiamo delle tre T: tradizione, trasgressione e un pizzico di trash. Naturalmente un po’ di maestria nel mescolare gli ingredienti male non fa.

Cosa rende Orbetello così magica?


Orbetello è un inferno, una gabbia, una riserva indiana per quell’inquietudine giovanile di cui ti parlavo poco fa. Ma una specie di piccolo paradiso in terra quando tutta quell’euforia, quella curiosità, quella smania di vita si tramuta in qualcos’altro. Magari grazie alla maturità, a quel po’ di senso di sfinimento che a un certo punto inevitabilmente subentra quando hai navigato nella tempesta più che abbastanza.

Quello che a me personalmente la rende irrinunciabile è il contatto ipnoticamente quotidiano con la natura: gli aironi, i gabbiani, il verde, la laguna, la spiaggia, gli odori. Certo, sotto un aspetto professionale o creativo, non è la Mecca. E a volte è semplicemente una rottura di palle ammorbante. Ma più in generale è il posto perfetto dove approdare quando decidi che è ora di vivere in pace.

Ti vediamo impegnato nel salvare le vite di decine di gatti ogni giorno. Una cosa ammirevole. Da dove nasce la passione per gli animali? 

Se qualcuno me l’avesse detto qualche tempo prima gli avrei riso in faccia. E’ stata una svolta totale, assoluta, definitiva: diventare un operatore volontario nel randagismo felino mi ha tramutato in un altro uomo. Non so da dove è nata questa cosa, ma so cos’è stata.

E’ stato il dire finalmente basta ad essere io stesso il centro delle mie attenzioni. E’ stato il dedicare una parte della mia vita a qualcosa che è altro da me. E’ il passare nel giro di poche ore dal chiasso, il glamour, la magia degli amplificatori, della bella gente, dei drink, dello sballo, della sensualità ad un marciapiede sudicio, faccia a faccia con delle creature in seria difficoltà, ormai ridotte a vivere in un contesto che è strutturato per essergli perfettamente ostile.

Su di me ha avuto un effetto sconvolgente: meno soldi, meno ore di sonno, meno abiti carini, meno di tutto quello che mi piaceva, ma finalmente un bel senso di tranquillità con cui andare a dormire. Fortemente consigliato.

Progetti attuali e futuri?

Niente progetti. Un infarto importante come quello che ho subito qualche settimana fa ti sbatte in faccia tutta la tua vulnerabilità. E a questo punto, l’unica cosa che mi viene voglia di progettare è un modo per poter continuare ad occuparmi dei miei gatti, di Funk Shack, degli amici, delle cose belle della mia vita quanto più a lungo possibile. Soprattutto non dandola così per scontata, la vita. Visto che evidentemente non lo è.

Sei appassionato di Motown e anni Settanta. Cosa ti lega a questi periodi?

Innanzitutto l’amore per la musica black. Il primo album che ho comprato con la paghetta di papà quando ero realmente ancora un bambino, a costo di terribili rinunce tipo il cinema e il gelato la domenica pomeriggio con li amichetti, era di Joe Tex.

Ma nello specifico, la Motown per me è riscossa, riscatto. Giovani artisti, belli e incredibilmente talentuosi a cui però non era concesso l’uso del bagno nei locali in cui si esibivano perchè neri. Salvo poi diventare nel giro di due o tre anni le megastar ultra glamour che tutti veneravano, che radio e tv si contendevano, e che i ragazzi americani (finalmente anche quelli bianchi) imitavano. La quintessenza della riscossa.

Certo, da appassionato di produzione da un punto di vista prettamente tecnico e artistico, credo che la leggendaria parabola Motown costituisca l’apice massimo mai raggiunto in termini di genio creativo e innovativo dell’intera storia della musica moderna. A mio parere (ma non solo mio) ancora lì, imbattuta e imbattibile.

Lasceresti un verso di una canzone per i nostri lettori?

Certo che si: “proprio come faceva Pagliacci – cerco di nascondere la mia tristezza – sorridendo in pubblico mentre da solo in una stanza piango – le lacrime di un clown quando nessuno lo vede”. Tutto il senso dell’essere artista in una delle mie preferite in assoluto: “The tears of a clown” di Smokey Robinson.

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TECHNO ISTRIANA: L’ESTATE CROATA

La Croazia rappresenta la destinazione ideale per chi è alla ricerca di angoli naturali incontaminati, una tradizione culinaria semplice e gustosa concentrata soprattutto sulle pietanze di pesce fresco, ma anche selvagge notti di clubbing. Lo stato balcanico infatti sempre più sta acquistando credibilità per la scena musicale, in particolare quella elettronica e techno, sia da club sia da festival. Partiamo con le nostre music pill segnalando un club sensazionale, il Klub Deep di Makarska. Il cafè si trova in una grotta in prossimità della spiaggia vicino alla città portuale della costa dalmata: una location spettacolare dove si alternano dj set e performance di notevole qualità artistica. Questo il tip per chi ama rilassarsi.

Per chi ama invece muoversi fino all’alba a ritmo di bpm spinti “tra mille bolle blu” la Croazia è certamente il place to be. Il festival Dimensions è sicuramente un valido motivo per mettersi lo zaino in spalla e partire all’avventura musicale. Ha luogo nei pressi delle spiagge istriane di Pula in un anfiteatro di origine romana. A Forte Punta Cristo dal 28 agosto al 1 settembre 2019 leggende del calibro di Jeff Mills, Joy Orbison, Mr Scruff si alterneranno on stage mandando i clubber su di giri. Sempre a Pula, a settembre però (dal 4 al 9), un nuovo sound allestito per l’outlook Festival, che orbita attorno ai generi drum & bass e dubstep, dunque più old school. I soundsystem di Shy Fx e Andy C saranno pronti ad accogliervi. Tornando alla techno segnaliamo Sonus Festival, dal 18 al 22 agosto a Novalja: due mostri sacri come Chris Liebing e Richie Hawtin saranno gli headliner, nient’altro da aggiungere. Qualche style tip per il festival? L’outerwear recycled per essere i più hype della spiaggia innanzitutto! Exkite realizza impermeabili utilizzando tele di kite riciclato dalle tonalità accese che compongono geometrie ipnotiche. Ai piedi le Air Max High Voltage frutto della collabo tra  DJ Sgamo e il team DCJ. Infine sopra la Hoodie di Neighborhood, stilosa al punto giusto. E voi cosa aspettate a prenotare il vostro biglietto?

 

 

 

 

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INTERVIEW: INFINITY INK

 

Infinity Ink è un progetto nato grazie all’unione di Ali Love e Luca Cazal, amici da ormai 20 anni e collaboratori da 8. Il duo ha lavorat con pezzi grossi del panorama musicale urbano, e hanno registrato il loro album presso vari studi di Londra, Ibiza e Toronto. In occasione del rilascio di House of Infinity, qui in pre-order , li abbiamo intervistati.

Com’è nato il progetto Infinity Ink?
Abbiamo iniziato a fare musica insieme intorno al 2001, praticamente appena ci siamo conosciuti. Il sound era abbastanza diverso a quel tempo, era più un pop orientato all’italo/synth, abbiamo affrontato diverse incarnazioni della band e abbiamo anche continuato i nostri progetti personali fino al 2009, quando abbiamo poi iniziato a farci conoscere come Infinity Ink.

Come descrivereste il vostro sound e le vostre influenze?
Crediamo che il nostro sound sia un mix di diversi stili come House, Disco, Funk, Soul ecc. Ciò che ci differenzia dagli altri gruppi del nostro genere è che spesso ci approcciamo alla musica da un punto di vista di scrittura, invece che da quello di un DJ/Producer, grazie anche al nostro passato da musicisti.

