‘AB Infinite 1’, l’opera in divenire di Andrea Bonaceto con DART Milano alla Permanente

È l’ultima installazione che porta la firma di Andrea Bonaceto, da pochi giorni esposta al Museo della Permanente di Milano. Il titolo AB Infinite 1 – oltre a richiamare le iniziali dell’artista – fa riferimento all’NFT reportage della vita dell’artista, un viaggio immersivo che va ab infinito, all’origine (simboleggiato dal numero 1), in cui il pubblico diventa parte integrante dell’opera, attraverso le sue interazioni operate registrando il proprio account sul sito web www.abinfinite1.com e includendo sui propri canali social Instagram e Twitter l’hashtag #abinfinite1. Un approccio interattivo rivoluzionario che fonde le esperienze quotidiane degli utenti con l’opera d’arte di Bonaceto, grazie al sistema della blockchain Algorand.

AB Infinite 1, Andrea Bonaceto

L’opera, presentata per la prima volta a Londra il 16 maggio in un’installazione interattiva che ha avvolto interamente l‘esterno dell’edificio del flagship store di Flannels a Oxford Street, si trova adesso in esclusiva in Italia, grazie al supporto di DART, per poi continuare il suo tour in giro per il mondo ed infine essere battuta all’asta. AB Infinite 1 rappresenta in maniera esplicita e concreta la filosofia dell’artista, nella sua visione democratica e inclusiva in cui tutti proveniamo dalla stessa fonte e nel valore dell’opera d’arte come espressione di un ciclo vitale in continuo mutamento, alimentato dall’ideatore quanto dal suo fruitore.

Gli abbiamo posto qualche domanda, per conoscere più da vicino il suo punto di vista su una società in rapida evoluzione.

Andrea Bonaceto (ph. Alice Ambrogio)

Intervista all’artista Andrea Bonaceto

Come e perché sei arrivato a realizzare opere NFT?

È stato un processo molto organico e naturale. Ho cominciando lavorando su carta da stampante con matite e pennarelli. Successivamente, sono passato a colori acrilici su tela e cartoncino. Dopo essermi reso conto che i colori acrilici hanno una forte uniformità cromatica, ho pensato che il medium digitale potesse rendere giustizia alle mie idee. Ed è successo nel 2019 e 2020, i primi anni in cui gli NFT cominciavano ad affacciarsi sul mondo dell’arte. Ho subito compreso la portata del cambiamento apportata da questa nuova tecnologia, è stato allora che ho realizzato le mie prime opere NFT.

Ci racconti il tuo rapporto tra arte fisica e digitale? ti servi di entrambe e le fai convivere o preferisci lavorare direttamente in digitale?

Lavoro sia nell’ambito dell’arte fisica che di quella digitale. Le mie prime opere acriliche sono state una serie di paesaggi astratti e 33 ritratti di amici e familiari. Tuttora alterno opere digitali ad opere fisiche. Mi piace la dimensione plastica della creazione dell’opera fisica, in cui il colore si può toccare con mano ed ha uno spessore. L’opera fisica però non permette una rappresentazione su larga scala e non ha quella dinamicità che può avere il corrispettivo digitale. Interpreto l’NFT come un altro strumento creativo che mi permette di rendere l’opera digitale ancora più unica, potendo farla influenzare da ogni tipo di input a mia discrezione.
In sintesi, sia il mondo fisico che digitale sono interessanti per me. Entrambi hanno le loro peculiarità e caratteristiche. Ma è molto importante per me spaziare fra questi due mondi. Lavorando su una dinamicità che offre continuamente nuovi spunti creativi. 

AB Infinite 1, Andrea Bonaceto

In che modo è cambiato il rapporto col mercato e le gallerie?

Le gallerie hanno sempre un ruolo importante ma quello che è cambiato è il rapporto di forza fra la galleria e l’artista. Nell’ambito digitale NFT gli artisti hanno la possibilità di avere un contatto diretto con i loro collezionisti. La galleria in questo caso non è più la sola garante delle interazioni con i collezionisti, ma è l’artista stesso a costruire il suo rapporto diretto con il suo pubblico. Il ruolo della galleria, quindi, diventa quello di ampliare questo gruppo di interesse che già l’artista ha, ed elevare il suo profilo sia da un punto di vista di visibilità che concettuale.

Quali sono i metaversi con cui preferisci lavorare e per quale motivo?

Il metaverso io lo definisco come un mondo digitale basato sul database decentralizzato della blockchain, in cui è possibile interagire con tutto ciò che ci circonda, come facciamo nella vita di tutti i giorni nel modo reale. Fra i metaversi di prima generazione menzionerei Somnium Space, che permette anche un’esperienza di realtà virtuale, ma anche Decentraland e Cryptovoxels. Non ho lavorato direttamente con loro, ma diverse mie opere sono costantemente esposte in questi ambiti. 
Qualche mese fa, ho avuto la possibilità di collaborare con un piccolo metaverso focalizzato principalmente sul settore dell’arte che si chiama Arium: lì ho creato la mia galleria personale sotto forma di una piramide bianca, con la punta dorata, e ho invitato alcuni miei collezionisti a visitarla per vedere le mie opere. Da un punto di vista grafico è un’esperienza ancora embrionale, però è stato interessante sperimentare.
Un metaverso di seconda generazione che prova a migliorare molto il lato grafico è ad esempio Mona Gallery. Dobbiamo anche osservare da vicino grandi società come Epic Games, Meta e altre che stanno lavorando al loro metaverso. La mia speranza è che queste esperienze, che hanno sicuramente un grande valore da un punto di vista grafico e di facile utilizzo, mantengano l’ethos di decentralizzazione e trasparenza proprio della tecnologia blockchain.

L’opera di Bonaceto alla mostra DART 2121. NFT ART OF THE FUTURE, al Museo della Permanente

Come immagini un futuro nell’arte in evoluzione, visto dove siamo arrivati in questo momento?

Gli NFT e la blockchain costituiscono il cambio di paradigma più importante della nostra generazione. L’arte è solo la punta dell’iceberg di questo cambiamento, verrà sublimata verso una dimensione più politica e sociale. In un mondo in cui automazione, robotica ed intelligenza artificiale stanno crescendo in maniera esponenziale, dobbiamo strutturare una società in cui gli individui esistono per quello che veramente sono, in maniera autentica. 
Questo è il compito dell’arte – liberare l’individuo dalle sovrastrutture imposte dalla società in un modello preistorico, che vuole ognuno di noi vivere in una dimensione puramente operativa, unidimensionale e non autentica, con l’unico scopo di ricoprire una certa mansione all’interno della società. Già oggi, e sempre di più in futuro, queste mansioni verranno prese in carico dall’automazione che robotica ed intelligenza artificiale porteranno. Questa non è una mia opinione ma un dato di fatto. 
Quindi voglio immaginare un futuro in cui l’arte è un mezzo e non un fine. Viviamo già una fase in cui interpretare l’arte solo come un fine è anacronistico. Arte vuol dire essere coerenti con se stessi – è lo strumento attraverso il quale gli individui possono ottenere gradi sempre maggiori di libertà, che io credo sia il fine più alto dell’essere umano. NFT e blockchain sono solo un mezzo per velocizzare questo cambiamento già in atto.

Musica con un twist artistico: Gemello

Il primo dei romantici, non l’ultimo. Gemello ci ha abituati alla nostalgia e alla malinconia già in epoca non sospetta. Le infilava entrambe tra le maglie hardcore dei pezzi che hanno fatto storia insieme al TruceKlan e In The Panchine. Le ha dipinte su tela, aggrovigliate tra i dettagli fittissimi dei suoi quadri.

Perché la sua è una lunga storia d’amore tra due arti diverse, rap e pittura, ovvero tra Gemello e Andrea Ambrogio. E allora capita che a New York o a Miami, chi compra un quadro di Andrea non sappia neanche che dietro al pittore ci sia il rapper. Senza gabbie e senza rinnegare niente, Gemello si racconta. L’ultimo disco, La Quiete, i tempi del Ministero dell’Inferno, la scena rap che forse invecchia meglio di quella pop, l’etichetta di genio incompreso che gli hanno messo addosso. Probabilmente l’unica a piacergli e l’unica possibile, per uno che fa arte in disparte da vent’anni:

«Non sarò mai un McDonald’s che fattura col sorriso – mi dice – Io sono il ristorantino piccolo, che se lo conosci ci vai da una vita e te lo tieni stretto». E non avremmo potuto dirlo meglio di lui.

Gemello Andrea Ambrogio
Shirt Ardusse

Esci da un ritorno forte, La Quiete è un album che ha soddisfatto aspettative trasversali. È qualcosa su cui avevi ragionato, quella di allargare il target anche nelle scelte che hai fatto in fase di produzione?

Ti devo dire la verità, il disco è venuto un po’ da sé, perché io non sono ‘sto grande stratega. Ho fatto un sacco di album, di recente c’è stato anche Verano Zombie con Noyze, quindi diciamo che la mia parte hardcore era già abbastanza soddisfatta. Delle canzoni che mi hanno proposto sia gli amici che le nuove conoscenze ho scelto quelle che mi piacevano davvero. Quindi in realtà è nato così, non ho ponderato molto perché non sono bravo a farlo. Ma sperimentare è stato divertente, provare nuove cose mettendoci il mio. Le cose belle alla fine vengono quando non le decidi a tavolino, no?

