Il muralismo di Jorit tra volti di resistenza e facciate di periferia

Incidere la corteccia di un albero, per far sgorgare la linfa. Il terreno, per frangerlo e nutrirlo di acqua. O la cute, per decorarla di simboli e significati, come le cicatrici ipertrofiche che hanno modificato e magnificato il corpo di tante etnie africane che portano incise, come bassorilievi su pelle, il passaggio da uno stato indifferenziato all’appartenenza a una cultura, l’individuo che diventa inclusione, che diventa tribù. Questa pratica si chiama scarificazione e nella simbologia del suo mal d’Africa Jorit l’ha tradotta nella comunione dei suoi volti, quelli graffiati nel cemento dei palazzoni popolari con strisce rosso ruggine in un patto iniziatico di fratellanza, in quell’uno per tutti, tutti per uno che è anche la forza corale dei suoi murales. Come le strisce che egli stesso si è fatto imprimere sul volto dall’artista romano della body modification Gabriele Di Dio, come un’opera tra le sue stesse opere, come segno di affiliazione a una tribù che non riconosce la predominanza di un colore come superiorità di una razza, che non si identifica in un “Dio” come esclusività di un credo e che non vede nelle diversità vincitori o vinti, perché questa tribù ha un solo volto, quello unico dell’umanità.



Jorit, il graffiti artist italo-oladese, è figlio della periferia napoletana, quella come altre sfuggite di mano al concetto modernista di “cerniera” e poi diventate un groviglio urbano ed esistenziale fuori controllo. E nel chiaro-scuro di queste vite di confine e di schiere di caseggiati di quartiere, il suo muralismo è diventato la pacifica arma civile di un manifesto di riscatto sociale. Il baricentro ideale dal quale le sue opere si sono diffuse a raggiera, internazionalizzate e museificate, ma con un magnetismo circolare alla fine sono quelle che ritornano sempre al loro punto di partenza, a casa, nei vulnerabili e contraddittori luoghi che più hanno bisogno di riqualificazione, di punti di riferimento e di simboli di resistenza, risveglio e speranza. Barra, Ponticelli, San Pietro a Patierno, San Giovanni a Teduccio, Scampia, Forcella, Quarto. Ritornano sulla strada ad essere arte del popolo e per il popolo con i suoi messaggi di condivisione e comprensione universale.



I volti iper-realistici che troneggiano nella loro imponenza sono marchiati da due linee che sembrano quasi unirsi a formare una lingua di fuoco a due punte, segno distintivo che arde sulle guance di questi guerrieri uniti nella stessa lotta, che poi lotta non significa necessariamente spargere sangue, ma destare alla riflessione le coscienze dormienti, indifferenti o semplicemente impaurite. Jorit ha così (r)accolto nella mappa della sua tribù urbana attivisti, difensori dei diritti umani, sportivi, musicisti, politici, intellettuali e sognatori, quelli che hanno pagato con la vita la speranza di un mondo migliore e quelli che, nonostante tutto, continuano a crederci, quelli che hanno lottato per abbattere le disuguaglianze e quelli che di discriminazione, invece, sono morti. Una galleria di visi, che vestono di nuovi panni facciate nude e spoglie, e di occhi, che parlano di rivoluzioni che inneggiano al diritto di essere uomini, umani ed uguali, come quelle di Nelson Mandela, Antonio Gramsci, Che Guevara, Angela Davis, Rosa Parks, Martin Luther King, Muhammad Alì, Pier Paolo Pasolini, Antonio Cardarelli, Ilaria Cucchi.



Nella grande famiglia allargata dell’ex scugnizzo d’oro, come ad alcuni piace chiamarlo, a fare squadra non troviamo solo personalità di pubblica piazza, ma anche gente qualunque, gente del popolo, anonimi ai più o tristemente noti per aver “barattato”, loro malgrado, un pezzo di cronaca con la vita come  Luana D’Orazio, morta sul lavoro a soli 22 anni, Davide Bifolco, il ragazzino del Rione Traiano assassinato dalle forze dell’ordine al termine di un inseguimento, Marcello Torre, il sindaco che ha perso la vita per mano della camorra, George Floyd ucciso dalla polizia a Minneapolis, e ancora Niccolò, il bambino autistico, Kukaa, il piccolo migrante morto con la pagella in tasca, e Ael, soprannominata la Zingarella, volto della comunità rom e simbolo di inclusione sociale come recita il titolo del murale “Tutt’eguale song ‘e criature”. E forse proprio loro, speranza di futuro, sono la chiave di tutto come trasuda nella bellissima opera in bianco e nero intitolata “I Sogni” e a loro Jorit dedica un pensiero: “i bambini nascono tutti uguali e hanno tutti diritto alla salute, al cibo, all’istruzione, a una casa e a provare a realizzare i propri sogni. I sogni dei bambini sono un buon motivo per lottare e per sacrificare tutto in favore di questa causa, perché sono innocenti e indifesi e sono i “grandi” che devono lottare per loro”. Perché “se è tempo di cambiare il mondo” forse bisogna partire proprio da qui, dalla parte migliore di noi.

Gli artigiani del cuoio dietro la maschera del brand “El Mato”

È il 2014 quando, in un garage della cittadina medioevale di Cremona, Marta e Tommaso decidono di mettere in cantiere il progetto, allora embrionale, del brand El Mato. Una laurea in Filosofia lui, una in Scienze dell’Alimentazione lei, un obiettivo condiviso e convissuto che nulla ha a che fare con Fichte, Schelling, la chimica degli alimenti o la biologia molecolare e un incontro, di quelli che come si suol dire “l’uomo ordisce e la fortuna tesse”, con uno storico pellettiere del posto che ha depositato nelle loro le mani i “ferri” e i segreti di un mestiere tanto antico quanto in affanno nella corsa con le seriali produzioni industriali. Perché l’artigianato è cura per i dettagli, per i materiali e per il tempo, lento, scrupoloso e paziente, che trasforma la materia in creazioni che sfidano il passare delle stagioni. E lo sanno bene Marta e Tommaso che nel far nascere a mani nude borse, zaini e accessori hanno trovato nella fertile lavorazione del cuoio il mezzo e lo strumento della loro libera espressione creativa fino a diventare titolari, nel 2018, di un negozio e di una bottega-laboratorio nel centro di Desenzano del Garda.



I prodotti di El Mato, rappresentati dal volto di una maschera stilizzata, sono frutto del recupero e della continuità di una tradizione artigiana a rischio di estinzione e, insieme, sono un progetto volto al sostegno di una produzione etica e sostenibile che punta all’unicità, personalizzata e personalizzabile, del fatto a mano e al concetto di durevolezza dei materiali e del design in controtendenza all’usura a breve termine e al vecchio fuori tendenza.



La materia prima utilizzata è la pelle di vacchetta toscana conciata al vegetale che viene rilavorata a partire dagli scarti, di non facile riciclo, provenienti da un’altra filiera, ossia quella alimentare, e la si ottiene sfruttando i tannini di alcune piante come la quercia o il castagno riducendo così al minimo l’utilizzo di sostanze chimiche come cromo, piombo e silicio. Questo cuoio sbassato e ammorbidito è interamente lavorato in Italia, a Santa Croce sull’Arno, ed ha la particolarità di modificarsi e personalizzarsi negli anni, cioè più invecchia e più la pelle diventa un unicum nella sua estetica grazie alla reazione che viene a crearsi tra la luce del sole e la sostanza conciante, per cui l’aspetto finale dipende dall’uso esclusivo che ogni consumatore ne fa.

Nell’atto della produzione creativa, passando dalla carta al cuoio, dal taglio alla confezione, il pellame è arricchito, accostato o rifinito con tessuti naturali come il lino, il cotone oppure riciclati come quelli ottenuti con le bottiglie di plastica recuperate negli oceani. Una cura, consapevole e coscienziosa, nella scelta di materiali trasformati poi in forme dalle linee pulite e dalla versatilità minimalista che spaziano dai pezzi iconici del marchio come il primogenito Bottiglito, lo zaino “degli spiriti liberi” in pelle e canvas, o la Tamburino, il secchiello a tracolla “delle anime ribelli e dei bohemian perduti”, alle messanger, dalle cartelle a zaino vintage alle tote bag, dai porta laptop agli accessori di pelletteria fino alla più recente serie di prodotti per la casa.



Le creazioni di El Mato, inoltre, sono pezzi che ragionati fuori dalle leggi di omologazione meccanica sposano pienamente la filosofia antispreco del “buy less but better”, nonché quella del prodotto vissuto emozionalmente come rapporto costruito nel tempo.

“La terza estate dell’amore” il manifesto in musica di Cosmo

È l’estate del 1967 quando nel decadente quartiere di Haight Ashbury, nella cittadina losangelina di Frisco, la micro-società degli hippie vive, in uno spirito di pacifismo rivoluzionario, l’ideale di un sogno comunitario che parla di fratellanza collettiva e di affrancamento dalle convenzioni. È la “Summer of Love” intrisa di pace, amore e libertà che si muove aggregante sulle note del rock. La musica, collante di socialità e cassa di risonanza, fa da colonna sonora anche alla successiva ondata, la ribattezzata seconda “Estate dell’Amore” o “Summer of Rave”. È la stagione calda del 1989 quando l’acid house risuona nei campi, nei magazzini, nelle feste illegali, nelle fabbriche in disuso e nei club in un clima di edonistica autodeterminazione.

Figlia ideologica delle precedenti, alba liberatoria, urgenza di unione e inno alla condivisione di gruppo, Cosmo, all’anagrafe Marco Jacopo Bianchi, a distanza di 32 anni da quest’ultima lancia il richiamo de “La terza estate dell’amore”. E lo fa a suo modo lasciando suonare le 12 tracce dell’album ad alcuni impianti lasciati, non a caso, in un bosco, in un palazzetto, in un centro sociale, in una casa di campagna, in un quartiere popolare, in uno spazio culturale occupato, in alcuni club e parchi pubblici. Tutti luoghi per loro natura diversi che la pandemia, da più di un anno, ha però lasciato orfani di musica e di tutti coloro che con essa e di essa vivono. Cosmo si fa messaggero di questo senso di abbandono e portavoce di un desiderio di ribellione alla rinascita e di riappropriazione sociale alla vita e mette a nudo e crudo il suo pensiero in una dichiarazione pubblica, un manifesto programmatico, artistico e politico che è alla base del quarto progetto discografico del cantante e producer di Ivrea.


“La terza estate dell’amore è un’invocazione, più che una realtà. È una possibilità, ma anche una necessità. Un qualcosa che deve accadere e che prima o poi succederà. Oggi la necessità di socialità e amore collettivo si fa sempre più forte. La pandemia e i provvedimenti per contrastarla hanno fatto a pezzi quelli che erano gli ultimi rimasugli di vita sociale. Stiamo camminando sulle rovine di un sistema di valori che ha fallito e che deve essere spazzato via: quello dell’individualismo, della competizione, della crescita illimitata e del conflitto. Ingiustizie, disuguaglianze, repressione e disastro ecologico sono i frutti di quel sistema.

La terza estate dell’amore è il manifesto di qualcosa che ancora non ha un nome. Un corpo pulsante e desiderante che spruzza il suo sudore sull’etica del lavoro. Un corpo erotico sbattuto in faccia al gelo di morte del capitalismo e della burocrazia, un ballo sulla carcassa di una società incapace di godere e di organizzarsi per essere felice. Una società che preferisce riempirsi di regole, leggi e divieti con lo scopo di individuare sempre un responsabile penale e parallelamente “mettersi in sicurezza”. Una società che mette il profitto davanti al coraggio e alla libertà e che ci vuole sempre più inoffensivi. Andrà tutto bene, purchè non arrechi disturbo alcuno. La nuova dittatura passa attraverso questa ragionevolezza, e sta erodendo ogni piccolo spazio di autonomia. La terza estate dell’amore è una pernacchia in faccia a chi nega l’essenzialità della festa e dello spirito di comunità. Non ce ne facciamo niente delle città cadavere, luoghi di morte dell’anima e del corpo. Le vogliamo cambiare. Vada a fottersi il pil, si fotta la Borsa. Questo messaggio è dedicato a chiunque si sia visto rubare tutto il tempo migliore della propria vita, a chi crede nell’aggregazione e nello spirito di comunità, a chiunque voglia prendere questa grande macchina e sedersi accanto al pilota per rallentare, sostare, ripartire quando è il momento. Verso destinazioni ed esperienze altre. Verso il futuro”.



La copertina dell’album si presenta con una veste grafica dagli accesi toni psichedelici misti ad una irriverente atmosfera di leggerezza bucolica inno all’amore e all’aggregazione; l’interno è un melting pot sperimentale, sincronico e sincronizzato di stili che, come in un cubo di Rubik, alla fine si incastrano e combaciano tutti nell’irresistibile orecchiabilità dei suoi ritornelli, quando presenti, e nelle architetture dei testi. Forma canzone, cantautorato, synth modulari, ispirazioni elettroniche, sonorità clubbing, folk tribale, cori, accenni di world music, atmosfere tropicali e psichedeliche sono queste le “armi sonore” che Cosmo impugna per rendere “la terza estate dell’amore” azione e reazione all’oppressione dei nostri tempi a partire dalla tensione implosiva, cupa e conflittuale che si respira nell’intro “Dum Dum” fino all’empatica e finale “Noi”, trionfo di quel sentirsi parte di un tutto di cui l’album è spinta, stimolo e incoraggiamento.

L’età dell’oro del second hand al tempo delle app e delle generazioni “mobile”

Per tradizione, necessità, vezzo, scelta o ideologia il fenomeno degli abiti usati ha visto più albe che tramonti, vissuto corsi e ricorsi, forme e riforme. A volte anacronisticamente fuori dal suo tempo generazionale, dal credo stilistico e dalle voci del coro, altre progettualmente costruito in seno alle mode stesse come eredità di riscatto, ispirazione e recupero creativo, un esempio su tutti le creazioni di Martin Margiela, il “Golden Dustman” (come Caroline Evans lo ha definito in un suo saggio) che ha fatto dell’up-cycling il suo riconoscibile marchio di fabbrica. Un uso e costume longevo quanto le ataviche leggi del baratto (quello che oggigiorno, un po’ borghesemente, abbiamo rimpiazzato con il più modaiolo swapping), ma anche mutevole nella rappresentazione storica della sua natura e nelle sue espressioni tante quanti sono, e sono stati, i cambiamenti, le evoluzioni e i bisogni (individuali, collettivi o sociali) che da sempre lo hanno riportato ciclicamente in auge. Parafrasando un vecchio proverbio potremmo quasi dire ‘epoca che vai, modalità al riuso che trovi’.



Dalla mercanzia di scarso e dubbio valore dei mercatini delle pulci alle “pezze americane” del dopoguerra fatte di scarpe, indumenti e pellicce di secondo ordine impacchettati in “balle al buio” e spediti dagli Stati Uniti. Dai flea market gentrificati e ribattezzati a mete di culto del thrift shopping di tendenza (Marché aux Puces, El Rastro, Portobello, Monastiraki, Rose Bowl), passando per i negozietti dell’usato, le boutique del buon vintage d’annata e gli spazi destinati al pre-loved nei department store metropolitani (come l’esperimento abbracciato dal Karstadt di Berlino), fino ai suoi alter ego virtuali, i social marketplace due punto zero.