Avete registrato House of Infinity a Londra, in Canada e ad Ibiza, quanto sono state importanti queste tre città per il vostro background?
Londra è la città dove ci siamo incontrati e dove è iniziato il progetto Infinity Ink. Per quanto mi riguarda, è la città più attiva e con più ispirazione del mondo per la musica elettronica, è dove abbiamo incontrato la maggior parte dei nostri colleghi e conosciuto i primi contatti che abbiamo nel mondo della musica. Solamente uno di noi due vive ancora li, ma è dove il progetto ha sede.
Entrambi partecipavamo a dei rave ad Ibiza, prima che nascesse Infinity Ink, quindi quando le cose sono iniziate ad andare bene e ci hanno chiesto di tornare, era come un sogno che diventava realtà.
Siamo stati i primi a fare unvocal setlive aDC10 e abbiamo avuto una residenza al Paraside dal 2011.
Luca si è trasferito definitivamente lì nel 2016 e ha dato vita a uno studio dove si sono svolte molte registrazioni. Ibiza è la nostra seconda casa, abbiamo una connessione profondissima con l’isola e chi ci abita.
Toronto occupa una posizione più recente nella nostra storia, la fidanzata di Luca è di lì e negli ultimi anni ci ha passato sempre più tempo, conoscendo produttori locali e lavorando in studi fantastici che hanno rappresentato gli ultimi ritocchi all’album che abbiamo registrato.

Uno di voi due è italiano, quando è stata importante la musica italiana nel vostro sound?
Una delle prime cose che ci legava era l’amore per i dischi italiani degli anni settanta e ottanta. L’Italia a quel tempo stava producendo musica che è diventata un’influenza importante negli anni successivi, diciamo che senza l’Italo Disco, l’House sarebbe completamente diversa oggigiorno. Il sound italiano era molto più fruttuoso prima rispetto ad ora, ma è comunque stata una grandissima ispirazione.

Avete suonato in grandi eventi come Glastonbury, CRSSD Festival and DGTL. Vi vedremo in altri grandi concerti, magari in Italia?
Luca si è ritrasferito in Italia e abbiamo spostato il nostro studio nella provincia di Alessandria, quindi registreremo sicuramente nuove tracce li, mentre per quanto riguarda gli eventi non ne abbiamo ancora programmati in Italia.

House of Infinityvanta collaborazioni con dei pezzi grossi delNYC underground comeMr. V and eLBee BaD, come descrivereste queste collaborazioni?
Quando abbiamo iniziato a realizzare l’album mi sono messo in contatto con alcuni artisti con cui avremmo voluto collaborare. Dato che siamo stati dei fan della loro musica per moltissimi anni, ho contattato Victor ed Elbee, a loro è piaciuta l’idea, ho mandato dei pezzi e abbiamo realizzato le tracce molto velocemente, è stato un onore avere le loro voci nel nostro album.

Quali sono i vostri progetti?
Stiamo producendo un nuovo singolo e un remix di House of Infinity, che includerà dei remix realizzati da alcuni dei nostri artisti preferiti. Ci saranno inoltre dei progetti autonomi da parte di entrambi.

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MAN IN TOWN TALKS: SEM & STENN

LICK EVERYTHING

Sem&Stenn

Art Direction Simone Botte – Mua Silvia Acquapendente – special thanks to RAB (C.so San Gottardo)

1) Sem&Stenn, si conoscevano anche prima del talent show, tra gli alternativi, quanto è servito Xfactor alla vostra carriera musicale?

È servito a far conoscere quello che facciamo e chi siamo ad un pubblico molto più ampio ma non ha cambiato la nostra natura. Scriviamo, produciamo, pensiamo esattamente come prima.

2) Coppia nella musica e nella realtà, cosa di questo vi aiuta ad andare avanti?

Il nostro rapporto è sicuramente qualcosa di raro, ha aiutato e continua a farlo. Siamo due teste diverse ma che insieme raggiungono sempre un punto più alto di quello che potremmo fare da soli.

3) Il vostro stile, lo avete studiato a tavolino o è spontaneo?

Non indosseremmo mai qualcosa che non ci piace, è più una cosa istintiva: “mi piace, lo metto” Non ci sono ragionamenti più complicati di questo.

4) Avete un suono tutto vostro, parlateci delle vostre influenze e i vostri idoli..

Ci ispirano molto gli artisti che fanno un po’ quello che vogliono come Charli Xcx Tove Lo Tommy Cash Sophie e simili.

5) Siete due bravi ambasciatori dei diritti e dell’amore libero, come vi ha accolto la comunità LGBT?

C’è sempre chi ti ama e chi ti detesta. Anche nella comunità lgbt. Ma questo non influenza il nostro attivismo perché è motivato da valori in cui crediamo realmente. E continueremmo a farlo anche se fossimo soli.

6) News e anticipazioni su un qualcosa che avete in cantiere?

È una fase creativa, stiamo ore e ore in studio a scrivere. Vogliamo che i nuovi pezzi suonino avanguardisti.

7) Un consiglio alle nuove generazioni di musicisti?

Di percorrere strade nuove perché è il solo modo di lasciare il segno

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MACAN MUSIC WALL: LA MUSICA E’ UN VIAGGIO INFINITO

È uno dei più importanti appuntamenti musicali dell’anno in quella che, per una settimana, sarà la capitale italiana della musica. Succede dal 19 al 25 novembre con Milano Music Week, sette giorni di incontri, concerti, mostre, open day, formazione, con la musica come protagonista assoluta.
Per l’occasione è l’opera di arte pubblica di Porsche Italia ispirata alla nuova Macan ad essere stata scelta per inaugurare la Milano Music Week. Con il suo straordinario impatto visivo, Macan Music Wall parla il linguaggio delle emozioni attraverso la musica. Perché “Music is a neverending journey” a bordo della nuova Porsche Macan.

Nel primo giorno dell’evento, lunedì 19 alle ore 12.00, questo grande happening verrà inaugurato in via Troilo, in zona Navigli, proprio di fronte al Macan Music Wall – “Music is a neverending journey”, il murale di 400 metri quadri che Porsche Italia ha voluto regalare alla città di Milano dedicandolo all’universo della musica, con un viaggio virtuale attraverso i generi e gli strumenti musicali. Lo ha fatto prendendo spunto dalla nuova Macan, un’auto che rappresenta la libertà di vivere fino in fondo le proprie emozioni. L’opera, realizzata dal collettivo di artisti Orticanoodles, vede come soggetto principale un cuore umano, simbolo di vita e di emozioni, posto al centro di un cosmo fatto di musica. È dal cuore che, come in una mappa stellare, partono le suggestioni, i flussi, le tendenze, ed è intorno ad esso che ruotano pianeti, che rappresentano i diversi generi, e vivono le costellazioni, disegnando gli strumenti musicali e i simboli della community che la musica crea.
La spettacolarità dell’opera, che arricchisce la parete interamente ripristinata di un palazzo nel cuore della movida milanese, non si esaurisce nella rappresentazione artistica piena di forme e colori che si può ammirare alla luce del giorno: l’utilizzo di speciali vernici fluorescenti rende l’opera visibile anche nel buio della notte, dove la sua essenza onirica si esprime con l’intensità e la magia di un cielo stellato.
La musica come viaggio infinito non è solo il titolo del murales. Per vivere un’esperienza artistica assoluta, sul canale Spotify di Porsche Italia è possibile accedere all’esclusiva playlist “Music is a neverending journey”.

