FOTINÌ PELUSO: IL MIO LAVORO? VOLER ESSERE FELICE

Fotinì Peluso è il tipico esempio di persona che citi quando tra boomer si scatenano discussioni su temi tipo “i giovani d’oggi che sfaticati, che fancazzisti, che ignoranti rispetto a noi alla loro età, signora mia”. Vinci. E lo fai pure a mani basse: nata a Roma nel ’99, ha alle spalle una laurea in Economia, un trasloco a Parigi, una serie di ruoli importanti, tra cui quello di Irene, sorella complicata de Il Colibrì di Francesca Archibugi (tratto dal libro di Sandro Veronesi) e quello di Nina nella serie tv Netflix Tutto chiede salvezza di Francesco Bruni, tratto dal romanzo di Daniele Mencarelli, storia di vita e incontri dentro un reparto di psichiatria. Più film con mostri sacri come Cédric Klapisch (Greek Salad, 2022), Delphine Lehericey (Les Indociles, 2022). Parla correntemente e fluidamente quattro lingue e «beh, volendo, ci si potrebbero aggiungere dieci anni di pianoforte, e poi la ginnastica artistica, il pattinaggio, lo sci e l’equitazione», scherza lei. 

Total look CHANEL: black cashmere and silk jumpsuit embellished with jeweled buttons, white alpaca perforated sweater, gold-effect metal and rhinestone ring

Fotinì Peluso: un talento “luminoso”

È talmente oberata di lavoro da poterci telefonare, entrambi con voce sonnacchiosa, una domenica mattina mentre è ad Anzio a girare la seconda stagione di Tutto chiede salvezza. Eppure, sorniona, gioca a fare la timida a dire di essere «colpita dalla sindrome dell’impostore, perché non mi sento mai all’altezza delle parti che mi chiamano a interpretare, poi non ci penso e tutto va come deve andare, molto naturalmente, in maniera organica». Cioè, va tutto bene, Fotinì. «Ma sì, dài». E dài. Ha vinto il Premio Biraghi come attrice rivelazione ai Nastri D’Argento 2023 per Tutto chiede salvezza: «Aò, ce so’ cascati, eh». E ridiamo. Naturalmente non ci crede nessuno. 

Le chiedo per la millesima volta se sia stato, al contrario dei ruoli per cui viene scelta, un vero peso sopportare un nome che in italiano si presta a mesti triti e tristi giochi di parole: «Ma no. Papà è romano, mamma è di Tebe e si chiama Paraskevì, che vuol dire “venerdì”: in famiglia un certo humor non manca. Perlomeno il mio nome vuol dire “luminosa” ed è quello di una santa, per cui ci convivo bene da sempre».
Della Grecia – da cui viene sua madre e il famoso nome – ha i ricordi delle lunghissime estati sulle isole, Chios e Skyros. «Non c’era la corrente, né l’acqua calda, né le strade. Ci lavavamo nelle bacinelle, papà pescava, sempre e solo polpi alla brace, ogni cena. Siccome non c’era niente, io e mia sorella potevamo inventarci tutto: storie, avventure. Penso siano stati i momenti più felici che abbiamo vissuto tutti insieme». 

Total look CHANEL
Total look CHANEL: perforated dress in white alpaca, jeweled belt made of metal, glass beads, resin and rhinestones Black and white, printed leather heeled boots, black and white plexiglass minaudière; Les Beiges Touche de Teint in B30 CHANEL MAKE UP

Fotinì Peluso apre la sua carriera nella recitazione con un duro “no”

Il percorso adolescenziale di Fotinì è quello di una ragazza romana radical chic intelligente – si capisce dal tono con cui risponde che non è il caso di aprire l’argomento “bellezza”: lo è e sa di esserlo, ma no, adesso non è il momento. Il liceo classico al Virgilio, i buoni voti, le birre a Trastevere, il centro sociale del Cinema America. E poi l’incontro con la recitazione, che nasce da un “no”: quello che Ivan Cotroneo che è alla ricerca della protagonista di Un bacio, a cui preferirà Valentina Romani, «ma solo perché voleva una ragazza più matura» (bye bye sindrome dell’impostore!). Sarà poi lo stesso Cotroneo a cercarla per la serie tv La compagnia del cigno (2018 e 2020).

«Io non sono definita dal mio lavoro, né dai miei interessi, né dalla mia posizione professionale. Sono molto più della somma di ogni mia parte riconoscibile»

Ecco: aver raggiunto ad anni ventiquattro un hype e una visibilità così capillari e diffusi non dà un po’ alla testa, quando si è così giovani? E se domani, per caso, tutto questo riconoscimento dovesse sparire, facendo un’ipotesi chiaramente impossibile? «Mah, guardi: non so. È che io, come persona, non sono definita dal mio lavoro, né dai miei interessi, né dalla mia posizione professionale. Sono turbata quando vedo colleghe anche più grandi di me dipendere troppo da questa vita nello sguardo altrui, e mi chiedo quanto in realtà abbiano dovuto rinunciare a sé stesse, alle proprie radici, alla propria essenza. Non credo che mi succederebbe, perché sono molto più della somma di ogni mia singola parte riconoscibile. Per me l’importante è essere felici, e se si vuole, si trova quasi sempre un modo per esserlo. Mi sforzo di essere una persona estremamente positiva e penso di riuscire ad apprezzare sempre le cose che mi fanno contenta tutti i giorni. La recitazione fa parte di me, ma non il successo: se non dovessi farlo più in tv o al cinema, beh: lo farei davanti allo specchio. Non sarebbe un problema, davvero». 

Come l’amore? «Certo, anche. Ma ammetto di non consumarmi neanche solo in un rapporto di coppia, anche perché il mio fidanzato, che è francese, vive a Roma. Insomma, ci siamo scambiati la nazionalità, e quindi ci si vede appena possiamo». 

In quanto a luminosità, Fotinì Peluso sembra essere circonfusa più da quella dell’illuminismo di Voltaire e di Diderot che non da quella al neon dell’insegna ambulante di sé medesima. Non sarà un po’ troppo razionale? «Essere testardi e convinti di ciò che si fa non equivale a coltivare il cinismo o l’aridità sentimentale: anzi, è tutto il contrario. Li si protegge, li si mette sotto una serra per non esporli alle intemperie di un mondo che vive soprattutto nell’immagine bidimensionale dei social».

 Total look CHANEL
Fotinì Peluso
Total look CHANEL: black and pink patterned wool tweed short jacket and bermuda shorts embellished with jeweled buttons, metal and rhinestone jeweled bel, pink and black tweed and metal bag, shiny black fabric and grosgrain slingbacks embellished with white camellias ; Coco Crush necklace in 18 k BEIGE GOLD and diamonds CHANEL FINE JEWELRY Ombre Première Libre in Sycomore CHANEL MAKE UP

«Penso che la mia generazione stia lottando per avere un po’ più di visibilità, ma penso anche che la strada da fare sia ancora molto lunga»

C’è abbastanza spazio per una nuova generazione di attori giovani? «Credo proprio di sì… O perlomeno ce n’è molto più di quanto ce ne fosse per la generazione precedente alla mia. Il problema, nel cinema italiano, è che purtroppo c’è una nicchia piuttosto ristretta di professionisti da cui vengono scelti i caratteri principali di un nuovo progetto, ma ora c’è anche tutta una new wave di registi molto giovani con cui stiamo facendo squadra. Ecco: il concetto di gruppo, di team, accompagna tutte le persone giovani che si occupano di cinema, senza troppa competitività».

Quindi sarà perfino inutile chiederle se, con una situazione così idilliaca, ci siano abbastanza ruoli, trame, sceneggiature per le donne… «No». Lapidaria. Come ha detto? «No. Ma questo succede ovunque, non solo in Italia. La presenza femminile nel cinema è estremamente ridotta per quello che riguarda chi ci lavora, dalle registe alle attrici, dalle operatrici alle sceneggiatrici. Ma lei ci ha mai fatto caso che, in ogni manifestazione in cui viene dato un premio, quelli alle donne sono sempre stati una minoranza? E non è vero che mancano ruoli e script solo per artiste più adulte. Mancano proprio per noi donne in generale. C’è un’ampiezza del ruolo maschile in ogni settore dell’industria cinematografica che è debordante, eccessiva, imparagonabile».

Vogliamo lasciarci con un po’ di speranza, per favore, Fotinì? «Penso che la mia generazione stia lottando per avere un po’ più di visibilità, ma penso anche che la strada da fare sia ancora molto lunga, in ogni campo dell’espressione creativa o artistica».

«Ogni rifiuto ti lascia delusa. Per fortuna, mi dura poco. Esco, mi faccio una passeggiata, guardo in alto e mi dico che non posso farmi condizionare da una parte che mi è stata negata. Ce ne saranno altre»

Ultima domanda: una volta c’era grande differenza tra gli attori “impegnati” e quelli “da tv” o “popolari”. Lei, che ha lavorato con registi molto intellettuali e serie di grande diffusione, risente ancora di questa suddivisione? «Onestamente, no. Ritengo che l’emissione di serie d’autore anche su piattaforme estremamente “democratiche” come Netflix o Amazon, abbiano contribuito a confondere certi steccati pseudo-intellettuali e a privilegiare la bravura dei singoli».
Sincera: quando a inizio carriera Cotroneo le ha detto “no”, ci è rimasta male? Come gestisce un rifiuto professionale? «Ehm… Non bene. Però, siccome sono sempre vittima della famosa sindrome dell’impostore, diciamo che ho qualche difficoltà non tanto nell’accettare un “no” ma a spiegarmi perché mi abbiano detto “sì”. Però è inutile: ogni rifiuto ti lascia delusa. Per fortuna, mi dura poco. Esco, mi faccio una passeggiata, guardo in alto e mi dico che non posso farmi condizionare da una parte che mi è stata negata. Ce ne saranno altre. Eccolo qui il lieto fine che cercava. Contento?». E ride. 