Per molti fan della prima ora hanno funzionato anche le nuove contaminazioni. Sai che non era scontato?

Vero. Anche perché in questo momento storico la gente percepisce la musica in modo strano, ascolta prima una canzone, poi magari un’altra, e si ferma lì. Come per i film e le serie tv: è più facile andare avanti a episodi quando c’hai mezz’ora, e poi metti in pausa. È difficile che uno ascolti tutto l’album di fila, il concetto di lavorare a un disco compiuto infatti è un po’ finito. Ma io essendo della vecchia scuola ho sempre l’idea di seguire un iter, dalla uno alla undici, in modo che abbia un senso anche pipparsi undici tracce sentendosi appagato.

Gemello rapper quadri
Shirt Ardusse

Non credo che lo sforzo ripaghi solo in gloria, sai? Quando un disco è progettato come un iter, ti invoglia ancora a «pipparti undici tracce di fila».

Sì, hai ragione. È un po’ come con i quadri. Puoi passare e guardare di sfuggita, ma se ti fermi ad osservare ci puoi perdere un sacco di tempo per assorbirli. È la mia arma a doppio taglio, io sono così e non ci posso fare niente.

Questo è stato anche definito un disco importante. Che ne pensi? Secondo te quand’è che un album si impone come importante sulla scena?

Quando cambia un po’ le regole o almeno i canoni delle aspettative. Quando uno si rimette in gioco, per esempio. Ci sono stati vari dischi che personalmente mi hanno segnato tanto, come Kid A dei Radiohead. Lì l’approccio magari è stato usare l’808, hanno fatto una cosa nuova mantenendo la loro identità. Chi ha sentito La Quiete all’inizio avrà pensato: «Che è ‘sta canzone di Gemello?», e poi riascoltandolo avrà scoperto un equilibrio. È come vestirsi eleganti ma con le Jordan sotto.

Tu sei stato spesso un apripista prima del tempo: adesso se ti guardi intorno cosa vedi? Recentemente per te ci sono stati dischi importanti di altri artisti?

Beh sì, credo siano quelli dei nomi storici. Marracash. Gué, Noyz, Coez. Ci stanno troppi più contenuti e troppa più roba da dire in dischi come i loro. C’è maestria nel raccontare ma anche nel flow. Per quanto possano diventare famosi i pischelli nuovi con milioni di follower, che a me piacciono tutti pure loro, alla fine i lavori che rimangono sono degli artisti storici. Hanno un sacco da dire, sperimentano, spaccano davvero e non si smentiscono mai.

Gemello rapper disco
T-shirt Bally

Di te dicono che sei un genio incompreso.

(Ride, ndr) Esatto. Incompreso mi fa ridere e mi si avvicina anche. Non è che mi fanno schifo i numeri, però per farli c’è da crepare. E soprattutto in questo momento, tra pandemie e guerre, la nostra è una musica più di contorno. Il mondo va di fretta e la gente cerca di prenderlo per come viene.

Incompreso ti ci sei mai sentito, in questi anni?

Io sono incompreso dalla massa. Non ci riesco a essere un McDonald’s che fattura col sorriso. Io sono il ristorantino piccolo, che se lo conosci ci vai da vent’anni e te lo tieni stretto. E mi piace come cosa, è tipo una spiaggia segreta. Va detto anche che è un compromesso che non ho mai accettato, sia perché non sono in grado di fare cose troppo regalate, sia perché sono molto geloso di tutto. Dei miei quadri, della mia musica.

Invece sul fronte quadri ti sei aperto di più alla massa. Ci siamo abituati alla complessità delle tue opere, che tecnicamente sono sature di elementi da decifrare. L’hai trovata subito questa cifra stilistica o hai dovuto sbatterci la testa?

È come per la musica, non riesco a mettermi a tavolino. Sapevo fare quello, in quel modo. Però ho cercato di migliorare e di ammorbidirmi un po’. Evitare di mettere centomila parole in un testo e anche di saturare troppo i quadri. È un andare a togliere verso l’eleganza, rispetto al mappazzone da cui ero partito. Che comunque era bòno, però un po’ pesante.

I quadri inediti delle prime sperimentazioni noi non li vedremo mai: me lo dici com’erano?

Erano ancora peggio, un inferno. Tipo un film di quattr’ore coi sottotitoli in polacco.

Gemello rap disco
Total look Salvatore Ferragamo

Penso a Roma 2015, dopo anni ancora scopro dettagli. Sarò banale, ma da romana è tanta roba.

Oddio, qual era? Sai, a me piace proprio l’idea di andare a Milano, Roma e New York e pensare che dei collezionisti o dei privati abbiano i miei quadri. Passo sotto le case, vedo una luce accesa e immagino che là dentro, magari, c’è un pezzo di me. Come fosse un figlio mio. È un po’ come con le canzoni, no?
Ad alcuni ricordano un periodo della loro vita, altri ancora devono scoprirle. Mi piace tanto l’idea di camparci quanto quella di sapere che girano tra le case degli altri.

C’è ancora gente che compra un quadro di Andrea senza sapere che dietro c’è anche Gemello, e viceversa?

Alcuni sì, soprattutto all’estero. Spesso comprano il quadro ma poi ci conosciamo, mi portano a casa loro, mi presentano i figli, mi chiedono di me. È un mood che mi ricorda la New York degli anni Settanta, con l’artista che non è che vende e basta, ma gira e crea contatti.

La solita domanda sulla convivenza tra rap e pittura, invece, te la lascio aperta.

Allora ti dico che io di base non è che c’ho un rapporto poligamo con questi due aspetti della mia vita. Faccio ping pong tra le due arti. A volte mi rompo di scrivere musica, altre vado a vedere una mostra e allora voglio correre a casa a dipingere, come un bambino.

Il vantaggio però si vede nella tua produzione: non sei mai costretto a far uscire un singolo nuovo solo per riempire a caso dei vuoti.

Il vantaggio è anche che non sento di stare mai veramente in panchina. Non sto fermo un attimo.

Gemello dipinti
Total look Federico Cina

Parafrasandoti: c’è stato un tempo per essere ‘truce’ e un tempo per diventare più ‘intimo’. Te li riascolti mai i pezzi che facevi con il Klan?

Certo. Quello sono sempre io, non rinnego niente. Quando capita di tornare a cantare vecchi pezzi o fare uno spin off mi prende troppo a bene. Sento come se c’avessi ancora sedici anni, per me quello è un periodo indimenticabile. Insomma, è sempre il mio cuore, ho sempre fatto convivere la mia vena più malinconica con un’attitudine hardcore, così come i brani con In The Panchine hanno sempre avuto una nota nostalgica.

Ministero dell’Inferno ha fatto storia per chi ha vissuto quel periodo. Pensi che i ragazzini di oggi ce l’abbiano ancora come riferimento di un tessuto underground?

I ragazzini di oggi sicuramente hanno tutti i mezzi per scoprirlo. Se uno dice: «A me piace il Noyz», io gli risponderei: «Allora, ciccio, sentiti il Ministero dell’Inferno». Con Internet non rischiano di perdersi niente, magari hanno giusto bisogno di una sorella maggiore che li indirizzi.

Dai tempi di Vecchia Scuola (2006): «La cura è che guarirò da tutte queste malattie», fino all’ultimo album: «Ma non ti viene voglia di tuffarti? Di scordare? Di lasciarti andare via?». La nostalgia è una costante nella tua produzione, anche se spesso è stato posto l’accento su altro. Oggi che effetto fa, se provi a tirare le somme?

Niente, me viene sempre da piagne. Non è cambiato un cazzo. Scrivere e non riuscire troppo a entrarci dentro, fare un quadro e venderlo senza goderselo a pieno… Ecco, quando risento pezzi di mie vecchie canzoni, rileggo una scritta su un muro o rivedo un quadro mio, mi sembra che l’abbia fatto un altro Andrea. E non solo mi viene da piangere di felicità o di tristezza, ma c’è un po’ tutto in quell’emozione. E forse questa è la mia forza.

Credits

Talent Gemello

Editor in Chief Federico Poletti

Text Chiara Del Zanno

Photographer Davide Musto

Stylist Davide Pizzotti

Photographer assistant Valentina Ciampaglia

Grooming Alessandro Joubert @simonebelliagency

Nell’immagine in apertura, Gemello indossa total look Zegna

Niko Giovanni Coniglio racconta il suo rapporto con la fotografia, “bugiarda inconsapevole”

Toscano, classe ’87, musicista mancato, Niko Giovanni Coniglio è uno dei fotografi più promettenti e apprezzati del panorama contemporaneo. I suoi ritratti, dal forte impatto emotivo, raggiungono il climax nel progetto Daniela, portrait of my mother che vede protagonista la madre del fotografo stesso, una donna che ha vissuto una vita fatta di decisioni e scelte complesse, che si è vista costretta a dare Coniglio in affido da bambino, per poi ritrovarlo in età adulta. Anche attraverso la fotografia, madre e figlio hanno avuto modo di riprendere il proprio legame e approfondirlo.