Dagli abiti di seconda mano impugnati come strumento di contestazione contro la società dei consumi, pensiamo agli hippie sessantottini o agli esistenzialisti parigini degli anni 50, all’urgenza di trovare in essi una fuga dall’appiattimento e dall’omologazione mainstream, come da vessillo del movimento hipster. Dall’emozionale lascito di abiti tramandati come investimento (la principessa Beatrice di York si è sposata con un abito di Sir Norman Hartnell già indossato da sua nonna Regina Elisabetta), alla presa di coscienza di una moda eticamente sostenibile, circolare e anti-spreco. Un approccio quest’ultimo maturato negli anni ma segnato da una data (che vuole essere contestualmente simbolica), marzo 2020, e da volti, quelli dei Millennial e dei suoi Post, i cosiddetti Zoomer. È l’anno della pandemia, del silenzio assordante dei lockdown, delle serrande dei negozi abbassate e delle piazze svuotate dal mercanteggiare di rigattieri, robivecchi e cenciaioli.

È l’anno in cui soprattutto i giovani social e iperconnessi delle Generazioni Y e Z, eredi di un pianeta bistrattato e di un’economia a coni d’ombra, hanno scelto di essere testimoni e portavoce di una moda votata al second hand. Hanno scelto di essere consumatori del riuso, per risparmio e sostenibilità, ma anche venditori responsabili da decluttering e svuota armadio, per guadagno e rinnovamento, e lo hanno fatto scegliendo uno dei mezzi a loro più familiare, ossia il web. Piattaforme digitali, app e acquisti online, complice anche il mutato scenario di consumo e consumatori, stanno così vivendo la loro golden age. Nel mare magnum delle applicazioni, una tra le più giovanili e accessibili (insieme a Vinted, Poshmark e ThredUp), è Depop nata nel 2011 come startup digitale specializzata nella vendita di accessori e abbigliamento di seconda mano, al tempo chiamata Garage, e oggi affermata scaleup “sostenibile” nel panorama del social commerce. Dove sostenibile significa comprare e vendere capi non più nuovi, ma anche acquistare capi nuovi da aziende che non producono in grande massa e puntano a creare abiti di qualità che durano nel tempo.



Fondata dall’imprenditore milanese Simon Beckerman, a sua volta padre della rivista indipendente Pig e del brand di occhiali Retrosuperfuture, Depop è, per dirla con le parole del suo ideatore, figlia di eBay e Instagram se fossero sposati. Le applicazioni di second hand sono di per sé democratiche perché alla portata di tutti e rivolte a tutti i target (di età e di tasca) soprattutto quando mostrano anche l’altra faccia della stessa medaglia, il vintage. Dalle app più pop a quelle luxury come il lusso d’antan della tedesca Rebelle, l’usato di alta moda della pioneristica Vestiarie Collective, i 16mila articoli di lusso pre-owned di The Luxury Closet fondata a Dubai da Kunal Kapoor o l’eleganza iconica à la française di Re-SEE, tutte accumunate da una scelta brand couture oriented. Ma possono anche essere settoriali come la piattaforma di nicchia Byronesque fondata da Gill Linton e Justin Westover e della sua invidiabile collezione di capi d’archivio anni ’80 e ’90 del calibro di Comme des Garçon e Yamamoto, l’e-store di seconda mano Rebag che da poco ha anche lanciato il tool di riconoscimento Clair Al che consente ai potenziali venditori di scoprire il valore delle borse di lusso in pochi secondi, alla pari del funzionamento di Shazam, oppure Grailed l’app dedicata allo streetwear maschile.

A prescindere dal peso o dal valore che diamo al concetto di usato, il rimettere in gioco e in discussione capi che non sono più alla loro prima uscita, rappresenta sempre una soluzione salvagente a vantaggio dell’ambiente e di una moda che ha bisogno, più che sovrapprodurre, riprodurre in maniera consapevole.

“La strada verso casa” di Antonio Di Guida

Partire per viaggiare o partire per ritrovarsi? Nella ricerca del sé, la strada diventa metafora del grembo identitario che accompagna verso la ri-nascita e, insieme, distacco da quelle radici costruite su luoghi e legami. La figura dell’errante in cerca di risposte ricorda, per associazione allegorica, l’immagine del neonato al quale reciso il cordone al momento del ‘parto’ spezza la simbiosi materna per donarsi al mondo e nutrirsi da esso, proprio come fa il viaggiatore che si apre al nuovo lontano dal suo porto sicuro. La presa di coscienza della necessità di un nomadismo, introspettivo e formativo, diventa lo spirito-guida portante della scrittura e del percorso di vita abbracciato dal trentenne toscano Antonio Di Guida, l’italian backpacker che nel 2013, zaino in spalla, lascia la sua terra di origine alla volta del mondo, e dell’ignoto, alla ricerca della sua libertà e della pace della sua anima.

Già autore di altri libri “Africa: viaggio di un muzungu nella savana”, “Australia: Dove i sogni prendono vita”, “L’Iran in bicicletta 1700 km da Bandar Abbas a Teheran”, il 16 dicembre 2020 autopubblica “La strada verso casa”, un libro che attraversa gli angoli più nudi e crudi delle miserie e delle ricchezze dell’Asia dedicato a tutti i viaggiatori che hanno perso la loro vita in viaggio e a chi si è perso e non riesce a trovare la sua strada di ritorno.


“Fin da piccolo sognavo di conoscere l’Asia e compiere un viaggio alla ricerca di me stesso. Sognavo di esplorare nuovi sapori seduto sul ciglio di strade piene di vita, di decidere all’ultimo secondo dove andare, di incontrare viaggiatori con cui condividere la mia esperienza. Sognavo di stravolgere la mia vita. Volevo godermi il mio tempo senza pensare di essere in ritardo…Ho sempre desiderato perdermi per poi ritrovarmi, girare il mondo senza il peso della mia identità. Lo spirito del viaggio conosce la strada che ognuno di noi deve percorrere”. Queste parole rappresentano la calce e il cemento che legano il suo mondo interiore alla vivacità dei paesi e delle culture che ci concede in prestito. L’Indonesia, la Malesia, la Thailandia, la Cambogia, il Vietnam, il Laos, il Myanmar, l’India, il Nepal e l’Iran si tingono così del colore dell’anima che Antonio ha scelto per loro, perché si sa ogni visitatore ha i suoi occhi per guardare il mondo.



“La strada verso casa” è la fotografia di un viaggio in solitaria scandito dalla casualità degli incontri, dall’imprevedibilità degli eventi e dall’autogestione del tempo, a volte volutamente lento per fissare gli attimi di quelle umanità di passaggio vissute alla pari. È un attraversare luoghi nei quali “reicarnarsi” di volta in volta, come un disegno spirituale di tante vite figlie di una sola, per poi lasciarsi dentro moschee, templi e pagode, le distese di risaie e le case in bambù con tegole in amianto, i vulcani e le isole, il cielo rosso fuoco di Siem Reap, i grattacieli di Kuala Lumpur, l’atmosfera anni 50 di Yangoh e l’odore di resina dei pini secolari di Sapa, il Ramadan e il Vipassana, i riti e i rituali, le scatole arrugginite dei treni indiani. Per conservare come madeleine proustiane il sapore dei cibi: il riso fritto del nasi goreng, le verdure con salsa di arachidi del gado, il salak “il frutto del serpente”, la zuppa di noodle piccanti del curry laksa, il pane indiano roti canai, il budino malesiano di sago melaka, i mie goreng gli spagetti fritti indonesiani.



Per fare delle storie incrociate lungo il cammino lezioni di vita: il minatore che per procurarsi il pane estrae zolfo dal vulcano Kawah Ljen; il guardiano dell’isola scappato dalla città dopo aver perso moglie e figlia in un incidente; i bambini speranzosi della scuola di lingue inglese in Cambogia; il nonno di Lin sopravvissuto al genocidio del 1975 e per anni costretto a lavorare in cambio della vita; l’anziana signora di etnia Dao; i malati terminali del Thabarwa Centre in Myanmar; i ragazzini rasati in kesa rossi e arancioni che giocano a calcio in un campo improvvisato; il giovane disabile del mercato di Bagan che dipinge per sfamare la famiglia nonostante le sue sole due dita; la signora londinese malata di cancro che vive ai piedi della montagna Tiruvannamalai con la speranza che qualche guru o santone possa curarla.



Alla fine del viaggio scopriamo che “casa” non è né un luogo né una meta, ma sta nell’arte paziente di coltivare quell’intima e preziosa sensazione di pace che connette l’anima al corpo, quello star bene in qualsiasi luogo ci troviamo. Raggiungere l’armonia dentro di noi, a volte, è una strada lunga da percorrere. “Si smette di imparare solo quando ci si chiude in se stessi e io, in questo momento, non ho voglia di invecchiare nei soliti pensieri. Voglio evolvere stando a contatto con altre culture per conoscere sempre più a fondo l’unica vera religione che vive dentro di me; che non ha un nome o un simbolo, ma solo il compito di farmi sentire vivo qui e ora, amando e rispettando sempre il prossimo”. 

La Divina Commedia a suon di rap: l'”infernvm” di Murubutu e Claver Gold

“Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, chè la diritta via era smarrita”. Nella sera di quell’imprecisato giorno di primavera del 1300 il Sommo Poeta “nato sotto gloriose stelle” ha costruito su questo verso iniziale la sua cattedrale perfetta, la grandezza sacrale e monumentale di una Commedia “Divina” e immortale. A distanza di anni, temporalmente tanti, l’allegorico peregrinar dantesco continua ad essere cibo prediletto per menti ed intelletti, più che mai nell’anno che segna il settecentesimo anniversario della sua scomparsa. E così le anime eternamente dannate e i loro aguzzini, demoni e guardiani antropomorfi di anime disumanizzate, si reincarnano, questa volta, per metempsicosi poetica nella sonata rap dell’”INFERNVM”. Il concept-album, distribuito dall’etichetta discografica indipendente di San Benedetto del Tronto, la Glory Hole Records, muove dalla prima cantica del poema madre per diventarne rilettura, immaginario traslato e adattamento dell’uomo e delle sue debolezze alla società odierna.



Daycol Emidio Orsini, in arte Claver Gold, l’ex ragazzo del quartiere popolare di Ascoli Piceno dalla penna intimista e introspettiva e dallo stile identitario nudo e crudo, e Murubutu, pseudonimo di Alessio Mariani, il professore liceale di storia e filosofia che ha fatto del suo rap didattico uno strumento di storytelling colto e letterario, hanno ricucito a quattro mani cerchi, gironi e bolge per intraprendere la loro catabasi, la loro discesa nel regno delle tenebre, della notte, del male, come auctor e viator, come autori e pellegrini, come Dante e Virgilio. Il cammino nell’aldilà intrapreso dai due rapper, da fedele riproduzione della struttura dantesca, ha inizio nella “Selva Oscura”, il luogo simbolo della dannazione e del peccato che diventa omonima traccia di apertura del disco. È la voce dell’attore Vincenzo di Bonaventura che, come un demoniaco eco oltretombale, sussurra e interpreta alcuni celebri frammenti di versi danteschi cavalcando suoni cupi, metallici, confusionari e armonicamente sgraziati come il luogo di immobile bruttezza di cui ne sono la rappresentazione. Prima di arrivare sulle rive dell’Acheronte, si apre alle nostre orecchie l’Antinferno sul ritornello parafrasato di Davide Shorty “con le anime nude e senza nome, senza infamia e senza lode, senza vita e senza morte”, quelle degli ignavi, anime peccatrici di vili e codardi che in vita non si schierarono né in nome del bene né in quello del male. Con il brano Caronte Murutubu e Claver Gold passano in rassegna i loro personaggi dolenti e maledetti, scelti tra gli altri come metafore trasversali e personificazioni allegoriche di fragilità e tematiche attuali. Il vecchio nocchiere, canuto e dagli infuocati occhi rossi, timoniero dell’impero delle anime perse e accompagnatore rabbioso di anime traviate, rappresenta così nella configurazione simbolica di questo viaggio il tema della dipendenza dall’eroina che traghetta alla morte “ogni anima che è una foglia che cade nell’ombra”. Minosse, il mitologico re di Creta, il giudice del cieco carcere che soppesa le colpe delle anime e assegna loro il cerchio al quale sono destinati, dove ogni pena si fa carne e corrisponde a un peccato, incarna la riflessione della vita dopo la morte e la possibilità di essere giudicati.



Paolo e Francesca i lussuriosi, gli amanti-cognati, i peccatori d’amore adulteri che in vita hanno ceduto alla passione ed ora sono dannati per l’eternità a fluttuare in una bufera infernale, il loro è la prova di un amore fatale e assoluto che resiste anche all’aldilà come canta nel ritornello Giuliano Palma “resta con me anche se non c’è un domani, resti per me il migliore tra i peccati”. Pier della Vigna simbolo di vessazione e ostracismo, cancelliere e notaio di corte, morto e indotto suicida dopo essere stato fatto accecare da Federico II di Svevia per corruzione. “L’animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto”. Il celebre suicidio-fuga terrena assume forma di denuncia contro la delicata e solitaria piaga del cyber-bullismo giovanile raccontato, in questo toccante pezzo, attraverso la storia di un adolescente, Pier, che sceglie di togliersi la vita “nella stanza, sul mio banco, all’alba giù in cortile. Oggi non ci sono più, c’è un albero di vite”. ”Dannata, sozza e scapigliata” che si alza e si siede continuamente senza trovare pace, è Taide, “la puttana”, personaggio della commedia del latino Terenzio, punita nell’Inferno perché adulatrice con l’inganno e immersa nello sterco. Murubutu e Claver Gold nobilitano questa figura, accennata e secondaria, dipingendola ora come una donna moderna e malinconica che ha perso la capacità di amare affrontando delicatamente il tema della prostituzione. E poi ancora Ulisse, assetato di una conoscenza che supera i limiti umani e divini, i Malebranche, i diavoli uncinati a guardia dei barattieri che diventano pretesto di accusa per quelli moderni che girano intorno al denaro che fa da perno, e Lucifero, l’angelo più bello del Paradiso conficcato nel ghiaccio di Cocito che nell’Infernvm svela un’inedita sofferenza che sa di umano. Sono loro a completare la mappa di questo ambizioso, raffinato e rispettoso viaggio lungo undici tracce.



I puristi della Divina Commedia, forse arricceranno il naso a tale contaminazione anacronistica dei generi, o magari no. In fondo “il fine giustifica i mezzi” soprattutto se il fine stesso è la divulgazione di un sapere e di un valore educativo che, sotto qualsivoglia forma si manifesti, ha la capacità di risvegliare l’interesse e la curiosità di chi li accoglie.   

La moda rigenerata di Rifò: una storia di cenci, cenciaioli e sostenibilità

Una moda assetata di acque restituite impregnate di microplastiche ed agenti chimici. Indumenti già nati per essere rifiuti dismessi di discariche sovraffollate e scarti di invenduto lasciati in pasto agli inceneritori. Vestiti sovrapprodotti in nome di un consumismo globalizzato del non valore a buon mercato. Una moda veloce, “fast”, come la breve durata del suo deperire che nulla ha a che fare con il concetto di tempo, ma che piuttosto si lega a doppio filo a tessuti dozzinali, scadenti e difficili da riciclare che ne decretano la loro obsolescenza precoce. Un abbigliamento venduto come l’eldorado della convenienza a basso costo, ma pagato a caro prezzo a spese dell’ambiente e dei lavoratori orfani di diritti e tutele.



La vulnerabilità di questo anno pandemico ha inasprito queste fragilità già endemiche e radicate in alcune frange del sistema moda, ma d’altro canto ha anche acuito la necessità di una rafforzata sensibilità etica e di un consumo responsabilmente più sostenibile. Un appello che fa da eco a molte voci, tante quante sono le imprese che, da tempo, hanno deciso di remare contro un modello lineare di produzione riponendo le speranze future, e collettive, nella diffusione di una mentalità circolare che vede nel rifiuto una nuova risorsa da reintegrare sul mercato.



