La fotografia sognante e fiabesca di Federica Duma

Milanese, classe ’99, Federica Duma crea atmosfere fatate attraverso una fotografia sognante e fiabesca. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lei per conoscere meglio il suo mondo.

Quando e come la fotografia è entrata nella tua vita?

Sono cresciuta con la passione per il cinema, quando ero bambina mio padre mi ci portava ogni fine settimana e così i film sono diventati una costante del mio quotidiano. Credo proprio sia stata quella la natura di ogni mia influenza artistica. La fotografia e le scelte dietro a una composizione sono la base del cinema. Ho avuto l’opportunità di studiare e scoprire tutto ciò che può trasmettere uno scatto frequentando un istituto fotografico che ha alimentato la mia curiosità verso tutto ciò che è arte, in particolar modo digitale. Con il passare degli anni sono riuscita sempre più a comprendere e maturare cosa volessi rappresentare attraverso i miei scatti, a raccontare quello che sono e ciò che mi circonda ma soprattutto a creare legami con lo spettatore.

Federica Duma photography
Red Fruits, ph. Federica Duma

Le tue opere raccontano un mondo onirico e fiabesco. Come mai hai deciso di dedicare il tuo lavoro al tema del surreale?

Trovo interessante poter combinare tutto ciò che impressiona e influenza la mia quotidianità. Quello che mi entusiasma è la possibilità di poter fondere stili, epoche e contesti assieme a concetti simbolici. Poter concepire personaggi fantastici e dare loro vita è l’occasione per sfamare la mia creatività e ispirare quella altrui, coinvolgendo lo spettatore in una storia. Le chiavi di lettura di un sogno possono essere molteplici e così le mie immagini, chi le guarda può immaginare il proprio racconto. Questa mia devozione al mondo onirico è anche una forma di gratitudine verso le principali influenze della mia infanzia, che da sempre condiziona le mie passioni e il mio gusto estetico.

Come scegli i soggetti e come organizzi il lavoro? Quanto tempo impieghi a dar vita a un’opera?

Molto spesso immagino un personaggio o le sensazioni che voglio trasmettere e successivamente cerco un soggetto che possa interpretare quel ruolo. Per realizzare un set ambientato, bisogna considerare tanti dettagli che riguardano gli abiti, il trucco, gli oggetti di scena, la location… Ormai da anni ho una mia routine, una serie di passaggi precisi che mi aiutano a progettare il lavoro. Inizialmente cerco delle reference, guardo film e immagini che possano alimentare la mia idea iniziale e successivamente scarabocchio abiti, oggetti di scena, palette colore, creando un moodboard e uno storyboard di quelle che saranno le pose ipotetiche durante gli scatti. I tempi variano e dipendono molto dal tipo di allestimento, dalle tempistiche e dai costi. Generalmente impiego un mese di studio e lavoro per organizzare la fase di scatto e almeno una settimana per realizzare l’editing adeguato.

Tra le tue serie fotografiche, ce n’è una cui sei particolarmente legata? Se sì, perché?

Per ogni serie fotografica sono coinvolta emotivamente in modi diversi, poiché sono legata non solo al risultato finale ma a tutto il processo che c’è dietro e non si vede. Tutti i set sono ricordi, momenti specifici della mia vita e del rapporto creato con il soggetto che posa. Dal punto di vista stilistico la serie fotografica a cui sono più legata è Celestial Swarm, perché trovo sia quella che meglio rappresenta la mia direzione estetica. Quegli scatti sono un’armoniosa fusione di delicatezza, fragilità, malinconia ma anche sensualità, innocenza e inquietudine.

fotografia fairy 2022
Celestial Swarm, ph. Federica Duma

Ultimamente, oltre alla fotografia, ti sei dedicata al linguaggio delle immagini in movimento e del cortometraggio. Cosa ha influito su questa scelta?