Self-portrait, 2021


Come e quando la fotografia è entrata nella tua vita? 

Ho iniziato a fotografare nel 2009. Stavo frequentando il mio ultimo anno di Scienze della Comunicazione, alcuni amici del mio gruppo avevano una reflex digitale. Divenni curioso, iniziai a fare domande su come funzionasse, più acquisivo conoscenze sul mezzo fotografico e più desideravo averne uno mio per sperimentare. Così comprai la mia prima reflex digitale e iniziai a scattare.
Dopo la laurea avrei dovuto scegliere un corso di specializzazione. A quel tempo avrei voluto intraprendere la carriera di musicista e volevo spostarmi su Milano per frequentare una scuola. Così decisi di iscrivermi al corso di specializzazione in fotografia presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, in modo da poter concludere il mio percorso di studi universitario e contemporaneamente dedicarmi alla musica.


Immagine dalla serie Foto musicisti 2013>2019

Immagine dalla serie Foto musicisti 2013>2019


Il ritratto rappresenta gran parte della tua produzione fotografica. Come ti rapporti ai tuoi soggetti? Cosa ti colpisce maggiormente di un volto?

Premetto che quando scatto una foto ho bisogno di un’idea che mi guidi. Non mi sono mai dedicato troppo al reportage o alla street photography, preferisco un tipo di fotografia più riflessivo. Mi piace pensare l’immagine, trovare un modo visivamente efficace per trasmettere un concetto.
Quando ho un’idea ne parlo con la persona che fotograferò, cerco di farle capire cosa voglio ottenere in modo che una volta sul set sappia già cosa deve fare. Non amo parlare troppo mentre scatto foto, le mie indicazioni sono ridotte al minimo indispensabile. La maggior parte del lavoro deve essere fatta prima dello scatto e, se hai lavorato bene, il risultato lo conferma.
Non ci sono aspetti particolari che mi colpiscono in un volto. Per essere chiaro, non sono uno di quei fotografi convinti che la fotografia possa cogliere l’essenza di una persona né tantomeno mostrarne l’anima. È una visione romantica che non mi si addice.
La fotografia è un mezzo meccanico che di per sé è incapace di registrare qualsiasi tipo di informazione che non sia la luce. Siamo noi che dobbiamo riempirla di contenuto. È qui che entra in gioco la visione individuale del fotografo. Le persone possono essere rappresentate come buone o cattive, inquietanti, pericolose, gioiose o euforiche a prescindere dal loro reale carattere o dalla loro reale “essenza”.
La fotografia è una bugiarda inconsapevole. Dal momento che viene registrata un’immagine, quella è già finzione, è già un’interpretazione della realtà.
Quindi dal mio punto di vista risulta veramente impossibile rappresentare la vera essenza o cogliere l’anima di una persona. Sono concetti così mutevoli e sfuggenti che nemmeno la persona stessa riesce a conoscersi veramente e profondamente nell’arco di una vita.


This is not a parking

This is not a parking


Daniela, portrait of my mother è il progetto fotografico pluripremiato che ti ha reso famoso nel mondo. Come è nato e qual è il significato di questo lavoro?

In questo progetto confluiscono tutte le mie esperienze di vita, il mio passato, quello della mia famiglia, ma anche storie di fantasia. Ho cercato di tradurre in immagine il mondo che avevo in testa.
Ho iniziato a fotografare mia madre per imparare ad usare la macchina fotografica. Ho continuato a fotografarla per passare del tempo con lei. Sto continuando a fotografarla per poter testimoniare e raccontare la nostra storia. Il nostro rapporto passa attraverso la fotografia e in un certo senso mi aiuta a conoscerla.
Non intendo dire che la fotografia riesca a colmare le lacune comunicative che ci sono fra noi. Passando più tempo con mia madre, mi rendo conto che il nostro rapporto si sta caricando delle difficoltà e delle contraddizioni della vita. Intendo dire che la fotografia è uno dei pochi punti di contatto e discussione fra me e lei, che negli ultimi anni è diventato il principale.
Il progetto si chiama Daniela, portrait of my mother, ma non è solo il ritratto di mia madre. In questo lavoro parlo di eventi o fatti che riguardano la sua storia, ma anche me e le esperienze legate alla mia famiglia. Altre volte cerco semplicemente di mettere in scena situazioni che, nel momento in cui le fotografo, diventano reali, diventano un ricordo e un’esperienza esse stesse. Per questo dico che è un progetto fluido, perché in esso confluiscono vari aspetti.
“Certo, si sono create discrepanze dolorose anche nella mia anima e sono vissuta fuori dalla realtà per chissà quanto tempo”: questa è una delle frasi che mia madre ha scritto nel suo diario, che offre un importante punto di riferimento per questo lavoro.


Daniela, portrait of my mother

Daniela, portrait of my mother


La fotografia secondo te è più una questione di tecnica o di sentimento?

Se devo essere sincero, nessuna delle due. Direi che si tratta più di una questione di pensiero. Ovviamente la tecnica è fondamentale. E ovviamente lo è anche il sentimento, la passione, l’impegno e l’amore che uno mette nel fare ciò che ama fare.
Ma direi che la fotografia, la buona fotografia, sia più una questione di pensiero, di avere una visione propria e ben delineata, di avere un’opinione.


Daniela, portrait of my mother

Daniela, portrait of my mother

Hai fotografato moltissimi artisti del panorama musicale e uno dei tuoi sogni era proprio quello di diventare un musicista… Che rapporto hai oggi con la musica?

So cosa significa studiare uno strumento, so cosa significa provare insieme ad altri musicisti, so cosa significa fare il musicista come professione. Quindi quando mi trovo a fotografare artisti che hanno a che fare con la musica, posso capire meglio come muovermi.
Per quanto riguarda il mio rapporto con la musica, è di odio e amore, come tutte le cose a cui dedichi gran parte del tuo tempo e delle tue energie credo.
Ascolto di tutto, dal jazz alla trap. Dipende come mi sento. Ascolto musica tutti i giorni. Ma se si tratta di suonare lo strumento, le cose cambiano. Non riesco più a godermi appieno il fatto di suonare.


Daniela, portrait of my mother

Untitled

Cosa significa essere un fotografo in Italia nel 2022? Il tuo è un settore in cui è possibile fare carriera?

È possibile fare carriera in qualsiasi settore se per fare carriera si intende vivere dignitosamente con ciò che uno ama fare. Se una persona è motivata e ha la giusta preparazione può avere grandi soddisfazioni a prescindere dal settore specifico.
Direi che ora come ora, un giovane che si affaccia al mondo del lavoro non si trova in una situazione semplice a prescindere da cosa decida di fare.
Vedo contratti di apprendistato senza prospettiva di assunzione, tirocini non pagati, contratti a tempo determinato dalla durata imbarazzante. “Aiutiamo i giovani” è lo slogan preferito dai politici a quanto pare, ma è semplicemente uno slogan.
Basterebbe una sola cosa per risolvere i problemi nel mondo: il rispetto, il rispetto in tutte le sue forme. Il rispetto per il lavoro, per l’ambiente, per la persona, per le diversità, il rispetto per la vita umana.


Untitled

Untitled

Per tutte le foto, credits Niko Giovanni Coniglio

Future visioni: Pitti Immagine volge lo sguardo alla nuova generazione di creativi mettendo in relazione formazione e creatività

A pochi giorni dalla sua conclusione, Pitti Immagine si riconferma una vetrina di visibilità per gli studenti e un canale diretto per entrare in contatto con le realtà del sistema moda. 

La passione di chi aspira a fare della creatività il proprio mestiere ha avuto modo di emergere grazie alle innovative installazioni e alle iniziative in formula ibrida che hanno costellato la manifestazione.

La ripresa della moda passa da Pitti ed è così che il Polimoda apre le danze con un incontro, tenutosi presso la sede di Manifattura Tabacchi, dove PwC Italia e Fondazione Edison hanno analizzato le prospettive della ripresa economica italiana post-pandemia, focalizzandosi sul settore abbigliamento – moda e sulla forza della manifattura e dell’export dell’Italia.



Simultaneamente gli studenti dei corsi di Undergraduate in Fashion Art Direction, Undergraduate in Fashion Styling e Master in Fashion Trend Forecasting, sono stati i fautori presso la Fortezza da Basso, sede principale dell’evento, della visual experience realizzata per il designer, ex alunno, Domenico Orefice. Il neo laureato ha portato in scena gli elementi dell’abbigliamento tecnico ispirato agli sport in dialogo con l’eccellenza dell’alta sartoria campana, terra dove affonda le sue radici. 

I talenti di Polimoda

I Polimoda talents non smettono mai di stupire ed è sempre in calendario che abbiamo visto emergere l’estro di un’altra neo diplomata: Ilaria Bellomo. La Bellomo ha collaborato con l’artista siciliano Sasha Vinci installando i propri capi all’interno dell’opera INNER JARDIN NOIR, un giardino nero immerso in tempi e luoghi indefiniti dove gli abiti hanno preso vita e si sono raccontati. Sostenibili, perché alcuni di essi sono realizzati in tessuti naturali, e upcycled, grazie all’intersecarsi della materia con elementi di recupero vintage come abiti e ricami vittoriani. Un insieme di piccoli capolavori artigianali realizzati in Italia da sarti esperti con tecniche produttive che rispettano il tessuto e il nostro pianeta. 