 Total look CHANEL
Fotinì Peluso
Total look CHANEL: black and white cashmere sweater embellished with feathers; Rouge Coco Bloom in Ease CHANEL MAKE UP
 Total look CHANEL
Fotinì Peluso
Total look CHANEL: black and pink patterned wool tweed short jacket embellished with jeweled buttons
Coco Crush necklace in 18 k BEIGE GOLD and diamonds CHANEL FINE JEWELRY; Les Beiges Crème Belle Mine Ensoleillée in 392 Soleil Tan Medium Bronzer CHANEL MAKE UP
Total look CHANEL: coat and cardigan in burgundy tweed, gray and black embellished with camellia and jeweled buttons, gold and ruthenium-effect metal necklace Black patent leather heeled boots; Les Beiges Poudre Belle Mine Naturelle in B30 CHANEL MAKE UP

Credits

Editor in Chief Federico Poletti

Photographer Luisa Carcavale

Stylist Andreas Mercante

Make-up Martina D’Andrea using Chanel Beauty 

Hair Lorenzo – Contestarockhair

Location Nero Studio

Mal di Dandy

«I vestiti fanno l’uomo. Le persone nude hanno poca o nessuna influenza sulla società», diceva Mark Twain. Per questo bramiamo un nuovo dandismo. Fremiamo per quella figura perfettamente invisibile ma difficile da definire: aristocratico o democratico? Enigma o involucro? Vanesio o individualista? Politico o prigioniero di sé? Pavone o piccione? Fuori tempo o profetico? Esibizionista o antisistema? 

È questo il fascino del dandy: la sua non collocabilità nella semplice categoria dell’uomo “elegante”, perché l’eleganza è formalità. Significa aderire a un codice rigoroso, tradizionale, in modo appropriato per l’occasione, seguendo le leggi della conformità e della sobrietà. Spesso frainteso come superficiale, il dandismo – che esiste dalla fine del XVIII secolo – è uno spazio di possibilità creative in cui gli individui possono interpretare una persona oltre gli stretti binari delle regole rispetto ai ruoli del maschile e del femminile, del consueto e dello stravagante. 

Dandy.
Baba: blazer and pants Drumohr, t-shirt Tela Genova, coat OUT/FIT ITALY, shoes Green George
Giorgio: blazer, shirt and pants Corneliani, shoes Green George, gloves Stetson
Roman: blazer and pants Tombolini, t-shirt Cruciani , tie Paul Smith, shoes Green George
Taino: Jacket and pants Tombolini, cardigan Filippo De Laurentiis, shoes Green George, sunglasses Moscot

La morte del dandismo

Negli anni Sessanta del Novecento Roland Barthes, il critico, semiologo e intellettuale francese colpevole di aver speso litri di inchiostro nel tentativo di definire i capisaldi di una teoria della moda, scrive che il dandismo è sostanzialmente morto. Ucciso brutalmente dalla moda stessa. Nemmeno il lusso, promulgatore di un’esclusività, può lasciargli spazio. Esso funge da incubatore di standard, norme e “leggi” che contraddicono la prima regola del dandy: l’unicità creativa. Infatti, l’etica di questa figura era improntata a una libertà squisitamente inventiva finalizzata alla distinzione assoluta dalla massa, o, al contrario, simulare una persona trasandata, perfino un clochard, sempre al fine di prendere le distanze dalla massa.

«Per essere veramente eleganti, non bisogna farsi notare»

Ma facciamo un passo indietro. Nel 1810 due dittatori governarono l’Europa. Uno era Napoleone Bonaparte il cui impero si estendeva dalla Spagna alla Polonia. L’altro era George “Beau” Brummell. Il suo impero si estendeva da St. James Street, Londra a Oxford Street.  Se l’impero di Brummell era più piccolo di quello di Napoleone, il suo potere al suo interno era altrettanto grande. «Chiami cappotto quella cosa?», sibilò al duca di Bedford e l’uomo più ricco della Gran Bretagna se la svignò per comprarne un altro.

Brummell non aveva bisogno degli eserciti di Napoleone, era un esercito di un uomo solo. E che uomo: rifiutava la seta, il velluto e il pizzo che gli uomini avevano indossato per secoli. Invece optò per alcuni colori scuri, una cravatta bianca immacolata perfettamente annodata, un frac semplice e ben tagliato, niente gioielli e niente profumo: «Per essere veramente eleganti, non bisogna farsi notare». Un concetto rivoluzionario

Brummell non ha mai lavorato. Viveva di ingegno, di fascino e di gioco d’azzardo. Impiegava ore a vestirsi, per sembrare sistemato alla bell’e meglio, ma in realtà non sbagliando neanche il più minuscolo dei dettagli. Dietro il suo chic disinvolto non c’era reddito. Ma, imperterrito, continuava a spadroneggiare sugli aristocratici. Il suo potere non si basava su altro che sulla faccia tosta. Un esteta – come Oscar Wilde, che ne è stato il suo erede naturale – al punto di diventare volutamente autoreferenziale, esibendo un culto dell’immagine che andava dal bagnarsi i guanti per farli adattare meglio alle mani fino all’aggiustarsi la cravatta per ore perché sembrasse annodata in due minuti.

«La moda è ciò che uno indossa. Fuori moda è ciò che indossano gli altri»

La letteratura, il regno delle parole e dell’immaginazione, è stata onorata dalla presenza di dandy che saltano fuori dalla pagina ed entrano nella nostra coscienza. Lord Byron, poeta romantico e straordinario dandy, ne incarnava l’essenza con il suo fascino dissoluto e le sue relazioni tumultuose. La sua poesia “Don Giovanni” è un capolavoro del dandismo, che celebra il fascino seducente di una vita vissuta al limite.


Poi c’è l’inimitabile Oscar Wilde, un dandy il cui spirito era acuto quanto il suo abbigliamento, una sinfonia visiva di sartorialità impeccabile, accessori insoliti e un pizzico di audacia. «La moda è ciò che uno indossa. Fuori moda è ciò che indossano gli altri», sosteneva. In questa frase, il cuore della questione: per il dandy la moda non è semplicemente una questione di abbigliamento. È arte, ribellione, autoespressione.

Ne Il ritratto di Dorian Gray approfondisce il lato più oscuro del dandismo, esplorando le conseguenze di una vita incentrata esclusivamente sulle apparenze. In un mondo ossessionato dall’immagine, la storia del dandy funge da ammonimento e da specchio per l’isteria della società per la bellezza superficiale

«Il dandismo non è nemmeno un eccessivo piacere per i vestiti e per l’eleganza materiale. Per il perfetto dandy, queste cose non sono altro che il simbolo della superiorità aristocratica della sua mente»

Dalle giacche di velluto dell’era romantica alle creazioni d’avanguardia dei dandy moderni come David Bowie o Harry Styles (quest’ultimo, però, solo sotto l’accorta guida di Alessandro Michele), vestirsi è uno spettacolo in continua evoluzione. L’influenza del dandismo trascende i confini del guardaroba e penetra nella vasta tela dell’arte.


L’approccio disinvolto ma meticoloso alla vita del dandy rispecchia il processo creativo. Come disse una volta Charles Baudelaire, lui stesso dandy e poeta, «il dandismo non è nemmeno un eccessivo piacere per i vestiti e per l’eleganza materiale. Per il perfetto dandy, queste cose non sono altro che il simbolo della superiorità aristocratica della sua mente». Ancora oggi, artisti contemporanei come David Hockney e Grayson Perry traggono ispirazione dallo spirito di autocreazione e dalla sicurezza di sé del dandismo.

Giorgio: sweater John Richmond, coat Paul Smith, pants Berwich, shoes Giuseppe Zanotti
Baba: blazer and pants OUT/FIT ITALY, turtleneck Paul & Shark, shoes Green George
Roman: coat Alessandro Gilles, shirt John Richmond, turtleneck Loro Piana, pants Tela Genova 
Taino: balzer Alessandro gilles, turtleneck Tombolini, pants Berwich, shoes Green George
Chan: coat Alessandro gilles, cardigan Drumohr, shirt San Andres Milano, pants OUT/FIT ITALY
Taino: balzer Alessandro Gilles, turtleneck Tombolini, pants Berwich, shoes Green George
Giorgio: sweater John Richmond, coat Paul Smith, pants Berwich, shoes Giuseppe Zanotti
Baba: blazer and pants OUT/FIT ITALY, turtleneck Paul & Shark, shoes Green George
Roman: coat Alessandro Gilles, shirt John Richmond, turtleneck Loro Piana, pants Tela Genova 
Chan: coat Alessandro Gilles, cardigan Drumohr, shirt San Andres Milano, pants OUT/FIT ITALY

I dandy del cinema

Nel cinema, dalla soave classe di James Bond all’ardita eccentricità del Capitano Jack Sparrow di Johnny Depp, i dandy occupano da tempo un posto di rilievo nel mondo del cinema: sono gli accattivanti antieroi, i personaggi che si fanno beffe degli schemi sociali e vivono la vita alle loro condizioni. Le scelte sartoriali diventano emblematiche del carattere, conferendo un fascino irresistibile.


Non si può parlare di dandy nel cinema senza menzionare la figura iconica di Patrick Bateman di American Psycho. Nel romanzo di Bret Easton Ellis e nel suo adattamento cinematografico, Bateman è il dandy per eccellenza, ossessionato dagli abiti firmati e dai biglietti da visita meticolosamente realizzati mentre si abbandona ai suoi desideri più oscuri: il suo carattere sottolinea la dualità del dandy, la sua apparenza raffinata maschera una complessità più profonda, a rivelare un aspetto cavernoso della condizione umana. Questa ricerca dell’individualità può essere un viaggio solitario, poiché richiede un livello di autoriflessione che possa differenziarlo da tutti.

Giorgio: jacket and shirt Paul Smith, sweater and pants OUT/FIT ITALY, shoes Loro Piana
Baba: jacket and sweater AT.P.CO, jeans OUT/FIT ITALY, socks Red, shoes Green George

Un viaggio alla scoperta di sé verso l’espressione di sé

La rappresentazione del dandy solitario nella moda, nell’arte, nei libri e nei film riflette le profonde sfide dell’individualità, dell’anticonformismo e della ricerca della perfezione in un mondo che spesso valorizza la conformità e la mediocrità. Il viaggio del dandy è alla scoperta di sé e all’espressione di sé: può essere un percorso solitario, segnato dall’alienazione e dal peso di essere all’altezza dei propri ideali. Questa rappresentazione serve a ricordare la complessa interazione tra identità personale e aspettative della società e i sacrifici che si possono fare nella ricerca dell’autenticità.