I video offrono un’opportunità immersiva e sostanziosa per lo spettatore, che ha la possibilità di sentirsi più coinvolto con un video piuttosto che con un contenuto fermo e statico. Proprio per questo motivo ho voluto provare a creare una percezione differente del mio lavoro artistico che è in continua evoluzione. Del resto il mio primo amore è stato proprio il cinema

Federica Duma
Red Fruits, ph. Federica Duma

Tutte le foto, courtesy of Federica Duma

Nell’immagine in apertura, una foto della serie Honey Bunny

Moda e musica: l’arte dello styling

Moda e musica sono due facce della stessa medaglia, due universi di senso che dialogano e si ibridano l’uno con l’altro. Siamo da sempre portati a considerarle un tutt’uno e forse non riusciremmo neppure a immaginare l’una disgiunta dall’altra. Artisti come Elvis Presley, i Beatles, Madonna, Michael Jackson, Lady Gaga, ci hanno insegnato che l’immagine giusta può definire se non creare un personaggio, tanto quanto il suo talento.
Del resto sono molti gli studiosi che hanno indagato questo legame, primo fra tutti l’antropologo Ted Polhemus che ha più volte sottolineato come «nel corso della storia il musicista sia stato una figura che viene guardata, oltre che ascoltata». Moda e musica dunque sono due forme di comunicazione, due veri e propri linguaggi. Oggi più che mai, l’immagine dei talenti musicali viene costruita a tavolino e dietro questa operazione ci sono gli stylist, figure professionali capaci di dar vita a immaginari dal forte impatto emotivo, che attirano potentemente il nostro sguardo.

Gli stylist che stanno trasformando lo showbiz musicale italiano, da Susanna Ausoni a Ramona Tabita, a Nick Cerioni

«Vestire una persona significa prima di tutto conoscerne la più vera natura. È da lì che parte tutto. Per me gli abiti sono ponti tra differenti aree culturali e la fisicità: il mio lavoro è compiuto solo quando se ne costruiscono di solidi». Con queste parole Susanna Ausoni, regina del celebrity styling italiano, descrive la professione che l’ha portata a collaborare con grandi artisti musicali e dello showbiz; alle spalle una lunga carriera iniziata da MTV negli anni ‘90, oggi è artefice dei look di star del calibro di Mahmood, Elisa e Noemi.

Proprio con Susanna Ausoni si è formato Nicolò “Nick” Cerioni, creativo visionario che spesso e volentieri usa la chiave dell’ironia e dello stupore. Da più di dieci anni collabora con Jovanotti, un sodalizio che ricorda come «una grande scuola non solo professionale ma, soprattutto, umana. Lorenzo mi dato fiducia in un momento in cui nessuno credeva nel mio, nostro lavoro. Guardo ancora a quanto abbiamo fatto insieme con emozione. Per me è un maestro, un vulcano creativo, un artista enorme capace di elevare anche chi lo circonda».

La firma estetica di Cerioni è sicuramente d’impatto e spesso controversa, non a caso è proprio lui a dar vita a moltissimi look di Achille Lauro, tra cui quello firmato Gucci indossato durante il Festival di Sanremo 2020, una tutina di tulle e cristalli impossibile da dimenticare. Il cantautore romano, secondo lui, «è un artista prezioso perché unico e inimitabile. Incarna molti contrasti che rendono quello che fa potente e misterioso, in un dualismo incredibile di luci e ombre. Gli sarò sempre grato per avermi dato la possibilità di creare insieme l’intero progetto creativo di numerose performance, video e foto. Lavorare con Lauro mi ha fatto sentire libero, la sensazione più bella di sempre».
Anche lo stile glam rock dei Måneskin è opera di Cerioni, così come il trend adottato da Orietta Berti negli ultimi tempi; «Orietta è una donna libera, aperta, è la nostra Lady Gaga», sostiene, un paragone decisamente azzardato ma da cui traspare tutta l’ironia del restyling in questione.

A volte un cambio d’immagine può mettere il turbo alla carriera di un artista. Lo sa bene Ramona Tabita, tra gli stylist più richiesti, “responsabile” della metamorfosi di Elodie dallo stile Amici a quello di femme fatale. Collabora da anni con Ghali: «Volevamo un’immagine non standard, diversa da quella classica del rapper con i pantaloni larghi e le sneakers. Abbiamo optato per un’estetica curata, dalle silhouette sartoriali, che attraverso i contrasti valorizzasse la sua figura», specifica.