Tutti i racconti esperienziali sono stati vissuti anche digitalmente grazie ai canali ufficiali social dell’Istituto (Instagram e TikTok) .

Istituto Modartech e il Collection Project

Sempre virtualmente ritroviamo la partecipazione di altri poli della formazione toscana. È  il caso dell’ Istituto Modartech, scuola di alta formazione di Pontedera che, grazie al progetto Collection Project, ha lanciato un e-shop sulla piattaforma dell’accademia per presentare la capsule collection ideata e prodotta  dai laureandi. 



Giovani che supportano i giovani, infatti il ricavato delle vendite alimenterà nuove borse di studio per accedere ai corsi di laurea triennale in Fashion Design e Communication Design.

Tutta digitale la preview del concept e di quella che sarà l’experience online, presentati in anteprima e realizzati a livello corale nel primo semestre del 2022, con focus sulla reinterpretazione del logo e dello spirito dell’Accademia. Pezzi unici, caratterizzati da alta artigianalità, qualità dei materiali, lavorazioni distintive e filiere a km zero tracciabili, che contraddistingueranno la produzione del distretto toscano del Made in Italy. 

Istituto Marangoni a Pitti Immagine

E per chiudere la presenza delle scuole al Pitti Immagine non poteva mancare l’Istituto Marangoni Firenze che ha dato vita, presso la Fortezza da Basso, ad un talk focalizzatosi sul tema della manifestazione: Reflections. Partendo dall’utilizzo dell’oggetto-specchio nel mondo della creatività, il dibattito ha indagato la relazione tra l’occhio e lo sguardo, tra il vedere e il comprendere, tra l’esteriorità e l’interiorità, ego e vanità, affrontando anche le tematiche del digital alter ego e del metaverso. 

Al tavolo tre protagonisti del panorama artistico internazionale che hanno scelto Istituto Marangoni Firenze per intraprendere un esclusivo percorso di Mentorship a fianco degli studenti per l’anno accademico 2021/2022: Paul Andrew, che ha fatto il suo ritorno a Firenze dopo essere stato alle redini di Salvatore Ferragamo come Creative Director; Sarah Coleman, artista newyorkese la cui chiave del lavoro è l’upcycling di accessori di lusso e Andy Picci, l’artista dietro la visual art più onirica di Instagram. 

In copertina l’installazione di Ilaria Bellomo, studentessa di Polimoda.

Diversità inclusiva: Alan Crocetti

Indossati da Dua Lipa, Miley Cyrus, Lady Gaga, Christina Aguilera e in ultimo da Hell Raton, i gioielli del designer Alan Crocetti, di origini e studi brasiliani, fanno capire il valore intrinseco della bellezza e della complessità nel processo di creazione di un gioiello, elevandolo non solo come mero accessorio ma portandolo al centro della scena artistica e sensuale.

Alan trova energia e passione nell’avvicinarsi al mondo del gioiello durante la sua formazione alla Central Saint Matins di Londra, che abbandona all’ultimo anno, e crea una nuova visione ad un progetto che porta il suo nome, catturando un pubblico attento e ricettivo al suo messaggio.



Alan Crocetti affronta il tema della diversità come valore assoluto di espressione individuale, contro ogni tipo di normativa prestabilita. Nelle sue collezioni, mondi diversi si mescolano fra loro, o addirittura si scontrano, dando ispirazione ad un disequilibrio delle cose, mostrando così la varietà degli esseri umani, che insieme possono decostruire ciò che era considerato normale, e creare un mondo più inclusivo e diverso.


Cattura fin dagli esordi l’attenzione dei buyer internazionali di Dover Street Market, Londra, New York e Tokyo e collabora con designer come GmbH, Helmut Lang sotto la direzione creativa di Mark Thomas and Thomas Cawson. Ha la possibilità di lavorare con fotografi internazionali come Luke Gilford, Pierre Debusschere e Ferry van Der Nat, intrecciandosi con il talento artistico di Isamaya French, dando vita alle campagne pubblicitarie delle sue collezioni ANARCHY, EROTICA, CORPORATION e DISOBEDIENCE, dall’impatto sempre artistico ed introspettivo.



Grazie al suo design elegante, minimalista e massimalista, che ha cercato di ridefinire il ruolo dei gioielli nella moda contemporanea, Alan è presente nello spazio Big House di La Cienega per la prima mostra di Dries Van Noten a Los Angeles, un progetto che mette in sinergia artisti locali e internazionali e dove la potente combinazione di gioielli creata dal designer londinese è montata sull’incredibile lavoro ligneo dell’artista ceco Richard Stipl.

In questi giorni Alan presenterà un nuovo progetto “The Merch Line”, dove il suo logo, uno scorpione con una rosa, rappresenterà una sensibilità che farà da tessitrice di quell’incarnazione del messaggio dell’amore e di accettazione per sè stessi, vulnerabilità e forza che Alan sempre rappresenta nelle sue collezioni di gioielli.

Le sculture luminose di Paolo Gonzato

“La baracca è luogo fisico e al contempo metafora di un processo relazionale e creativo in bilico tra anarchia e controllo, poesia e razionalità”. Così il curatore Damiano Gulli introduce l’omonimo titolo – BARACCHE – della mostra personale dell’artista milanese Paolo Gonzato presso la galleria CAMP, il cui programma è interamente dedicato dalla direttrice Beatrice Bianco alla ricerca nel mondo in divenire del collectible contemporary design. Abbiamo incontrato l’artista in occasione del finissage della mostra per parlare di unicità, di pieni vs vuoti e di come il vetro abbia memoria.


Photo Credits: Ivan Muselli

È la tua seconda mostra da CAMP Gallery? Cosa ti attrae di quello che oggi molti oggi descrivono come functional art ?

Mi piace il fatto che sia un terreno ambiguo, indefinito che tiene il piede in due scarpe senza protendere per nessuna direzione. Mi piace che sia un ambito aperto che si sta scrivendo ora differenziandosi dal classico design di produzione, un’ “arte espansa” citando Mario Perniola.



Chi sono stati i tuoi riferimenti nel design industriale passato ?

Alcuni hanno dato forma ai miei riferimenti generali di artista, che ha il design come stimolo concettuale. Principalmente le forme di Ponti, Mendini, Sottsass, Munari.  Tuttavia non smetto di aggiornare le ispirazioni scoprendo percorsi minori o soltanto ancora da scoprire; per la ceramica Antonia Campi e Carlo Zauli, per i vetri Tony Zuccheri, del quale ho avuto la straordinaria occasione privata di vederne lo studio “congelato” al momento della sua morte.



Sempre di più l’individualismo è un valore determinante nella nostra società fondata sui social media. Individualismo e unicità sono valori sovrapponibili ?

L’unicità è una qualità che non può essere prodotta, è un concetto complesso legato al talento e non necessariamente all’idea di novità. L’unicità non è un luogo comune, non ha corrispondenze col pensiero mainstream né col falso mito della libertà. Ha più a che fare con le identità eccezionali e con le idee.

Oggi più che mai siamo consapevoli della mutevolezza e della precarietà dei nostri sistemi di riferimenti. Tre oggetti della tua vita quotidiana da cui non ti potresti mai separare ?

Mi guardo attorno e la stanza è talmente piena che farei a meno di tutto. Agirei per sottrazione fino ad arrivare al minimo indispensabile. Anzi se qualcuno volesse comprarsi tutto, casa compresa , ricomincerei da zero.



Tre libri che vorresti sempre avere nella tua borsa favorita ?

Nella mia borsa Simone Rainer mi porto a spasso Glamorama di Bret Easton Ellis, la copia originale della fine degli anni ’90.  Poi uno dei libri che Isabella Santacroce ha firmato e dedicato per una mia installazione/display fatta al museo di Rimini, una memorabilia da teen-fan che mischiava oggetti personali, disegni fatti da Isabella stessa col rossetto per me e opere preesistenti. La borsa deve essere capiente perché ci metto anche un grande e pesante libro di stampe del ’800, che separate dallo stesso sono diventate la base su cui intervenire per la mia serie di lavori OUT OF STOCK (Ex Libris), con le quali lo scorso anno ho presentato una personale all’interno della casa di un collezionista milanese di arte moderna.

Che rapporto hai con il vetro, perché lo senti affino al tuo carattere ?

Le vetrofusioni registrano e congelano per sempre ogni segno, ogni difetto, ogni errore, anche la grana della polvere.

La cosa migliore di essere un artista che vive e lavora a Milano ?

Milano è una città eccezionale, che ha plasmato il mio immaginario fatto di architetture di cemento armato grigie e austere. Non so se molti la considerano una qualità ma io esteticamente trovo questo aspetto molto apprezzabile. Cosi come il vestire di nero da testa a piedi, distaccati ma intensi, forse anche un po’ stronzi. Dagli anni ’90 vivo a Milano, l’ho presa come base da cui sono andato e venuto nelle altre capitali europee. I club, l’Accademia, le gallerie d’arte, il Design, un gran concentrato in un piccolo spazio vivibile e vivace.

Cosa invece trovi che manchi ?