Tra queste realtà prende corpo Rifò, la startup del cashmere rigenerato frutto di un crowfunding su Ulule nata nel dicembre 2017 a Prato, in un territorio simbolo, storicamente votato alla cultura del tessile e, per tradizione, terra di lanai e straccivendoli, noti ai nostrani con il nome di cenciaioli o ai più fini letterati con l’appellativo di chiffoniers, come amava declamarli Baudelaire. Quelli che li riconosci perché hanno sempre nella tasca posteriore dei pantaloni un paio di forbici, per separare le cuciture dalla maglia, e un accendino, per bruciare il filo e vedere se c’è una fibra sintetica nella composizione del capo. Dal centenario e quasi estinto mestiere degli artigiani del cencio, per necessità e virtù i primi ignari e inconsapevoli alfieri dell’economia circolare, muove la rivoluzione sostenibile intrapresa dal brand pratese.



Rifò, già a partire dalla fierezza vernacolare del suo nome a “km 0”, è un elogio a quel “rifare” che sfrutta la ricchezza di fibre riciclate per creare dagli scarti tessili un nuovo rigenerato, o un vecchio riscattato di qualità, che vuole farsi portavoce di un valore emozionale destinato a una seconda vita. È un credo stilistico in un futuro non più bisognoso di produrre nuove materie prime, ma autoalimentato dallo sfruttamento di tutte quelle già impiegate, esistenti e dimenticate.



Facendo un passo indietro, cosa ha portato un laureato in Economia internazionale alla Bocconi con esperienze nella cooperazione allo sviluppo per il Ministero degli Esteri a occuparsi di moda?

Un’idea vincente nasce spesso da un intuito, dalla necessità di colmare un gap o semplicemente da quella di porsi come un’alternativa, come ha fatto Niccolò Cipriani, fondatore del marchio. “Durante la mia esperienza di lavoro in Vietnam, ad Hanoi, ho realizzato con i miei occhi il problema della sovrapproduzione che grava su un settore, quello del fast fashion, che produce molto più di quello che viene comprato con un impatto negativo sul consumo delle risorse naturali. Da questa presa di coscienza ho deciso di ritornare in Italia, recuperare la nobile arte dei cenciaioli, profondamente legata alle radici della mia terra, e su questa costruire un brand etico guidato dai valori di qualità, sostenibilità e responsabilità”. Rifò è l’alternativa all’emergenza globale di uno spreco fuori controllo, a cimiteri di abiti abbandonati e ad acquisti anaffettivi inghiottiti nella spirale di saldi e prezzi al ribasso. È l’incontro della conoscenza del distretto tessile di Prato con la consapevolezza che ogni vestito che buttiamo via ha un valore, può essere rigenerato e rigenerabile.



Tutti i capi sono realizzati nel raggio di 30 km da artigiani e piccole aziende a conduzione familiare con il metodo artigianale a “calata”, sostenendo così un modello di prossimità con i produttori e di valorizzazione territoriale a supporto dell’economia locale, limitando l’inquinamento dovuto alla logistica e ai trasporti e snellendo i prezzi finali sul mercato. Le materie prime seconde, frutto del “buon senso” e del risparmio energetico, sono vecchi maglioni in cashmere, jeans almeno 95% cotone e il cotone rigenerato. Scarti industriali e vecchi indumenti vengono sfilacciati, trinciati, riportati allo stato di fibra ed infine a quello di filato pronti ad essere la linfa materica di nuovi maglioni, cardigan, t-shirt, cappelli, sciarpe e mantelle. Alla base di questa “Rifolution” non solo il riciclo di indumenti o il valore della loro restituzione ad un nuovo uso, a nuova vita, ma anche la riduzione dei consumi di acqua, pesticidi e prodotti chimici usati di norma nella produzione. Una rivoluzione silenziosa per sensibilizzare le coscienze individuali verso una sostenibilità, umana e ambientale, incoraggiata da un acquisto consapevole al grido di “meno e meglio”.



Quando scegliamo che abito indossare, scegliamo anche per quale mondo votare.

“Rains”: l’abbigliamento antipioggia che arriva dal nord

Secondo un detto svedese “det finns inget dåligt väder, bara dåliga kläder”, “non esiste il cattivo tempo, ma solo i vestiti sbagliati”. Il trio di amici danesi Philip Lotko, Daniel Brix e Kenneth Davis hanno così fatto di necessità virtù trasformando l’inclemenza della pioggia in opportunità per ‘ergonomizzare’, e sincronizzare, gli abiti agli uggiosi cieli di Copenhagen.



Nel 2012 nasce ad Aarhus, nella penisola dello Jutland, RAINS, il giovane brand di nicchia dell’abbigliamento rainwear che, partendo dalla reinterpretazione del più classico e tradizionale impermeabile in gomma, la fisherman’s jacket dell’eredità marinara danese, si è imposto sul mercato internazionale con l’apertura di 26 store monomarca nati sotto l’insegna dell’iconico logo del faro che, dal numero 6 di Klostertorvet, illumina la rotta dei nuovi negozi da Melbourne a Shanghai, da New York a Parigi.



Dal poncho degli esordi, a una linea completa dedicata all’outerwear, in abbinato a borse, zaini e accessori, fino a sdoganare l’idea più fluida di un “all-weather lifystyle concept” al suo debutto alla Copenhagen Fashion Week A/I 2020, RAINS lancia il suo singolar tenzone. Una sfida alla pioggia, celebrata, ispirata e affrontata a colpi di design funzionale dove il retaggio del minimalismo nordico trionfa in un moderno concetto di moda cosmopolita.



Il brand danese propone capi semplici e pratici che integrano tessuti tecnici, leggeri, idrorepellenti e waterproof a linee dritte, morbide e nette e alla scelta di un monocromatismo puro, o a sobrio contrasto, giocato sui colori dei paesaggi delle fredde terre del Nord e sulle delicate sfumature dei toni della natura: grigio carbone, bianco sporco e perla, blu, beige, nero, verde oliva, ambra e rosa corallo. Sono un “rifugio climatico”, nel senso figurato del termine, un equipaggiamento urbano in robusto poliestere rivestito dalla flessibilità del poliuretano con saldature ad ultrasuoni, cerniere lampo e rifiniture progettate con materiali ottimizzati per le condizioni di umidità, fibbie gommate, twill cerato, superfici tattili riflettenti, opache e con trasparenze semilucide.



Le collezioni, in una costante visione di espansione climatico-stagionale, esprimono l’atemporale durevolezza di capi senza tempo in linea con le ultime tendenze. Impermeabili con tagli sartoriali o dalle linee casual, con patte frangivento, aperture per la ventilazione, cappucci regolabili con cappello integrato, cappe progettate per i ciclisti, pantaloni, tute ultralight, capispalla e giacche imbottite rappresentano non solo un filtro protettivo tra chi li indossa e gli agenti climatici dai quali difendersi, ma è anche una questione di “hygge”, quella necessità di provare una sensazione di comodità e armonia con ciò che si indossa.



In fondo vestirsi nelle giornate di pioggia non significa necessariamente rinunciare allo stile.



Story-grammer, pagine Instagram e racconti visuali di storie urbane

Dai rapsodi, bardi, scaldi e cantastorie che di piazza in piazza, di città in città, intrattenevano il pubblico con il racconto delle loro storie, vere o di fantasia che fossero, agli story-grammer, i moderni avventori della narrazione visuale da social, ne è passata di acqua sotto i ponti. L’arte del raccontare, e del raccontarsi, in qualsivoglia forma, espressione o mezzo si manifesta resta pur sempre uno dei ‘mestieri’ più antichi e affascinanti del mondo.



Lo sa bene drcuerda, l’account Instagram alter ego di Daniel Rueda – story-teller, creatore di immagini, cercatore di geometrie, amante delle architetture ed esploratore del mondo – che ha dato vita, insieme alla sua musa/collaboratrice Anna Devís, ad una pagina a immagini ludicamente narranti. Classe 1990, spagnoli, laureati in architettura all’Universitat Politècnica di Valencia e inseriti di recente nella classifica di Forbes 30 Under 30 Europe List come “i fotografi in grado di raccontare storie attraverso gli oggetti di uso quotidiano creando scene surreali senza l’aiuto di software di photoediting”. Le architetture, ricercate o casualmente incontrate, sono la materia prima rielaborata in sketch, accuratamente studiati, che si innestano nel contesto urbano sotto forma di divertenti narrazioni visionarie. Sembra quasi di immergerci nell’immaginario visivo di uno story game dove le geometrie, i dettagli, le prospettive e i colori di palazzi, edifici e facciate la fanno da padrone.



Daniel e Anna, partendo da queste ispirazioni, mettono la loro creatività al servizio dello spazio prescelto aggiungendo quel particolare che ne completa la storia. Elementi semplici, quotidiani, spesso realizzati a mano, fini a stessi o resi parte attiva grazie all’interazione umana in contesti architettonici che, seppur non conoscendo frontiere geografiche, prediligono la luce della Spagna. Valencia, Madrid, Barcellona, Albufera, Maiorca, Cadice diventano, così, scenografie a cielo aperto. Gli scatti, carichi di sense of humour, dall’estetica pulita e accurata e dallo spirito naïf, sono costruiti su un’intelligenza creativa argutamente minimalista e fantasiosa che si traduce in immagini che “parlano di sé, e da sé, senza la necessità di aggiungere parole”.



L’esigenza di traghettare la fotografia in un mini racconto a immagini, dal frame decisamente poco ordinario, è la missione creativa di un’altra pagina Instragram citylivesketch, nata nel 2014 da uno schizzo del porticciolo de La Balata nel borgo marinaro di Marzamemi. Il progetto parte dal cuore della Sicilia, come il suo ideatore Pietro Cataudella, originario di Pachino ma toscano di adozione, con l’intento di narrare scorci, simboli, monumenti e bellezze guardando il mondo da un “taccuino di viaggio”. Foglio di carta e matita alla mano diventano i mezzi e gli strumenti di illustrazione per realizzare schizzi che si completano e si fondono nella fotografia.


Immagini di interazione con la capacità di smarcarsi dalla bidimensionalità per approdare ad un’ottica 3D, quasi da effetto pop-up. Un mash up tra astratto e concreto, dove la fantasia serve la realtà, o viceversa. Alle fedeli riproduzione in grafite e digitale si alternano innesti fantasiosi che capovolgono inaspettatamente il modo di percepire ciò che ci circonda. Perché come diceva Paul Klee “l’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è”.



Spingere l’immaginazione oltre le apparenze e sovvertirle in un gioco creativo è anche il leitmotiv narrativo di paperboyo, l’estroso “ragazzo di carta” che, su Instagram, ha stravolto vedute, paesaggi e panorami con forbici e cartoncini. Rich McMor, il creativo britannico dietro l’account, ha intrapreso un fantasioso e ingegnosamente illusorio viaggio in stile “cutout” dove monumenti, ponti, edifici e luoghi storici vengono invasi da ritagli di carta per raccontare la sua visione da artista sognatore. La mano di Rich diventa un elemento integrante nella messa in scena delle foto, come quella di un burattinaio che accompagna e anima le sue marionette, ma qui invece di fantocci di legno e di stoffa troviamo sagome nere ritagliate ad arte che danno una nuova e personale interpretazione a luoghi turistici di culto ed architetture.



La City Hall di Londra diventa la palla di un giocatore di football americano, il Neon Museum di Las Vegas la gonna svolazzante di Marylin Monroe, l’Arco di Trionfo un omino del Lego, la ruota panoramica del Central Pier a Blackpool un banjo. McMor attinge da un baule iconografico pop, tirandone fuori allusioni e figure popolari nell’immaginario collettivo. Quando la fantasia oltrepassa il limite dell’ordinario tutto diventa possibile anche che il David di Michelangelo si trovi addosso dei boxer di Calvin Klein o che il Cristo Redentore di Rio venga abbracciato da un Leonardo Di Caprio come nella cinematografica scena di Jack e Rose sulla prua del Titanic.



L’ “uniforme” della moda no gender tradotta nel design di quattro giovani brand

“Uniforme” dal latino uniformis che ha una medesima forma, un medesimo aspetto, appartenente ad un’uguaglianza espressiva senza confini e limiti di genere. Il maschile e il femminile si includono e, talvolta, si escludono l’un l’altro, per diventare una moda neutrale, super partes, un’identità fluida estranea a schemi e a rigori distintivi. Forme semplice, scambievoli e modulari, senza estremismi di androgenizzazione ma improntati ad un mutuo minimalismo. Una nuova rilettura dell’unisex che si conferma essere il segmento dell’industria della moda che, negli ultimi anni, sta mostrando una maggiore vivacità creativa e un’ottimistica lungimiranza nelle previsioni future. Sulla scia dei corsi e ricorsi di una storia del costume non estranea a questo fenomeno di parità e cavalcando le onde di un trend già in voga negli anni ’60, molti giovani brand stanno lavorando su una nuova ri-definizione di abbigliamento genderless in aperta sfida agli stereotipi di genere e a un vestire funzionale, basico e sostenibile legato ad una mono-estetica maschile/femminile.



CHELSEA BRAVO

“Il mio desiderio è lavorare come un artista” e i suoi abiti diventano le sue tele. Quello di Chelsea Bravo, la stilista dal DNA ispano-caraibico divisa tra la nativa New York e l’adottiva Londra, è un design improntato su un approccio moderno alla vestibilità, fatto di costruzioni, materiali sostenibili e silhoutte sciolte che coniugano forma e funzionalità. Stoffe morbide, sovrapposizioni leggere, dettagli a contrasto che disegnano un’estetica che guarda all’oggi e al domani dando agli abiti, concepiti con uno scopo, un’intenzione e un significato, una continuità nel tempo oltre i trend. Una collezione tra arte e design fatta di tute drop crotch (che ieri come oggi restano un simbolico messaggio di parità di genere, come ci ha insegnato Thayaht), maniche a taglio kimono, pantaloni a gamba larga realizzati con l’antico tessuto della canapa, Miki cap, ritagli incisi, ricami fatti a mano, superfici invase da motivi lineari hand painted, visi astratti tradotti su tessutoispirati al dipinto “Head of a Boxer” dell’artista cubista Henri Laurens.



COLD LAUNDRY

Cold Laundry è un brand streetwear fondato nel 2019 dalla coppia London-based Ola e Cerise Alabi. Un marchio dall’anima etica, filosoficamente distante dalle dinamiche del fast fashion e costruito su un senso di rispetto e gentilezza verso le persone e il pianeta. La sua caratteristica dominante balza subito all’occhio ed è metaforicamente riassunta nel motto di introduzione “Escape the Noise”, “Rifuggi dal Frastuono”. Perché lontana da texture ridondanti, surplus di dettagli e forme stravaganti, l’estetica di Cold Laundry è pulita, minimale, un infuso esperienziale che richiama ad una calma imperturbabile a partire dai toni pacati delle palette monocromatiche, alle linee morbide e dolci degli abiti fino ai peaceful landscape scelti per gli scatti del loobook da Los Angeles a Scottsdale, dalla Sicilia a Milos a San Pedro. La sostenibilità fa da fondamento a una rilettura del guardaroba maschile (hoodie, completi, trench, puffer jacket) che in una vestibilità gemellare coniuga il comfort ad un design attento allo stile. “Crediamo che la moda dovrebbe essere senza confini. Tutti noi dovremmo essere liberi di indossare ciò che vogliamo e come vogliamo, per questo siamo orgogliosi di contribuire a cancellare questa linea di confine”.