I celebrity stylist dietro i look di Levante, La Rappresentante di Lista, Blanco: “Mr. Lollo” e Tiny Idols

Levante stile
Lorenzo Oddo con Levante

Tra i nuovi nomi di punta del settore c’è Lorenzo Oddo, in arte Mr. Lollo, fashion designer (per anni nel team di Marco De Vincenzo) e stylist di riferimento di Levante, di cui dice: «Claudia ha una forza espressiva fuori dal comune, è come un foglio bianco che attraverso gli abiti si tinge di volta in volta di colori diversi. Ha un carisma straordinario, può indossare qualsiasi cosa senza che la sua immagine ne sia sovrastata». È proprio durante un suo concerto che incontra La Rappresentante di Lista (Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina), di cui ha curato l’immagine a Sanremo 2022. Commentando la collaborazione, ricorda: «Quando ho ascoltato il pezzo ho subito pensato di mettere in scena dei personaggi, abbiamo trascorso mesi nell’archivio di Moschino cercando i capi giusti che ci aiutassero a rappresentare visivamente i temi della canzone. Del resto il brano è apparentemente leggero, divertente, ma allo stesso tempo obbliga a riflessioni importanti sul mondo che ci circonda. Abbiamo scelto dei look apparentemente giocosi, ma che portassero un messaggio di spessore, outfit d’impatto che completassero il racconto in maniera perfetta. Lo styling parte dalla testa, deve esserci un pensiero dietro».

La rappresentante di lista Sanremo 2022
Veronica Lucchesi, Lorenzo Oddo, Dario Mangiaracina
La rappresentante di lista Moschino
Lorenzo Oddo con La Rappresentante di Lista

Se dell’ultimo Festival ricorderemo mantelli e bluse leggere indossate da Blanco, il merito è di Tiny Idols (Silvia Ortombina), che da anni collabora con l’artista.
«Volevo tradurre la carnalità in eleganza semplice, rappresentare più che il corpo lo spirito, raccontare un sogno lucido che vive di sentimento autentico, reale. Pierpaolo Piccioli ha la capacità di tradurre da sempre questo tipo di estetica in modo superbo e per me è stato un onora lavorare con il team Valentino partendo proprio dagli statement della maison: mantello e chiffon. Ho voluto dar vita a un messaggio forte accostando i ricami ai tatuaggi, ridisegnando il corpo in modo prezioso ma allo stesso tempo semplice, per dichiarare che la moda non è questione di trend, ma di stile». Come darle torto?

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Blanco al Fabrique di Milano (ph. Roberto Graziano Moro)
Blanco moda stilista
Blanco (ph. Roberto Graziano Moro)

Nell’immagine in apertura, Blanco in concerto al Fabrique, ph. Roberto Graziano Moro

Le Petit Chef, arriva in Italia lo show-cooking immersivo

Dopo il successo ottenuto nelle principali città internazionali arriva in Italia, in anteprima all’Aleph Rome Hotel, nel cuore storico della Città Eterna, Le Petit Chef. Si tratta di uno show immersivo multisensoriale creato nel 2015 dal collettivo artistico Skullmapping, che vede come protagonista un piccolo cuoco animato e virtuale.

Le petit chef show
Le Petit Chef

Lo spettacolo si svolge a tavola, nel vero senso della parola. Infatti i tavoli del Ristorante 1930 dell’Hotel (dal giovedì alla domenica), grazie a tecniche di videomapping e di realtà aumentata, diventano veri e propri display animati, palcoscenici perfetti per il piccolo cuoco che prepara virtualmente, tra mille avventure (e buffe disavventure) le pietanze, direttamente sui piatti dei commensali. Ecco allora che, nella penombra della sala, nascono sotto gli occhi degli avventori raffinatezze culinarie ricercate e prelibate, mentre le Petit Chef taglia verdure giganti, si tuffa in mare rincorrendo pesci, litiga con un octopus, si arrampica sulle stoviglie e “spara” panna montata tenendosi in equilibrio sopra una forchetta.

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Le Petit Chef

Una volta finita la proiezione, il piatto virtuale sparisce e viene servito quello reale, permettendo così agli spettatori di assaggiare ciò che hanno appena visto. Lo show si ripete poi per tutte le portate, rendendo l’esperienza sempre più divertente e avvincente.
Per soddisfare le esigenze di tutti i palati Le Petit Chef propone quattro menù da cinque portate, che includono carne, pesce e opzioni vegetariane. Tra i piatti da scegliere ci sono il risotto con astice, caviale Oscietra, crema di salicornia e lime, la millefoglie di melanzane e scamorza; ancora, il filetto di manzo al punto rosa con variazione di ortaggi, verdure e salsa al vino rosso e lo sformatino al cioccolato fondente con gelato alla vaniglia.