Mancano le strade vuote, le automobili mi fanno schifo, sono un oggetto obsoleto. C’è una foto attuale di Chernobyl abbandonata, invasa dalla natura che corrisponde alla mia proiezione utopica degli spazi. Vorrei spazi entropici. Non ho la patente e mi muovo solo coi mezzi pubblici.

Il tuo prossimo progetto ?

Uno solo? Ne ho sempre tanti… Prendere un altro french bulldog, una compagna per il mio frenchie Artù; una serie di arazzi di lana di grande dimensione che presento alla galleria APALAZZO di Brescia; completare il mio nuovo studio nella zona di NOLO a Milano…


L’importanza di chiamarsi Lou Smith

Traduzione e adattamento – Valentina Ajello

Circa una decina di anni fa, la scena musicale rock era abbastanza in stallo. Non riuscivo a trovare nulla di particolarmente interessante tra i dischi che uscivano in quel periodo. Ricordo nitidamente che un giorno mi imbattei, in modo del tutto casuale, in un video su YouTube di un’esibizione live di un gruppo chiamato “Fat White Family”. Ne rimasi completamente colpito. Feci altre ricerche, sempre su YouTube, che confermarono ancor più quella mia prima sensazione: finalmente, dopo tantissimi anni, mi trovavo di fronte ad un gruppo musicalmente inclassificabile e dotato di una micidiale miscela di dissacrante anticonformismo. 



Andai avidamente a vedermi tutto quello che riuscii a trovare in video su di loro. Notai che quasi tutti i video erano di un certo Lou Smith. Investigai e scoprii che la firma di Lou Smith era presente anche in moltissime registrazioni live di altri interessantissimi gruppi e che, quasi sempre, la location dove avvenivano queste registrazione era un locale di Londra, più precisamente a Brixton, chiamato  “Windmill”. Rimasi sbalordito dalla freschezza e qualità di tutti quei gruppi. A parte i Fat White Family mi impressionarono molto gruppi come “Meatraffle”, “Warmduscher”, “Pregoblin”, “Goat Girl”, “Madonnatron” e molti altri. Facendo delle ulteriori ricerche venni a scoprire che abbastanza incredibilmente tutte quelle band venivano sì da Londra, ma in particolare dalla zona a sud della città. Una scena ricchissima di stili e generi nata intorno a pochissimi quartieri della città. 



Dopo alcuni anni, mentre continuavo avidamente a seguire tutte le nuove registrazioni di Lou Smith, andai a Londra e, per la prima volta, arrivai al Windmill a Brixton. Ricordo che ero molto emozionato. La stessa emozione che si prova quando si ha la certezza che un desiderio verrà realizzato. Entrai e rimasi subito positivamente colpito dalla gentilezza dello staff e dal fatto che la location era tutto tranne che scintillante e alla moda: un pub scarno e accogliente con un piccolo palco posto sul fondo del bancone addobbato da una tendina carnevalesca e con il logo del locale bene in evidenza. Mi sembrò incredibile e bellissimo che tutte quelle band, tutta quella scena fosse passata da quel palco così ridotto ed intimo. 

Ma quella sera successe un’altra cosa che mi segnò tantissimo: scorsi da dietro una sagoma che mi era familiare. Mi avvicinai a capii che mi stavo trovando di fronte proprio alla persona grazie alla quale mi stavo trovando lì in quel momento: Lou Smith! Mi presentai e lo salutai. Da lì cominciò un’amicizia che mi portò a frequentarlo tutte le volte che andavo a Londra per qualche concerto. Sempre al Windmill, ovviamente. 



A causa del COVID il “Windmill” rischia la chiusura. Sarebbe una tragedia immane. Ecco il link per chi volesse partecipare al crowdfunding e salvaguardare questa storica venue.

Ecco l’intervista che ho fatto a Lou in cui ci racconterà qualcosa della sua vita, del suo rapporto con il Windmill e i Fat White Family e di come e perché è nata quell’incredibile scena musicale proprio nel  sud di Londra. 


Puoi raccontarci qualcosa di te e dei tuoi svariati progetti?

Sono nato a Leeds. Mio padre era un geologo e mia madre un’artista e una creativa. Ci siamo trasferiti a Uxbridge, un sobborgo a ovest di Londra quando avevo 14 anni. Era la lunga estate calda del 1976 quando il punk raggiunse le strade e le onde radio di Londra. Fu in questo periodo che mi regalarono la mia prima macchina fotografica che, però, non portavo mai a quei primi concerti perché era pericoloso: c’erano le guerre tra bande di Ted, Rocker, Punx, Skinz ecc. Non mi sarei sentito sicuro con una macchina fotografica in metropolitana ai tempi. Allora fotografavo paesaggi, persone e animali e documentavo i miei primi viaggi. Iniziai a interessarmi alla musica alternativa ascoltando, tutte le sere dalle 22 alle 24, il programma radio di John Peel: i Clash, i Fall, i Cure, i Ruts, gli Undertones e numerosi altri inclusi musicisti Ska e Reggae. Questa mia passione mi distingueva dai miei compagni di scuola che ascoltavano heavy rock e più tardi heavy metal. In quel periodo, in concerto, ho visto, tra molti altri, i Joy Division, gli Strangers i Jam, i Clash, i Cure, gli Smiths e Kate Bush.

Dopo aver finito la scuola e non aver terminato la laurea in biochimica all’Imperia College, nel 1983, a 21 anni, mi sono trasferito in uno squat di Brixton. Da allora vivo e lavoro nel sud di Londra. Successivamente mi sono trasferito a Camberwell e poi a East Dulwich dove risiedo tuttora. Ho lavorato come ingegnere video, sui set come manovale, scenografo, assistente art director e  art director per numerosi video promo tra cui  “Firestarter” e “Breathe” dei Prodigy e “Where The Wild Roses Grow” di  Nick Cave/ Kylie Minogue e come fotografo freelance, videomaker, regista e montatore di video musicali. Ho imparato da solo a fare il fotografo, saldatore, argentiere, falegname. Recentemente sono diventato  serigrafo, un mestiere che mi permette di guadagnarmi da vivere organizzando feste per bambini e realizzando il merchandise per le band del sud di Londra.



Quando e perché hai iniziato a filmare e documentare tutto ciò che passava al Windmill e gli altri locali del sud di Londra?

Ho iniziato filmando  i musicisti che suonavano regolarmente alla serata Dog’s Easycome Acoustic all’Old Nun’s Head pub a Nunhead. Per me era una valvola di sfogo e un impegno lontano dalle mura domestiche durante i primi anni di vita di di mia figlia Iris. Caricavo sul mio canale YouTube materiale relativo ad artisti quali Lewis Floyd Henry, Boycott Coca-Cola Experience (Flameproof Moth), Andy (Hank Dogs) Allen, Ben Folke Thomas and i fratelli Misty and Rufus (Popskull) Miller. 

Il 9 febbraio 2011 sono sbarcati lì i Fat White Family, che allora si facevano chiamare Champagne Holocaust e hanno suonato la cover dei Monk “I hate You” oltre a una manciata  di canzoni loro tra cui “Borderline” e “Wild American Prairie”.  La formazione era composta dai fratelli Saoudi, Saul Adamczewski  e Anna Mcdowell e Georgia Keeling come coriste. Il batterista doveva essere Chris OC.  Lias (Saoudi) era alla chitarra e Saul alla voce e tamburino. Ho perso il filmato dell’intero concerto, ma mi è rimasto quello del brano “I Hate” che trovate sul mio canale:

I FWF hanno suonato molti altri set acustici all’Easycome nei mesi di febbraio e marzo. Da allora ho seguito la band fino al loro primo vero e proprio concerto intorno all’11 aprile. Insieme a Saul, Lias e Nathan (Saoudi), c’erano  Dan Lyons alla batteria e Jak Payne (Metros) al basso.

Avevo Canon 5D Mkll  e usando una versione “craccata” sel sotware Magic Lantern sono riusito a ottenere un suono decente e a documentare per la prima volta un evento live in HD.

Ti ricordi la prima volta che hai messo piede al Windmill? Qual è la tua serata che non scorderai mai?  

Come ho già’ detto è stato l’11 aprile  2011. Tuttavia ho un lontano ricordo di esserci stato trascinato anni prima visto che mi sono trasferito a Brixton negli anni ’80. Ci sono state molte serate grandiose, ma le migliori erano quelle il cui line-up comprendeva i FWF o i Warmduscher. La raccolta di fondi dopo la morte di Jack Medley è stata un evento intriso d’amore. L’amore era così denso che lo si poteva spalmare. All’evento hanno partecipato sia i Warmduscher che i Fat White Family. 

Adoravo l’atmosfera di anarchia dei primi concerti dei FWF e quella sensazione forte di appartenere a una famiglia, o a qualcosa di più grande della somma delle parti. Mi sono divertito molto anche alle serate dei  Meatraffle e della loro band consorella Scud Fm così come a quelle degli Shame, Sleaze, Amyl e gli Sniffers e Goat Girl. 

Quanto è stato importante il Windmill per la “creazione” di tutta quella che poi è diventata la scena di South London e se ci puoi raccontare quello che è stato il tuo rapporto con quella venue meravigliosa? 