I AND ME

I And ME è un brand di abbigliamento denim season-less, sostenibile e unisex fondato nel borgo londinese di Hackney dalla designer Jessica Gebhart (per anni Denim Buyer per Topshop) e da suo marito David. Gli abiti sono semplici, pratici e funzionali nelle forme, ideati per assecondare le linee interscambiabili di corpi maschili e femminili e creati sulla mentalità del “Buy Less Buy Better”. Ogni collezione racconta una storia che parte da un’ispirazione o da un viaggio vissuto (come “One Thing Well” che parla del Giappone o “As Daydreams Go” ispirata al workwear vintage francese), e si traduce in tessuti di alta qualità, artigianalità e collaborazioni come quella, tra le tante, con l’azienda italiana Candiani. La robustezza e la resistenza di questo tessuto, ereditato e tramandato, diventano una sfida e un gioco di versatilità in un design contemporaneo che aspira alla longevità.



CARTER YOUNG

Carter Young è un brand newyorkese fondato dal suo giovane direttore creativo, Carter Altman. Gli abiti sono caratterizzati da una vestibilità non convenzionale, dove gli opposti si sintetizzano in uno stile unisex che prende forma e ispirazione dall’estetica del guardaroba maschile classico. Parole d’ordine: sovvertire il tradizionale e ricontestualizzarlo. I tagli sartoriali si modernizzano su linee dal minimalismo casual, mentre la bellezza dell’artigianalità classica si fonde allo spirito contemporaneo dei codici dello street-style per un abbigliamento in grado di infondere a chi lo indossa un “sense of confidence”, una sensazione di fiducia e sicurezza.



“Transmissions: the definitive story”

La storia dei Joy Division & New Order in formato podcast



“I’ve been waiting for a guide to come and take me by the hand”, questo l’invocante incipit declamato, su un drumming ipnotico, dalla profonda e tormentata voce di Ian Curtis in Disorder. Non c’è stata però per lui alcuna guida “virgiliana” ad afferrargli la mano, ad attenderlo solo i suoi demoni interiori. Ironia della sorte, una frase pronunciata anni prima dall’inquieto “The Lizard King” Jim Morrison, del quale era un grande estimatore, sembra essere stata vate e precorritrice di un medesimo destino: “Quando il mio corpo sarà cenere, il mio nome sarà leggenda”. La morte di Ian Curtis non solo ha mitizzato l’uomo-artista, ma ha fatto del gruppo post-punk dei Joy Division, dei quali era una parte per il tutto, una pietra miliare della storia musicale e delle icone immortali di un immaginario collettivo. Una storia di vita e di morte che intreccia successi, fragilità e rinascite come raccontato nel podcast, in lingua inglese, dal titolo Transmissions: The Definitive Story, uscito il 29 ottobre e prodotto da Cup & Nuzzle, l’azienda di podcast che ha collaborato con Robert Plant in Digging Deep. Un corpus di interviste inedite affidate alle memorie dei membri dei Joy Division e dei New Order (Bernard Sumner, Peter Hook, Stephen Morris e Gillian Gilbert) e ai ricordi rivissuti attraverso le testimonianze degli ospiti coinvolti come Johnny Marr, Damon Albarn, Liam Gallagher, i fratelli Greenwood dei Radiohead, Bono, Thurston Moore, Karen O, Perry Farrell, Pet Shop Boys, Stereolab.


NETHERLANDS – JANUARY 16: ROTTERDAM Photo of Joy Division, Ian Curtis and Bernard Sumner (L) performing live onstage at the Lantaren (Photo by Rob Verhorst/Redferns)

Hot Chip, Anna Calvi, Bobby Gillespie, Shaun Ryder.

La voce dal sussurro solenne dell’attrice britannica Maxine Peake ci immerge nei colori tonali e narrativi di una storia che inizia con tre semplici parole “Band seeks singer” – “Band cerca cantante”- scritte su un annuncio affisso da un giovane Bernard Sumner in un negozio di dischi di Manchester. Risposero in tanti, tra loro anche Ian Curtis che all’epoca lavorava nei servizi sociali come assistente per disabili. “Incontrai Ian all’Electric Circus. Non riesco a ricordare quale concerto fosse. Potrebbe essere stato il terzo concerto dei Sex Pistols. Era facile da individuare, aveva un giubbotto con la scritta HATE scritta in vernice arancione sulle spalle…Sono andato a casa sua a Stretford. Ian mi disse, ‘Ehi, hai sentito questo nuovo album di Iggy Pop? È uscito questa settimana.’ Non avevo mai sentito Iggy Pop. Suonò “China Girl” da quell’album e pensai fosse fantastico, me ne sono subito innamorato e ho pensato… questo è il ragazzo.” Ricorda Peter Hook.


NETHERLANDS – JANUARY 16: ROTTERDAM Photo of Joy Division, Ian Curtis and Bernard Sumner (L) performing live onstage at the Lantaren (Photo by Rob Verhorst/Redferns)


Inizia, così, l’avventura dei Joy Division ripercorsa nel primo episodio di apertura della serie. Un viaggio dagli esordi acerbi ed inesperti dei Warsaw (omaggio omonimo al brano strumentale di David Bowie), nel 1977, alla fulminea popolarità raggiunta sotto il nome romanzato scelto dal “punk colto e introverso” Ian Curtis, la “Divisione della Gioia”, ispirato al libro La casa delle bambole di Ka-Tzetnik 135633 e al tugurio delle donne ebree prigioniere nei lagher nazisti destinate all’intrattenimento sessuale delle SS. Transmissions è una storia di amici, di musica, di case discografiche, club e studi di registrazione sullo sfondo di una Manchester vuota e arrabbiata, dalla tradizione proletaria e avvolta nelle nebbie e nel grigiume di ferro, acciaio e scheletri di fabbriche, ma attraversata nelle sue fondamenta da un energetico flusso di musica e creatività. È una storia che, puntata dopo puntata, indaga in otto episodi le tappe cruciali delle due band in un ricordo corale che diventa “memoria di massa”. Dalla nascita dei Joy Divsion all’alienazione introspettiva dell’album di debutto, “Unknown Pleasures”, pubblicato il 15 giugno del 1979 dalla Factory Records di Tiny Wilson e Alan Erasmus e passato alla storia per la sua iconica e idolatrata copertina realizzata dal graphic designer Peter Saville (l’immagine raffigurante le pulsazione della pulsar CP 1919). Dalla morte scelta di Ian Curtis, suicida a soli 23 anni nella sua casa al numero 77 di Barton Street a Macclesfield il 18 maggio del 1980, alla fondazione dei New Order. Riscattandosi dal peso della precedente eredità, la formazione orfana del suo carismatico frontman si reinventa in un gruppo che rinasce da un patto solenne stretto tra amici “se uno di loro fosse uscito dal gruppo, gli altri tre avrebbero dovuto cambiare nome e genere” e così fu. Con Blue Monday, il brano cult del 1983, la band si esibisce con uno stile completamente nuovo fatto di sintetizzatori e batterie elettroniche, spingendo la tecnologia ai limiti e trovando in questo successo inaspettato il loro futuro artistico.




L’ottava ed ultima puntata di Transmissions si chiude sulla scia delle parole di Bernard Sumner:“Niente ci avrebbe fermato, niente ci ha fermato, vero? La morte di Ian non ci ha fermato, la morte di Rob non ci ha fermato, il furto di tutta l’attrezzatura non ci ha fermato, la morte di Tommy non ci ha fermato. Non c’era alcun piano B, non c’era altra opzione”. La seconda stagione della serie non è stata ancora annunciata, ma potrebbe ripartire da qui per svelarci il resto della storia, fino allo scioglimento degli anni ’90 e alle reunion degli ultimi anni.

“Accidentally Wes Anderson”: la “celluloide” di ispirazione andersiana in formato travel book

È il libro fotografico omaggio alle ambientazioni idiosincratiche ed estetizzanti del regista di Houston, l’unrepentant hipster del cinema americano. Una trasposizione dalle realtà fittizie ed immaginifiche dei favoleggianti diorami andersiani agli iconemi, verosimilmente cinematografici, di spaccati di geografie reali. Un giro del Mondo, in 368 pagine, sulle orme dei profili paesaggistici a immagine e somiglianza dei luoghi partoriti dalla prolifica immaginazione di Wes Anderson (che ne scrive di suo pugno la prefazione del libro). Pubblicato dalla casa editrice britannica Trapeze, è un’avventura visiva affidata all’occhio di 180 fotografi (professionisti e non) accomunati da un unico comune denominatore: una visione del mondo a “simmetrie pastello”.


Accidentally Wes Anderson


Svizzera, Passo della Furka. La foto d’epoca è quella di un alberghetto di montagna dalla facciata a mattoni, con le persiane a battenti color verde bottiglia e la scritta rosso ruggine, situato accanto al ghiacciaio alpino del Rodano ad un’altitudine di 2,429 metri. Costruito nel 1882 da Joseph Seiler. Un tempo panoramica film location di James Bond a bordo dell’Aston Martin DB5 grigia metallizzata in Missione Goldfinger, ora edificio abbandonato. È dell’Hotel Belvédère di Grindelwald la prima foto postata, l’11 giugno del 2017, sulla pagina Instagram @AccidentallyWesAnderson, ma non a caso anche la simbolica foto copertina che fa da biglietto da visita all’omonimo libro. Molti progetti nascono, così per dire, “accidentalmente”, come la storia del fortunato e seguitissimo account da un milione di follower aperto, 3 anni fa, dal content marketer americano Wally Koval. Dall’epifanica rivelazione andersiana, nata sotto le malinconiche atmosfere fiabesche di Rushmore, alla consacrazione della piattaforma social approdata alla carta stampata, c’è di mezzo l’idea di Wally di creare, con la compagna Amanda, un account personale di viaggio, una sorta di bucket list di luoghi, da visitare almeno una volta nella vita, che sembrano a ben guardare estensioni visive dei paesaggi usciti da The Royal Tenenbaum, Moonrise Kingdom o The Life Aquatic. Se l’arte può imitare la vita, forse anche l’altra faccia della stessa medaglia è possibile. Lo dimostra la comunità di Travellers, come Wally ama definire i suoi follower, che in qualunque parte del mondo essi si trovano riescono ad osservare le cose dalla stessa prospettiva, come se le foto fossero scattate da un solo occhio, quello di Wes Anderson.


Facendo uno scroll della pagina Instagram veniamo sopraffatti da uno spirito da “Amarcord”, lo stesso che ci accompagna sfogliando le pagine del libro, ma anche da un fantasticare con gli “alter ego” degli universi paralleli allestiti da Wes Anderson, dei quali sono una mimesi perfetta.  Coordinate tinte pastello, sfumati rétro e colori saturati al limite del fiabesco, composizioni prospettiche, simmetrie perfette e un seducente velo di malinconia agro-dolce che cala suoi luoghi: dai vagoni ferroviari alle funivie anni 60, dalle facciate Art Nouveau alle piscine in stile romano, dagli alberghi alla Gran Budapest Hotel ai palazzi Belle Époque al colonnato neo-barocco delle terme di Mariánské Lázně, passando per stazioni, sale di teatri senza pubblico, stadi senza tifosi, uffici postali dimenticati, fortezze indiane, fino ad arrivare alla casa galleggiante di Crawley e alla Reyniskirkja Church nel remoto villaggio islandese di Vik.

Le 200 location, scelte tra 15.000 immagini in archivio, vanno a comporre i tasselli di un edito atlante di stampe fotografiche e “legende” narranti oltre le facciate che uniscono il Vecchio e il Nuovo Continente, partendo dal cuore dell’Europa, lambendo le isole Svalbard fino a toccare l’Antartide con la stazione britannica di Port Lockroy (dove vengono studiate le colonie di pinguino papua).

In un momento storico in cui siamo costretti, nostro malgrado, ad “appendere le valigie al chiodo”, Accidentally Wes Anderson è un libro che ci invita a ri-innamorarci delle bellezze di un mondo visto sotto altre lenti, perché in fondo da qualunque prospettiva esso si guarda resta sempre un posto meraviglioso.

Il pionerismo elettronico delle “SISTERS WITH TRANSISTORS”

“La storia delle donne è stata una storia di silenzio. La musica non è un’eccezione”. Così viene introdotto SISTERS WITH TRANSISTORS, un inno documentaristico sui primordi inesplorati di una scena musicale elettronica fatta di solitudini creative, libertà individuali, ma soprattutto fatta di donne. Sovversive, emancipate e geniali. Un racconto che parla del coraggio sperimentale di pioniere innovative, compositrici visionare e audaci spiriti controcorrente che hanno ridefinito i confini musicali attraverso l’uso liberatorio di macchine, proto-sintetizzatori, bobine, nastri magnetici e tecnologie primordiali.



Sono le “eroine” portate in scena dalla regista Lisa Rovner e raccontate dalla voce narrante di Laurie Spiegel, una di loro. Una sequenza di filmati d’archivio, interviste, performance e registrazioni audio che, in un viaggio evolutivo e intimisticamente polifonico, rompe il silenzio sulle figure tenaci ed eccentriche della musica elettronica, oscurate dall’egemonica società patriarcale del XX secolo e ridotte a cammeo artistico di un milieu di cultori. “Noi donne eravamo particolarmente attratte dalla musica elettronica in un’epoca in cui già una donna che componeva musica era un concetto di per sé controverso – spiega la Spiegel – L’elettronica ci permise di fare musica che arrivasse ad altri senza che questa dovesse essere presa sul serio dall’establishment maschile dominante”. È l’esigenza di scoprire nuove forme, immaginare musiche e creare nuovi linguaggi attraverso suoni futuristici ed inediti all’orecchio umano, come quelli ipnotici, freddi e eterei del theremin, una scatola (cabinet) con due oscillatori armonici suonata attraverso la sola modulazione delle mani nello spazio.


“Ho concepito uno strumento in grado di creare suoni senza l’uso di energia meccanica, come un direttore d’orchestra”, dichiara l’inventore del primo strumento elettronico della storia, il fisico russo Lev Sergeevič Termen. Ma è nel 1928 quando la sua eccentrica creazione diventa storia grazie al sodalizio artistico e al cammino di sperimentazione intrapreso con, l’allora diciassettenne Clara Rockmore. La bambina prodigio, colpita giovanissima da un’impetuosa forma di artrite, che fu costretta ad abbondonare il suo violino e destinata a diventare la “virtuosa del theremin”, la più grande interprete di ogni tempo. “Ero affascinata dalla parte estetica, dalla bellezza visiva, dall’idea di suonare nell’aria. Mentre suonavo pezzi più difficili, ho sempre dovuto inventare un modo per poterli eseguire. Ci sono stati molti tentativi ed errori, ma il theremin ha salvato la mia vita dandomi uno sbocco nella musica. È stato molto gratificante riuscire a realizzare qualcosa da uno strumento che nessuno si aspettava e che forse non era nemmeno immaginabile. Ma avevo bisogno di esprimere me stessa”.