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Le Petit Chef
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Le Petit Chef

Oggi più che mai, il cibo è al centro delle nostre pratiche di condivisione sociale delle emozioni. Mangiare non significa soltanto nutrire il corpo, ma sta diventando sempre più un’esperienza completa, che coinvolge tutti i sensi e regala benessere fisico e mentale. Le Petit Chef offre l’occasione di trascorrere del tempo spensierato con gli amici o la famiglia, permettendo agli adulti di tornare un po’ bambini e offrendo ai più piccoli un’esperienza ludica indimenticabile.

La bellezza “ibrida” delle fotografie artistiche di Tania & Lazlo

Tania Brassesco e Lazlo Passi Norberto lavorano insieme dal 2008 nel campo dell’arte visiva e hanno esposto in Europa, Asia e Stati Uniti. Le loro immagini, che prendono vita grazie allo strumento fotografico, trasportano lo spettatore fuori dal tempo, in una dimensione ibrida fatta di una bellezza delicata e malinconica. Fuoriclasse della staged photography, realizzano autonomamente le proprie opere, dalla creazione dei set fino alla post-produzione.

Un ritratto dei due autori

Come siete arrivati al mondo dell’arte, come vi siete conosciuti e perché avete deciso di lavorare insieme?

L’arte ha sempre fatto parte delle nostre vite, sia come fruitori che come sperimentatori. Ci siamo conosciuti a Venezia durante gli studi universitari che stavamo seguendo, rispettivamente all’Accademia di Belle Arti e ad Arti Visive allo IUAV, dove avevamo intrapreso dei percorsi artistici differenti (Tania nella pittura e nel set design e Lazlo nel video e nella fotografia, ndr).
Avevamo già allora un immaginario affine, ci nutrivamo di passioni comuni nelle varie discipline artistiche e abbiamo visto come valore aggiunto il fatto di aver sperimentato media differenti nei nostri percorsi. Abbiamo deciso così di fondere gli approcci e sfruttare le potenzialità delle diverse tecniche acquisite, unendole e creando dei lavori che fossero la sintesi delle nostre esperienze, che contenessero all’interno stratificazioni di linguaggi che agissero in sintonia.

Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, Embrace of the Dark, dalla serie Behind the Visible
Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, Lost River, dalla serie Behind the Visible

Come nascono le vostre opere?

La nostra ricerca si interessa di identità, di inconscio e di sogno, di sviluppo e comprensione della memoria e dell’immagine, non a caso le idee per i nostri lavori iniziano spesso da pensieri sfuggenti, visioni momentanee, sogni non ben definiti e spunti che derivano da molteplici aspetti della società, che cerchiamo di annotare e poi approfondire in maniera più metodica.
Le nostre opere sono il frutto della fusione di vari media differenti che adoperiamo nel processo creativo: disegno, fotografia, video, performance e installazione, che trovano nel mezzo fotografico lo strumento conclusivo ideale. Un approccio fluido che usiamo per andare a creare dei set in scala reale, ricostruendo interamente delle scene o facendo interventi specifici in paesaggi esistenti.
Amiamo esplorare quel confine che concerne la realtà e la finzione, usando il la fotografia in modo alterato per modificarne la caratteristica intrinseca di rappresentazione del vero, sviluppando un paradosso nella percezione dell’immagine stessa.

Vivete e lavorate tra l’Italia e gli Usa. Come mai avete fatto questa scelta?

In realtà senza troppi ragionamenti, è stata una di quelle decisioni impulsive che si fanno nella vita. Avevamo diversi collezionisti che credevano fortemente nel nostro lavoro nell’area di New York ed eravamo stati invitati per una residenza d’artista. Pensavamo di fare un’esperienza di un anno mai poi ci siamo stabiliti lì per più di cinque anni, travolti dall’energia della città.
Abbiamo recentemente sentito il desiderio di riportare il nostro studio in Italia, proseguendo però a dividere i progetti tra Europa e Stati Uniti, in modo da poter continuare ad assorbire le energie positive di entrambe le culture, nella bellezza della loro diversità.

Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, Call of the Wild, dalla serie Behind the Visible

Il vostro progetto Behind the Visible mostra allo spettatore una serie di immagini sospese tra realtà e finzione. Qual è il senso profondo di questo lavoro, cosa vi ha ispirati e come lo avete realizzato?