Non credo sia eccessivo dire che la scena di South London (SLS) che conosciamo oggi non sarebbe stata possibile senza il Windmill. Non è facile capire il perché, ma la ragione principale è Tim Perry, l’organizzatore del locale, che coniuga buon gusto musicale con lo scouting di artisti su cui nessuno scommetterebbe (ma anche grandi talenti) e un fiuto allenato a capire le fregature. Il locale ha sempre attratto i migliori ingegneri del suono e la qualità’ del suono è sempre stata una delle sue caratteristiche distintive. Le band si aiutano a vicenda senza la rivalità distaccata e modaiola che ho visto nel nord di Londra. Una volta che il Windmill ha raggiunto la fama attuale, la gente ha iniziato ad assieparsi alle sue porte per partecipare alla magia che si creava al suo interno. Sono felice di aver contribuito  nel mio piccolo con il mio canale YouTube a far sì che quelle fantastiche band avessero un po’ di visibilità’ globale.



Sei stato il primo a documentare il lavoro dei Fat White Family. Hai capito subito quale poteva essere il loro potenziale? Puoi descriverci cosa ne pensi di questa band? 

Direi di si’. Ho capito subito che catturavano lo zeitgeist della crescente sensazione di nichilismo, disgusto e disprezzo totale per il trattamento riservato alla gente comune dall’ondata di gentrificazione, dalla politica neo liberista e dalla finanza globale. Mi ricordavano lo spirito del ’76 e hanno riacceso in me la passione che provavo per le prime band punk. La loro fama si allargava e la famiglia cresceva, non in modo gonfiato, ma per l’entusiasmo che i loro concerti  riuscivano a trasmettere La relazione ambigua e violenta tra i membri della band, in particolare Saul e Lias, e la prontezza se non maestria con cui affrontavano tabù e temi scabrosi con una sorta di humour che confinava con la morbosità’ li rendeva irresistibili. I testi tribali e totemici che nessuno osava mettere in questione accompagnati da ritmi sexy, sporchi, lo-fi country psichedelici rendeva la miscela inebriante. Lias perfezionando il suo falsetto gollomesco gracchiante e imprevedibile mandava il pubblico in estasi, mentre Saul alimentava l’euforia emanata dal sound con il suo sorriso sdentato e il ritmo della sua chitarra. Il resto della band doveva per necessità essere degenerata o geniale.

Secondo te come è possibile che così tante band interessantissime vengano tutte da quella zona di Londra? 

Credo che dipenda dall’ondata di gentrificazione che e’ iniziata da Covent Garden nei tardi anni ’70. Poi gran parte del nord e in seguito l’est ed il sud est sono stati conquistati da orde spietate di yuppy. Brixton, con la sua forte identità culturale, gli squat e la sua popolazione afro-caraibica ha resistito almeno temporaneamente. Gli affitti erano ancora abbordabili e gli studenti del Goldsmith e Comberwell College trovavano qui una comunità e la possibilità di esprimersi sui muri delle strade. I musicisti si riunivano in quei pochi locali dove potevano ancora sopravvivere, esplorare e crescere, ovvero una manciate di pub di cui il Windmill è senza dubbio il più importante, ma di cui fanno parte anche il Grosvenor, l’Amersham, il New Cross  Inn, il Queen’s Head, il Montague Arms, il Five Bells.

Quali sono le tue band preferite di questi ultimi anni? 

Mi appassiono raramente a band diverse da quelle che vedo da vivo, per me la musica deve essere per forza live. Se non fosse così, ascolterei ancora le band che seguivo da giovane, ricordando le glorie passate, come fanno molti uomini della mia età. Ho avuto la fortuna di vivere a due passi dal Windmill e di aver costruito un’amicizia con i proprietari e i musicisti.

Ci puoi anticipare quelle che, secondo te, sono le più interessanti e promettenti tra le band più recenti? 

E’ bello vedere che arrivano ancora band nuove nonostante il COVID. Mi piacciono soprattutto le seguenti: Addywak, STV, Deadletter, PVA, Muckspreader, Misty Miller.


Vi segnalo il suo sito, il suo canale YouTube e quello LBRY.

Photo Credits: Lou Smith

Gli artisti under 35 da tenere d’occhio

La curiosità spinge l’essere umano a percorrere nuovi sentieri: ciò, ovviamente, è valido anche per gli artisti. Quando decidono di esprimersi esplorando diversi media, vivono davvero in modo creativo. Perché anche nella vita quotidiana quando decidiamo di sperimentare, ad esempio, nuovi comportamenti per migliorare la qualità della nostra esistenza o comunichiamo in modo efficiente, pensiamo davvero. Ecco, il pensiero è anche la matrice dell’arte. Dal logos interiore incessante di alcune brillanti menti, noi di Man in Town vi presentiamo la new generation di artisti italiani che dovete assolutamente conoscere.


The Cool Couple, artisti multimediali


La tua formazione? 

Ci siamo incontrati a Milano, al master in fotografia e visual design di NABA. Niccolò arrivava da una laurea in filosofia, mentre Simone aveva studiato arte contemporanea. Per qualche anno abbiamo lavorato come studio manager tra Parigi e Milano e dal 2012 lavoriamo insieme come The Cool Couple. 

Progetti in cantiere?

Stiamo scrivendo un video, intitolato The Cute and The Useful sui metodi di conservazione degli animali selvatici in Sudafrica. Negli ultimi anni ci preme riuscire a parlare della crisi ambientale aggirando la tipica retorica del disastro per metterne in luce le contraddizioni, gli stereotipi e le questioni che emergeranno nel prossimo futuro. Nel caso di TCATU ad esempio i cute e gli useful sono gli animali che sopravvivranno all’estinzione di massa in atto: quelli carini e quelli che possiamo sfruttare economicamente, in termini di materie prime o forza lavoro. 

Cosa ascoltavi da piccolo e crescendo?

Uno di noi Hip Hop, l’altro Minimal Techno e Metal. 

Regista, attore e attrice preferiti?

Christopher Nolan, Jim Jarmusch, Bill Murray, Cameron Diaz, Jack Nicholson, Kate Blanchett

Pittore, scultore, architetto preferito?

Damien Hirst, Arcangelo Sassolino, Gio Ponti, Tadao Ando.

Descrivi i diversi media che esplori, la loro evoluzione stilistica e verso dove stai andando?

Siamo partiti dalla fotografia, ma negli anni ci siamo mossi in diverse direzioni, toccando scultura, performance, video, pittura, videogiochi… Ci interessa come le immagini si muovono, come interagiscono con noi, come ridisegnano la nostra percezione del mondo.  

Perché sei un artista?

Puoi fare arte perché ti fa stare bene. Fare l’artista è uno step ulteriore, dove decidi di entrare in un sistema, con determinate regole e potenzialità, ma soprattutto è il momento in cui fai entrare la condivisione del tuo pensiero nella tua vita. Per noi fare gli artisti è una condizione senza pari, hai una libertà espressiva quasi illimitata, ma anche una responsabilità nei confronti dei tuoi interlocutori. Cerchiamo sempre di costruire dei progetti in grado di comunicare con un pubblico ampio, ci piace creare interazione con i fruitori delle opere.


Ekate Pace, tatuatrice e performer

Paride Cevolani all'opera
Paride Cevolani, illustratore e tatuatore


La tua formazione?

Ho frequentato il liceo artistico Felice Casorati di Novara e poi ho iniziato l’accademia Albertina di Torino, abbandonandola infervorata dagli orari ristretti e l’apatia generale che regnava.

Progetti in cantiere?

I progetti in cantiere sono: una performance con il tatuaggio e il corpo, la pubblicazione di una raccolta di poesie e pensieri su femminile, viaggio e sesso, e prendere una cascina da trasformare in un luogo di residenze artistiche, laboratori ma anche relazione con la natura, con il vuoto e con l’abbondanza.

Cosa ascoltavi da piccolo e crescendo?

Sono cresciuta con Renato Zero, Mina e i Queen, appassionata ai Led Zeppelin – Deep Purple e Doors fino agli Spiral Tribe, Sonic Youth e Joy Divison. Oggi ascolto Dadi Etro, Inca Misha, Khtek, A-wa, Acid Arab, Om, Devendra Banhart. Mi piace ascoltare tutto ciò che mi proietta in mondi magici e pazzi.

Regista, attore e attrice preferiti?

Amo i film di David Linch, David Cronenberg , John Carpenter, Alejandro Jodorowsky, Richard Linklater, Lana & Lilly Wachowski, Liliana Cavani, Paolo Virzì, Federico Fellini, Pier Paolo Pasolini, Pedro Almodovar, Quentin Tarantino, Studio Ghibli. Il mio attore preferito è Johnny Depp, mentre le attrici che preferisco sono Nicoletta Braschi e Penelope Cruz.

Pittore, scultore, architetto preferito?

Pittore preferito sicuramente Piero della Francesca e Salvador Dalì, ma anche Hans Hartung, Otto Dix, Frida Kahlo, Mauritania Cornelis Escher,  Paul Gauguin e molti altri. Scultori preferiti Antonio Canova e Henry Moore , ma anche Joan Miró nelle sue installazioni scultoree. Gli architeti che preferisco invece sono Friedensreich Hundertwasser e Antoni Gaudì.