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BURNING MAN 2018: IL DIARIO DEL FESTIVAL VISTO E RACCONTATO DA RAFFAELE MARONE

Sailors fighting in the dance hall
Oh man, look at those cavemen go
It’s the freakiest show …

Ho iniziato citando un verso di una hit del leggendario David Bowie perché ogni volta che torno nel deserto del Nevada per il Burning Man la canzone “Life on Mars” risuona nelle mie orecchie. Per più di una settimana (dal 25 agosto al 3 settembre 2018), stavolta parafrasando il mondo della celluloide, mi è sembrato di vivere dentro “Mad Max”.

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Lo spirito dell’evento è una sorta di esperimento sociale dove ognuno è libero di poter esprimere sé stesso, un campeggio vero e proprio che dura una settimana, senza nè soldi né connessione con il mondo esterno: ci sono i burners e la sabbia, punto.

Partecipare al Burning Man è un’esperienza incredibile, magica, ti aiuta a conoscere meglio il tuo essere e a sviluppare la nostra spiritualità. La vera occasione per tirare fuori il nostro lato più vero, senza limiti e regole.

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Tornando a cosa fare:

1 – Perdersi tra le installazioni d’arte: ce ne sono a centinaia nella Deep Playa… E’ un’esperienza unica. ce ne sono talmente tante che probabilmente non sono riuscito a vederle tutte.

Ricordo questa bellissima finestra in mezzo al deserto con della musica che suonava da un impianto sotto la sabbia. Accompagnata a questa musica da film di fantascienza si sentivano delle voci, delle telefonate di una coppia di amanti, quindi immaginatevi la scena e la potenza visiva di questa opera: sono rimasto ad osservare ed ascoltare per mezz’ora, sdraiato nel deserto a godermela tutta.

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2 – Il Sunrise delle 6 del mattino al Robot Heart, l’art car per me più bello ed emozionante di tutta la Playa. Un vero e proprio carro mutante, ovvero una vettura trasformata nei modi più creativi, dove dal tramonto alle 9 del mattino suonano i migliori DJ al mondo e fanno ballare centinaia di persone con la loro musica. Ce ne sono molte di art car che suonano ma questa è la mia preferita. La riconosceresti tra mille grazie a questo cuore gigante dove i burners possono salire, arrampicarsi e ballare in cima a 10 metri di altezza.

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Tutti aspettano il tramonto, il deserto si trasforma in dancefloor tra balli e lacrime di commozione.

3 – La visita al tempio è obbligatoria, ogni anno ne costruiscono uno nuovo e diverso dal punto di vista estetico. L’energia che circonda quel posto è talmente forte che molti burners restano li per ore a meditare o semplicemente a rilassarsi, talmente magnetico che non lo lasceresti più. Alcuni addirittura ci dormono invece di tornarsene in tenda o in camper.

Dentro il tempio puoi liberarti da tutti i tuoi pensieri, puoi scrivere lettere e appenderle, puoi scrivere di persone che ami o che odi. semplicemente scrivere di te con pennarelli che trovi dentro. Appena si entra c’è la scritta FREE YOUR SELF e migliaia di foto di burners appese. 

Molte dediche a persone scomparse, addirittura anche per cani e gatti, migliaia di pensieri e ricordi scritti sul legno e fotografie lasciate li, che aspettano di bruciare l’ultimo giorno del burning man. Ovviamente si piange dall’inizio alla fine. Pianti liberatori che a volte ci dimentichiamo come fare “nella vita reale”.

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4 – La meditazione di gruppo è una della cose che consiglio maggiormente. Un’ora di meditation in tenda, sdraiati su tappeti e cuscini e accompagnati da musica dal vivo. Non pratico nè YOGA nè MEDITAZIONE a Milano, ma al festival era la mia attività preferita durante il giorno.

Ricordo questa medizione al camp “Galactic Jungle”: più di 300 persone e come guest Dj Acid Pauli, che accompagnava il tutto con la sua musica. Un vero e proprio viaggio sensoriale. 

  

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5 – La cerimonia finale è incredibile, bruciano l’uomo del burning man, il simbolo di questa utopia che regna per una settimana in una città che non esiste il resto dell’anno. Anticipata da balli e acrobazie compiute da artisti del fuoco, culmina con l’incendio, dura più di un’ora e tutta la comunità (70.000 persone) si stringe per celebrare la fine della settimana più bella dell’anno. Si urla “happy burn” e applausi accompagnano la celebrazione finale: il fuoco è molto alto e riscalda tutti i presenti, la musica degli art car è sempre presente e alla fine di tutto questo sono tutti pronti per vivere l’ultima magica notte prima di tornare alla “vita reale”. Come scritto su un cartello nel mezzo della playa:” WAS JUST A DREAM” (Era soltanto un sogno, ndr).

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Dalla lirica al cinema, a tu per tu con Mario Acampa.

Mario Acampa (classe 1987) un percorso tra musica, fiction, teatro e cinema. Un personaggio dai molti talenti e grandi passioni, come l’opera lirica (nel 2015 firma la sua prima regia del Il piccolo Principe) per poi scrivere e dirigere nel 2017 il primo Opera Show al mondo “La vestale di Elicona” in cui si intrecciano opera lirica, balletto, prosa, musica dal vivo e arti visive. Dopo numerosi ruoli nelle fiction italiane accanto a Luciana Littizzetto, Marco Giallini, continua la sua formazione tra New York e Los Angeles e, grazie al suo curriculum internazionale, vola a Budapest sul set di Ron Howard accanto a Tom Hanks nell’ultimo film “Inferno”. A giugno vedremo Mario Acampa nel film Ulysses dove recita insieme alla star americana Danny Glover (tra gli altri protagonista in Arma Letale), a Dark Odyssey. Abbiamo incontrato Mario a Milano, dove è stato modello per un giorno, per scattare la collezione di Antonio Marras che lo ha vestito per il suo nuovo programma di Sky Classica Tao Tutti all’Opera.

Sei attore internazionale in teatro, cinema e tv, e conduttore. Se dovessi scegliere, qual è la cosa ti appassiona di più?
E’ difficile per me decidere cosa mi appassiona di più, ho sempre sentito sin da piccolo l’esigenza di comunicare e di farlo attraverso l’arte. In alcuni momenti ho pensato di farlo meglio con un solo mezzo, ma la verità è che ho capito che mi piace alternare il teatro, il cinema e la tv e la scrittura. Sono strumenti molto diversi tra loro, ma alla base c’è come minimo comune denominatore la stessa voglia di esprimermi e di suscitare emozioni e riflessioni in chi mi ascolta o mi guarda e insieme a loro c’è la voglia di provarle anche io! Il teatro ha la potenza del pubblico dal vivo ed è un’ incredibile palestra, ma se ti sforzi di sentire la presenza del pubblico anche sul set e se ricerchi la verità dei personaggi che interpreti, capisci che ogni occasione per fare arte è semplicemente una benedizione e va vissuta come tale e con lo stesso impegno e curiosità.