Questi lavori cercano un contatto con il lato irrisolto del nostro vissuto, le memorie, le visioni e le pulsioni che riemergono dal nostro subconscio sotto diverse sembianze, che abbiamo cercato di trasporre in immagini creando scenari che appaiono riconoscibili ma allo stesso tempo disorientanti.
Ogni opera della serie ha una propria narrazione, ma sono tutte attraversate da un senso di equilibrio precario tra familiarità ed elemento di sorpresa, intrise di ambiguità temporale e formale. Una sensazione che può assomigliare al senso di smarrimento momentaneo che si ha quando ci si sveglia da un sogno particolarmente lucido.
Per questi lavori, oltre che agli immaginari che volevamo ricreare, ci siamo ispirati alle ambientazioni notturne di una natura vasta e dominante che abbiamo incontrato nel nostro periodo negli Stati Uniti. Abbiamo usato gli elementi naturali come parte integrante della narrazione, per far emergere simbolicamente l’interiorità dei soggetti rappresentati.

Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, I Can Feel the Universe, dalla serie Behind the Visible 
Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, The Wind of Absence, dalla serie Behind the Visible

The Essence of Decadence è uno dei vostri primi grandi successi e propone una serie di immagini fotografiche che riproducono con incredibile accuratezza alcuni quadri di grandi maestri del passato, tra cui Gustav Klimt e Egon Schiele. Ci raccontate la genesi di questo lavoro?

È stato il primo progetto realizzato assieme più di dieci anni fa e non è un caso che sia frutto di una delle nostre comuni passioni, ovvero l’arte di fine ‘800 e primi ‘900, figlie di un periodo di crisi sociali e interiori, di cambiamenti epocali che gettavano le fondamenta della società moderna, con l’introduzione dell’elettricità, la diffusione dei mass media e la nascita della psicoanalisi.
Sentivamo una forte connessione emotiva con quelle opere e abbiamo voluto creare un parallelismo storico tra quell’epoca e la nostra, reinterpretando alcuni lavori pittorici attraverso un mezzo differente e aggiungendo così un altro livello di lettura, cercando di insinuare il dubbio nell’esperienza percettiva dell’osservatore, coinvolto in una sorta di continuo déjà-vu. Ci interessava anche interpretare in prima persona i soggetti raffigurati per entrare in empatia con le donne dipinte, ribaltare in qualche modo la loro funzione originale di muse e far diventare la donna sia interprete che autrice dei lavori.

Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, Pot Pourri (after Herbert James Draper), dalla serie The Essence of Decadence
Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, Young Decadent (after Ramon Casas), dalla serie The Essence of Decadence

Infatti spesso in passato siete stati i protagonisti (soprattutto Tania) delle vostre opere. Come mai? Ultimamente avete ritratto anche altre persone, a cosa è dovuto il cambio di rotta?

Inizialmente è stata un’esigenza, nata in modo spontaneo, di dover comunicare anche attraverso il proprio corpo, mettendoci sia davanti che dietro l’obbiettivo. Negli anni abbiamo voluto ampliare questa visione includendo persone di diverse età e caratteristiche che potessero rappresentare i soggetti che avevamo in mente per le specifiche scene immaginate, continuando ad usare anche noi stessi quando ne sentiamo la necessità.

Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, Daydream (after Dante Gabriel Rossetti), dalla serie The Essence of Decadence

Quale sarà il vostro prossimo progetto?

È un periodo particolarmente fertile in cui abbiamo diversi progetti avviati che non vediamo l’ora di sviluppare. Al momento stiamo ultimando delle opere realizzate recentemente in una residenza d’artista presso The Society of the Four Arts a Palm Beach in Florida, che presenteremo a breve. Stiamo anche lavorando alla fase ideativa e di pre-produzione di una nuova serie che svilupperemo nel corso del 2022. Abbiamo inoltre iniziato a ragionare e sperimentare attorno a progetti video, utilizzando questo mezzo come estensione della nostra ricerca artistica.

Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, Nuda Veritas (after Gustav Klimt), dalla serie The Essence of Decadence
Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, Lure of the Night, dalla serie Behind the Visible 
Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, Premonition, dalla serie Behind the Visible 

www.tanialazlo.com

Instagram Tania & Lazlo

Immagine in apertura: Tania Brassesco & Lazlo Passi Norberto, Under the Surface, dalla serie Behind the Visible

Gli universi di stile di Silvia Ortombina (Tiny Idols), dal Super Bowl a Blanco

Stylist e Costume Director, Silvia Ortombina è la fondatrice della factory creativa Tiny Idols. Da sempre al fianco di artisti musicali, è proprio lei ad aver creato gli outfit (indimenticabili!) che ha indossato Blanco durante l’ultimo Festival di Sanremo.