Un bisogno di espressione e di insaziabile curiosità che fa da apripista alle altre tenaci donne dell’elettronica e protagoniste di Sisters with Transistors. Daphne Oram, co-fondatrice dell’autorevole Radiophonic Workshop (il laboratorio di effetti sonori della BBC). La prima donna a dirigere in completa autonomia uno studio di registrazione, gli Oramics Studios for Electronic Composition a Tower Folly, nel Kent. Una tra i primi compositori, nella Gran Bretagna degli anni ‘50, a produrre suoni interamente elettronici. Ideatrice della tecnica sonora Oramics che, utilizzando segni grafici tramite un apposito strumento elettronico monofonico, battezzato Oramics Machine, genera suoni di sintesi. Bebe Barron, con suo marito Louis fonda, nel 1949, uno dei primi studi privati di registrazione nel Greenwich Village. Nel 1956 il duo avanguardista realizza la prima colonna sonora elettronica della storia per il film Forbidden Planet realizzata con “ronzii, pulsazioni, urla, gemiti, mormorii” generati da circuiti cibernetici, chiamati “modulatori ad anello”. Pauline Oliveros, influente compositrice del ventesimo secolo e membro fondatore del San Francisco Tape Music Center, lo studio elettronico determinante nella creazione di uno dei primi sintetizzatori, il Buchla 100. Delia Derbyshire, laureata al Girton College di Cambridge in musica e matematica, ha dato il maggior contributo tecnico e compositivo al genere. Eletta “Cult-hero” per aver realizzato, nel 1963, l’arrangiamento elettronico della serie televisiva di fantascienza Doctor Who. Maryanne Amacher, pioniera della sound art e della speculazione musicale nel campo della psicoacustica. Eliane Radigue, nel 1970 dalla Francia si trasferisce a New York. “Quello era l’unico paese in cui c’era una grande disponibilità di sintetizzatori. Moog, Buchla, i sistemi modulari, tutte macchine che avevano come vantaggio quello di permetterci di produrre suoni con un controllo che non riuscivamo ad avere con i due vecchi registratori”. È una delle prime ad aver sperimentato la drone music, figlia del minimalismo, è una forma musicale basata sulla ripetizione prolungata di un tono. Suzanne Ciani, musicista statunitense di origine italiana, la “computer wizard”, come l’apostrofa David Letterman nel suo Show, o più comunemente conosciuta come la “Diva del Diodo”. Specializzata in sound design. Con il suo mentore e inventore Don Buchla collabora alla progettazione di un nuovo sintetizzatore, il Buchla 200. Compositrice di colonne sonore e di albumdi musica elettronica, tra cui Hotel Luna che le valse una nomination ai Grammy. “Fare musica elettronica in quei tempi era un’esperienza strana, anche piuttosto solitaria”, ricorda Ciani. “Si programmava la musica e la si fissava su schede perforate che sarebbero state elaborate dai computer solo il giorno dopo. Quindi tu immaginavi la tua musica e poi la potevi sentire il giorno dopo”. Laurie Spiegel, apprezzata autrice di musica ambient, una delle maggiori esponenti di musica elettronica degli anni ’70, grazie all’utilizzo di composizioni che sfruttano algoritmi logico-matematici, e famosa per il software Music Mouse del 1986. Alla fine degli anni’70 Jef Rakin le regala il prototipo dell’Apple II, diventando una delle prime compositrici ad utilizzare il computer come mezzo creativo.

Sisters With Transistors è molto più della semplice storia di un genere musicale. È il racconto del ruolo cruciale, ma ancora poco conosciuto, che queste donne pioniere hanno giocato in questa “narrazione”.


Playlist Spotify


Clara Rockmore – The Firebird: Berceuse (Arr. For Theremin and piano)

Daphne Oram– Melodic Group Shapes

Bebe Barron – The Forbidden Planet

Pauline Oliveros – Alien Bog (1967)

Delia Derbyshire – Doctor Who Opening Title Theme

Maryanne Amacher – Excerpt from Stain – The Music Rooms

Eliane Radigue – Jetsun Mila / Birth and Youth

Suzanne Ciani – A Sonic Womb

Laurie Spiegel – Old Wave

Narrazioni di una moda “cross-cultural”: incontro tra culture, tradizioni e sostenibilità

Gli abiti con le loro trame e i loro intrecci si trasformano nel racconto identitario di chi li realizza. Tessuti, stampe, tagli e cromie diventano la narrazione visuale di popoli, comunità e luoghi. Esploratori di radici, crocevia di retaggi e di culture condivise. A realizzarli sono giovani fashion designer, figli dell’emigrazione culturale e generazionale, dall’upbringing eurocentrico ma dall’estro nativo. Esportatori di una tradizione che diventa ibrida inclusione con lo spirito innovativo del multiculturalismo metropolitano, ma anche disegn creativo che si fa portavoce della ridefinizione di una moderna mascolinità cross-cultural”. Le collezioni sono un invito ad una riflessione aperta ed a una conversazione senza pregiudizi sulla bellezza e sulla percezione della diversità tra culture e tradizioni.



PARIA FARZANEH |Iran/Londra|

La designer di origini iraniane, dopo la laurea alla Ravensbourne University, si è rapidamente imposta sulla scena dello streetwear, nel 2017, grazie alle sue creazioni di fusione e ad un’armonia sinergica tra i poetici motivi persiani e il brulicante contesto urban londinese. I tagli occidentali si sagomano su pattern e colori della tradizione medio-orientale. Le foglie lanceolate del paisley, le stampe xilografate del Ghalamkar (realizzate a mano nella città dei calligrafi e degli stampatori di Isfahan) e i motivi delle ceramiche iraniane diventano sfondi ed intarsi di gilet, track jacket, maglioni e camicie. Le giacche imbottite si muniscono del crimeano cappuccio balaclava e i pantaloni cargo si colorano del verde militare delle uniformi di combattimento. Il tecnologico Gore-Tex incontra l’artigianalità sostenibile delle stoffe persiane. Uno spaccato dell’Iran che Paria non solo esporta nella creazione dei suoi abiti, ma che fa rivivere anche nella narrazione dei sui show, come “Ceremony”, l’emblematica sfilata ispirata alla tradizione dei matrimoni in Medio Oriente. O quella legata all’influenza del Nowruz, il capodanno persiano dei rituali e dell’equinozio di primavera. “Cerco di accompagnare il pubblico in luoghi nei quali non sono mai stati. Non si tratta soltanto di spingerli verso un prodotto o un trend”.



PAULO E ROBERTO RUIZ MUÑOZ |Perù/Parigi|

Paulo e Roberto sono designer, gemelli, limegni di origine, parigini di adozione e fondatori del marchio D.N.I. (Documento Nacional de Indentidad), il brand di moda sostenibile promotore della visione di un Perù contemporaneo svincolato dai pregiudizi, spesso, legati all’America Latina. Il loro è una narrazione stilistica che parte dai ricordi: la cittadina natale Casa Grande, le vecchie foto di famiglia, i giochi in strada, i barconi da pesca, le botteghe del quartiere, i mototaxi, le persone del posto. Un viaggio emozionale tra passato e presente. Un linguaggio che mescola, con innovativa sapienza creativa, le materie prime autoctone, la cultura chicha, l’artigianalità millenaria del Perù e i suoi simboli: i francobolli, la vigogna, l’aguayo, il lama e il Machu Picchu. D.N.I., inoltre, fonda la sua filosofia sul rispetto di un’economia circolare fatta del riutilizzo di tessuti di alta qualità, provenienti da stock di lusso, e del recupero di materiali di scarto come legno, monete e catene usati per realizzare gioielli.



PRIYA AHLUWALIA |India- Nigeria/Londra|

La giovane fashion designer, nata nel 1992 da padre nigeriano e madre indiana, ha fatto del suo eponimo brand un lavoro stilistico di esplorazione, ricerca e sensibilizzazione alla sostenibilità. Priya mescola gli elementi dell’eredità nativa con le radici londinesi, ispirandosi ai volti che incontra su Goldhawk Road, al Columbia Road Flower Market e a Brixton, e sfruttando le potenzialità del vintage e del riciclo per dare ai tessuti e agli abiti una seconda vita e al guardaroba maschile una nuova identità. L’impegno verso una moda etica nasce dall’esperienza dei due viaggi intrapresi, nel 2017, a Lagos, in Nigeria e a Panipat, la città a 90 km da Delhi conosciuta a livello mondiale come il “cimitero dei vestiti usati”, ultimo approdo dall’Occidente degli abiti dismessi o donati ad associazioni caritatevoli. Muovendo proprio dalle sue radici porta alla luce storie dell’industria dei rifiuti dell’abbigliamento e li traghetta verso una visione contemporanea. Un mix e match di ispirazioni dove i materiali riciclati si legano a doppio filo ai nuovi tessuti eco-compatibili e ai tagli laser, il patchworking da “seconda mano” alle macro geometrie di Barbara Brown e ai check del periodo ska, gli abiti sartoriali allo streetwear e ai lounge pants ispirati alla cultura rave degli anni ‘90.  



AMESH WIJESEKERA |Sri Lanka/Londra|

Amesh Wijesekera è lo stilista cingalese dalle colorate creazioni che raccontano, con uno sguardo immerso nella modernità londinese, il “Made in Sri Lanka”, il design contemporaneo, l’artigianalità locale e la bellezza dell’Asia del Sud. Il suo è un viscerale amore per i tessuti, che si traduce in un prezioso lavoro di cooperazione con gli artigiani e le donne dell’isola, e per le tinte forti e psichedeliche, che rievocano tutta l’energia esotica della sua terra. L’uncinetto, la maglieria, i telai a mano, il batik e i tessuti trafugati nel mercato di Pettah, a Colombo, si incontrano e si fondono con le avanzate tecniche digitali dando vita a creazioni interamente realizzate a mano. È un brand che non solo ha sposato la filosofia della sostenibilità e del riciclo, ma è anche una celebrazione della diversità, della fusione culturale, dell’individualità e del senso di libertà. “La moda è il mio mondo fantastico dove posso esprimere me stesso. Dove non esistono barriere”.



RAHEMUR RAHMAN |Bangladesh/Londra|

Rahemur, nato a Londra da genitori bengalesi, usa la moda come creativo strumento di retell per ritrarre ed esplorare, a suo modo, il fascino identitario della terra di origine, il Bangladesh. Il suo è un colorato mosaico di storia e tradizione, di pattern grafici e texture, di sensibilità sostenibile e consapevolezza ecologica, del folclore dell’Asia del Sud e della vivacità londinese del borgo di Tower Hamlets. Rahman è un elegante e giocoso cromatista, tanto che i suoi sono abiti realizzati “for people who dream in colour”, come testimonia la collezione ispirata alla palette di vecchie foto di famiglia di un matrimonio degli anni ’90: rosa pastello, verde menta, tè blu, marrone rètro. Ma è anche un fervido sostenitore dell’eredità del tessile e della cultura sostenibile fatta di tessuti organici, come la seta biologica e il cotone khadi, e di tinture naturali, come l’indigo. È una cultura di appropriazione restituita come eredità da condividere e proteggere.

Optimo: l’arte di fare cappelli made in Chicago

Chicago, la Toddlin’ Town cantata da Frank Sinatra, famosa per le sue architetture, i Bulls, la deep dish e “The Blues Brothers”, ha un’istituzione cara ai Chicagoans, ai gentlemen modaioli e agli appassionati di cappelli su misura: OPTIMO. Ultimo avamposto, in città, di quel lussuoso e artigianale saper fare di altri tempi che ha fatto dell’evergreen ricercato un antidoto alle passeggere stagionalità della moda. 

Il fondatore Graham Thompson, pronunciato ‘Gram’ all’americana maniera, appassionato di film noir, blues, sigari e cappelli alla Orson Welles e alla Robert Mitchum, sin da giovanissimo, è stato un cliente abituale della storica cappelleria del suo mentore e master-hatter, Jonny Tyus. Quando viene a conoscenza del suo imminente pensionamento, dopo 42 anni di attività, Thompson decide di portare avanti la sua eredità nel South Side, nel quartiere delle mercerie e dei cappellai, e a soli 22 anni, nel 1995, rileva l’intera attività ribattezzandola Optimo Hats. Di quella piccola “bottega” frequentata da professionisti, ragazzi del posto, hustler e musicisti blues, lo store al 51 di West Jackson Boulevard, nel magnifico Monadnock Building, respira ancora oggi un afflato dal gusto rètro: luce soffusa, un lungo bancone di legno scuro, pareti e vetrine “rivestite” di cappelli perfettamente allineati, come se fossero opere d’arte in una haberdasherydegli anni 40.

Lontani da vezzi, stravaganze e orpelli creativi tipici del design di avanguardia, i cappelli Optimo sono ancorati alla classicità senza tempo degli intramontabili Fedora (la maggior parte realizzati in feltro di castoro che, a detta di Graham, equivale al cashmere nella maglieria), dei Montecristi Panama (realizzati con le fibre delle foglie dell’ecuadoregna palma toquilla) e dei Milan straw (i pregiati cappelli di paglia di grano caduti in disuso negli anni 50 per gli elevati costi di produzione). L’eleganza è fatta di dettagli e sono proprio i materiali, i modelli, i più ricercati gros grain, la larghezza della falda, l’altezza della corona, gli intrecci e le proporzioni a fare di questo pregiato su misura un unicum nel suo genere. I capelli devono rappresentare lo stile e la personalità di chi li indossa, devono essere la sua presentazione e il suo biglietto da visita. Non a caso, al “take away” da negozio o all’acquisto online, si preferisce prima la modalità della “chiacchierata conoscitiva” (telefonica o in store), in fatto di style e lifestyle, per realizzare il perfetto bespoke hat, fedele espressione di chi lo indosserà. Optimo, oltre ad aver conquistato le teste di molte celebrities da Johnny Deep alla leggenda del blues John Lee Hooker, è diventato un go-to brand appetibile a molti costume designer del cinema Hollywoodiano. Graham, infatti, ha realizzato cappelli per Ben Affleck nel film ‘Live by Night’, per Michael Shannon in ‘The Shape of Water’, Leonardo Di Caprio in ‘J.Edgar’, Sean Penn, Daniel Craig e Tom Hanks in ‘Road to Perdition’.

Dal 2017 Optimo ha una seconda anima produttiva e commerciale. Thompson ha scelto come nuovo headquarters una vecchia caserma dei pompieri, del 1914, nel quartiere di Beverly. Il progetto degli interni è stato realizzato dallo studio SOM che, interpretando i principi di Optimo, si è ispirato ai concetti di lusso, eleganza e artigianalità senza tempo. Un’estetica industriale che accompagna i clienti in un viaggio materico-visivo nella storia, nel design e nella memoria del brand: acciaio, noce e sughero; scaffali alti fino al soffitto pieni di forme e modelli di cappelli; antiche macchine del 1920 e 1950; pressatrici, apparecchi per la vaporizzazione, le storiche macchine da cucire Singer. Tutto prende vita e forma da una genuina tradizione che sa di bottega con un abito da atelier.

Nella fugacità usa e getta delle mode, alla stregua di un orologio fatto a mano o di un paio di scarpe realizzate su misura, i cappelli Optimo restano dei survivor di quell’eccellenza artigianale che non conosce l’usura e le logiche del tempo. E se è destinato a durare anche un “per sempre”, allora acquistare un “Chicago” a $1195 potrebbe essere visto anche come buon un investimento.”The longer you wear an Optimo hat, the more you understand how a great hat should look and feel.” (Graham Thompson).

I 50 anni di Glastonbury nell’estate silente dei festival

“Do you recognise this noise?” È il suono del calpestio danzereccio dei piedi, del battito secco e ritmato delle mani, è l’odore dell’estate e l’eco corale di milioni di voci che colorano i luoghi di “culto” della musica dal vivo. È il rumore insonne e festoso dei figli putativi di “Woodstock” e dell’”Isola di Wight”, di quell’itinerante comunità di revellers che, ogni anno, affolla i “vivai del suono” a partire dai palchi del Coachella, nei californiani Empire Polo Fields di Indio, fino ad arrivare nel cuore dell’Europa, nella campagna verde e fangosa della contea del Somerset, per il Glastonbury Festival.

Nel settembre del 1970, il giorno dopo la morte di Jimi Hendrix, il lattaio di Pilton Michael Eavis allestisce, nella Worthy Farm di 150 acri ereditata dal padre, il primo sperimentale antesignano del “Glasto”, il Pilton Pop, Blues & Folk Festival. Marc Bolan, Keith Christmas, Stackridge e Al Stewart si esibiscono davanti a un pubblico di 1.500 persone simbolicamente paganti, il prezzo di una sterlina incluso il latte gratuito della fattoria. L’anno successivo prende forma e sembianza il Glastonbury Fayre, un grande raduno hippie dal libertino e idealistico spirito da “Summer of Love” documentato, in chiave cut up, nell’omonimo film diretto da Nicolas Roeg e Peter Neal.