Descrivi i diversi media che esplori, la sua evoluzione stilistica e verso dove stai andando?

Mi piace provare tutto ciò che mi permette di giocare e sperimentare rimanendo fedele al rito creativo. Con la pittura amo osservare come i diversi materiali  (ink, acrilico, smalto, polveri, acqua, vinavil) interagiscono tra loro e comunicano. Adoro il collage per la sua fruibilità di messaggio,  ma anche la videocamera mi appaga per il suo ruolo comunicativo. Il tatuaggio mi stimola nella sua varietà di uso e stile, e la penna bic è la mia migliore amica nei viaggi e prima di addormentarmi. Ho appena comprato una tavoletta grafica per ricominciare la fase di apprendimento con un nuovo mezzo e ora sono come una bimba con il gioco nuovo! Con questo mezzo potrò unire gioco e amore, passato e presente abolendo i limiti di tempo e spazio. A livello performativo, sto affrontando il rito della cultura  ‘Zulu’  di Costellazione Familiare con Giuliana Strauss, con l’obbiettivo di sciogliere i miei nodi, ma anche di integrare nella ‘A cena con i casi umani’ .

Perché sei un artista?

Non potevo fare diversamente, percepisco l’invisibile e ascolto il tutto. Per questo l’arte è la mia malattia e la mia cura. Mi ha portato in molti luoghi e mi ha permesso di illuminare le oscurità del mio passato. Mi sento molto fortunata a vedere la vita con gli occhi dell’artista, anche se questo include farsi molte domande, pretendere da sé stessi sempre di più e non annichilire l’empatia .


Paride Cevolani, illustratore e tatuatore


La tua formazione?

Piuttosto travagliata, ho frequentato l’Istituto d’arte (indirizzo scultura), diplomandomi in seguito al Liceo Artistico Arcangeli di Bologna. Ho conseguito poi un secondo diploma alla scuola internazionale di fumetto ed illustrazione Comics di Reggio Emilia.

Progetti in cantiere?

Perfezionarmi nel tatuaggio, elaborando uno stile riconoscibile e dedicarmi in veste di illustratore ai progetti editoriali in corso d’opera.

Cosa ascoltavi da piccolo e crescendo?

Sono crescito ascoltando Mtv e VideoMusic alla televisone dove ho scoperto la passione per l’hard rock e il punk prima e il goth e la minimal wave poi. Ora i miei gusti sono più eterogenei rimanendo tuttavia sempre fedele alle “origini”.

Regista, attore e attrice preferiti?

Lars Von Trier, Bela Lugosi, Bette Davis

Descrivi i diversi media che esplori, la sua evoluzione artistica e verso dove stai andando?

Prediligo tecniche miste e collage, utilizzando carte vintage. Sto riscoprendo il pennino a china e il rapidograph, utili per illustrazioni più grafiche e i flashtattoo. Non so in che direzione sto andando, seguo il flusso in modo naturale.

Perchè sei un artista?

Perchè è cio che so fare meglio.

5 fotografi neo diplomati che dovresti assolutamente seguire

Parliamo dei talenti del Photography Master della Raffles Milano, una scuola che racchiude un metodo ed uno spirito nuovi trasmessi da i più grandi maestri del settore. Interpreti attivi, efficaci e consapevoli della contemporaneità in grado di rompere gli schemi grazie al percorso formativo di alto profilo guidato da Alessandra Mauro, direttore artistico della Fondazione Forma per la Fotografia di Milano e direttore editoriale della Casa editrice Contrasto di Roma, seguito con grande impegno e sacrificio durante i periodi di lockdown. Tutti concorrono per diventare lo studente dell’anno, prestigioso titolo conferito allo studente che, per carriera accademica e portfolio, si sia distinto nella valutazione sia di una commissione di docenti interni sia di quella di una commissione di professionisti esterni.

E voi quale preferite?

Luigi Zannato @luigi.zannato

Luigi Zannato, classe ‘99, nasce e cresce in un paese in Provincia di Avellino, Calitri. Il contatto costante con la natura e la sua curiosità lo spingono ad esplorare la fotografia che studia da autodidatta. Conclusi gli studi liceali decide di trasferirsi a Milano e frequentare il Master in Fotografia dove cresce costantemente e sviluppa un senso della composizione e della luce facendolo tendere verso il settore commerciale e still-life della fotografia, ma continua a portare avanti progetti spesso legati alla proprie radici come “Aratura”, “Diario di un fuorisede” ed un progetto in corso riguardo il terremoto del 1980 cha ha devastato l’Alta Irpinia.



Paulina Flores Toscano @toscanopau

Paulina F. Toscano (Guadalajara, Messico, 1988) è una scrittrice, concept development, fotografa ed esperta in arti visive. La sua produzione creativa è cominciata da scrittrice ed è presto diventata una forma di esplorazione della vita attraverso il linguaggio visivo. Paulina prende spunto da momenti di vita quotidiana che hanno in comune semplici elementi come geometrie e luci ed è ispirata da una ricerca antropologica e sociologica guidata dalla curiosità di comprendere la condizione umana e l’interazione con il mondo che ci circonda.



Mariam Merkviladze @maroarvar

Mariam Merkviladze (Maro), nata a Tblisi nel 1994, è una giovane artista-creatrice georgiana. Il suo particolare interesse per l’immagine e la semiotica incrocia la sua passione per le arti visive e le pratiche artistiche indipendenti, spingendola ad entrare nel mondo della fotografia. Le fotografie di Maro nascono sul confine tra il regno del sogno e della realtà. La sua ricerca giocosa esiste come un processo auto-esplorativo ed una riflessione sull’incontro del suo lato intimo con l’ambiente che la circonda.  



Paula Plodzien @paulaplodzien

Nata a Città del Messico nel 1993 in una famiglia di artisti; con un padre violinista e una madre pianista e pittrice. Durante la sua adolescenza, ha vissuto tra il Messico e la Polonia, paese di origine della madre, dove ha scoperto la sua passione per le arti visive, concentrandosi poi sulla fotografia. Ha fatto i suoi primi studi professionali a Barrie, in Canada, dove ha studiato fotografia al Georgian College. Dopo la laurea, ha lavorato nella post produzione di fotografie di moda e editoriali a Toronto. È tornata nel suo paese dopo tre anni dove ha continuato ad esplorare la fotografia come professione e come esplorazione artistica. Attualmente vive in Italia dove studia e lavora nella post produzione fotografica.


Kavya Aggarwal @_kavyaaa

Kavya Aggarwal, nata nel 1996 in India del Nord, è una fotografa e visual artist. Si laurea in Interior Design presso Lasalle College of the Arts di Singapore (Goldsmiths, University of London) studiando Interior e Spatial design come strumento per concettualizzare ed esprimere le sue idee creativamente. Si avvale del mezzo fotografico per capire ed esplorare sé stessa in relazione a ciò che la circonda. Il suo lavoro è ispirato dalle sue esperienze personali e dalle conoscenze acquisite durante il proprio percorso artistico.


Leandro Cano lancia la linea uomo

Eclettico e promettente , il giovane fashion designer Leandro Cano, madrileno d’origine , lancia la sua visione artistica della moda creando per la prima volta una collezione Uomo . 

Con “Siempre a tu vera” (Sempre dalla tua parte ) Leandro Cano debutta nel mondo del menswear scollegando ogni cliché e proponendo una “visione artistica” , é così che la chiama, attraverso la creazione dei suoi capi. Una collezione che ha in se quindi  un monito di speranza , già dal suo nome, per il periodo difficile che tutti noi stiamo attraversando a causa della pandemia da Covid -19. 

Una vera espressione artistica quella del designer andaluso che si traduce in capi innovativi, creati con materiali di prima qualità , dallo stile ricercato e visionario. 

Con Siempre A Tu Vera , Leandro Cano si appella alle grandi donne che si sono distinte nella societa come ispirazioni e modelli da seguire per il progresso . Così, l’uomo protagonista oggi nelle sue creazioni , mascolino e senza pregiudizi di ruolo, sicuro di se è pronto a lasciarsi travolgere dalla forza di queste donne.  

L’uomo Leandro Cano si presenta spavaldo, determinato, super moderno, proprio come i dettagli che indossa. 

I pezzi chiave della nuova linea menswear è composta da dei veri e propri pezzi artistici come le tute elastiche con stampe concettuali, la maxi camicia dalla lunghezza esagerata che presenta stampe astratte  , bomber oversize in neoprene   declinata in verde bottiglia e abbinata a leggings con applicazioni a forma di stella , giacche “cropped in rafia color crema abbinata a pantaloni a vita alta con stampe. I materiali di qualità impiegati per la creazione dei capi sono: organza , pelle, neoprene , tessuti tecnici , jacquard e rafia . 

Non mancano proposte eccentriche come le scarpe platform by Musseo, (create dietro la direzione creativa di Leandro Cano) , collane placata in oro con maxi lettere e intimo “imbottito”, totalmente rosa, che incorona l’uomo Leandro Cano come simbolo dei tempi moderni in cui l’io si scompone per assumere nuovi connotati grazie ai capi che indossa . Non una questione di generi , ma di natura creativa e stilistica che scompone la figura dell’uomo per dare vita, invece , a una nuova immagine , specchio della molteplicità di sfaccettatura che l’uomo contemporaneo presenta. 