Un ritratto di Silvia Ortombina

Quando e come la moda è entrata nella tua vita? Il tuo desiderio era quello di diventare una stylist o avevi altri progetti?

Sicuramente per me la moda è una questione “di famiglia”. Mia madre e sua sorella avevano un’azienda di tessuti tecnici sul lago di Garda, un distretto piccolo, ma molto riconosciuto. Spesso mamma mi portava a lavorare con sé e io adoravo stare in mezzo alle bobine di tessuti colorati, enormi. Quando tornavo a casa mia nonna mi cuciva gli abiti a mano e molto spesso la sera trascorrevo il tempo osservandola lavorare a maglia o ricamare. Ricordo anche mio zio, stilista per la Puma a Monaco, che quando passava a casa nostra portava i suoi bozzetti… Tutti in qualche modo hanno contribuito ad avvicinarmi alla moda, anche se all’inizio non pensavo che questa potesse essere la mia strada. Poi ho iniziato a studiare comunicazione e cinema, sono entrata nel mondo dei costumi attraverso una serie di collaborazioni con fotografi e registi… E sì, anche grazie ad un archivio di famiglia molto fornito.

Collabori da sempre con molti artisti del panorama musicale, come hai iniziato a lavorare in questo settore?

La mia prima esperienza è stata proprio un internship in una casa di produzione. Progetto dopo progetto sono riuscita a sviluppare un mio metodo nella ricerca e nello sviluppo del guardaroba. Era il 2006, anche se mi sembra ieri. Sono sempre stata legata alla musica anche nella vita personale, sono una musicista e tra i venti e i venticinque anni ho lavorato come art director in un club. Mi interessano moltissimo le interazioni tra mondi differenti e in generale la costruzione dell’immagine dei personaggi. Il mio cuore batte per la musica ma anche per il cinema e la fotografia: Fellini e LaChapelle sono i miei miti, le mie fonti d’ispirazione.

Silvia Ortombina e Blanco (ph. CHILL DAYS)

Cos’è Tiny Idols e quando è nato?

Tiny Idols è nato una decina d’anni fa come collettivo, un gruppo aperto in cui coesistono e collaborano figure diverse. Nella mia professione, mettere insieme “la squadra giusta” rappresenta un punto di partenza importante per la buona riuscita di ogni progetto e se all’inizio della mia carriera ero più autonoma, quando la mole di lavoro è aumentata ho ritenuto giusto dare un nome all’attività e alle persone che le ruotano attorno. Tiny Idols sono io in quanto stylist, ma anche in quanto coordinator di progetti molto articolati legati alla costume direction. A ottobre scorso, ad esempio, ho avuto il grande onore di lavorare con Floria Sigismondi grazie a un collega con cui collaboro spesso, Pablo Patanè.
Insieme a lui e a Fabiana Vardaro Melchiorri abbiamo creato una squadra per lo spot per il Super Bowl 2022 di Criteo. È stata un’esperienza molto forte e sicuramente la traduzione esatta dello spirito con cui ho dato vita a Tiny Idols.

Tra i tanti look che portano la tua firma, ci sono quelli di Blanco durante l’ultimo Festival di Sanremo. Come li hai costruiti?

Ogni progetto ha necessità di essere trattato in modo unico e ha bisogno di un metodo che si plasmi sulla sua natura. Per me il primo step è sempre il confronto con l’artista, devo capire chi sia, come si immagini, ma soprattutto devo “sentire” il suo rapporto col palco, visualizzarlo. Lavoro con Blanco da qualche anno, siamo davvero in sintonia. Per Sanremo, dopo aver delineato la strategia di branding ho presentato ai team di Valentino e The Attico alcune ispirazioni legate agli statement e all’immaginario dei rispettivi brand. Collaborare con la Maison Valentino è veramente un grande onore e un piacere immenso: Pierpaolo Piccioli è uno dei più grandi artisti della moda contemporanea e il suo gruppo di lavoro è davvero unico. Il completo azzurro di The Attico che Blanco ha indossato per la serata delle cover di Sanremo è stato una sfida; solitamente il brand realizza abiti femminili e per la prima volta è stato creato un outfit da uomo, è stata una grandissima soddisfazione.

Blanco e Mahmood (ph. CHILL DAYS)

Per lavoro crei outfit di ogni tipo, mood, veri e propri universi di stile che raccontano di volta in volta differenti immaginari… Ma quando si tratta di vestire te stessa come ti comporti? Adotti un “abbigliamento tipo” o segui la corrente? Insomma, a te cosa piace?