La seconda edizione è ricordata come uno degli avvenimenti leggendari della musica underground inglese, una delle rare occasioni in grado di superare le barriere tra il pubblico e i musicisti, con musica, danza, poesia, teatro ed esibizioni estemporanee. È anche l’anno in cui a esibirsi è un giovane capellone, sconosciuto ai più, un certo David Bowie che si presentò bizzarramente vestito in foggia androgina con cappello da moschettiere, pantaloni a zampa e scarpe con tacco alla “Re Sole” e cantava, al levar del sole, il viaggio spaziale di Major Tom di Space Oddity.

Gli anni ottanta hanno visto il Festival trasformarsi in un vero e proprio evento annuale che, nonostante il clima non sempre favorevole, ricordiamo le piogge torrenziali del 1985 (che non impedirono di certo agli audaci partygoers di assistere agli spettacoli con la fanghiglia alta fino alle ginocchia), resta uno degli appuntamenti più attesi e longevi. Uno straordinario melting pot di arte, musica (non c’è nome che conti che non abbia calcato il suo palco) e persone. “Puoi sederti intorno ad un falò qualunque o fare la fila a una bancarella e sentire come un caldo abbraccio collettivo. Guardi un estraneo e ti rendi conto di avere tantissime cose in comune”. Ci sarà un motivo perché i biglietti (al costo di 250 sterline) sono sold out in una manciata di minuti mesi prima dell’evento, quando ancora non si ha la più pallida idea di quale sarà la line up dei cantanti?

Il Glastonbury è un “luna park” ideato su misura per i bambini e fatto a misura di “festival habituè”, è intergenerazionale, è un punto di unione tra culture, è respirare per tre giorni una libertà parallela e anacronistica, è immergersi in una gioviale atmosfera atemporale. 



La bucolica Valle di Avalon, la leggendaria isola di Re Artù e del Sacro Graal, e la distesa da 900 acri della tenuta di Michael Eavis, anche quest’anno, erano pronti ad accogliere gli oltre 180.000 festanti “pellegrini” per celebrare tutti insieme quello che sarebbe stato il Festival dei Festival. I 50 di Glastonbury. Ma il 24 giugno non ci saranno “wellies”, tende e campeggi a calpestare le verdi campagne della storica Worthy Farm. Il Pyramid Satge di Bill Harkin dall’alto dei suoi 30 m non si illuminerà a festa. L’evento è annullato. Così come non ci sarà il consueto raduno, in mezzo al Danubio, della “Love Revolution” con i suoi 400.000 Szitizens e la baldoria dei 60 palchi dello Sziget sull’isola della libertà di Óbuda, a nord di Budapest. Gli spettacoli pirotecnici e i colori iper saturi delle scenografie idilliache e favoleggianti del Tomorrowland non illumineranno il cielo della piccola cittadina belga di Boom. Anche il tempio della musica elettronica spegne le sue console. Nel cuore del deserto del Nevada il grande fantoccio di legno non brucerà nel rituale del Burning Man. La sua comunità non celebrerà il solstizio d’estate nell’immaginaria città dall’anarchia organizzata di Black Rock City. Per le strade di Perugia, nell’Arena Santa Giuliana, in Piazza IV Novembre e nel Chiostro di San Fiorenzo non echeggerà il beat del jazz. 

Dal Sonar di Barcellona all’Ariano Folk Festival, la musica dal vivo indossa la fascia nera al braccio. Tutti gli eventi sono annullati a causa dell’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia di Coronavirus. I lavoratori dei concerti sono stati i primi a chiudere e saranno gli ultimi a riaprire. Se per gli altri ambiti culturali di “visione”, come il teatro o il cinema, è possibile pensare a protocolli di ripartenza, per i luoghi di “interazione”, come i festival musicali, ciò crea dei cortocircuiti. 



Un Festival, come ci suggerisce l’etimo stesso, è una grande “festa” che non conosce, per sua natura, forme di distanziamento. È aggregazione, socialità, condivisione. È massa, contatto, è il piacere di stare insieme. L’idea di contingentare la folla riducendola a mò di soldatini di terracotta trincerati in quadrati divisori, apparirebbe difficile e contro natura. Per questo, in tanti pensano che una vera ripresa del settore dei concerti non avverrà fino alla scoperta e alla distribuzione del vaccino: cioè quando il rischio del contagio sarà riportato allo zero o quasi. Spesso abbiamo sentito la frase “Music will save the world|La musica salverà il mondo”, questa volta ha incontrato un avversario più temibile della sua forza. Ma ritorneremo laddove abbiamo lasciato. È solo un momentaneo “a data da destinarsi”.

I libri “Couture” di Assouline: tra stile, artigianato di lusso e “Art de Vivre”

Chi sono Prosper e Martine Assouline? “Librai del lusso”, “maestri dell’haute couture editoriale”, esteti eclettici volti al culto di una bellezza voluttuaria incarnata nell’opulenza del più pregiato degli accessori, il libro. Sono loro i fondatori, pioneristici e avanguardisti, dell’omonima casa editrice icona del luxury publishing mondiale e i precursori di una “cultura del lusso” personificata nel libro di nicchia, un object d’art da arredo e collezione. Che poi lusso non è sinonimo di ricchezza ma, come ben scriveva Franca Sozzani in suo editoriale, “lusso oggi sottintende esclusività, quasi unicità e non perché è per pochi, ma perché è speciale. Il lusso è la ricerca, la possibilità di sperimentare nuove strade, di trovare nuove soluzioni che non siano troppo ovvie e già viste”. 

E animati dallo spirito di questa “nouvelle vague”, agli inizi degli anni 90, i coniugi Assouline portano l’intuitiva e moderna visione dei libri illustrati su un mercato ancora troppo tradizionalista e manchevole di pubblicazioni “modaiole”. Nel 1994 Prosper e Martin decidono di dedicare un libro fotografico al loro albergo preferito La Colombe D’Or, un piccolo rifugio amato anche da Jacques Prévert appena fuori il paesino di Saint-Paul de Vence, conosciuto nel mondo come un luogo intimo dove l’art de vivre provenzale si sposa con una sbalorditiva collezione privata di arte moderna, “per noi è la quintessenza del lusso, un luogo dove si possono mangiare semplici pomodori circondati da quadri di Picasso e Léger”. Dopo questa dedica d’amore, con la fortunata serie “pilota” Memoire de Mode, omaggio ad alcuni grandi stilisti, scelgono un edificio di Park Avenue, nella New York internazionale e cosmopolita, come headquarters del loro ricettacolo di stile e cultura, la Maison D’Édition Assouline. E nel 2014 aprono il loro primo flagship nel cuore della trafficata Piccadilly Circus, in una vecchia banca progettata da Sir Edwin Lutyens nel 1922. 

Un’univoca filosofia di congiunzione è alla base delle oltre 1500 pubblicazioni del marchio Assouline: una riconoscibile identità grafica, un savoir faire editoriale, una contemporanea e immediata narrazione visuale. Ma anche:

Il sapere osservare un “soggetto” da una prospettiva diversa, inedita, come accade in Dinner with Jackson Pollock”. Un percorso fotografico tra le stanze e il giardino della dimora di Springs a Long Island, lo studio di Pollock, i ritratti e le pietanze che l’artista e sua moglie, Lee Krasner, amavano offrire ai loro ospiti. Scoprendo così un “Jack the Dripper”, non solo pittore, ma anche un baker amante di impasti e torte fatte in casa, dedito alla pesca, al giardinaggio e alle primizie di stagione. Il libro – con prefazione di Francesca Pollock, nipote del pittore – illustra una cinquantina di ricette che collezionano gli spunti scritti a mano da Lee Krasner, le creazioni di Pollock e le ricette tradizionale di sua madre Stella, ma anche molti suggerimenti di amici celebri.

Ostentare il lusso con un elogio al luxury bookmaking artigianale, come accade in The Impossibile Collection of Bentley”. Un pregiato coffee table book da $ 1,450.00 rilegato in pelle avorio per celebrare, in pompa magna, il centenario della famosa casa automobilistica britannica fondata nel 1919 dal giovane ingegnere Walter Owen Bentley. Un elegante tour fotografico attraverso 200 pagine, 150 illustrazioni e 100 rivoluzionari e gloriosi modelli Bentley dalla 3-Litre che vinse Le Mans alla lussuosa S2 fino alla coupé Continental GT.

Progettare Special Edition, come in Mosques: The 100 Most Iconic Islamic Houses of Worship”. Un libro, in sole 300 copie, realizzato in seta, velluto ed intrecci di fili d’oro che accompagna i lettori all’ingresso dei 100 edifici di preghiera più significativi del mondo, per celebrare la grande bellezza delle meraviglie architettoniche. I luoghi di culto, da tempo immemore, sono stati il segno della “grandezza umana”: più nobile e sontuoso è il tempio, più nobile è la società. E di questo spirito di magnificenza non fanno eccezione le imponenti architetture delle moschee islamiche con i loro pregiati decori, smalti, intagli, marmi e ceramiche. 

Parlare di stile, come in Gaetano Savini: The Man Who Was Brioni”In un’epoca in cui Savile Row era sinonimo di stile degli uomini, un italiano, Gaetano Savini, ha reinventato la moda maschile con il marchio di lusso Brioni, e la sua lungimirante eredità viene celebrata in questa spettacolare edizione illustrata. Piena di lettere, fotografie e aneddoti personali, questo volume racconta il marchio conosciuto come “il Dior dell’abbigliamento maschile”. 

Viaggiare con l’immaginazione, come accade con il volume oversize dedicato ad AIUla”. Un viaggio, in formato XXL, nella fertile e remota Valle di AIUla, in Arabia Saudita, con le sue oasi incontaminate, i dipinti rupestri, le maestose tombe scavate nelle rocce, le aspre montagne e i suggestivi canyon.

“Noi amiamo i libri più di qualunque altra cosa. Sono la testimonianza del presente e del passato. Sono eredità e innovazione. Sono ciò che resta nella fugacità del digitale”.

Intervista a Paolo Borghi – Il suonatore di Hang

Era il 1976 quando, per le strade di Berna, alcuni musicisti provenienti dall’isola caraibica di Trinidad suonavano una sorta di tamburo metallico, lo steelpan. «Non si può definire musica. Era una specie di bagno di suoni», ricorda Felix Rohner (l’artigiano inventore dell’hang insieme a Sabina Schärer).

«Tutti ballavano attorno ai musicisti. Sono rimasto colpito dall’effetto di questo strumento sulla gente e così il giorno dopo ho cercato di costruire una sorta di tegame da questo tamburo metallico». 

Da quel giorno Rohner, ha creato diversi tipi di pentole di acciaio e dopo anni di tentativi, modifiche e miglioramenti riuscì a mettere a punto l’”archetipo”, il primo esemplare. Così nel 2000 dalla fusione del gong, del ghatam, del tabla e dei cimbali tibetani prende forma un disco lenticolare a percussione metallica formato da due semisfere di acciaio, l’HANG, che in dialetto bernese significa “mano”.

Il suono, infatti, viene emesso tramite il contatto corporale con il metallo. I polsi, i palmi e le dita toccano e sfiorano a mani nude il corpo dello strumento che, nelle sue vibrazioni ferrose, emette all’udito suoni trascendentali, mistici e intensi con il suo effluvio armonico di colori tonali.

Sulla strada di questo ancestrale “suono idiofono” ci imbattiamo nella storia di un busker dell’hang, Paolo Borghi. Emiliano, classe 1983, performer autodidatta, costruttore di strumenti inusuali e ricercati, musicoterapista e ideatore del metodo di rilassamento Sonum Sound Healing. 

Raccontaci il tuo primo incontro con l’Hang. E di come, questo strumento, ti abbia cambiato (professionalmente) la vita.

Il mio primo incontro con l’Hang è avvenuto 14 anni fa, sbirciando per caso la stampa di un foglio A4. Durante una chiacchierata col fidanzato della mia vicina di casa, anche lui appassionato di percussioni e in attesa del momento “giusto” per acquistare questo strumento, mi disse: “Il suono dell’Hang? E’ una figata!”.

Sulle prime non mi sono fidato della sua opinione. Non essendo riuscito a sentirne il suono, non mi colpì. Il vero e proprio colpo di fulmine avvenne solo dopo. Facendo delle ricerche di musicoterapia mi imbattei in uno strumento simile, lo steeldrum.

Lo cercai disperatamente, ma risultando introvabile mi spinsi più in là con delle ricerche incrociate fino a scoprire l’esistenza dell’Hang e del suo fantastico mondo. L’incontro con questa percussione ha dato il via a ciò che, ora, è la mia vita professionale.

Ero un falegname, costruivo scale in legno, e questo strumento mi permise di intraprendere dapprima il mio percorso lavorativo come suonatore di Hang e, successivamente, di integrarlo e completarlo con la musicoterapia.


Se dovessi spiegare a chi non hai mai visto o sentito il suono di un Hang, emozionalmente come lo descriveresti? 

Ricco, affascinante e armonico. Questi sono i 3 termini che maggiormente descrivono il suono unico dell’Hang. Un suono che rapisce i sensi, tocca l’emotività e, talvolta, può risultare anche sconvolgente.

Spiegare a parole l’impatto di questo suono non è facile. Per me è come un’onda che ti investe per poi lasciarti andare. Coloro che costruiscono gli Hang sostengono che sta tutto all’ascoltatore capire e percepire l’effetto del suono dell’Hang sul proprio “Io”.


Come performer hai viaggiato molto, ma qual è stato il luogo che ti ha dato di più. Quello in cui come musicista ti sei sentito più a “casa”? 

Sembrerà strano ma il luogo dove mi sento più a casa è proprio casa mia! La mia terra mi ha sempre fatto sentire a mio agio.

Tra i luoghi che mi sono entrati nel cuore ci sono la “Casa della Musica” di Quito e “Casa Bocelli” dove ho avuto l’onore di partecipare ad un evento di beneficienza. In quell’occasione ho potuto respirare davvero aria di “Musica” tra i tanti ospiti celebri di quella serata, tra i quali John Legend, Lyonel Ritchie e lo stesso Andrea Bocelli.

Se, invece, parliamo di un luogo unico allora parliamo della Biblioteca Solvay di Bruxelles. Una biblioteca difficilmente visitabile, in quanto privata, un luogo dove l’architettura in legno e le grandi ricchezze bibliografiche sono contenute in un ambiente di pregio e fascino. Parlando, invece, del luogo dove mi sono sentito più in “simbiosi” con la natura è stato Cape Town. Una città dove ho vissuto e dove ho sentito il reale attaccamento alle origini della musica a percussione.

Quali messaggi si celano dietro le note delle tue due ultime composizioni “Shap Shap” e “Okeanòs”?  

“Shap Shap” e “Okeanòs” nascono in questo periodo di quarantena dovuta al Coronavirus, quindi da un punto di vista emotivo hanno un significato particolarmente importante.

Specialmente “Shap Shap”, che in lingua Xhosa significa “Va tutto bene”, è un messaggio di speranza e di positività e proviene dal lembo più meridionale dell’Africa, da un luogo vicino al Capo di Buona Speranza dove i due oceani, Indiano e Atlantico, si uniscono alla terra.

“Okeanòs”, invece, è un brano composto dal mix di ritmo e dolcezza, che ricorda la divinità greca, il Titano Oceano, capace di dominare e placare anche le peggiori tempeste marine per riportarle allo stato di “Calma”.

Qual è il brano, o i brani, ai quali sei più legato? E perché?