Sei anche laureato in legge. Quando hai capito che il mondo dello spettacolo sarebbe stato il tuo lavoro?
Da piccolo ero ferrato nelle imitazioni e poi ho sempre cantato, recitato, ballato, presentato. Durante gli anni del liceo mi sono iscritto a un corso di teatro a scuola e lì ho capito che avrei voluto continuare a fare arte e soprattutto che mi faceva stare bene. Poi giunse il momento di scegliere cosa fare dopo il liceo. I miei genitori non erano affatto favorevoli alla carriera artistica in modo esclusivo, così decisi di iscrivermi a Giurisprudenza perché è una materia che mi ha sempre affascinato. La legge è intorno a noi ed è alla base della nostra vita sociale e ne è espressione, per certi aspetti come l’arte! Poi mentre frequentavo l’università il richiamo del teatro si è fatto più forte, ho fatto una scuola e poi sono diventato Primo attore allo Stabile Privato di Torino. Lo sono stato per 7 anni e da lì è partito tutto. La Rai, il cinema…

Hai lavorato in Italia, ma anche a New York e Los Angeles. Come è stato entrare in personaggi che parlano una lingua straniera?
Recitare in inglese per me è esattamente come recitare in italiano, il lavoro che faccio sul personaggio è lo stesso e ho imparato che la lingua non è mai un ostacolo per l’arte, perché va dritta al cuore. Ho iniziato a studiare inglese da piccolo, mi piaceva sapere il significato delle mie canzoni preferite. E poi ho cominciato a vedere i film e le serie in lingua originale. Non pensavo che sarebbe mai stato utile conoscere l’inglese per il mio lavoro di attore, e poi ho incontrato a Roma la mia actor coach americana che mi ha consigliato di andare a Los Angeles e appena ho potuto sono volato in America. Dopo poco ho firmato col mio manager attuale proprio ad Hollywood e il sogno è diventato realtà. Essere sul set con Tom Hanks diretto da Ron Howard o con Danny Glover è stato incredibile.

Negli Stati Uniti è in uscita il film “Ulysses”, girato a Torino, a fianco di Danny Glover. Com’è il tuo personaggio, il dio Hermes?
Di sicuro il dio Hermes è stato il ruolo più intenso e complicato che io abbia mai fatto. In questa rivisitazione dell’Ulisse, Hermes è un transessuale con un passato di abusi e violenze. Il suo rapporto con Eolo è di schiavitù mentale e fisica. Ho cercato di entrare nel personaggio senza giudicarlo, senza provare pena o compassione o distacco, ma solo cercando di ricostruire nella mia testa tutti i tasselli che l’hanno portato a diventare ciò che è. Alla fine ci ho ritrovato gli stessi sogni di chiunque altro, le stesse paure. E così quell’Hermes che mi aveva tanto spaventato in prima lettura, è diventato una parte di me, quella parte che cerca di vincere, di lottare per i propri ideali e di riconquistare la propria libertà anche a costo della vita, ma con la convinzione di riscattarsi contro l’ingiustizia. Io lo trovo avvincente. Poi di sicuro essere accanto a star di Hollywood come Danny Glover (arma letale), Udo Kier e Skin è stato un grande stimolo. Sapere che la mia interpretazione sia stata definita “inspiring” e cioè ispiratrice di forza ed energia è meraviglioso. Spero che sia così per tutti gli italiani che dal 14 giugno andranno al cinema, così come per gli spettatori in tutto il mondo.

Quali sono gli attori a cui ti sei ispirato nella tua carriera decennale?
Se posso dirtene un paio direi Totò ed Eduardo De Filippo. Il primo perché mi ricorda quando mio padre da piccolo mi leggeva “A Livella” di Totò interpretandola, è stato forse mio padre il primo ad avviarmi all’arte senza saperlo! E poi Totò era uno spirito libero, che lasciava entrare la sua essenza in tutto ciò che faceva. Vorrei avere un briciolo della sua personalità. E il secondo, De FIlippo, perché credo rappresenti esattamente ciò che significa “tragicommedia della vita”. Eduardo riesce a far pensare, ridere e piangere allo stesso tempo e questo credo sia ciò che deve fare un buon attore se vuole rappresentare la realtà.

Ora sei in onda su Sky con il programma “Tao Tutti all’Opera”, in cui indossi gli abiti di Antonio Marras. In quali tratti della collezione ti rispecchi di più?
Antonio Marras ha capito esattamente lo stile che volevo dare alla trasmissione e ne rappresenta lo spirito. Personalmente mi ritrovo molto nel risvolto sorprendente dei suoi outfit, in una camicia bianca c’è sempre un dettaglio che ti colpisce e che ti lascia sospeso. Oppure nei completi, dalla vestibilità e dal taglio ipermoderno, ma con zip inaspettate e nello stesso tempo con tessuti della tradizione. Per questo Marras esprime esattamente il concept di TAO- Tutti all’opera, e per questo sono felice di indossare le sue creazioni. Antonio è carnale nei suoi abiti e non ha paura di lasciare il segno proprio come vorrei facesse TAO, una trasmissione pensata per divulgare l’opera lirica anche a chi non è un esperto. L’opera ha origini popolari e come tale deve arrivare a tutti. Ho cercato di lasciare la tradizione rivisitandone i modi, proprio come fa Marras con i suoi vestiti. E poi siamo alle OGR di Torino, un posto meraviglioso in cui prima si riparavano treni e oggi sono Officine di arte e cultura.

Nella vita di tutti i giorni, invece, che stile prediligi?
Amo la comodità, i pantaloni con le pence a vita alta dalla vestibilità over, le tasche alla francese, le t shirt con i dettagli ricercati, le camicie bianche, le scarpe colorate, le valigie e le borse in pelle consumata, gli occhiali. E poi le giacche in tartan, i cardigan bon ton, le righe larghe e i cappeli a falda larga. Insomma credo di essere uno spirito libero anche nel vestire; non mi piacciono le categorie e le linee di demarcazione. Lascio che i vestiti “cadano” sul corpo, come si dice, così come lascio che gli eventi mi sorprendano.

Che ruolo hanno i social network nella tua professione?
Nella mia professione credo che i social abbiano lo stesso ruolo che hanno per tutti gli altri, cioè sono un amplificatore del nostro ego. Quello che decidiamo di mettere in mostra è una scelta non solo di stile, ma anche di consapevolezza di sè. Ciò che pubblichiamo è spesso filtrato dalla nostra razionalità e non è sempre un bene, perché non sempre arriviamo agli altri come vorremmo o come crediamo razionalmente. Io personalmente come si può vedere, non ho filtro, posto sui miei social esattamente ciò che mi accade quotidianamente e mi espongo per ciò che sono. Mi fa stare bene perché non voglio prendere in giro chi mi segue. Mi piace condividere i miei momenti belli e brutti con chi sostiene ogni giorno il mio sogno e mi dà la possibilità di farlo con un applauso o guardando una mia trasmissione o un mio film.

Un sogno nel cassetto? E prossimi progetti
Per ora sogno un tiramisù gigante, un film con un ruolo folle, una trasmissione in radio o tv dove posso cantare e presentare e giocare come faccio nella vita, una pizza infinita, e la pace nel mondo. Dici che fa troppo Mr. Italia?In cantiere ci sono tante cose belle, tornerò in teatro a breve con uno spettacolo sulla vita di Nureyev che ho scritto e diretto “Processo a Nureyev” e poi mi aspetta ancora TAO per un’intera stagione su Sky e poi vedremo…

 

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Photographer Davide Bonaiti

Mario Acampa veste Antonio Marras.

Sananda Maitreya

A tu per tu con Sananda Maitreya, parlando di musica, moda e vita.

Hai scelto da solo come chiamarti. Cosa significa per te questo cambiamento?
Il cambiamento di nome significava una nuova opportunità per ottenere un nuovo karma! Avevo fatto tutto ciò che potevo con l’identità precedente ed era diventato chiaro che, a tutti gli effetti, non rappresentasse chi fossi. È sempre stato di fondamentale importanza per me essere un uomo libero. Io sono un sognatore, non uno schiavo. Sapevo che avrei avuto bisogno di essere libero, per realizzare ciò che sentivo fosse la volontà del cielo per il mio lavoro su questo pianeta che Dio ama. Sananda Maitreya lavora per Dio, punto. Non sono mai stato troppo legato a prendere ordini da quelli che non potevano vedere la mia visione così chiaramente come me. L’industria possedeva la mia vecchia anima, quindi con preghiere e molte meditazioni, è stato deciso che avremmo creato una nuova identità e messo la nostra fiducia e fede nei pieni poteri del mio sogno.