Il mio rapporto con l’abbigliamento è totalmente legato al mio stato d’animo, al periodo. Provo un grande rispetto per la moda, ma allo stesso tempo non riesco ad avere un approccio lineare. Probabilmente la verità è che se potessi non mi vestirei proprio. Sono rare le occasioni in cui seguo un trend, se lo faccio è perché mi piace davvero e lo rendo mio. La maggior parte delle foto che ho su set mi ritraggono vestita di nero, mi piace l’idea di dissolvermi e rendermi invisibile, soprattutto quando lavoro. Amo anche il bianco, colore della luce. Quando sono in casa spesso mi vesto di chiaro, mi fa sentire in pace con me stessa e con il mondo.

Nell’immagine in apertura, Silvia Ortombina con Blanco, ph. by CHILL DAYS

Niko Giovanni Coniglio racconta il suo rapporto con la fotografia, “bugiarda inconsapevole”

Toscano, classe ’87, musicista mancato, Niko Giovanni Coniglio è uno dei fotografi più promettenti e apprezzati del panorama contemporaneo. I suoi ritratti, dal forte impatto emotivo, raggiungono il climax nel progetto Daniela, portrait of my mother che vede protagonista la madre del fotografo stesso, una donna che ha vissuto una vita fatta di decisioni e scelte complesse, che si è vista costretta a dare Coniglio in affido da bambino, per poi ritrovarlo in età adulta. Anche attraverso la fotografia, madre e figlio hanno avuto modo di riprendere il proprio legame e approfondirlo.


Self-portrait, 2021


Come e quando la fotografia è entrata nella tua vita? 

Ho iniziato a fotografare nel 2009. Stavo frequentando il mio ultimo anno di Scienze della Comunicazione, alcuni amici del mio gruppo avevano una reflex digitale. Divenni curioso, iniziai a fare domande su come funzionasse, più acquisivo conoscenze sul mezzo fotografico e più desideravo averne uno mio per sperimentare. Così comprai la mia prima reflex digitale e iniziai a scattare.
Dopo la laurea avrei dovuto scegliere un corso di specializzazione. A quel tempo avrei voluto intraprendere la carriera di musicista e volevo spostarmi su Milano per frequentare una scuola. Così decisi di iscrivermi al corso di specializzazione in fotografia presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, in modo da poter concludere il mio percorso di studi universitario e contemporaneamente dedicarmi alla musica.


Immagine dalla serie Foto musicisti 2013>2019

Immagine dalla serie Foto musicisti 2013>2019


Il ritratto rappresenta gran parte della tua produzione fotografica. Come ti rapporti ai tuoi soggetti? Cosa ti colpisce maggiormente di un volto?

Premetto che quando scatto una foto ho bisogno di un’idea che mi guidi. Non mi sono mai dedicato troppo al reportage o alla street photography, preferisco un tipo di fotografia più riflessivo. Mi piace pensare l’immagine, trovare un modo visivamente efficace per trasmettere un concetto.
Quando ho un’idea ne parlo con la persona che fotograferò, cerco di farle capire cosa voglio ottenere in modo che una volta sul set sappia già cosa deve fare. Non amo parlare troppo mentre scatto foto, le mie indicazioni sono ridotte al minimo indispensabile. La maggior parte del lavoro deve essere fatta prima dello scatto e, se hai lavorato bene, il risultato lo conferma.
Non ci sono aspetti particolari che mi colpiscono in un volto. Per essere chiaro, non sono uno di quei fotografi convinti che la fotografia possa cogliere l’essenza di una persona né tantomeno mostrarne l’anima. È una visione romantica che non mi si addice.
La fotografia è un mezzo meccanico che di per sé è incapace di registrare qualsiasi tipo di informazione che non sia la luce. Siamo noi che dobbiamo riempirla di contenuto. È qui che entra in gioco la visione individuale del fotografo. Le persone possono essere rappresentate come buone o cattive, inquietanti, pericolose, gioiose o euforiche a prescindere dal loro reale carattere o dalla loro reale “essenza”.
La fotografia è una bugiarda inconsapevole. Dal momento che viene registrata un’immagine, quella è già finzione, è già un’interpretazione della realtà.
Quindi dal mio punto di vista risulta veramente impossibile rappresentare la vera essenza o cogliere l’anima di una persona. Sono concetti così mutevoli e sfuggenti che nemmeno la persona stessa riesce a conoscersi veramente e profondamente nell’arco di una vita.