È probabile che i dandy di domani emergano da una vasta gamma di background e campi, usando il loro stile e la loro auto-espressione per sfidare le norme e fare una dichiarazione. Continueranno a mescolare i confini tra moda, arte e identità. Man mano che si evolvono gli atteggiamenti sociali nei confronti del genere, della sessualità e del personalismo apriranno la strada a neo-insurrezioni sartoriali.

E come saranno? Potremmo immaginare potenziali archetipi o caratteristiche che in futuro potrebbero possedere. Ecco alcuni esempi speculativi.

Dandy odierni e dove trovarli

Il “dandy tecnologicamente avanzato”: in un mondo sempre più guidato dalla tecnologia, i futuri dandy utilizzeranno la tecnologia indossabile, la realtà aumentata e la moda digitale per esprimere la propria individualità.

“L’Eco-Dandy”: con una crescente consapevolezza delle questioni ambientali, i futuri dandy potrebbero adottare abiti sostenibili e di provenienza etica come dichiarazione di stile e responsabilità sociale. 

Il “dandy gender-fluid”: man mano che la società diventa sempre più tollerante e inclusiva nei confronti delle diverse identità di genere sfideranno le norme di genere abbracciando stili androgini e gender-fluid. Le loro scelte di moda confonderanno i confini tra mascolinità e femminilità.

Il “Dandy fai da te”: in un’epoca di individualismo e personal branding, adotteranno un approccio concreto alla moda, creando da soli i propri abiti e accessori, per rifiutare la moda prodotta in serie a favore di pezzi artigianali e su misura.

Il “dandy della fusione culturale”: in un mondo sempre più globalizzato, trarranno ispirazione da culture e tradizioni diverse, creando dichiarazioni di moda eclettiche e multiculturali che celebrano l’unità e la differenza. 

Il “dandy attivista”: i futuri dandy potrebbero usare il loro stile come piattaforma per l’attivismo sociale e politico. Possono accogliere scelte di moda che trasmettono messaggi potenti sui diritti umani, sull’uguaglianza e sulla giustizia.

Il “dandy virtuale”: con l’avvento della realtà virtuale e del metaverso, potrebbero estendere il loro stile negli spazi virtuali, creando avatar digitali meticolosamente curati quanto il loro aspetto fisico.

Il “dandy senza età”: mentre la società sfida l’ageismo e celebra la diversità, sfideranno le nozioni tradizionali di invecchiamento, abbracciando uno stile senza tempo che attacca le aspettative della società riguardo a bellezza e giovinezza. O no?

Crediti team:

Photographer & Art director: Domenico Petralia – Productionlink Agency

Stylist: Angelina Lapper

Producer: Caterina Antonovskaya

Make-up: Fabio Lo Coco

Hair: Matteo Bartolini– Productionlink Agency using Valera, Balmain hair couture

Photographer assistants: Laura Juvancic, An Shaoda, Joseph Perrone

Stylist assistants: Gergana Dimitrova, Martina Santesi, Victoria Shvets

Models: Giorgio Perotti – Why not models, Baba Diagne – Brave models, Roman Muravev – I love models, Chan Young Jung – Fashion models, Taino Lakota – Fashion models

Special thanks: Cross Studio

Che bello, passare osservati

Jon Bronxl
Jon Bronxl

Le tante sfaccettature della vita di Jon Bronxl

Arrivato in Italia a tre anni da una famiglia ghanese molto rigorosa in termini di educazione religiosa (mamma pastore, papà reverendo, i suoi genitori sono cristiani protestanti), John Adu Bohane, 33 anni, uno tra i nomi più interessanti della creatività della black community italiana, si è trasformato in Jon Bronxl: toglie la “acca” dal nome e trasforma il suo cognome, prendendo ispirazione dal quartiere dove viveva, che si chiamava Baroncello. Ha avuto tante vite: modello, musicista, content creator, influencer, talent-scout, designer di moda, ora fashion photographer e attivista nella causa della visibilità della comunità black in Italia. 

«È stato il lockdown a farmi prendere una decisione sulla mia attuale professione. Durante il confinamento ho avuto modo di concentrarmi sui miei progetti, di entrare in contatto con amici e mentori». In questo momento, sta realizzando con la sua fidanzata libanese un progetto dedicato alla Natura «ma in modo nuovo, perché finora è stata trattata in maniera boring, mentre merita una narrazione più fantasiosa, fiabesca, anche da fumetto».

Nei prossimi mesi, sarà impegnato nel progetto Off with Nature, serie di video dedicati a persone immersi nel paesaggio di foreste o mari.

Lui vive da vari anni a Milano, sui Navigli, «ma nella parte meno folkloristica» e parla alternando forte accento veneto, anglicismi, vezzi linguistici da meneghino doc con la “e” aperta. «Sono cresciuto con valori molto forti, che poi aiutano nella vita, qualunque cosa tu voglia fare. Nel mio caso, mi hanno garantito una certa indipendenza dalla superficialità e dalla chiusura mentale di certi ambienti: quello della moda, così pieno di finti snobismi, come quando facevo il modello, o quello dell’arte contemporanea, così chiuso ai nomi nuovi».

Studiando le connessioni tra natura e ritratti in posa
Studiando le connessioni tra natura e ritratti in posa, Jon Bronxl

The Good Neighbordhood Collective

Spulciando il suo Instagram c’è grande evidenza al suo progetto The Good Neighborhood Collective, una piattaforma che cerca di raccogliere storie, persone e attività della comunità black in Italia. «È nato come una pagina-collage dove pubblicavo musica, arte e pezzi black, più o meno tutta la roba che trovavo, poi ho deciso di organizzare quel materiale per far conoscere a tutti quanti giovani talenti black italiani siano riusciti a fare qualcosa di bello e d’importante: non solo creativi, ma studiosi, scienziati, cuochi, tutto. 

Resiste nell’immaginario dei nostri amici bianchi è uno stereotipo calato sul bianco. Ci vedono rider, rapper, calciatori, e questo nel migliore dei casi. E se un nero è diplomato al conservatorio per la musica classica o detesta la trap, come me, che succede? Quale posto abbiamo, nell’immaginario collettivo? Il mio tentativo è di far abituare tutti a considerare gli afrodiscendenti come persone che possano svolgere anche lavori considerati più nobili».

Ark Joseph Ndulu
Ritratto di Ark Joseph Ndulu, Jon Bronxl

Per questo Bronxl va anche nelle scuole, specialmente gli istituiti tecnici, «dove la società ha già deciso quello che farai: meccanico, operaio, trasportatore… E non ti dà la possibilità di sognare di realizzarti in un modo diverso. Io credo che per tutti – bianchi e neri – ci voglia un fuoco sacro che ti motivi a fare determinate cose, ma se lo affievolisci perché qualcun altro ha già deciso per te, quei pochi che ce l’hanno finiscono per spegnerlo». Un’attitudine che coltiva anche nelle sue foto… «Certo: all’inizio devo ammettere che, interessato ai fashion shooting, anch’io ero influenzato da un’idea estremamente stereotipata, standardizzata e convenzionale di bellezza. Poi, invece, ho capito che preferivo molto di più le persone vere ai modelli o alle modelle professioniste, perché soltanto così sarei riuscito a cogliere la loro unicità, la loro vera essenza, per restituirla allo spettatore».

Ambush x i-D
Ambush x i-D, Jon Bronxl

Ex modello, oggi affermato fotografo, ambassador di Timberland, influencer… Senta Jon, diciamoci la verità: ma a lei sarebbe capitato lo stesso destino se non fosse nato così attraente? «Ma sta scherzando? Sono magro, alto: quand’ero più giovane, in Italia il ragazzo black figo era considerato il tipo alla Balotelli, muscoloso, ripieno di testosterone. Io ero strano, mi sentivo strano. Poi succedeva che piacessi molto alle ragazze “strane” della città – ogni città, ogni villaggio ha una comunità di “strani” – e con cui però ci si intendeva, ci si riconosceva. A proposito di convenzioni sociali sul concetto di bellezza: ora posso sembrare piacevole, ma dieci, quindici anni fa, non era così». E ride. 

Il talento non ha nessun colore. O ce li ha tutti. Intervista a Michelle Francine Ngonmo

I see you. Ti vedo. Michelle Francine Ngonmo racconta che sono queste le parole che il compianto Virgil Abloh le scrisse in una nota, complimentandosi con lei per l’impegno nella promozione degli afrodiscendenti o delle persone BIPOC (Black Indigenous People of Colour) nella moda italiana. Da qui è nata l’idea di dar forma al suo più recente progetto, i Black Carpet Fashion Awards, che si sono tenuti a dicembre scorso a Milano, in una serata piena di applausi, commozione e allegria: dieci premi per i leader non solo della black community ma anche del mondo LGBTQIA+, diversamente abili, che promuovono l’inclusione, la diversità e l’equità attraverso vari settori: Moda, Design, Arte, Cibo, Musica, Business, Sport e Cinema. Cinque sono stati scelti da una giuria tecnica, cinque da una giuria popolare.

Andi Nganso
Andi Nganso, Premio Della Giuria BCA
Angela Haisha Adamou
Angela Haisha Adamou, Premio della Giuria BCA

A tu per tu con Michelle Francine Ngonmo

Alla serata hanno partecipato molti ospiti internazionali di rilievo come Anna Wintour, Edward Enninful, Sebastian Suhl e Khaby Lame, tra gli altri. «Il colore nero come assoluto è la somma di tutti i colori, che si ottiene mescolando tutti i diversi pigmenti. L’idea è esattamente questa, tutti insieme, seduti allo stesso tavolo e unendo le forze, per discutere della bellezza della diversità e di come sia un fattore cruciale per il patrimonio culturale e per la crescita economica della società. È andata benissimo, al di sopra delle mie aspettative» e per una volta tanto, si rilassa e sorride.

Khaby Lame, Premio del Pubblico ex aequo BCA

Il punto è che Michelle, per sua natura, diffida dei giornalisti. 