Sei stato un pugile professionista e poi una superstar della musica soul, conosciuto come Terence D’Arby. Cosa ti porti dietro da queste esperienze passate?
La mia esperienza come pugile ha confermato i miei istinti da guerriero. Anche se non è mai stata la mia professione, sono stato un campione Golden Gloves nella mia giovinezza. Questo sport mi ha insegnato che non ero una femminuccia. Ho anche imparato il valore della disciplina, la dedizione, la passione. Tutte qualità che mi avrebbero aiutato a sopravvivere a questi anni pazzi da “superstar”, mentre stavo diventando un uomo desideroso di assumermi la responsabilità della mia stessa vita.

Come descriveresti il tuo sound in tre parole?
Tre parole? ‘D’, ‘LISH’, ‘US’!

Come sviluppi il tuo processo creativo? Quali sono le tue fonti di ispirazione?
Il mio processo creativo è semplice, seguo le maree. Quando vengono le idee, uso la mia esperienza, l’immaginazione e i miei talenti per esplorare dove vuole andare l’idea. Non ho mai dettato all’ispirazione, voglio che l’idea mi porti dove vuole andare. È tutta una questione di meditazione. Ti alzi, fumi, preghi, lavori. Per tutto il tempo sono grato persino di avere un lavoro da contemplare. E un altro semplice trucco per lavorare è lavorare sempre. Sono un workaholic e abbastanza orgoglioso di esserlo. 

Quali artisti ti hanno aiutato a dare forma alla tua musica?
Wow, questa è una domanda ricca perché sono stati tanti! Principalmente i grandi cantautori e produttori. Sono stato per lo più influenzato da coloro che erano responsabili di come la loro musica meritava di essere, dal momento che era evidente che fossero padroni dei loro doni. Rod Stewart, James Brown, The Beatles, The Stones, Jimi Hendrix, Sam Cooke, Frank Sinatra, Hank Williams, Nat King Cole, Ray Charles, Led Zeppelin, Joni Mitchell, Stevie Wonder, Prince, Abba, Miles Davis, Duke Ellington, Elvis, Cream, The Who, Marvin Gaye, Al Green, Steely Dan Aretha Franklin, Patsy Cline e ancora molti altri.

Come è cambiata la tua musica con l’avvento di Internet?
Internet era un futuro che avevo previsto già nei primi anni ’90 come la mia salvezza e il mio cammino verso la libertà. Ma attenzione, paghiamo un pedaggio pesante per viaggiare sulla strada della libertà. Tuttavia era un prezzo che ero disposto a investire perché ho visto Internet come il mezzo che avevo sognato per anni, un luogo in cui potevo essere libero di essere il più creativo possibile senza non dovermi più preoccupare di qualsiasi altra considerazione se non di ciò che meglio si adattava all’arte.

Com’è il tuo rapporto con i social media? Hanno un ruolo importante nella tua carriera?
Sì, i social media giocano un ruolo immenso nella mia relazione con persone che hanno una mentalità simile alla mia. La mia musica è stata supportata fin dal primo giorno da una generazione di fan entusiasti di essere coinvolti nella mia evoluzione e progresso nel mio viaggio nello spazio/tempo come artista. È stato fantastico fin dall’inizio. Era quello che stavo cercando. Adoro la flessibilità che dà. Il contatto diretto è più intimo.

Com’è il tuo rapporto con la moda?
Il mio rapporto con la moda sta migliorando!

Suoni e ti esibisci con diversi strumenti, come unisci tutti questi per creare nuovi suoni?
Riesco a creare nuovi suoni fidandomi di ciò che sto facendo mentre lo faccio. Se lo sento, allora ho fiducia in quello che sento e poi semplicemente seguo il processo. È istruttivo ricordare che non devi conoscere cosa stai facendo, fintanto che ti diverti a farlo. Qualunque cosa stia facendo si rivelerà sempre abbastanza presto, se non ora.

Quali sono i tuoi progetti futuri?
I miei piani futuri sono di continuare a promuovere “PROMETHEUS & PANDORA” con alcuni concerti nella prossima estate e di godermi il tempo che ho, essendo sposato con una donna meravigliosa e con i nostri due figli favolosi. La maggior parte dei miei più cari amici in campo musicale sono ormai deceduti. Riesco spesso a sentire i loro fantasmi che mi ricordano di apprezzare tutto questo di più. Quest’estate inizierò a celebrare il fatto di essere sopravvissuto per oltre 30 anni alle varie fasi di notorietà che ho incontrato. Sarò lieto di essere accompagnato dalla più talentuosa e amabile Luisa Corna.

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Photographer: Manuel Scrima
Stylist: Veronica Bergamini
Grooming: Stefania Pellizzaro
Photographer Assistant: Lorenzo Novelli
Styling Assistant: Chiara Piovan
Label Manager: Francesca Francone Maitreya

LIFESTYLE TIPS

Una serie di suggerimenti tra moda, food, beauty e musica. Scopriamo l’immaginario e il lifestyle di Stefano Terzuolo, fondatore di Gum Salon a Milano.

”Per la sera opto per l’Apollo Club Milano, cocktail bar, ristorante e discoteca nato dall’idea di Marcellina e Tiberio fondatori di “Rollover Milano”, dove mi sento accolto come nelle famose SoHo house. 1000mq suddivisi in 4 sale per poter vivere esperienze diverse: Cocktail room dove fermarsi per l’aperitivo, Ristorante, Gaming room ( con ping-pong, flipper e videogames ) e ovviamente una sala disco dove ballare.
Mi piace per l’atmosfera intima e privata che si riesce a vivere rimanendo comunque in un ambiente dal sapore internazionale, dato anche dalla cucina ricercata dello chef italo-brasiliano Bruno Cassio con sapori da tutto il mondo, in una fusion tra la cucina classica e la cucina moderna globalizzata. Il mio piatto preferito? Polpo con Crema di Zucca.”

Per il pranzo quando ho bisogno di un Exit Way dal mio solito tran tran mi concedo un momento di ricreazione da EXIT. Il nuovo progetto nato dall’idea di Matias Perdomo, Thomas Piras e Simon Press: lo stesso trio che ha portato al successo Contraste. Un classico chiosco milanese riconvertito a Chiosco Gourmet con una trentina di posti a sedere. L’ambiente è luminoso, la mise en place di una trentina di coperti semplice ed elegante, con un blocco di Ceppo di Grè (una pietra ornamentale con cui la gran parte dei palazzi meneghini è stata costruita) usato come poggia posate. Il piatto da provare? L’UOVA all’ EXIT!

Il mio punto di riferimento per lo shopping a Milano sicuramente è Groupies Vintage, in via Gian Giacomo Mora. Non un semplice vintage shop ma un ambiente in divenire che non segue le mode, le costruisce. Nato con l’idea di recupero e riciclo di capi di abbigliamento vintage in potrete trovare diverse tipologie di abiti, principalmente identificabili in tre categorie:
-Vintage selected: capi selezionati dagli anni 50 agli 80 provenienti da Londra e Berlino.
-Vintage recycled: una linea innovativa disegnata da Alice, che ha dato nuova vita a diversi capi rimodernizzandone le linee.
-Kilo Vintage, ossia è possibile comprare abbigliamento vintage “al chilo” scegliendo tra innumerevoli stili e pezzi a costo ridotto.
La mia ossessione? Le vintage shirts.