Woc: l’artista made in Turin che ha stregato Virgil Abloh

Special content direction, production, styling & interview Alessia Caliendo

Photographer Matteo Galvanone

Manintown incontra IN ESCLUSIVA Woc, pseudonimo di Flavio Rossi, artista e designer under 30 che indaga gli infiniti valori simbolici ed estetici che l’immagine ha acquisito nell’era contemporanea. Con la sua tecnica a spray, l’artista mette in scena una rassegna mediatica delle immagini apparse nel web e maggiormente discusse dal pubblico, rendendo eterna un’iconografia altrimenti destinata ad essere fagocitata dalla rapidità della comunicazione Internet. Dal 2018, grazie ad un fortuito incontro virtuale, collabora con Virgil Abloh per il brand Off White nella realizzazione di edizioni limitate.

Woc un ibrido tra la generazione Z e i Millenial e l’indagine sulle immagini iconografiche che diventano iconoclaste tratte dai baluardi della generazione anche antecedente. Come si svolge la tua ricerca ispirazionale e come entri nel loop creativo?

Tutto ciò che dalle mie mani può diventare un prodotto artistico è tratto dalle immagini che mi circondano. La ricerca parte dallo scroll sui social, dal web, dalla TV e dall’attualità, con il focus su tutto ciò che può essere viralmente pop. Sicuramente in essa c’è una forte componente tratta dai ricordi dell’infanzia.

Grazie ai social il tuo getto a spray, più dissacrante delle viralità ASMR, è stato notato da Virgil Abloh che ti ha reso uno dei suoi pupilli per la realizzazione delle grafiche per Off White diventando anche un tuo collezionista. Parlaci del vostro connubio artistico.

Nel 2017 mi stavo approcciando al mondo delle sneakers ed enfatizzavo la mia passione disegnando una serie di sketch dedicati ai modelli must have. Ho iniziato a disegnare svariate Nike finchè, grazie alle Air Max, taggando Virgil, ho ricevuto un suo direct. Sin da subito ha apprezzato i miei lavori dandomi una commissione per Off White. Ad ora posso confermare che molte grafiche del brand sono mie e lo stesso è diventato un collezionista del Woc artista.

Non solo Off White ma anche Nike e Slam Jam per il recente lancio delle Slam Jam x Nike Travis Scott’s “Cactus Trails” e ancora la direzione creativa del brand Italia90, quanto sono importanti le collab per un artista poliedrico come Woc?

Ci tengo particolarmente a questo discorso. Secondo la mia visione un artista non è obbligato ad avere una multidisciplinarietà creativa però, al giorno d’oggi, è un bene essere aperti a vari supporti espressivi. I tempi che corrono ci consentono di essere poliedrici portando l’arte in prodotti più “commerciali” che a loro volta ci consentono di dar voce al lato meramente artistico.

Italia90, un brand, un collettivo torinese, nato con l’obiettivo di rendere il connubio arte e moda più contemporaneo di ciò che già viene definito tale. Alla soglia del lancio di PRIMO TEMPO, la sua collezione d’esordio, raccontaci le peculiarità che la rendono unica nel mondo dell’upcycle.

Siamo un gruppo di creativi local dove la figura del leader non esiste. Siamo contaminati da influenze e sinergie nate sin dai tempi del liceo Cottini e diamo frutto alle nostre idee nella maniera più spontanea possibile. Ogni capo porta con sé una piccola storia prestando particolare attenzione all’upcycling. Ricontestualizziamo, ricreaiamo e riplasmiamo senza sosta.

Nonostante abbia un quarto di secolo, WOC ha già all’attivo molte exhibition presso le art gallery più visionarie del nostro Paese. Quali saranno i suoi prossimi step?

Sicuramente proseguirà la collaborazione con NOIR Gallery, la mia galleria di rappresentanza a livello globale. Non ho ancora progetti ben definiti, ma sono ambizioso nel dire che spero in collaborazioni commerciali sempre più importanti.

Il ricordo di Germano Celant: cinque opere per scoprire l’importanza che l’arte povera ha ancora oggi

Viene a mancare all’età di 80 anni il critico e curatore genovese Germano Celant, dopo due mesi in terapia intensiva al San Raffaele per complicazioni dovute al COVID – 19.

Identificato come il fondatore dell’arte povera, movimento della seconda metà degli anni sessanta che pone il rapporto Uomo – Natura alle sue fondamenta, Celant fu tra i primi a privilegiare il “gesto artistico” mettendosi in forte contrapposizione con le tendenze consumistiche che in quei tempi stavano sempre più prendendo piede nel mercato dell’arte. 

Il mondo dell’arte italiano perde così una delle sue figure più importanti, autore di più di cinquanta pubblicazioni Celant è stato curatore del Guggenheim di New York, direttore della prima Biennale di Firenze Arte e Moda e della Biennale di Venezia nel 1997.

Nel 2015 la sua carriera raggiunge l’apice grazie alla nomina come direttore artistico di Fondazione Prada. 

Anche il direttore artistico del Museo Novecento ha voluto ricordare Germano Celant: “E’ un giorno triste per il sistema dell’arte del nostro paese. La pandemia ha strappato, all’affetto dei suoi cari e degli amici artisti, Germano Celant, straordinario protagonista della critica e della curatela in arte. Imprescindibile punto di riferimento per  il suo magistero teorico e il suo approccio nella organizzazione delle mostre, da quelle collettive alle personali, sempre impostate in condivisione con gli artisti, dei quali Celant non era solo interprete teorico, ma compagno di avventura fin dalla fine degli anni Sessanta. Ebbe allora la felice intuizione di scavalcare le storie personali di molti di loro per raggrupparli sotto il termine di Arte Povera, un’attitudine poetica e immaginativa che ha segnato l’evoluzione dei linguaggi contemporanei. Ricordo con emozione la sua ultima grande prova, la mostra antologica di Jannis Kounellis a Venezia lo scorso anno. L’omaggio di un grande critico a un gigante dell’arte contemporanea scomparso nel 2017”.

L’importanza dell’arte povera: Gli anni sessanta sono caratterizzati da un periodo di enorme cambiamento favorito dalle rivolte studentesche e le manifestazioni di dissenso contro la guerra del Vietnam e contro le repressioni nei paesi latini americani.

Sono anni particolari che avranno una forte ripercussione anche nell’arte, in particolare grazie a quella Povera che riflette una necessità di cambiamento nei contenuti ma anche nella sua natura vitale, un approccio non più statico ma mutevole. 

Gli esponenti dell’arte povera utilizzano così materiali alternativi come terra, legno, ferro e scarti industriali attraverso i quali ci comunicano i loro messaggi di stampo intellettuale. 

Cinque opere per ricordare l’importanza comunicativa dell’arte povera: 

Senza titolo – 12 cavalli 1967 – Kounellis


Igloo con Albero 1968 – 1969 – Mario Merz 


Quadro di fili elettrici 1957 – tenda di lampadine – Mario Pistoletto 


Famigliole 2010 – Piero Gilardi 


Mare  1967 – Pino Pascali

Cosa farai dopo il lockdown: Alessandro Simonini

Il lockdown dovuto all’emergenza Covid-19 potrebbe durare ancora qualche settimana ma questo non ha impedito ai milanesi di meditare su un futuro positivo e un ritorno alla normalità. Abbiamo selezionato 5 creativi che hanno fatto di Milano la loro casa e a cui abbiamo domandato: Che cosa farai appena potrai uscire? Quali sono le abitudini che più ti mancano?

Un paesaggista, un interior designer, una stylist, un visual artist e un fotografo ci hanno raccontato le loro esperienze in questo delicato momento e la loro voglia di revenge. Cominciamo con il primo:

Alessandro Simonini – Visual artist 

@alexandrosimonini

L’emergenza, senza mezzi termini, ci ha costretto a comprendere quello che etimologicamente è: l’emergere in superficie di ciò che è sommerso. 

Una volta fuori, sarà proprio la staticità di questo momento, non senza difficoltà, a far ri-emergere la Milano che ho scelto otto anni fa e che amo.

Lo studio, in Porta Romana, sarà la mia prima meta dopo la quarantena. 

Insieme agli artisti con i quali lo condivido, ripenseremo allo spazio e alle modalità di fruizione in vista dell’apertura, durante la seconda edizione di Walk-In Studio festival

Perché l’arte in mostra è negli atelier, disseminati per la città, e da lì trae le sue origini e si sviluppa.

Sempre in zona raggiungerei a piedi, passando per il Duomo, la storica Libreria Esoterica in Galleria Unione, lì si che faccio girare l’economia.

Poi senza dubbio cena da Alhambra in Porta Venezia, dove lasagna e spezzatino di seitan farebbero ricredere anche Hannibal Lecter.

Dulcis in fundo, il mio augurio per la rinascita, sarà riprendere le passeggiate al Monumentale, luogo magico di Milano, nel rispetto di una morte troppo strumentalizzata ma latrice di cambiamento che forse, al servizio dell’eternità e più rivoluzionaria che mai, reclama la sua personale revenge.