Da un lato teme che possano aggirarsi nei terreni del fraintendimento o della battuta infelice, trappole che conosce bene visto che è laureata in Tecnologia della comunicazione e padroneggia perfettamente la differenza tra ciò che si dice e ciò che si fa nella sfera sociale, culturale, economica. Dall’altro lato, abrasivamente sincera com’è, ha paura che quelli dei media le facciano perdere le staffe in discorsi dove si accalora «perché non posso farci niente se non ho il dono della diplomazia». In realtà, dietro la sua infiammabilità nasconde una grande fragilità rivestita da una forte corazza emozionale, immediatamente pronta a incrinarsi non appena scova un’ingiustizia, un sopruso, una prevaricazione. 

«È proprio per questo che nel 2014 ho deciso di lanciare la manifestazione “I kilowatt della moda”, e l’anno dopo di fondare l’associazione Afro Fashion, basata sull’esperienza diretta durante gli anni universitari, quand’ero a capo della comunità di studenti africani o afrodiscendenti: scrivevo lettere di fuoco al sindaco, al rettore che sicuramente si saranno stufati di me», ride.

Sarah Kamsu
Sarah Kamsu, Premio del Pubblico ex aequo BCA

Ma chi è Michelle Francine Ngonmo?

Originaria del Camerun, ha viaggiato in tutta Europa e vive in Italia da decenni, con una marcata percezione della propria natura apolide, nomade. Da piccolissima (non sappiamo quanti anni fa: «Solo il giorno in cui scriverà la mia biografia le dirò quando sono nata») arriva in Italia, studia a Ferrara e da un decennio vive a Vercelli «per amore del mio fidanzato, ma non lo scriva, ché non vorrei sembrar troppo romantica.

E comunque è sempre per amore che ho lasciato un posto fisso, un ottimo stipendio per lanciarmi in quest’avventura folle: offrire ai giovani professionisti di origini africane una vetrina per superare lo stadio di “invisibilizzazione” a cui erano sottoposti. Non esistevano, non contavano, non erano presenti sulla scena del lavoro pur avendo ottimi curricula. Andando in giro per l’Italia mi sono confrontata con tante persone, di cui condividevo la volontà di raccontare e presentare un’Italia assente nella solita comunicazione stereotipata, appunto, che voleva gli afrodiscendenti malviventi se uomini, prostitute se donne».

La designer Zimeb Hazim
La designer Zimeb Hazim

E perché ha scelto proprio la moda, come terreno di coltura per questa iniziativa?

«Per la discrasia tra la narrazione dell’ambiente della moda che ci viene raccontato come aperto, disponibile all’altro, di mentalità accogliente e moderna, mentre invece non è così: certo, l’avvento del #MeToo e del movimento Black Lives Matter hanno fatto sì che si mettesse in evidenza come nella moda italiana i designer BIPOC siano inesistenti o invisibili. Nel 2021 avevo fondato, con Stella Jean e Edward Buchanan, WAMI – We Are Made in Italy, un collettivo che ha promosso per due stagioni, un gruppo di cinque designer emergenti che appartengono in tutto e per tutto all’Italia, tasse comprese. Abbiamo riscontrato qualche progresso: ora c’è una maggiore apertura, ma l’inclusività non riguarda solo la “razzializzazione”, ma ogni tipo di diversità».

 Tia Taylor
Tia Taylor, Premio del Pubblico BCA

Afro Fashion, la politica che mira a lavorare per il cambiamento

Le mentalità sono difficili da cambiare e richiedono tempo per farlo: perciò Afro Fashion mette in atto una politica che non mira a chiedere il cambiamento, ma a lavorare per il cambiamento. Il nostro orgoglio oggi è vedere i nostri designer lavorare nelle grandi maison italiane, sapere che le loro creazioni sono acquisite dalla FIT Museum di New York, accendere i riflettori su ciò che svolgiamo, ma soprattutto ammirare che nella comunità le persone ricomincino a sognare».

Ora Michelle sta lavorando a un glossario utile per tutti, dai professionisti della parola fino alle persone comuni, così che possano conoscere i termini giusti – se ci sono, che cosa ci costa usarli? – con cui rivolgersi alle persone senza il timore di causare danni. «Per esempio, in Italia molti dicono “persone di colore” per indicare i neri, ma in realtà people of colour va bene soltanto per gli anglosassoni, perché sta a sottolineare tutti coloro che non sono caucasici, compresi gli asiatici o i nativi americani. Non sarà un manuale, un pamphlet impositivo, un dizionario della costrizione verbale: prendetelo come un suggeritore di termini che contribuiscono a creare un clima di fiducia reciproca, di mutua stima, di reciproco rispetto». 

Dafne di Cinto
Dafne di Cinto, Premio del Pubblico BCA

Nell’immagine in apertura Michelle Francine Ngonmo (ph. Giovanni Battista Righetti)

Che genere di questioni, le questioni di genere

Zaddy. Segnatevela, questa parola, perché la userete. Eccome, se la userete. Secondo il dizionario  Merriam-Webster, uno zaddy è un uomo maturo attraente e non deve necessariamente essere il vostro papà. Al momento in cui scriviamo, cercando “Pedro Pascal Zaddy” su TikTok, si ottengono 2,4 miliardi di visualizzazioni: il che significa che le persone stanno pigiando severamente sui cuoricini dei like. L’attore cileno quarantasettenne, protagonista di The Last of Us della HBO, era già famoso per The Mandalorian (spin-off televisivo di Star Wars) e in precedenza per Narcos, oltre ad aver vestito i panni del caldo bisex Oberyn Martell in Game of Thrones.

Sicuramente assai piacente, molto simpatico, di mentalità aperta e baffetto malizioso, in questo momento è l’uomo più desiderato del web da donne etero, uomini gay, trans, bisessuali penedotati o vaginadotati, maschi eterocuriosi e lesbiche non prescrittive. Tutt* lo desiderano, soprattutto dopo averlo sentito dichiarare, con la sua arroventata voce, «I’m your cool, slutty daddy». Serve traduzione? Non crediamo.

Naturalmente la sua popolarità lo ha reso preda appetibile delle maison di moda più importanti del pianeta che se lo contendono come testimonial, non solo perché il buon Pedro è la New Celebrity in Town. Rappresenta alla perfezione quel tipo di alta desiderabilità ormonale che trova un’incarnazione sempre diversa: così lontano dal longilineo ed efebico Timothée Chalamet ma anche dal muscolare e ipertonico Chris Hemsworth, lui sembra rassicurante, spiritoso e anche un po’ sentimentale. E vederlo vestito in camicia giallo pulcino, pantaloni color tortora e maglioncino Gucci – un tempo firma del genderless più spericolato – ispira voglia di spogliarlo e godersi il suo torace irsuto, più che di idealizzarlo come icona dalla sessualità fluida.

A volte la denominazione “senza genere” serve solo a far raddoppiare i fatturati per ogni articolo

Moda e genere 2023
Valentyn: total look Diesel; Kristina: shirt Aniye By, boots Marsèll (ph. by Alberto Alicata)

Il problema con la moda è sempre lo stesso: poiché per sua natura è fatta di tendenze temporanee, quando si occupa di temi importanti come la diversity, l’inclusione (e non “inclusività”, che in italiano fa aggricciare la pelle), la body positivity, non rischia di farne degli argomenti transeunti, passeggeri, provvisori? A volte la denominazione “senza genere” serve solo a far raddoppiare i fatturati per ogni articolo. Sono state vendute come genderless collezioni di marchi anche famosi che in realtà erano solo tute sportive, sneakers e streetstyle unisex rinominati, come se fosse radicale per le donne indossare pantaloni nel 2023 (benvenuta, modernità!). Quando si tratta di corteggiare clienti trans e non binari, il pericolo è che la firma possa nascondere solo un vuoto pinkwashing, operazione di marketing che culla gli acquirenti in un falso senso di fiducia senza offrire nulla di materiale come vestibilità, funzionalità e conoscenza/assistenza clienti.

Dal co-ed al Conservatice Chic, abbigliamento che s’ispira a valori tradizionali e conservatori

Il quotidiano britannico The Guardian ha portato come esempio il meganegozio online di Afterpay, dove si può comprare a rate. La maggior parte degli articoli elencati si adatta solo a dimensioni e forme limitate e, una volta che si fa clic sul sito di un commerciante partner per completare l’acquisto, il binarismo di genere riappare sullo schermo con la violenza di una pubblicità pop-up: vedi il sito web di Levi’s, suddiviso in uomo, donna, bambino e accessori. Ma è nelle ultime sfilate – dopo quelle co-ed, in cui erano presentate le linee uomo e donna, si è tornato a suddividerle in maniera decisa -, dove si è riaffermata la sartorialità, il classico e la tradizione, che il fashion system dimostra la sua innata ipocrisia.

Il Conservative Chic si riferisce all’abbigliamento che s’ispira ai valori tradizionali e conservatori, come la modestia, la sobrietà e la decenza. Questo tipo di moda spesso si concentra sulle linee pulite, le silhouette classiche e i tessuti di alta qualità. La cultura conservatrice, d’altra parte, è caratterizzata da una serie di valori e credenze che promuovono l’ordine sociale, la stabilità e la tradizione. Questi valori possono includere il patriottismo, la religione, la famiglia e la moralità.

genere fashion 2023
Valentyn: top Versace; Kristina: dress VI Valentina Ilardi, earrings Adais (ph. by Alberto Alicata)

Una moda nata da un duplice istinto sociale, quasi ossimorico: da un lato il bisogno di distinguersi, dall’altro il desiderio di conformità

E se perfino a una manifestazione nazional-popolare come il Festival di Sanremo ci si è indignati perché Rosa Chemical (che comunque era in camicia bianca e cravatta nera) ha dato un bacio a bocca serrata a Fedez, capirete che la tendenza del tailoring nasconde una realtà che è mutata in meno di due anni: Achille Lauro si vestiva come la regina Elisabetta I e tutti erano esaltati da questa ventata di novità, ora ci farebbe annoiare e lo definiremmo démodé. Per carità, capiamo tutto: in un mondo dove tutto cambia rapidamente e le tradizioni vengono spesso messe in discussione, la moda e la cultura tradizionaliste possono offrire una sorta di ancoraggio e di stabilità, concentrandosi su capi che offrono un’aria di familiarità – altra parola chiave del momento – che può dare alle persone un senso di conforto. Certo: la crisi economica non aiuta nelle sperimentazioni vestimentarie.