Il mio momento beauty? Da Bahama Mama, a due passi dai Navigli. Un concept store, interamente dedicato alla bellezza ma anche un ricercato vintage shop con bar dove puoi goderti la coccola sorseggiando un frullato o una tisana. Un ambiente moderno e familiare, ma dal tocco retrò, sottolineato non solo dagli oggetti che decorano gli spazi, ma anche dal look anni 40 del personale.

Extra: l’album del momento AS YOU WERE di Liam Gallagher.

Prodotto beauty: PURE-CASTILE LIQUID SOAP.

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COACHELLA TIME. Il visual diary del festival e alcuni suggerimenti tra stile, arte e nightlife

Deserto, vento caldo, mi sporgo al finestrino osservando quelle strade piene di macchine che vanno in un’unica direzione, nella testa una canzone ‘ on the stero listen as we go, nothing’s gonna stop me now, California here we come, right back where we started from’.

Ecco un altro sogno della mia adolescenza realizzarsi, ecco la strada verso il Coachella.

Tra i festival musicali più noti è sicuramente l’esperienza che tutti dovrebbero fare almeno una volta nella vita.

Un’esperienza da vivere a pieno, tra gente da tutto il mondo, colori e tanto altro.

Ecco i miei cinque tips su cosa osservare se anche voi siete in viaggio verso Palm Springs:

  • MUSIC: il Coachella offre numerosi show accontentando i gusti musicali di tutti. È divertente spostarsi tra i vari stage e vedere come la musica unisce persone così diverse tra loro. Unico accorgimento, se vuoi stare in front row, indirizzati allo stage trenta minuti prima dello show.
Nella foto @katyschaef
  • COOL PEOPLE: è veramente divertente osservare i look della gente attorno a te, la cura e lo studio dello styling per vivere un’esperienza all’insegna dei colori. Un suggerimento di stile all’insegna della praticità: indossate un look a strati e portate con voi una felpa, di sera fa freddo nel deserto.
 
  • FOOD: il festival offre differenti postazioni food e beverage, cercando di accontentare le abitudini alimentari di tutti. Troverete dal classico junk food, alle healthy bowls, veggie food e persino plant based. Munitevi di una mappa del festival per individuare immediatamente il posto che fa per voi.
 
  • ART: ogni anno numerose installazioni artistiche fanno da scenario al festival. Per questa edizione ospite anche l’artista italiano Edoardo Tresoldi con ETHEREA. Il mio consiglio è di  osservarle al calar del sole, di notte c’è un’atmosfera magica.
Nella foto @valentinasiragusa al party di @iceberg
  • PARTY: come in ogni occasione che si rispetti, anche durante il Coachella sono numerosi i pool party organizzati dai brand moda. Attivate i vostri pr-radar per assicurarvi l’accesso e vivere a pieno l’esperienza dello spring-break, non scordate la protezione solare!

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Music talent da seguire: THOMAS COSTANTIN debutta col suo primo EP Fire

E’ uno dei nomi della scena musicale milanese: Thomas Costantin inizia la sua carriera a soli diciassette anni ed è oggi uno dei Resident DJ del Plastic. Ma cosa più importante il 23 febbraio, col nome d’arte di THO.MAS, sarà pubblicato Fire, il suo primo EP, dai ritmi dark e teatrali. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare non solo la sua grande passione per la musica, ma per scoprire anche le passioni che alimentano il suo immaginario. E avere un’anteprima del suo primo EP.

Qual è il primo ricordo che hai, legato alla musica?
Ricordo di un giovanissimo Thomas, di circa 5 anni, con i capelli biondissimi e corti. Ero in vacanza con mia nonna al mare, da solo, e lei aveva una musicassetta di Madonna, True Blue. L’ho consumata!

Quali sono i maestri o le persone che ti hanno ispirato o hanno avuto un ruolo importante nella tua formazione?
Non sono stati proprio i maestri, quanto le amicizie a influenzarmi e farmi scoprire cose nuove: Nicola Guiducci ha fatto nascere in me l’amore per le sonorità da club, mentre Francesco Pistoi mi ha spinto a creare la mia propria musica. Per il resto, cerco ispirazione ovunque: essendo molto curioso, in tutti questi anni mi sono creato un bel background, indirizzato a ricercare nuovi suoni e nuovi artisti.

Parlaci del concept del tuo primo EP e delle collaborazioni più importanti.
Il concept del mio primo lavoro è totalmente in linea con la mia estetica, un mix tra antico e moderno.  Ho utilizzato solo strumenti elettronici: ormai, si può fare davvero di tutto con un Mac e software come Ableton, per esempio. Adoro inserire sample di vecchi film e pezzi vintage nelle mie creazioni. In Jl ci sono dialoghi in italiano da Alphaville, di Godard, uno dei miei registi del cuore. In Fire è presente la splendida voce di Georgia Gibbs, direttamente dagli anni Cinquanta. Le collaborazioni per i remix sono state un successo! I miei amici B-Croma hanno dato un touch super londinese a Fire, Jerry Bouthier ha trasformato il THO.MAS (nome d’arte, ndr) super dark in una versione disco tutta da ballare, Ormas & Atmosphereal mi hanno conferito una dimensione house che non vedo l’ora di suonare. Infine Pisti – un maestro – ha creato un pezzo che fa vibrare, sembra di trovarsi in un club alle 4 del mattino.

Thomas e la moda: quali sono i tuoi brand preferiti e perché?
Sarò di parte, sicuramente, ma Gucci con la direzione creativa di Alessandro Michele è nel mio cuore: così sofisticato e spiritoso, con le citazioni dei miei idoli come Elton John che trovo molto interessanti e, poi, ha rivoluzionato completamente il concetto di brand, lavorando con numerosi giovani creativi e artisti. Adoro Palomo, un brand spagnolo genderless, geniale!  Mi piace moltissimo anche Missoni, i loro maglioni sono tra le cose che amo di più indossare, impazzisco per le scarpe di Church’s e adoro lo stile spaziale di Iris Van Herpen.

L’ultimo libro che hai letto o la mostra che consiglieresti di visitare?
L’ultimo libro è Antichi maestri di Bernard, consigliatomi da una persona che mi conosce molto bene e, infatti, ci ha azzeccato. Adoro il cinismo sano.
Una mostra che consiglio è l’ultima inaugurata al Pirelli Hangar Bicocca, The Dream Machine is Asleep di Eva Kot’átková, artista della Repubblica Ceca. Riflette sullo stato delle malattie mentali, sui sogni e sulle regole imposte dalla società attraverso installazioni e opere performative dalla grande forza espressiva.

 Se la tua musica fosse un piatto, sarebbe…
Penso un dolce alla frutta, il mio preferito.

Quali sono la città che più ti ispira e il luogo in cui ti rifugi per ricaricarti?
Parigi è sempre nel mio cuore, piena di energia e bellezza. Dico spesso che prima o poi mi ci trasferirò. Raramente ho bisogno di trovare un rifugio, ma, quando accade, non è importate il luogo ma la compagnia. Se voglio stare da solo, resto a casa, in mezzo alle cose che amo.

Quando parti, cosa non manca mai in valigia?
La lacca per capelli, il Mac e almeno un outfit mai indossato, per andare ad una festa. Non si sa mai…

I 5 film, per te, più significativi.

  • Laurence Anyways (2012, diretto da Xavier Dolan, con Melvil Poupaud e Suzanne Clément);
  • Orlando (1992, diretto da Sally Potter, con Tilda Swinton);
  • Le conseguenze dell’amore (2004, diretto da Paolo Sorrentino, con Toni Servillo);
  • Fantastic Mr. Fox (2009, diretto da Wes Anderson, con le voci di George Clooney e Meryl Streep);
  • Blue Jasmine (2013, diretto da Woody Allen, con Cate Blanchett e Sally Hawkins).