Ci sono diversi brani a cui, per motivi diversi, sono particolarmente legato. “Electronic Flight” mi è entrata nel cuore perché è nata di “getto”. In poco più di una giornata ho composto la ritmica di uno dei brani di maggior successo.

Per il significato, invece, tengo particolarmente a cuore “Antika Goree”, un brano che si intreccia alle origini della musica a percussione ma soprattutto si lega alle “Ninne Nanne” che le donne africane cantavano ai propri piccoli per lenire i dolori provenienti dal rapporto conflittuale della popolazione con la loro terra d’origine. Non posso nascondere, però, che anche “Ametista” e “Verso il Sole” siano entrati nel mio “Io”. 

In un momento “entropico” e disarmonico, come quello che stiamo vivendo, forte è il bisogno di riarmonizzare il nostro equilibrio interiore, da musicoterapista quale consiglio puoi dispensarci da poter mettere in pratica mentre siamo ancora a casa?

Il segreto per affrontare questo periodo disarmonico? Cercare l’armonia. L’armonia si può raggiungere anche e soprattutto attraverso la musicoterapia.

Una disciplina che trova il suo essere proprio nell’ascolto della musica, e dei suoni, come strumento riabilitativo sulle emozioni di cui il nostro animo ha bisogno per stare bene. La musica suscita diversi sentimenti ed emozioni: dal pianto alle urla di liberazione alla felicità.

Affidarsi alla musica risulta, quindi, di importanza rilevante specialmente in periodi dove il nostro “io” è messo maggiormente alla prova e necessita di una profonda pulizia e trasformazione. Il mio consiglio è quello di creare delle playlist personalizzate che rispondano alle necessità individuali nei vari momenti della vostra giornata.

Progetti lasciati in sospeso in attesa di essere realizzati? 

Da buon ex falegname sono abituato a “programmare” le mie attività ed i progetti a seconda del tempo a disposizione, quindi, fortunatamente non ho mai avuto grandi progetti pendenti e sospesi.

Attualmente, nel periodo di stop forzato delle mie attività, ho approfittato per andare ad affinare le mie tecniche sonore seguendo a mia volta dei corsi, ho dato una rinfrescata alla mia immagine ed al mio brand e mi sono sperimentato su alcuni aspetti che non avevo avuto il tempo di provare, come ad esempio le dirette social sulla mia pagina facebook.

La moda del “distanziamento sociale”

“Il futuro inizia con una scintilla, un’intuizione. Una nuova consapevolezza che spezza le catene del passato e ispira la tecnologia a immaginare nuovi mondi” afferma Ridley Scott. 

Quando questi nuovi mondi incontrano il progresso tecnologico e la ricerca creativa, allora è legittimo pensare e creare futuri possibili, come già sta accadendo nel mondo della moda.

Gli abiti si digitalizzano, diventano 3D, si costruiscono intorno a materiali ibridi, sensori e dispositivi interattivi, si rivestono dei progressi tecnologici per diventare interfaccia tra corpo e società.

Diventano strutture composite, non solo per le forme, spesso articolate, ma soprattutto per la loro composizione materica. In questo sincretismo gli abiti si aprono ad astrazioni geometriche, si articolano in figure fitomorfe e invadono il corpo con innesti ed estensioni che sembrano creare protezioni interne o, al contrario, gusci-corazze esterne.

È il 1960 quando due medici americani, Nathan S. Kline e Manfred E. Clynes, coniano il termine cyborg per suggellare l’ibridismo dell’uomo-macchina, di colui che incorpora deliberatamente componenti esogeni per estendere la fusione autoregolatrice dell’organismo in modo da adattarlo ai nuovi ambienti, demarcando la linea di confine e di conflitto tra uomo e spazio.

Non è solo fantascienza, anche nella moda si stanno delineando inedite forme di abiti potenziati, trincerati dietro la tecnologia, che fanno da apripista a nuovi scenari comunicativi.

La figura stessa del fashion designer è in fase di ridefinizione, diventa sempre più un maker, sempre più un costruttore di forme che nella gestazione progettuale stabilisce un rapporto di cooperazione con informatici, scienziati e ingegneri, che attinge al mondo sartoriale così come al design industriale, alla biologia sintetica, alle nanotecnologie e alla simulazione numerica.

Il giornalista Bradley Quinn, autore del libro “Fashion Futures”, da anni sostiene che gli abiti, per come li conosciamo oggi, appartengono già al passato e che la vera sfida è quella di creare un dialogo di inclusione tra ciò che indossiamo e le tecnologie che usiamo ogni giorno. 

“La moda futura ci darà una nuova pelle multisensoriale che incorporerà le tecnologie più all’avanguardia potenziando le nostre capacità fisiche ed intellettuali”.

E se quello che prima era solo sperimentazione visionaria, progettazione borderline o rappresentazione distopica, nello scenario della moda post-covid, diventasse una possibile realtà?

Creare, attraverso un abito implementato di tecnologie, un livello di omeostasi tale da consentire all’uomo di adattarsi e di fronteggiare, nella sua nuova condizione di essere autoregolante, l’habitat esterno.

Alcuni fashion designer hanno già concretizzato l’idea di abito a “distanziamento personale”, creazioni “prossemiche” attente alla difesa dello spazio e alla distanza relazionale. 

Pensiamo agli abiti robotizzati del progetto Possible Tomorrows di Ying Gao, che collegati ad un sistema di riconoscimento delle impronte digitali si animano solo in presenza di persone le cui impronte non sono riconosciute dallo scanner; allo Spider Dress 2.0 della designer viennese Anouk Wipprecht rivestito di sensori di prossimità e di zampe elettroniche che si impennano quando qualcuno si avvicina troppo; allo Smoke Dress che emette fumo in caso di invasioni di campo del proprio spazio fisico o emozionale; oppure al Defensible Dress, realizzato dallo studio di design HÖWELER + YOON, che si indossa sotto gli abiti e suona quando qualcuno si avvicina troppo.

Abiti concepiti come barriere protettive in difesa di minacce esterne e di interazione con l’ambiente circostante. Armature urbane che delimitano il contatto grazie ad aperture aeree, come le architetture tridimensionali dell’avveniristica Iris Van Herpen.

Volumi mutanti che si contraggono in intrecci futuristici, biomimetici e zoomorfi, trame che sembrano liquefarsi in forme organiche e figure prismatiche, stampe 3D, resine sintetiche, vetro, ceramiche e metalli che assecondano il mutamento del corpo e ne sfruttano le possibilità ispirandosi all’ambiente circostante.

In questa dimensione la moda potrebbe diventare anch’essa campo di attuazione delle sperimentazioni condotte in altri ambiti, fortificandosi con le innovazioni tecno-scientifiche per ridurre i limiti umani, creando strutture autosufficienti indossabili come una seconda pelle. 

Gregory Porter: the jazz storyteller

“Jazz got me out of the pain of losing my mother”. Poco prima di morire di cancro la madre Ruth gli disse: “Quello che sai fare meglio è cantare, non preoccuparti di essere povero, pensa solo a inseguire la tua passione. Son, your gift will make room for you at the tables of royalty”. 

Da qui nasce il percorso musicale di questo straordinario huge man in giacche sartoriali, dall’inconfondibile flat cap indossato con un bizzarro passamontagna nero e dall’imponente fisico da ex giocatore di football cresciuto a suon di Nat King Cole, Joe Williams e Donny Hathaway.

Un’infanzia, quella di Gregory Porter, vissuta, con i suoi numerosi fratelli, nel quartiere bianco della città californiana di Bakersfield, segnata dalla povertà, dagli abusi razziali del Ku Klux Klan (“bruciavano crocefissi nel cortile e lanciavano contro le finestre bottiglie piene di urina”), dall’assenza della figura paterna e dall’amore incondizionato per sua madre, un ministro della Chiesa Battista che era solito seguire nelle sue celebrazioni per cantare nei cori gospel. 

La vellutata potenza baritonale della sua voce fa da eco a questa segreta malinconia che veste il suo vissuto e le sue canzoni e che si denuda in una musica fluida che unisce la raffinata eleganza del jazz, la mesta tristezza del gospel blues e l’energia vibrante dell’R&B scandita dal ritmo pieno e gioioso del suo inconfondibile hand-clapping.

Una voce carezzevole nella sua vibrante potenza, versatile e piena di armonici che ha fatto di Gregory Porter il volto più interessante dello scenario jazz contemporaneo. Arthur Rubinstein diceva “non dirmi quanto talento possiedi, dimmi quanto lavori sodo” e lui il suo talento l’ha dimostrato nei sacrifici di una gavetta lunga venti anni, spesi nei piccoli club newyorkesi di Brooklyn, ma che alla fine l’hanno portato ad essere quello che è oggi, il Gigante Gentile del jazz.

Vincitore di un Grammy per il “Best Jazz Vocal Album” con Take Me To The Alley, sei album all’attivo, tour sold out. Ha calcato la celebre Pyramid Stage del Festival di Glastonbury, i più prestigiosi palchi internazionali, si è esibito davanti a sua Maestà la regina Elisabetta e con eleganza ha portato il jazz, da un milieu di estimatori, al cuore del grande pubblico.

In attesa del 28 agosto, data di uscita dell’ultimo intimistico album “All Rise”|“Tutti in Piedi”, scritto in collaborazione con il produttore Troy Miller e accompagnato da un coro di 10 membri e dagli archi della London Symphony Orchestra, possiamo iniziare a pregustare il sound del nuovo disco ascoltandone il primo estratto “Revival”. 

Una canzone che parla di rinnovo spirituale, che si abbandona ai gioiosi beat delle atmosfere gospel e che si lascia narrare in un video ad alto impatto emotivo. Diretto da Douglas Bernardt e interpretato dal ballerino Jemoni Powe, il video, nelle sue toccanti metafore, racchiude anche un velato messaggio politico. Un omaggio a un giovane uomo nero di Baltimora, Freddie Gray, caduto in coma durante il trasporto in un furgone della polizia e morto qualche giorno dopo.

Mentre sulla scena vediamo un ragazzo di colore, spaventato e oppresso dal mondo che lo circonda, rimpicciolirsi e ingrandirsi come un Alice in Wonderland sulla scia delle sue emozioni.

Solo nella gioia di inseguire il suo amore per la musica e la danza si salverà dalle sue paure. “Nella vita ci sono molte cose che ti buttano giù e che ti fanno sentire minuscolo, che si tratti di razzismo, mancanza di fiducia in sé stessi, precarietà o difficili situazioni economiche. In questa lotta tra oppressione e ricerca della verità come individuo, tutto sta nel trovare la fonte della propria forza, la stessa che ti farà ritrovare il coraggio di ritornare ad essere il gigante che ora sei”.

Man in skirt |la gonna della “discordia”|

Lunga, corta, nella foggia di tunica, saio, chitone o toga, la gonna maschile è stato il capo privilegiato da popoli, civiltà, tribù, re e guerrieri. Ha padroneggiato nei templi, nelle corti, nelle agorà e sui campi di battaglia.

Ma al grido di “libertè, egalitè, fraternitè”, nel 1786, il pantalone diventa la bandiera dei rivoluzionari e la gonna viene messa definitivamente alla “gogna”.

Nel moderno Occidente, culla delle democratiche libertà, è ancora socialmente sconveniente per l’uomo indossare la gonna, indumento relegato all’immaginario femminile e sinonimo di scarsa virilità.

Ma la faccenda, a prima vista lapalissiana, diventa machiavellica a una seconda lettura. Che per dirla riadattando una frase di “Match Point”, è incredibile come cambiano i punti di vista se il giudizio scivola da una prospettiva ad un’altra.

Pensiamo al kilt. Il principe Carlo, Sean Connery, Ewan McGregor o Gerlad Butler vestiti di tutto punto con tanto di kilt e calze al ginocchio fanno molto “William Wallace”, temerari e tenebrosi, perché da orgoglio patriottico “It’s a kilt, not a skirt”.

Non me ne vorranno gli scozzesi, ma il gonnellino tartan, simbolo tradizionale della terra delle Highlands non si discosta molto, al pari di quello femminile, da un pezzo di stoffa arrotolato intorno alla vita. Ma sconfinando dall’amor di patria, tranne se non sei Axl Rose o Lenny Kravitz dei bei tempi, non di rado, ma difficilmente avremo come vicino di casa un kilted man. Ma il cortocircuito è geo-temporale.

Se pensiamo ai Masai avvolti nei loro sgargianti drappi colorati (lo Shuka) e agghindati con monili di perline e fili di ferro la prima cosa che ci verrà in mente non sarà di certo l’immagine di una tribù di femminei uomini in gonnella, ma tutt’altro, di guerrieri, cacciatori ed abili combattenti. Il nostro “alibi” è il retaggio culturale che veste un popolo dei suoi costumi ma che, trattandosi di una tradizione autoctona, non attecchirebbe sui non “figli della Savana”.

Così come, da utopistici quali erano, per gli hippie la gonna incarnava a giusta ragione l’immagine di una futura società senza diversità di genere; per i punk, nel loro essere ribelli, era un simbolo di disprezzo verso gli schemi e i modelli imposti dalla società; David Bowie, in quanto incarnazione dell’eccessivo glam rock, sfoggiando pellicce bianche, lustrini, piume, zatteroni e gonne, negava l’abito come espressione della personalità.

Nel 1984 si gridò allo scandalo quando l’irriverente Jean Paul Gaultier debuttò con la sua prima collezione maschile “L’uomo-oggetto”, mettendo in discussione i clichè dell’abbigliamento e vestendo l’uomo ruvido e macho con gonne, maglioni scollati e t-shirt da marinaio con la schiena scoperta. Ma poi a ben pensarci è moda.

Così come se Joaquín Cortés balla in gonna è arte, se Billy Porter si presenta agli Oscar con un’ampia gonna nera è spettacolo, se l’uniforme maschile della Flotta Astrale di Star Trek è un mini-abito, lo Skant, allora è fantascienza. Tirando le somme, nella società odierna l’accettazione dell’uomo in gonna (o il suo rifiuto) è legata essenzialmente a fattori storico-culturali, ambientali, religiosi, etici e creativi, laddove viene meno la “giustificazione” del suo essere indossata, il naso inizia ad arricciarsi.

La sua decontestualizzazione porta all’ilarità, al disagio o alla diffidenza. Se chiediamo ad uomo di indossare una gonna “rimarrà pietrificato all’idea di sembrare effeminato”, come ha ben scritto su TheGuardian la giornalista Arwa Mahdawi. In un Occidente che l’ha consacrata icona di femminilità, non è ancora arrivato il momento per la cultura maschilista di accoglierla nel suo guardaroba.

Un giorno, forse, si realizzerà la speranza idealistica di David Hall “dare all’uomo più libertà senza inutili stravaganze, ma senza piatto conformismo”. Dall’altro canto anche quando Elizabeth Smith Miller, la prima donna ad indossare i calzoni nel 1851, si presentò in pubblico con ampi pantaloni alla turca fu colpita con verdure e palle di neve, insultata dagli uomini e accusata di oltraggio alla decenza.

La gavetta è stata lunga, ma oggi finalmente anche una donna in pantaloni può dare di sé un’immagine di forza, potere e carriera. Magari, in un futuro prossimo, lo sarà anche per l’uomo con indosso una gonna. 

“The artist is present”, Citazionismo da videoclip

L’arte “democratizzata”, diversamente accessibile e poliespressiva la ritroviamo, piacevolmente, anche tra le scelte di setting di molti musicisti che fanno del citazionismo artistico una scelta estetica per il background dei loro videoclip. 