Meglio investire in durevolezza, qualità dei materiali, tagli e modelli già collaudati; una moda che nasce da un duplice istinto sociale, quasi ossimorico, e senza dubbio conflittuale, cioè da un lato il bisogno di distinguersi e, dall’altro, il desiderio di conformità. E poi: si potrebbe obiettare che vestirsi al di là del genere è un dato sempre presente nel linguaggio vestimentario, dal Re Sole in tacchi alti, trucco, parrucca incipriata e gioielli fino ai capi unisex, adatti sia a uomini, sia a donne.

L’abito è sempre il frutto di una filosofia dell’esperienza che determina il proprio modo di essere nel mondo

Non è così. La differenza nel linguaggio è emblematica. Il termine unisex fa riferimento a indumenti che non sono fatti per un tipo specifico di corpo e si adattano a tutti. Inoltre, unisex pone l’accento sul sesso della persona, e non sul genere. Sesso e orientamento sessuale non definiscono l’identità di genere e la sua espressione estetica. Proprio a queste ultime, invece, fa(ceva) riferimento il concetto di moda genderless che propone(va) uno stile in movimento, abbandona(va) rigide categorizzazioni e diventa(va) strumento di espressione individuale.

Ora non è più così, ed è un peccato. Perché l’abito è sempre il frutto di una filosofia dell’esperienza che determina il proprio modo di essere nel mondo, non solo con le proprie motivazioni, ma anche nei rapporti sociali con gli altri. L’abito potrebbe diventare non un semplice prodotto ma l’espressione di uno stile dei propri atteggiamenti, come capacità espressiva intersoggettiva. Come la possibilità di avere rapporti con le cose e usarle per raccontarsi.

moda senza genere
Kristina: total look Celine; Valentyn: total look Celine Homme

Nell’immagine in apertura, per Valentyn maglia Versace, per Kristina abito VI Valentina Ilardi, orecchini Adais (ph. by Alberto Alicata)

Nicolas Maupas, un ossimoro felice

«Lo scorso 29 ottobre ho compiuto 24 anni». «Complimenti! È contento di aver fatto così tanta strada, alla sua età?». «Mah, non so. Anche da piccolo, a ogni compleanno si accompagna il timore di ritrovarmi grande in fretta. Da sempre ho consapevolezza di come e quanto velocemente passi il tempo, e perciò ho paura di non averne abbastanza per fare tutto quel che voglio fare, soddisfare tutte le mie curiosità, realizzare tutti i miei progetti. Mi definisca pure Peter Pan però, se dovessi decidere, preferirei rimanere anagraficamente dove mi trovo adesso». In un’Italia dove è stata cancellata dai dizionari la parola “vecchio”, i figli quarantenni non hanno intenzione di andarsene da casa di mamma e papà, si chiama “giovane” chi spegne 50 candeline sulla torta, Nicolas Maupas rappresenta una felice eccezione.

Nicolas Maupas
Look CHB-Christian Boaro, boots Sonora

Se si dovesse condensare il suo carattere in due parole, avremmo bisogno di ricorrere all’artificio dell’ossimoro barocco (del tipo celestiale inferno, ghiaccio bollente, attimo infinito, dolcezza amara e così via). E questo non perché lui contenga contraddizioni, o peggio, delle irritanti ipocrisie: ma perché è un sognatore con i piedi ancorati alla realtà, un’anima antica rivestita da un corpo scattante, un potenziale divo che non rinuncerebbe mai ai soliti amici, una persona totalmente calata nel suo tempo ma nello stesso non passibile di subirne passivo ogni sua manifestazione: prima tra tutte l’uso forsennato dei social che, per lui, impediscono di godere del momento e fanno sì che il tempo, quel tempo che passa e scorre via con maleducata impertinenza, sia impiegato più a mettere filtri, caption e hashtag quando invece bisognerebbe viverlo e basta.

“Non rincorro la fama facile, il successo istantaneo: vorrei costruirmi un percorso che mi renda sempre più bravo e capace”

Educatissimo e pungente, tenero e sarcastico, colto ma non saccente, gentile e sornione, è stato premiato proprio da MANINTOWN con il Next Generation Awards, iniziativa realizzata con MI HUB Agency che premia e promuove i nomi dei giovani talentuosi del panorama attoriale e creativo. «Ne sono felicissimo, anche se non rincorro la fama facile, il successo istantaneo: vorrei costruirmi un percorso che, film dopo film, personaggio dopo personaggio, mi renda sempre più bravo e capace. Ma non vorrei mai che la mia carriera mi trasformasse in una persona diversa da quella che sono, uno che magari rinnega le persone più care sacrificandole all’altare della gloria. Pretendo, esigo di rimanere me stesso, con le mie abitudini, le mie delicatezze e i miei malumori, cosa che mi è concessa proprio dall’amore di chi mi sta vicino».

Milanese, di stanza a Roma da due anni, è figlio di papà francese e mamma italiana – entrambi impegnati in professioni ad alto voltaggio culturale: lui art director, lei giornalista – riconosce che molta della sua cultura visiva e libraria, li deve proprio a loro: «Specialmente mia madre mi faceva vedere film neorealisti, capolavori di grandi registi del passato, rappresentazioni teatrali memorabili. Con il risultato che adesso ammiro sia i blockbuster dei supereroi, sia le pellicole più impegnate, sia quelle di un passato che sono degli evergreen come A piedi nudi nel parco». Ancora duplicità, ancora doppiezza? «Ma no, solo una sconfinata curiosità, che poi è alla base del mio lavoro. Un lavoro che ci vede anche “ladri”, nell’accezione migliore: gli attori hanno il diritto-dovere di “rubare” dai colleghi più adulti, più bravi, più capaci».

“Gli attori hanno il diritto-dovere di ‘rubare dai colleghi più adulti, più bravi, più capaci”

Nicolas è divenuto celebre per la serie tv Mare Fuori con cui debutta nel 2019 ed è arrivata ormai alla terza stagione, seguita da un’altra serie, Un professore in cui recita come Simone, figlio di Dante, interpretato da Alessandro Gassmann. Per Netflix si è calato nei panni di Hans nel teen-movie Sotto il sole di Amalfi e nella serie Odio il Natale in cui è Davide (uno studente di cui Anna, interpretata da Pilar Fogliati, si innamorerà), fino a Sopravvissuti, nel ruolo di Robert, un ragazzo che torna, con i pochissimi altri superstiti, in mare aperto, sul luogo dove hanno avuto un grave incidente. Al momento, sta girando l’ennesima serie: «Non posso dirle il titolo sennò mi linciano, diciamo che ha a che fare col paranormale e il mistero», prodotta dalla Rai con Amazon.

Nicolas Maupas serie
Suit CHB-Christian Boaro, silver collier Giovanni Raspini, boots Sonora

“In occasioni che richiedono un abbigliamento elegante, l’abito è come un’armatura, una protezione, una morbida corazza”

Un curriculum già notevole, ma che per lui è «il naturale e organico sviluppo di quella che per me è stata come una “chiamata alle armi”, una vocazione, come quello che succede un po’ ai sacerdoti: per me attori si nasce, non si diventa. Anche se naturalmente ho imparato moltissimo nelle classi di tecnica e di scena al fACTORy 32 di Milano con Michael Rogers e successivamente l’Accademia09».

Come scriveva Michelangelo Buonarroti in uno dei suoi sonetti, anche Nicolas “non fa niente senza gioia”, compreso il fatto di scoprire di amare la moda e il vestire: «Mi concio come uno scappato di casa quando non lavoro, ma in occasioni che richiedono un abbigliamento elegante, come quando sono stato sul red carpet a Venezia, l’abito è come un’armatura, una protezione, una morbida corazza. Mia madre nasce come giornalista di moda, per cui il mondo dell’apparenza mi ha sempre incuriosito come fenomeno sociale. Anche se io poi, nella vita di tutti i giorni, onestamente non ci penso e mi metto la prima cosa pulita che trovo».

Nicolas Maupas film
Kimono Angelos Frentzos, silver collier Giovanni Raspini

“La nostra è una cultura mista, dalle influenze provenienti da geografie differenti e da stimoli tanto veloci quanto diversi”

Nicolas afferma che se l’Italia, ahinoi, è un paese per vecchi, è altrettanto vero che i suoi coetanei appartengono a una generazione «abituata innanzitutto a realizzare progetti senza budget perché siamo comunque nati in un’epoca di benessere economico molto relativo ma che, proprio per questo, fa brillare le menti più ricche di idee e favorisce non l’espandersi dell’individualismo, ma il lavoro in team. E mi riferisco non solo agli attori, ma anche ai musicisti, agli artisti, agli scrittori. In questo siamo molto diversi dai trenta/quarantenni che, invece si sentono in generale traditi da una società che aveva promesso loro soldi e occupazione, e oggi si ritrovano a combattere contro mille ostacoli. Inoltre, la nostra, anche se indubbiamente espressa più con l’immagine che non sulla consistenza, è una cultura mista, dalle influenze provenienti da geografie differenti e da stimoli tanto veloci quanto diversi.
Sicuramente questo è offerto dal periodo in cui siamo nati: in recitazione si parla di “circostanze date”, ovvero fatti e situazioni che influiscono sulla storia del personaggio, e diventano elementi d’azione anche se si sono svolte in un passato che non riguarda o non coinvolge la trama in scena. Noi, nati in anni già complessi, ci ritroviamo quasi spontaneamente a non ritrovarci nell’aspirazione quasi ottocentesca di trovare lavoro-sposarsi-comprare casa, perché oggi non è più possibile. Da questa contingenza, come dice anche uno dei miei filosofi preferiti, Umberto Galimberti, deriva la differenza tra noi e i Millennial che magari hanno molte più cose in comune con la generazione dei miei genitori che con la nostra. Inoltre, combattiamo diverse battaglie: per i diritti civili, per ristabilire un equilibrio economico, per non mandare in rovina il pianeta».

“Amo l’estetica, ma trovo sia più rilevante avere dei tratti regolari, perché questo mi permetterà di interpretare ruoli sempre diversi”

Nicolas Maupas Netflix
Total look Zegna

Con pacata combattività, Nicolas risponde con molta concretezza anche quando chiediamo come gestisce l’essere oggettivamente piacevole alla vista e all’udito (ha una voce bellissima). Aneddoto: una volta, passeggiando con la mamma, viene circondato da ragazzine che gli lanciavano, cuoricinando gli occhi, sguardi più potenti di qualsiasi like. E lui chiede alla genitrice chi ci fosse di così importante dietro di loro, o se avesse il giubbotto macchiato, non arrivando minimamente a pensare che fossero diretti a lui: è vero?