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THE WEEKND – MUSIC STAR

E’ sicuramente l’artista musicale del momento, con un album in vetta alle classifiche e i suoi solidi sedici milioni di follower su Instagram e con una media di 800.000 like alla volta. L’ultimo album, Starboy, è stato pubblicato a novembre del 2016 dalla Republic Records, debuttando alla prima posizione nella Billboard 200, vendendo 348.000 copie nella prima settimana, e presenta collaborazioni con Lana Del Rey, Kendrick Lamar, Pharell Williams, Future e i Daft Punk. È stato premiato con il disco d’oro in Australia, Brasile, Italia e Regno Unito e con il disco di platino in Canada, Danimarca, Francia e Stati Uniti. Eppure Abel Tesfaye, il vero nome di The Weeknd, è rimasto per molto tempo nell’ombra. Nel 2011 ha lanciato l’album Trilogy, ma nessuno sapeva che faccia avesse, era la sua voce vellutata e un po’ in farsetto alla Michael Jackson che conquistò i primi planetari consensi, proprio come lui stesso rivela “penso che tutto quello che facciamo alla fine abbia a che fare con come appariamo. Anche il no-branding è una sorta di branding. Per esempio se non hai un volto o un’immagine di te come artista, metti la tua musica davanti a tutto. Sono sempre stato timido davanti all’obiettivo. Tutti mettono ragazze sexy in primo piano e io lo faccio nella mia musica, è diventato un vero trend. Il concetto di artista enigmatico mi ha portato al successo, nessuno all’inizio poteva scovare foto mie”. Dall’anonimato il resto è storia. Si decide a svelare la sua immagine dopo aver lasciato che la sua musica R’N’B e rap a tinte pop parlasse per lui, anche di argomenti forti come l’amore e il sesso, le droghe e il dolore. Le pagine dei giornali impazzano parlando oltre che delle sue liriche sfacciate, anche del suo taglio di capelli: dread scultura (liberamente ispirati a quelli di Basquiat) che recentemente ha messo da parte per abbracciare un’immagine più pulita che gli permette ancora di entrare in alcuni club e non essere riconosciuto, che si accompagna anche a una tappa evolutiva del suo percorso musicale. Il timido ragazzino di origini Etiopi cresciuto nei sobborghi di Toronto sembra quasi una leggenda, lui stesso afferma con franchezza “Siamo onesti, il Canada non è mai stato un posto cool. Sono passato dal fissare quattro muri per ventun anni a vedere il mondo in soli dodici mesi”.A 17 anni, abbandona la scuola superiore e si trasferisce in un monolocale nel centro di Toronto con i suoi migliori amici, La Mar Taylor (il suo direttore creativo) e Hyghly Alleyne (suo collaboratore e affermato regista di video musicali).  L’affitto è stato pagato per lo più con assegni statali, il cibo a volte è stato rubato e sono state consumate molte sostanze di dubbia origine, mentre la futura star realizzava con i suoi amici quella che sarebbe diventata la sua trilogia R’N’B di mix musicali che avrebbero poi composto Trilogy: ‘House of Balloons’, ‘Thursday’, e ‘Echoes of Silence’. Anche prima che le sonorità e i testi personali di The Weeknd ricevesse il sostegno del collega canadese Drake, la sua decisione di caricare il suo lavoro su YouTube sotto il suo nome d’arte lo ha aiutato a raccogliere un cyber following senza precedenti. E molto di più. Perché dopo la notorietà, che deve soprattutto al mondo digitale, “Internet è una cosa fantastica” confida Abel, è arrivato anche l’interesse della moda che ha fiutato il potenziale dell’artista come taste maker digitale di una vasta gamma di pubblico, la sua musica è apprezzata da chi ama la trap tanto da chi canticchia motivi pop, anche sei lui stesso non si vede come una vera icona modaiola, ma paragona spesso il suo armadio a quello di Bart Simpson. Dal 2016 è invece diventato Global Brand Ambassador e Creative Collaborator di Puma e per l’autunno/inverno 2017 ha disegnato per il brand le sneaker PUMA x XO Parallel e la capsule Deluxe Denim fatta di bomber jackets, T-shirt e jeans, già indossata sul palco all’inizio del tour mondiale di ‘Starboy’. Il pezzo da non scordare mai secondo Tesfaye? “Per la mia generazione, il bomber ha rimpiazzato la giacca del vestito da uomo. È un capo che ogni uomo può indossare ogni giorno, ed è qualcosa che io stesso indosserei in ogni occasione, dalla strada al palco, fino agli eventi di gala”. A marzo 2017 ha anche collaborato con H&M per una capsule collection e nel 2015 perfino con Alexander Wang. In più, il cantante ha una sua linea personale “XO”. XO è anche lo slogan che il cantante usa per comunicare con i suoi fan e con cui chiama la sua Crew. Alcuni fan affermano che “XO” nella “XO Crew” di Weeknd significa semplicemente abbracci e baci, mentre altri sostengono che le lettere rappresentano l’Ecstasy e l’ossicodone. Indipendentemente da ciò, lui e tutti i suoi collaboratori si siglano così alla fine dei loro messaggi sui social, che sia un messaggio d’amore globale? Chissà, certo è che di amore The Weeknd se ne intende, da quello che è riuscito a instaurare con i suoi adepti, fino a quello con alcune delle donne più belle del mondo, dalla top model Bella Hadid fino alla recente liaison, ora terminata, con la cantante Selena Gomez, la cui unione aveva quanto di più social magico si potesse creare, essendo Selena assoluta regina di Instagram con 132 milioni di follower. Un amore, oltre che mediatico, molto veloce, perché si sono già lasciati ed entrambi si rivedono con gli ex (per la Gomez si tratta di Justin Bieber). Sembra infatti che il cuore di Abel batta sempre e ancora per Bella. Non in ultimo l’inquieto e talentuoso artista ha una passione per il cinema, dove il suo contributo è apparso nella colonna sonora di “Cinquanta sfumature di Grigio” con il brano ‘Earned it’, che ha vinto un Grammy e ha ricevuto la candidatura come miglior canzone originale all’edizione degli Oscar 2016. Insomma non finisce mai di stupire questo ragazzo dall’aspetto normale che cita tra i suoi personaggi cinematografici preferiti il Joker interpretato da Heath Ledger. “Adoro i cattivi: sono i migliori personaggi dei film, giusto? Il Joker è il mio cattivo preferito di tutti i tempi: non conosci il suo passato, sai solo quali sono i suoi piani”. Ma i piani di The Weeknd sono difficili da cogliere, non resta che attendere la prossima camaleontica evoluzione, sia nel look che nella musica. Di sicuro non mancherà di essere annunciata prima di tutto sui social, ovviamente.

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Fiorucci is back!