Ecco una selezione di video “matching” per allenare l’occhio all’arte

DRAKE “Hotline Bling”

“Hotline Bling”, diretto da Julien Christian Lutz, in arte Director X, e coreografato da Tanisha Scott, è un video dallo stile minimale, ipnotico e a cromie grafiche. Il rapper canadese e i suoi ballerini si muovono e danzano in cangianti lightbox, spazi a ritmate policromie che si ispirano alle geometrie di luce dell’opera sensoriale “Breathing Light” di James Turrell. Un omaggio al visionario artista di Pasadina, esponente del movimento “Light and Space” in voga negli anni 60, che ha fatto della luce e della percezione visiva il materiale della sua arte.

JAY-Z “Picasso Baby”

Un video della durata di 11 minuti diretto dal regista statunitense Mark Romanek e girato nella Pace Gallery di Chelsea a Manhattan. Jay-Z si cala nei panni del performer, sceglie il tempio dell’arte contemporanea newyorkese come “stage show” e tra i visitatori coinvolti spuntano gli attori Taraji P. Henson e Alan Cumming, il rapper Wale, il filmmaker Judd Apatow, il critico Jerry Saltz e l’artista concettuale serba Marina Abramovic, alla cui celebre installazione “The Artist is Present” si ispira l’intero progetto performativo del videoclip “Picasso Baby”.

WHITE STRIPES “Fell in love with a girl”

Un video in stile “De Stijl” interamente realizzato con i Lego. Il gioco dei colori primari e delle loro geometrie rimanda visivamente alla corrente artistica del Neo-plasticismo e al suo fondatore Piet Mondrian. “Il rosso dei vestiti e della bocca, il giallo dei piatti della batteria e della cintura della chitarra, il bianco dei volti e il nero deciso di occhi e capelli, sono colori primari incastrati dentro strutture altrettanto “quadrate”: i cubi del Lego.”

BEYONCÈ E JAY-Z “Apeshit”

Un video “ad opera d’arte” diretto da Ricky Saiz e ambientato nella suggestiva cornice parigina del Louvre. La scena iniziale si apre nella Sala degli Stati dove Mr e Mrs Carter, ieratici e statuari dinanzi al quadro della Gioconda, ci accompagnano in un susseguirsi magnetico e conturbante di tableau vivant, cortocircuiti visivi e solenni capolavori. Da Beyoncè che balla in abito bianco ai piedi della Nike di Samotracia alle ballerine nude ispirate alle modelle di Vanessa Beecroft, dalla sfinge di Tanis alla Venere di Milo, dalla Pietà di Rosso Fiorentino al Ritratto di nera di Marie-Guillemine Benoist considerato un manifesto dell’emancipazione dei Neri e del femminismo.

KENDRICK LAMAR, SZA “All The Stars”

Colonna sonora del film della Marvel, Black Panther, e un video caleidoscopico curato dallo stesso Lamar sotto la direzione di Dave Meyers. Scene cinematografiche intrise di spunti artistici come la pittura dorata su fondo nero, timbro stilistico dell’artista britannica-liberiana Lina Iris-Viktor, la simbologia della cultura africana e un richiamo alle “Infinity Mirror Rooms” dell’artista giapponese Yayoi Kusama.

HOLD YOUR HORSES “70 Million”

“70 Million” è un giocoso video parodia che mette in scena una carrellata di 24 famosi quadri ironicamente interpretati dai sette membri del gruppo franco-americano: dalla Nascita di Venere alla Splendida Olympia di Manet, dalla morte di Marat alle serigrafie di Warhol.

KANYE WEST “Famous”

Il video è un “blow up” su un’installazione di 13 sculture di cera che rimanda, a sua volta, al dipinto “Sleep” del pittore realista Vincent Desiderio. La telecamera è fissa su un letto enorme e inquadra i corpi nudi e dormienti di altrettante statue-celebrities: Kanye West, Kim Kardashian, Taylor Swift, Rihanna, Amber Rose Donald Trump, Caitlyn Jenner, Bill Cosby, Ray J, Chris Brown, Anna Wintour, e George Bush. 

RIHANNA “Rude Boy”

Un video “urban” costruito intorno all’uso di greenscreen e diretto da Melina Matsoukas. Colori bright, forte mood anni ‘80 ed echi espliciti al mondo dell’arte contemporanea: dalla pop art di Andy Warhol passando per i graffiti di Keith Haring e alla foto scattata nel suo studio newyorkese da Annie Leibovitz fino ai simboli riconducibili alle opere di Jean-Michel Basquiat, come la celebre corona a tre punte.

“VADEMECUM” del lettore in quarantena

Riscoprire le proprie risorse, gestire le emozioni negative e applicare il minimalismo digitale sono le tre regole d’oro dispensate dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi per affrontare, con un’auspicata paziente serenità, questi giorni di permanenza domestica.

E se, come dice Leopardi, un buon libro è un compagno che ci fa passare dei momenti felici, allora abbiamo trovato l’antidoto curativo alla noia e alla solitudine. 

Ecco sei “modi” per parlare di libri e lettura durante la nostra quarantena letteraria.

BOOK INFLUENCER

Nella scelta di un libro, anche l’occhio vuole la sua parte! E Stefania Soma, dal gennaio 2015, scatta e pubblica sul suo account Instagram @petuniaollister stilosissimi #bookbreakfast. Foto di libri sul tavolo della colazione che catturano per i loro styling ricercato e per la loro energizzante palette cromatica. Un linguaggio visual-pop che investe anche il bellissimo account di Hikari Loftus, @FoldedPagesDistillary. Un distillato fotografico di libri, più o meno famosi, immersi in ambientazioni caotiche e dettagliate che giocano sulla presenza in scena di oggetti simbolici che ne riprendono la trama.

LA BIBLIOTERAPIA

L’anima si può curare con un buon libro? Sì, e ce lo conferma la filosofia che muove il motore creativo di un originale biblioteca fiorentina, La Piccola Farmacia Letteraria, e del cuore pulsante dei suoi libri che diventano tonici, balsamo per le ferite, messaggi che smuovono montagne o sciolgono rigidità. Una libreria che cura i malori con testi catalogati in base alle emozioni (più che alla trama) e accompagnati da un bugiardino con indicazioni, posologia ed effetti collaterali.

“FREE ENTRY”

L’UNESCO apre, gratuitamente, al mondo le porte della sua World Digital Library, la biblioteca digitale internazionale gestita dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura. Una biblioteca virtuale che racchiude nella sua rete 193 paesi in tutto il mondo, 19mila documenti in 7 diverse lingue e un patrimonio intellettuale fatto di libri, mappe, fotografie, filmati, manoscritti e riviste del passato. 

IL “SALOTTO LETTERARIO” SI FA SOCIAL

“Non è la prima volta che l’umanità si trova davanti a un’epidemia di così grandi proporzioni, però è la prima volta che per affrontarla abbiamo la rete. Per questo un gruppo di autori e di autrici ha immaginato uno spazio virtuale dove poter continuare a incontrarci, parlare di libri e di storie e restare forti e coesi anche nella difficoltà”. Da qui nasce la pagina facebook  “Decameron. Una storia ci salverà”. Il primo festival italiano in versione digitale dove per partecipare basta iscriversi all’evento, collegarsi alla diretta e assistere alla presentazione.

AUDIOLIBRI

Se non avete mai ascoltato un audiolibro, è arrivato il momento di farlo. Audible, la società Amazon leader nell’audio entertainment, lancia l’iniziativa #ACASACONAUDIBLE, un catalogo ricco di titoli da ascoltare gratuitamente “per aiutare gli italiani ad abbattere con la mente le pareti delle proprie case e a far volare la fantasia, di grandi e piccoli”.

#IOLEGGOACASA

L’Accademia della Scrittura lancia una campagna social a favore della lettura #ioleggoacasa. Un hashtag che unisce all’unisono gli amanti del “buon libro” e ne disegna la mappa visuale dei loro gusti letterari.

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Break the sound “barrier” / La musica delle radici

Passando per lo Yemen, il Sudan e il Niger, attraversando “la terra del latte e del miele”, il Nilo e il deserto del Sahara, incontriamo le melodie evocative di alcuni giovani “cantastorie” che tra, modernità e tradizione, narrano le proprie radici alimentate dai suoni catturati dal mondo.

E’ una musica trans-culturale che rinnega l’esistenza di barriere linguistiche, generazionali, geografiche e identitarie. Sono componimenti di fusione che fanno leva sulla coesistenza tra Oriente e Occidente, terre di origine e luoghi di adozione, facendoci sentire un po’ tutti cittadini del mondo. Un unico popolo unito da un unico linguaggio, quello della musica.

Cantano nel quasi estinto dialetto giudeo-arabo dello Yemen, sono Israeliane, ebree e Mizrahi, sono donne, sorelle e musiciste: Tair, Liron e Tagel Haim, le A-wa. Le vediamo esibirsi sui palchi dei festival internazionali e nei club più esclusivi accompagnate dai modulati gorgheggi arabeggianti delle loro voci, dalla forte carica gestuale e dall’inconfondibile foggia dei loro abiti: coloratissime vesti tradizionali dello Yemen, del Marocco e del Pakistan, djellaba e ricamatissimi e “occidentalizzati” abiti presi in prestito dalle donne Balochi, abbinati a sneakers e calzettoni, ghirlande e monili tribali.

Le 12 tracce contenute nell’album d’esordio “Habib Galbi”, che in arabo significa “Amore del mio cuore”, prodotto da Tomer Yosef dei Balkan Beat Box, attingono alla cultura degli ebrei yemeniti trasmessa dai nonni paterni immigrati in Israele alla fine degli anni Quaranta.

Sono un elogio alla continuità di quelle vernacolari melodie intonate dalle donne di questa comunità che, escluse dalla vita spirituale e culturale degli uomini, iniziarono a raccontare le proprie emozioni e stati d’animo in folcloristici canti tramandati di donna in donna, di generazione in generazione per garantirne la sopravvivenza.

Le sorelle Haim sono cresciute nel piccolo villaggio di Shaharut, ai confini del deserto del Negev, circondate da kibbutz e montagne, tra i rudimenti del jazz e del Motown appresi dall’insegnante americana, tra danze, canti e i vinili dei Deep Purple e Pink Floyd trafugati ai genitori, ma soprattutto sono state educate alla libertà e a quello spirito di modernità che ha consentito loro di costruire un ponte tra culture diverse e non sempre di facile convivenza.

Il risultato è un eccentrico e ricercato mash-up musicale. L’ereditato folk yemenita si armonizza con i ritmi moderni della musica elettronica, del raggae, dell’hip hop e del rock psichedelico. I testi popolari vengono investiti da un groove che li rende musicalmente attuali e orecchiabili. Un equilibrato crocevia tra passato e presente che rivive nei suoni indigeni del darbouka, nei bassi, batterie, sampler e keytar e che ritorna, come amalgama narrativo, nelle vibranti note dei 14 inni poetici del loro secondo disco “Bayti Fi Rasi”/”La mia casa è nella mia testa”.

Un concept album che, ripercorrendo “l’esodo” della bisnonna verso l’Israele, mette a nudo le problematiche contemporanee dell’immigrazione, dell’accoglienza e dell’integrazione e lo fa a ritmo di beat tirati indietro, sintetizzatori, ritmiche ballerine, sonorità pop e solenni eterofonie.

|“Where I Will Make a Home?”| Alle origini, ai sapori della terra natale, ad una tradizione più spiccatamente intimistica sono ispirate le canzoni del gruppo Alsarah & Nubatones. Il collettivo nasce nel cosmopolita scenario newyorkese e ha come leitmotiv l’amore per il Sudan e l’universalità di una musica senza barriere.

Un retropop dallo stile eclettico e accattivante che parla il dialetto arabo-sudanese e contamina le calde melodie dell’Africa orientale con le sinuose influenze dell’Arabia e la tradizione folk della musica nubiana, che sovrappone percussioni e sintetizzatori, ritmi tribali e frequenze elettroniche.

Si parla di migrazione, del desiderio di ritorno alla terra di origine, del fallimento del rispetto umano, della crisi dei rifugiati ma anche di gioia, amore e sopravvivenza. Sono canti che, muovendo da un’esperienza personale, si aprono al mondo.

Testimonianza e anima di questo progetto è la stessa cantante Alsarah che ha vissuto in prima persona l’abbandono della terra natale, il Sudan, in seguito al colpo di stato militare nel 1989, e la necessità della fuga per rifugiarsi prima nello Yemen poi nella cittadina di Amherst, in Massachusetts, dove “eravamo l’unica famiglia dell’Africa orientale intutta la regione” di qui la fuga verso New York “una città piena di immigrati dove è normale essere un Altro tra gli altri”. 

E crescendo il bisogno di raccontare la sua storia, la sua cultura, il suo percorso di donna di colore, di immigrata, di viaggiatrice multietnica e di artista, e di farlo a suo modo, recuperando il suono materno della lingua di appartenenza. Ritornare alle radici guardando in avanti. Come naturale evoluzione dell’album “Silt”, prende corpo il progetto musicale intitolato “Manara”, o “The Lighthouse”, che nasce durante il soggiorno marocchino della band nella città di Asilah e tratta i temi dell’identità, del mondo moderno, di ciò che significa essere una sudanese in Nubia e una sudanese fuori dalla nazione e soprattutto si interroga sulla domanda What is home?.

Un destino segnato dal nomadismo è anche quello di Omara Moctar, ovvero Bombino. La singolare storia del pastore degli sterminati paesaggi africani, ribattezzato dalla stampa come il “Jimi Hendrix del deserto”, che rivendica l’identità Tuareg attraverso gli ipnotici e poetici arpeggi della sua chitarra elettrica. Nato ad Agadez, nel cuore sahariano del Niger, cresciuto nella tribù nomade degli Ifoghas, costretto con la famiglia all’esilio in Algeria; la sua terra depredata e annichilita da anni di guerre, rivolte e repressioni, la nostalgia del “profugo”, la speranza del “guerriero” e poi quelle chitarre degli anziani del villaggio di Tamanraset suonate di nascosto da autodidatta.

E quando i venti caldi e rassicuranti del deserto incontrano un’anima inquieta ed errante nasce il sofferto, ruvido ed energico desert blues di Bombino, un racconto complesso intriso di nostalgia, dolore e speranza per il suo popolo e la sua terra, cantato in Tamasheq nella lingua degli “uomini blu” del deserto e investito da una sinergia di stili senza confini dalla melodiosa musica berbera al rock-blues americano, dalle sonorità etniche al travolgente chitarrismo hendrixiano, dai ritmi reggae, alle ballate acustiche del deserto fino alle ipnotiche atmosfere sonore elettro-psichedeliche.

Un viaggio intimistico e dal potere corale che parte da “Agadez” e “Nomad” lambendo il suggestivo album registrato a Woodstock “Azel”, che non a caso significa Radici, quelle radici che affondano nell’anima del continente africano, nelle difficoltà di vita dei Tuareg, nella loro identità messa in crisi dal peso del mondo moderno, ma come canta Bombino in Iwaranagh/We Must: “Dobbiamo lottare per la nostra cultura e la nostra terra”, e la “ribellione” della sua chitarra risuona più forte e potente della sterile e penosa distruzione di qualunque altra arma.

Fino ad arrivare all’ultimo album “Deran”, |che nella lingua del Niger significa “Auguri”| carico di impliciti riferimenti politici, in perfetto stile Bombino “aprire le menti, senza il bisogno di urlare”. Un lavoro viscerale e intimista che lo riporta nella sua Africa ad inneggiare, in un afflato di speranza, alla pace tra i popoli, alla condivisione tra culture e alla benevolenza verso il prossimo, restituendo agli occhi dell’Occidente l’identità delle popolazioni del deserto immerse nelle loro contraddizioni e nelle loro complessità.

Un viaggio in dedali psichedelici, arabeschi elettrici, cori sciamanici e percussioni tribali che ci guidano nel cuore della sua terra. 
“Home is where heart is”

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