(Ride) «Sì, ma io sono un po’ tonto. Essere considerati fisicamente gradevoli ha un suo valore. Amo l’estetica, ma personalmente trovo sia più rilevante avere dei tratti regolari, perché questo mi permetterà di interpretare ruoli sempre diversi, di imbruttirmi, di invecchiarmi, di dar vita a tanti personaggi. Più cambio la mia, di estetica, più sono felice. Anche perché, con questa faccetta pulita da bravo ragazzo che mi ritrovo, la vedo dura a fare il cattivone mafioso, o il killer…».

Nicolas Maupas Instagram
Total look Zegna

Potrà farli più tardi, no? «Mah, speriamo…».  E, nel frattempo, chi le piacerebbe interpretare? «Un personaggio storico. Amo tantissimo ricostruire il mondo in cui ha vissuto un individuo, a cui posso dare una realtà con le mie reazioni emotive se penso a come mi sarei comportato se fossi vissuto nella sua epoca». E da chi vorrebbe essere diretto? «Se devo sognare, penso a Paolo Sorrentino, a Wes Anderson, a Quentin Tarantino, a Giuseppe Tornatore, Luca Guadagnino, Matteo Garrone». Succederà, no? C’è tempo, lei è giovane… «Eh no, non tanto: il tempo è inesorabile e va via troppo rapidamente. Non mi faccia venire l’ansia, gliel’ho detto che ho paura».

Nicolas Maupas social
Leather trench Prada

Credits

Talent Nicolas Maupas

Editor in Chief Federico Poletti

Text Antonio Mancinelli

Photographer Davide Musto

Fashion Editor Rosamaria Coniglio

Stylist assistant Antonietta Ragusa

Hair Antonio Navoni

Grooming Chiara Viola

Location Teatro Zelig

Nell’immagine in apertura, Nicolas Maupas indossa look CHB-Christian Boaro, boots Sonora

Moda e musica. Dietro l’immagine, una folla di emozioni

Nella moda e nell’industria che la produce, la diffonde e la comunica, si parla tanto di trasparenza, tracciabilità, consapevolezza a proposito della sostenibilità e dell’impatto con l’ambiente. E se invece fosse arrivato il momento di applicare questi requisiti non solo al dato materiale di un abbigliamento amico del pianeta, ma a quello intangibile – non per questo meno importante – relativo alla creatività, in nome di una ecologia delle idee o meglio, di una tutela delle utopie

Mahmood stile foto
Mahmood, uno dei tanti clienti eccellenti della celebrity stylist Susanna Ausoni

Mi spiego meglio: mai come negli scorsi due o tre anni, non a caso corrispondenti a quella grande rivoluzione socioculturale, oltre che sanitaria, rappresentata dalla pandemia, si è parlato di come il sistema del vestire, quando si tratta di trasferirlo nella rappresentazione del sé, non sia il frutto di un singolo designer colpito da improvvisa e imprevista ispirazione né tantomeno sia il frutto di una scelta solipsistica da parte di chi sceglie come farsi vedere da mondo. Si è finalmente dato rilievo alla figura professionale rappresentata da quel corpus globulare che è il team, composto da varie persone i cui cervelli e le cui anime collaborano collettivamente per giungere alla definizione di una determinata immagine o di come un capo possa essere interpretato, indossato, vissuto. Finalmente si è squarciato il velo sulla figura dello stylist  sia editoriale, sia dedicato all’immagine delle celebrity, sia alleato del fashion designer – come responsabile di un gruppo di persone che tirano a lucido, esaltano e celebrano un determinato linguaggio vestimentario di cui il direttore creativo di un marchio è sì il portabandiera e l’alfiere, ma circondato da una serie di figure professionali che lo aiutano e finora erano rimaste nell’ombra.

Michelle Hunziker abbigliamento
Michelle Hunziker, altra celebrity seguita per i look da Ausoni

La centralità dello stylist nell’industria della moda di ieri e di oggi

Sono rimaste talmente al buio, negli anni Ottanta, Novanta e anche nei primi Duemila, alle sfilate come alle grandi serate si mormorava a mezza bocca, tra noi addetti ai lavori, chi avesse dato quell’idea in più, quello scatto estetico nel regno dell’avanguardia unendo mondi diversi, prendendo spunto dall’arte o dalla strada (ancora non c’era il termine streetstyle). Ma i loro nomi, per una nebulosa quanto soffocante omertà collettiva, non potevano e non dovevano essere pronunciati. E questo valeva anche per i giornali, dove il termine stylist appare ufficialmente stampato solo nel 1985, a proposito del meticoloso lavoro di puzzle estetici-emotivi rappresentato dai modelli vestiti da un vero artista morto troppo presto per colpa dell’Aids, Ray Petri, per un’indimenticabile rivista come The Face.  

Noemi Sanremo 2022 abiti
Gli outfit di Noemi a Sanremo 2022 erano curati da Susanna Ausoni (ph. Daniele Venturelli/Getty Images)

La riprova di questa situazione anomala è arrivata quando ho deciso di studiare, per classificarlo in maniera sistematica, questo fenomeno per il libro L’arte dello styling per i tipi di Vallardi, che ho scritto insieme con Susanna Ausoni, la più nota e longeva celebrity stylist italiana. Bene: tranne qualche manuale americano e alcune biografie di grandi stylist-muse del passato, non c’erano fonti scientifiche o di indubbia rilevanza culturale. Il lavoro di ricerca si è rivelato assai più complicato e difficoltoso del previsto, perché non vi era una documentazione necessaria, che abbiamo raggiunto parlando sia con i diretti interessati, sia leggendo articoli, saggi di studenti, tesi di laurea. Abbiamo cercato di colmare questo vuoto che colpevolmente era rimasto tale nel tempo perché siamo (stati) prigionieri di una concezione ottocentesca che vedeva nel fashion designer un eroe o un’eroina solitaria che si alzava ogni mattina profetizzando il modo in cui ci si sarebbe abbigliati: un’idea a suo modo molto romantica, ma che non corrispondeva al vero.

Dai look delle celebrity alla ricerca della propria identità modaiola, il ruolo degli stylist

Elisa Sanremo 2022 abito bianco
Elisa a Sanremo con un look pensato per lei da Ausoni (ph. LaPresse)

Oggi, che per l’appunto invochiamo maggiore trasparenza nel processo di produzione della moda, dovremmo pretenderlo anche nella comunicazione di tutti coloro che partecipano all’attestazione di una tendenza in quanto simbolo e sintomo dello Zeitgeist e, contemporaneamente, oggetto transizionale («i vestiti sono macchine per comunicare», sosteneva la grande epistemologa Eleonora Fiorani) che possa sostenere la volontà di esternare la propria identità. O, più semplicemente, di calarci letteralmente nei panni del personaggio che vogliamo essere quel giorno in quella situazione.
Per esempio, Petra Flannery, che cura l’immagine di divi tra cui Emma Stone, Zoe Saldana, Renée Zellweger, sottolinea come desideri che i suoi clienti impongano la loro personalità. «Adoro quando qualcuno indossa qualcosa e dice: “Ecco fatto. Questo è quello che voglio indossare”. E lo traspirano sul red carpet», sostiene. Il duo di stylist Zadrian Smith e Sarah Edmiston afferma che se un cliente inizia a ballare quando indossa un look particolare, sa di avercela fatta. Smith ha spiegato: «Concludo sempre ogni prova dicendo: “Sei a tuo agio, sicuro di sé e felice? E se uno di questi è un ‘no’, allora non hai il look. Se tutto è un ‘sì’, allora ci siamo riusciti. La nostra priorità, e la cosa più importante per noi, è il comfort dei nostri clienti, sopra ogni cosa. Finché sono a loro agio, sicuri di sé e felici, allora hai fatto il tuo lavoro».

Mahmood Sanremo 2022 abiti
Mahmood al 72° Festival di Sanremo, styling di Susanna Ausoni (ph. Daniele Venturelli/Getty Images)

Quote di Susanna Ausoni

«Vestire una persona significa prima di tutto conoscerne la più vera natura. È da lì che parte tutto. Per me gli abiti sono ponti tra differenti aree culturali e la fisicità. Solo quando si riescono a costruirne di solidi, allora il mio lavoro è compiuto»

Nell’immagine in apertura, l’attrice Valentina Bellè posa per uno shooting, con lo styling di Susanna Ausoni

Sfilate uomo autunno-inverno 2022/23: un gentiluomo, un uomo gentile

«È infinitamente più vile leggere un cattivo libro che non comperare un cappello, o una cravatta alla moda. La moda distribuisce clandestinamente dei simboli, in una cultura che non sa più fabbricarli direttamente», scriveva Giorgio Manganelli.

Di simboli, allegorie e metafore ce ne sono in abbondanza, nelle ultime sfilate maschili di Milano, Parigi e qualche lampo londinese per il prossimo autunno-inverno. Da un lato, il ritorno a un formale ripensato e rimodulato era un facile pronostico, dopo due anni passati in tuta, felpe e sneakers e con il crescente desiderio di rimettersi in gioco con abiti belli, di tessuti preziosi e di ottima fattura; dall’altro, la situazione socio-politica mondiale, ancora offuscata dalla presenza del Covid e delle sue varianti che non accennano a diminuire, l’incertezza del futuro, la polarizzazione del pensiero che sta esacerbando la comunicazione con il risultato di arrivare a un certo conservatorismo, potrebbero nascondere la riattivazione di una società che va verso la restaurazione dello status quo.


Prada A/I 2022/23, photo: AFP

Del resto, gruppi crescenti di persone desiderano prodotti sfarzosi e hanno disponibilità economiche che glielo permettono. I mercati del lusso tradizionali beneficiano in particolar modo delle tendenze di consumo come l’edonismo e dal crescente desiderio degli individui di distinguersi e rappresentarsi, specialmente in periodi di crescente incertezza/instabilità. Ma Il mainstream stesso è sempre più frammentato, e quindi dentro a un messaggio chiaro e coerente, poi affluiscono trend minori che quel messaggio contraddicono e ridiscutono.