Nel 1967 Elio Fiorucci aprì a Milano il suo primo showroom, un piccolo spazio in Galleria Passarella pieno di colori, scoppiettante di musica e moda, ricco di energia: un luogo decisamente unico e originale, nel quale l’eccentrico stilista milanese aveva raccolto tutta la sua creatività e aveva dato vita ad un magico posto che ricordava Carnaby Street, nel cuore spumeggiante della Milano sessantottina.
Fu un successo internazionale, gli iconici capi vennero presi d’assalto da personaggi come Bianca Jagger, Andy Warhol e Grace Jones, tanto che ben presto fu la volta di un Flagship in Piazza San Babila, il negozio più bello che Milano abbia mai avuto.
Quello spazio è ancora vivo nella nostra mente: le magliette con gli angeli hanno fatto storia e anche le scatole di latta per contenerle sono tutt’oggi oggetti di culto. Poi, il declino decennale e la chiusura dello store sono ben noti nel mondo della moda, ma adesso – e finalmente – il marchio Fiorucci is back!
Una coraggiosa coppia di imprenditori londinesi ha, infatti, rilevato il brand e tutti i suoi must-have: disegni, bozzetti, campionari… e da lì ha iniziato a far risorgere quegli angeli dalle ali impolverate, dando vita ad un e-commerce, poi a un corner da Barney’s a New York e da Selfridges e infine, qualche settimana fa, precisamente il 16 settembre 2017, a un punto vendita Fiorucci a Soho, nel cuore di Londra. Un palazzo di quasi 500 metri quadri, all’angolo tra Brewer e Great Windimill Street, ex fabbrica di cioccolato, che ha ospitato una festa di inaugurazione con numerosi ospiti vip, dal nome “Resurrection Party”. All’interno una, “customization area”, in cui poter rendere unici i jeans e personalizzarli a piacimento, ricamandoli o decorandoli seguendo il proprio gusto, mentre si può gustare un cappuccino rosa da Fioruccino, il bar gestito da Palm Vaults, pieno di cupcakes di ogni tipo.
A 50 anni dalla creazione del brand, ecco che Fiorucci riprende vita, con quei capi che hanno fatto la storia della moda: oltre alle T-shirt stampate con i celeberrimi angeli, arrivano anche felpe, jeans effetto vinile, giubbini in pelle, cover per i cellulari e k-way antipioggia tutti, inconfondibilmente, fedeli alla concezione del genio dello stilista milanese, scomparso nel 2015. Una rinascita da rivivere anche nel libro – appena uscito – edito da Rizzoli, dal titolo “Fiorucci” e scritto da Sofia Coppola.

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L’animo poliedrico di The Magician

Se si parlasse di Stephen Fasano forse tanti non presterebbero attenzione, ma tutto cambia quando lo si chiama “The Magician”. Stephen, infatti, è un Dj belga di fama internazionale che, oltre a essere appassionato del suo lavoro, è anche marito e papà con un forte senso della famiglia. A renderlo noto ai più è stato il remix creato per Lykke Li “I Follow Rivers”, nel 2011 e per Clean Bandit “Rather Be”, nel 2014, ma la fama di The Magician non si limita solo a questo. Uno degli ultimi traguardi del Dj è stata la partecipazione di Potion, sua etichetta discografica, all’ultima edizione del Tomorrowland, il più grande festival europeo di musica elettronica, con un palco dedicato. Attratti dai suoi successi e dal suo forte senso dello stile noi di MANINTOWN lo abbiamo intervistato per scoprire qualcosa di più sulla sua vita e carriera in continua evoluzione.

Com’è iniziata la tua carriera?
È iniziato tutto quando mi è stato chiesto di suonare in un piccolo bar a Charleroi in Belgio. Ero già un Dj per amici, compleanni, piccoli party, ma in quel bar le cose diventarono serie. Mi chiesero di suonare tutti i sabati sera dalle 9 fino alle 4 del mattino (anche fino alle 6.00 qualche volta) da solo. In quel piccolo posto ho incontrato moltissime persone chiave che mi hanno aiutato a crescere e poi a spostarmi nella capitale, Brussels.

Ci sono persone a cui sei grato per la tua carriera?
A moltissime persone, ma in modo particolare a mia moglie Julie. Stiamo insieme da 12 anni e lei mi ha sempre supportato. Ha anche lavorato ufficialmente nel progetto, The Magician con me dal 2010. Ha progettato i miei primi costumi, disegnando i primi artworks di Magic Tape e tenendo d’occhio anche alcuni affari. Sta ancora facendo molto, le chiedo sempre sì o no, prima di pubblicare qualsiasi foto o video e lei è il primo orecchio per ascoltare e giudicare la mia musica. È un vero rapporto, profondo e sincero.

Come riesci aconciliare il lavoro e la vita familiare?
Come ho detto prima, mia moglie è coinvolta nel progetto, ma ora abbiamo una figlia quindi lei viene in tour meno e lavora da casa. Gestisco tutto in modo da godermi il mio lavoro e anche la mia vita privata. Sono in grado di fare entrambe le cose e a essere concentrato al 100% su ciascuna. Naturalmente, è abbastanza difficile quando sono costretto a stare lontano da casa per 2 settimane, mi mancano molto.

Hai appena lanciato il tuo nuovo singolo con TCTS e Sam Sure, ‘Slow Motion’. Come nasce questa canzone?
Io e TCTS eravamo in studio a Londra, per la prima volta insieme e Sam Sure è venuto a salutarlo perché si conoscevano. Gli abbiamo suonato la demo sulla quale stavamo lavorando, gli è piaciuta ed era come se dovessimo scrivere insieme la parte vocale. Questo è successo quasi un anno fa, da allora abbiamo composto e lanciato altri pezzi e, quando siamo stati pronti a renderla pubblica, abbiamo pensato che la produzione sembrasse vecchia e così abbiamo rielaborato ancora la traccia. Alla fine abbiamo fatto tre o quattro diverse versioni, prima di arrivare a quella finale.

Qual è stato il momento più emozionante della tua carriera?
Ce ne sono molti. La prima volta che sono andato in Giappone, quando sono stato chiamato per suonare al festival Coachella, quando abbiamo fatto Sunlight in studio con Olly Alexander di Years and Years. Poi sono stato il numero 1 in tutta Europa, con il mio remix di Lykke Li «I Follow Rivers» e quando abbiamo fatto la 500esima Essential Mix live a Liverpool per BBC Radio 1.

Quando hai capito di essere sulla strada giusta per il successo?
Quando vedo i risultati. Il mio obiettivo, però, non è avere successo, ma fare quello che mi piace, essere felice e rendere felici le persone intorno a me.

Una canzone che ti emoziona o ti ricorda un momento speciale?
Sebastien Tellier: La Ritournelle. Ricordo quando ho suonato questo disco e poi ho lasciato la cabina DJ per invitare Julie a ballare con me sul dancefloor. Non stavamo ancora insieme!

Quanto sono importanti la moda e lo stile nel tuo lavoro?
Lo stile definisce la tua personalità. Se hai personalità le persone attorno a te lo capiscono attraverso il tuo stile. Posso capire qualcuno dalla scelta delle sue scarpe. Oggi nel mondo della musica elettronica la maggior parte dei DJ indossano la stessa maglietta nera e i pantaloni neri.

Hai un brand preferito?
Sì, al momento mi piacciono Balenciaga, Martine Rose, Calvin Klein e qualche cosa di ACNE. Oltre a ciò, compro volentieri anche capi e accessori vintage. Di recente ho trovato un bellissimo parka arancione Ellesse 90, che sembra davvero un pezzo moderno.

Come ti piace cambiare il tuo look a seconda delle occasioni?
Prima suonavo con costumi fatti in casa, ma ora non più perché voglio essere più me stesso. Non sono interessato a indossare costumi, è solo importante non avere sempre lo stesso look, mi piace cambiare e avere vestiti diversi. Può essere uno smoking, una camicia, una maglietta o una felpa con accessori. Indosso gli stessi vestiti se sono con mia figlia, in volo, in studio, al ristorante o dietro la consolle.

Che sensazione hai provato partecipando a Tomorrowland, il più grande festival europeo?
È stato fantastico, ho avuto la possibilità di portare per la prima volta Potion sul nuovo palcoscenico di Tomorrowland ed era, sinceramente, quello più bello. È stato un grande successo e lo faremo ancora l’anno prossimo.

Sogni non ancora realizzati?
Mi piacerebbe vivere in Giappone per un po’.

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