This is not a parking

This is not a parking


Daniela, portrait of my mother è il progetto fotografico pluripremiato che ti ha reso famoso nel mondo. Come è nato e qual è il significato di questo lavoro?

In questo progetto confluiscono tutte le mie esperienze di vita, il mio passato, quello della mia famiglia, ma anche storie di fantasia. Ho cercato di tradurre in immagine il mondo che avevo in testa.
Ho iniziato a fotografare mia madre per imparare ad usare la macchina fotografica. Ho continuato a fotografarla per passare del tempo con lei. Sto continuando a fotografarla per poter testimoniare e raccontare la nostra storia. Il nostro rapporto passa attraverso la fotografia e in un certo senso mi aiuta a conoscerla.
Non intendo dire che la fotografia riesca a colmare le lacune comunicative che ci sono fra noi. Passando più tempo con mia madre, mi rendo conto che il nostro rapporto si sta caricando delle difficoltà e delle contraddizioni della vita. Intendo dire che la fotografia è uno dei pochi punti di contatto e discussione fra me e lei, che negli ultimi anni è diventato il principale.
Il progetto si chiama Daniela, portrait of my mother, ma non è solo il ritratto di mia madre. In questo lavoro parlo di eventi o fatti che riguardano la sua storia, ma anche me e le esperienze legate alla mia famiglia. Altre volte cerco semplicemente di mettere in scena situazioni che, nel momento in cui le fotografo, diventano reali, diventano un ricordo e un’esperienza esse stesse. Per questo dico che è un progetto fluido, perché in esso confluiscono vari aspetti.
“Certo, si sono create discrepanze dolorose anche nella mia anima e sono vissuta fuori dalla realtà per chissà quanto tempo”: questa è una delle frasi che mia madre ha scritto nel suo diario, che offre un importante punto di riferimento per questo lavoro.


Daniela, portrait of my mother

Daniela, portrait of my mother


La fotografia secondo te è più una questione di tecnica o di sentimento?

Se devo essere sincero, nessuna delle due. Direi che si tratta più di una questione di pensiero. Ovviamente la tecnica è fondamentale. E ovviamente lo è anche il sentimento, la passione, l’impegno e l’amore che uno mette nel fare ciò che ama fare.
Ma direi che la fotografia, la buona fotografia, sia più una questione di pensiero, di avere una visione propria e ben delineata, di avere un’opinione.


Daniela, portrait of my mother

Daniela, portrait of my mother

Hai fotografato moltissimi artisti del panorama musicale e uno dei tuoi sogni era proprio quello di diventare un musicista… Che rapporto hai oggi con la musica?

So cosa significa studiare uno strumento, so cosa significa provare insieme ad altri musicisti, so cosa significa fare il musicista come professione. Quindi quando mi trovo a fotografare artisti che hanno a che fare con la musica, posso capire meglio come muovermi.
Per quanto riguarda il mio rapporto con la musica, è di odio e amore, come tutte le cose a cui dedichi gran parte del tuo tempo e delle tue energie credo.
Ascolto di tutto, dal jazz alla trap. Dipende come mi sento. Ascolto musica tutti i giorni. Ma se si tratta di suonare lo strumento, le cose cambiano. Non riesco più a godermi appieno il fatto di suonare.


Daniela, portrait of my mother

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Cosa significa essere un fotografo in Italia nel 2022? Il tuo è un settore in cui è possibile fare carriera?

È possibile fare carriera in qualsiasi settore se per fare carriera si intende vivere dignitosamente con ciò che uno ama fare. Se una persona è motivata e ha la giusta preparazione può avere grandi soddisfazioni a prescindere dal settore specifico.
Direi che ora come ora, un giovane che si affaccia al mondo del lavoro non si trova in una situazione semplice a prescindere da cosa decida di fare.
Vedo contratti di apprendistato senza prospettiva di assunzione, tirocini non pagati, contratti a tempo determinato dalla durata imbarazzante. “Aiutiamo i giovani” è lo slogan preferito dai politici a quanto pare, ma è semplicemente uno slogan.
Basterebbe una sola cosa per risolvere i problemi nel mondo: il rispetto, il rispetto in tutte le sue forme. Il rispetto per il lavoro, per l’ambiente, per la persona, per le diversità, il rispetto per la vita umana.


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Per tutte le foto, credits Niko Giovanni Coniglio