Alyx A/I 2022/23, ph. by Filippo Fior/GoRunway.com

In questo panorama inquieto, ci è sembrato che la categoria dell’“abbigliamento” abbia vinto su quella della “moda”, intesa come ricerca spasmodica del nuovo, pur fronteggiando una realtà che finora non ha avuto eguali nella storia. In questo senso, la sfilata di Alessandro Sartori per Zegna è stata la più rivoluzionaria, pur nella pacatezza di toni e volumi, nel saper conciliare una serie di istanze – il genderless, la diversity, l’inclusione – con una tradizione sartoriale che oggi è più che mai necessaria per trasformare un’idea in un “prodotto” e, nello stesso tempo, avere tutti i crismi per essere considerata contemporanea. Abbigliamento per umani, esattamente: Miuccia Prada con Raf Simons e Rei Kawakubo per Comme des Garçons hanno rielaborato – ciascuno a suo modo – gli stilemi del classico, i primi legandolo al concetto di potere (riproponendo il tema della mitica collezione autunno-inverno 2012 “Il Palazzo” e non ispirandosi, come dicono alcuni malinformati, alle sfilate di Demna per Balenciaga), la seconda alla figura letteraria del flâneur, il gentiluomo vagabondo che passeggia per le vie della metropoli senza meta, limitando la sua produttività alla pura osservazione.
Ma, nei fatti, i capi proposti hanno la solennità offerta dall’idea di essere pezzi destinati a durare, a interpretare quella voglia di eleganza in una chiave di quella che Italo Calvino, nell’ultima delle Lezioni Americane che non venne mai pubblicata, chiama consistency. In inglese, il termine consistency può assumere, a seconda del contesto, tre significati differenti. Consistenza, costanza, coerenza. Per Calvino, tutti e tre sono fondamentali: spiega che un’opera d’arte deve essere consistente. Ciò significa che essa deve possedere tutte le sfumature del suo autore. L’artista, infatti, ha completamente carta bianca. Egli può decidere su cosa improntare il suo lavoro. Tuttavia, è in ogni caso influenzato dal circostante, nel bene e nel male. Ed è inevitabile che la sua arte rifletta tutti gli aspetti che lo caratterizzano.


Zegna A/I 2022/23

In questa accezione, le più belle collezioni maschili – anche quelle che, come Undercover disegnata da Jun Takahashi o Alyx, a cura di Matthew Williams – nella loro apparente sobrietà celavano un senso coerente e compatto di un uomo che ha sicuramente introiettato la lezione dello streetstyle e della contaminazione con elementi femminili, ma nello stesso tempo vuole sentirsi protetto sia dalla storia che lo ha condotto fin qui, sia da capi portabili, forse non troppo spiritosi, ma d’impianto solido, fermo, sicuro. Perfino quelle che sono sembrati i défilé più surreali – del resto, quale momento di surrealtà o surrealismo più concreto quanto quello che stiamo vivendo? – come quella di Loewe del sempre più bravo JW Anderson o GmbH, disegnata dal duo Serhat Isik e Benjamin Huseby (prossimi direttori creativi di casa Trussardi: speriamo li facciano lavorare in pace) tra le proposte più estrose racchiudevano un cuore dove il tailoring ragionato sostituisce l’effetto spettacolare fine a se stesso, in una concezione di un menswear moderno ma costruito secondo regole di ingegneria tessile.


Loewe A/I 2022/23, ph. by Acielle / StyleDuMonde

Viene in mente la frase iniziale del saggio di Salvatore Settis Futuro del classico (Einaudi): «Ogni epoca, per trovare identità e forza, ha inventato un’idea diversa di “classico”. Così il “classico” riguarda sempre non solo il passato ma il presente e una visione del futuro. Per dar forma al mondo di domani è necessario ripensare le nostre molteplici radici». In un mondo come questo, dove mai come adesso si parla di realtà alternative come il metaverso, sembra che i fashion designer oppongano una visione forte, reale, per niente tecnologicamente visionaria.
Anche nella sfilata postuma di Virgil Abloh per Louis Vuitton o in quella di Kim Jones per Dior Homme, agli allestimenti onirici si unisce la maestria artigianale del “saper fare” e del rapporto con il tempo. Per il compianto Virgil, la stampa di un quadro di Giorgio De Chirico, La melanconia della partenza, su cappotti e capispalla era illustrativo del concetto di Maintainamorphosis, da lui definito come il principio per cui le “vecchie” idee dovrebbero essere rinvigorite con valore e presentate insieme alle “nuove”, perché entrambe hanno lo stesso valore. Per Mr. Jones, invece, la celebrazione della 75° della maison è stata l’occasione per trasferire i codici estetici femminili di monsieur Dior, che non disegnò mai abiti da uomo, su capi estremamente virili che da questa impollinazione hanno dato vita a una collezione desiderabilissima, forte e cortese, dove il concetto di gentiluomo si scompone e si confonde in quello di “uomo gentile”.


Undercover A/I 2022/23

Potremmo definire così il vero protagonista delle fashion week europee: un uomo gentile e un gentiluomo, in grado di esercitare senza vergogna alcuna una sensibilità acuta fino alla vulnerabilità ma nello stesso tempo preparato ad affrontare un mondo che non sempre gli mostra il volto migliore, ma lo minaccia con guerre, carestie ed epidemie. “Dio fece all’uomo e sua moglie tuniche e li vestì”, è scritto nella Genesi 3, 21. Fuori dai riferimenti teologici poi, basti pensare al nesso linguistico tra il termine latino vestis, “veste”, e la parola “investitura”, vocabolo che indica la nomina a un incarico ufficiale; l’abito, attraverso la sua dimensione simbolica, appunto, appartiene alla cultura e la rappresenta. Per approdare, si spera, a una dimostrazione non tossica, né carnevalesca, di una mascolinità dolce, piacevole, garbata.


Louis Vuitton A/I 2022/23, ph. REUTERS/Violeta Santos Moura

In apertura, la collezione Dior Men A/I 2022/23, credits: © Brett Lloyd

Un ricordo di Nino Cerruti, principe del tessuto

Che la morte di Nino Cerruti – il “signor Nino”, come lo chiamavano tutti – abbia almeno una funzione, oltre al dolore che ci fa sentire più orfani di uno tra i più grandi autori del Made in Italy: la convinzione e il dovere di dire al mondo che è grazie al tessile, a cui poi il designer dà forma e contorno, se siamo i primi nel mondo a creare moda che è anche abbigliamento, capacità inventiva che è anche modalità vestimentaria, stile che è anche funzione.
Se, come fa dire Shakespeare a Prospero ne La tempesta: «Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni», la moda è fatta della stoffa prodotta da imprenditori illuminati, che spessissimo danno il la alla creatività dei designer che proprio da una certa consistenza, da una “mano” più o meno vellutata o più o meno scattante innescano il loro estro. Il tessile rappresenta un’importante voce dell’economia italiana: è importante sottolinearlo perché anche noi addetti ai lavori tendiamo a dimenticarlo, regalando tutto il merito a chi disegna i vestiti ma non a chi ne ha disegnato la sostanza nella quale sono ritagliati.


Nino Cerruti nel 1987, photo by Raphael Gaillarde/Gamma-Rapho via Getty Images

Il pullover giallo pallido buttato sulla spalla «perché è un amuleto», l’eleganza che sprigionava un’aura di internazionalità non legata a nessun territorio (e questo, alla faccia di chi ritiene “provinciale” chi non sia nato a New York, Parigi, Londra o Milano), il biellese Cerruti ha introdotto il “casual chic” nell’abbigliamento maschile di fascia alta inventando la prima giacca decostruita negli anni Settanta, con la complicità di un giovane stilista, Giorgio Armani, che aveva conosciuto una decina di anni prima.
Nasce per sua natura come maestro della raffinatezza rilassata, ma sente presto che il termine eleganza” ha «un terribile sapore di vecchio», cui preferisce sostituire il concetto di “stile”: «Avere stile è mescolare cultura e arte».
Un dato interessante: avrebbe voluto diventare un giornalista o un filosofo. Purtroppo, la morte del padre Silvio lo costringe ad abbandonare gli studi per rilevare l’azienda di famiglia, famosa soprattutto per la trama e gli orditi delle lane.


Cerruti con una modella a Capri, nel 1968
Cerruti (al centro, con il pullover giallo sulle spalle) al termine della sfilata F/W 1997-98 a Parigi, ph. Condé Nast Archive

«Da lui ho appreso non solo il gusto della morbidezza sartoriale, ma anche l’importanza di una visione a tutto tondo, come stilista e come imprenditore», ha scritto Armani sul suo profilo Instagram: «Aveva uno sguardo acuto, una curiosità vera, la capacità di osare». Quella con il designer piacentino è una relazione in cui l’uno sostiene l’altro nella creazione di una silhouette maschile e femminile completamente rinnovata grazie a tessuti morbidi, lievi, senza genere, diremmo oggi: Armani disegna la prima collezione di abbigliamento del signor Cerruti, il cui lanificio di famiglia data al 1881.
La linea si chiama Hitman, ed è tra le prime dedicate al prêt-à-porter maschile, tanto che il tessitore-imprenditore aveva già aperto nel ’65 una sua boutique parigina a pochi passi da Rue Cambon, “il” regno di Mademoiselle Coco Chanel, di cui diventa amico, la quale indossa solo pantaloni firmati Hitman. Pochi anni dopo vi affiancherà la linea più sportiva Flying Cross.


Nino Cerruti con Sharon Stone al Festival di Cannes del 1992

Aperto alla contemporaneità, la fa disegnare da Vico Magistretti: il successo è tale che Oltralpe viene denominato come “il più francese dei couturier italiani” e a chi lo conosce negli anni successivi, Cerruti preferisce parlare direttamente in francese. O in inglese: è tra i primi, insieme con Armani, a vestire il Gotha dell’Hollywood che conta, non solo sui red carpet, ma anche come costumi di film come Pretty woman, Il silenzio degli innocenti, Basic Instinct, Philadelphia, Wall Street, Attrazione fatale, Proposta indecente.
Manager, imprenditore, creatore, conosce successi crescenti: l’invenzione del colore ottanio, i profumi, gli occhiali, la linea femminile («amo le donne in pantaloni»), i primi accordi di licenza in Giappone e negli Stati Uniti. Nominato Cavaliere del Lavoro nel 2000, è stato anche designer ufficiale della scuderia Ferrari di Formula 1 nel 1994. Il figlio Silvio inizia ad affiancarlo nel lavoro.


Richard Gere e Julia Roberts in Pretty woman: nel film l’attore americano indossa abiti disegnati da Cerruti

Michael Douglas in Wall Street: il guardaroba del suo Gordon Gekko è firmato Cerruti

Un’altra delle sue scoperte è Véronique Nichanian, ora da decenni direttrice creativa della collezione uomo di Hermès, che Cerruti nota diciannovenne ai corsi della Chambre Sindacale de la Couture. Il tutto sempre soffuso di una certa nonchalance striata di snobismo e di grazia, che gli permette di dare giudizi soavi e spesso tranchant.
Di vestiti, non vuole buttarne via uno, anche dopo anni. Sono il racconto dell’intera sua esistenza: «Dagli inizi degli anni Cinquanta ho tenuto tutto quello che compravo e tutti i prototipi che facevo realizzare. Col mio mestiere, poi, era facile abituarsi ad amare una cosa diversa ogni mese. È come vedere una foto dello stile attraverso gli anni. Oggi, riesco ancora a indossare qualcosa. E qualcosa viene ancora indossato dalle nuove generazioni venute dopo me», disse quando nel 2015 la Fondazione Pitti Discovery dedicò una mostra all’archivio di una vita, la sua, che s’intitolava “Il signor Nino”, curata da Angelo Flaccavento.


Una sala della mostra “Il signor Nino”, allestita al Museo Marino Marini di Firenze nel 2015

Purtroppo, aver venduto la sua maison a un gruppo di imprenditori italiani non si è rivelata la sua decisione più saggia, visto che doveva essere il primo mattone di un polo del lusso italiano che mai vide la luce. Il Lanificio Cerruti ora fa parte del fondo anglo-londinese Njord Partner; il signor Nino ne conservava una quota del 20 per cento e la carica di vicepresidente.

Principe del tessuto, il signor Nino, lungo il telaio della sua vita, ha tramato e ordito perché ciò che sapeva fare diventasse indispensabile alle persone eleganti di oggi: costruire tra di loro un “tessuto connettivo”, una Rete prima della Rete, diventando egli stesso un social vivente molto prima dei social, che riunisse tutti e tutte gli amanti del bello, dell’armonia, dell’arte e della gentilezza dei modi.


Un ritratto del 1993 dello stilista e imprenditore biellese

In apertura, Nino Cerruti nel 1987, photo by Raphael Gaillarde/Gamma-Rapho via Getty Images

The Ferragnez: sì, la vita è tutto un post

Quella della serie The Ferragnez, prodotta nientedimeno che da Amazon e già venduta a scatola chiusa in tre quarti di mondo, è la più spettacolare mise en abyme degli svolgimenti narrativi italiani degli ultimi anni.

Il termine, che deriva dal lessico araldico – dove, per rappresentare un legame di parentela, veniva inserito lo stemma di una famiglia nobile all’interno di quello di un’altra famiglia – in letteratura viene usata quando un’opera contiene in sé un’altra opera, la quale tratta gli stessi argomenti dell’opera che la contiene.

Esempio tipico: l’Amleto di Shakespeare, allorché il pallido principe decide di allestire lo spettacolo L’assassinio di Gonzago costruito sul tema di un fratricidio, per chiarire se, durante la rappresentazione del dramma, il comportamento di suo zio Claudio gli riveli se è stato lui a uccidere suo fratello, cioè il papà di Amleto.

The Ferragnez, la serie TV


La crew

Qualcosa del genere accade in The Ferragnez: ci viene fatto credere che ciò che stiamo vedendo è un docufilm, laddove la presenza del nome nei titoli di coda di Peppi Nocera, autore e scrittore bravo e competente, fa scattare l’allarme.

Il metareality The Ferragnez

Sullo schermo c’è, casomai, un metareality, ovvero un reality su un reality in cui tutto è stato scritto, approvato e ratificato dalla coppia stessa se non anche dal figlio Leone, il più bravo di tutti a fingere di essere sé stesso. Fateci largo, The Matrix e The Truman Show, che passiamo noi. 

Chiara è solare, determinata, self-confident, sempre a suo agio, da un consiglio d’amministrazione alle coccole al figlio, truccata alla perfezione anche quando fa l’ecografia della seconda nascitura, Vittoria, neanche fosse la protagonista dello spot di Nuvenia Pocket. Fedez è un’appendice nella migliore accezione possibile.

Lui è un capitolo nella vita della moglie, un brufolo ma carino nella di lei vita organizzata come un Filofax; è ombroso, umbratile, di origini umili, tracagnotto, vorrebbe dormire mentre Chiara desidera fare stories su stories.

E, in più, si fa perculare perfino dal figlio, visto che dopo ore e ore di make-up teatrale per sembrare Babbo Natale, è immediatamente sgamato dal biondo e bellissimo pargolo. 

Chi sono i The Ferragnez

Come in un film neorealista o un documentario sulla Germania in guerra, in The Ferragnez gli altoborghesi (Chiara e le sue sorelle sono esponenti della Cremona bene, quella di dentisti, notai, avvocati e farmacisti), sono biondi e più gradevoli esteticamente.


La locandina

I poveri o ex-poveri – tranne la mamma di Fedez, sua agente, che infatti lo ignora e parla direttamente con la nuora, ma è tinta e quindi non vale – sono castani, poco interessanti, se non in versione “folklore locale” come quando lui, insicuro e imbranatissimo, va a farsi leggere le carte dalla nonna a Buccinasco, che ovviamente sbaglierà ogni pronostico. 

Tra le mura di casa di Chiara e Federico

Ma sbaglierebbe di grosso chi può considerare la coppia come un ossimoro convivente in case meravigliose e spaziosissime, dove nessuno mangia. Fedez e Chiara hanno capito che, nell’era postmoderna in cui viviamo sono evaporate le differenze tra proletari e capitalisti, tra pop e snob, tra belli e no: uniscono le loro rispettive fan base e, nel fare questo, può succedere che Donatella Versace si metta in ginocchio per fare l’orlo ai pantaloni di Leone (ve l’immaginate, Donatella Versace che si inginocchia per un marmocchio?) vestito uguale a papà – una pacchianata incredibile – prima di Sanremo.

E, al contrario, a Chiara può scappare una parolaccia “buffa”, “carina” mentre la sorella prende cantonate uditive da candidata all’Amplifon («Ma si chiama Saremo giovani o Sanremo giovani?», sbotta a un certo punto la sorellina minore Valentina, accessoriata di fidanzato bello e utile come un fuco).

L’uguaglianza lui-lei è soprattutto sul piano linguistico: lui intona canzonette che vorrebbe far capire ispirate e invece legano i denti dalla zuccherosità, lei esprime il suo entusiasmo mettendo davanti a ogni parola il prefisso –super e varia le sue profonde riflessioni sulle reciproche differenze caratteriali con due espressioni: «Fedez oggi è preso male, Fedez oggi è preso bene».


La première della serie, ph. via Ansa

The Ferragnez, dentro la coppia

Attentissimi alla visione dei loro guardaroba – tutto va pagato, contabilizzato, registrato, «vuole fattura?» – Chiara si veste Etro, Moschino e un trionfo di Versace, marchio scelto anche da lui che però sta attentissimo a far pixelare lo Swoosh della Nike sulle t-shirt (ma non le quattro frecce di Off-White) quando sono in casa: luogo dove discutono, lui sempre più incazzato col mondo, lei sempre più soavemente inflessibile ma non si scambiano gradi gesti di tenerezza o di passione bruciante.

Si direbbe che nel mega-appartamento di Fiera Milano City spiri sentimentalmente un vento gelido dentro e non fuori le mura: vedi durante una cena in famiglia Chiara, con un collier Bulgari mentre finge di deglutire qualcosa con le sorelle, non accompagna neppure a letto il figlio, che sparisce assieme alla tata.

The Ferragnez: La vita di coppia e Instagram

L’espediente della terapia di coppia (anche se lo psicoanalista non lo vediamo mai, ma ascoltiamo la sua voce fuori campo), è un perfetto meccanismo per descrivere gli alti e bassi – più bassi che alti – di una coppia che però, alla fine della prima stagione, con la nascita della figlia Vittoria, dimostrano di amarsi alla follia, nonostante le piccole incomprensioni: tutte naturalmente puntualmente registrate da troupe di tecnici, operatori della luce, cameramen, registi e suggeritori che affollano il set della pseudorealtà. E finalmente, una volta finita la prima stagione, si capisce che per scoprire davvero dove si annida l’autenticità della relazione dei due, la passione che li avviluppa serpentinamente, l’eccitazione che li fa vibrare all’unisono: su Instagram, naturalmente. È lì che ci sono i veri loro.



Nuovo cinema purgatorio

C’era una volta il cinema italiano, quel mix di arte, impegno, tecnologia, business: un crogiuolo di letterati, intellettuali, illuminati finanziatori, registi che rischiavano maestranze di grande ingegno, che ha nutrito con le sue opere l’immaginario universale per quasi un secolo intero: il Novecento. È al cinema italiano che si deve infatti la codificazione della forma filmica classica con Cabiria nel 1914; è con il Neorealismo che nasce quel modo di raccontare la realtà che Gilles Deleuze ha chiamato “modernità cinematografica” e che continua a ispirare registi di tutto il mondo; è in Italia che si può rintracciare l’unico esempio di commedia – all’italiana, appunto – dove alla fine si piange e si muore; è solo nei film italiani che si sviluppa una ricerca così organica per pensare il carattere politico della realtà e delle immagini che la rappresentano.

È qui, in definitiva, che si trova nella misura più coerente e continuativa la riflessione sui caratteri specifici di un pensiero filmico e di un pensiero nazionale, sui loro intrecci e sulle loro influenze reciproche, lungo quel crinale increspato che definisce un sistema culturale tanto nelle sue relazioni con il fuori quanto nelle sue componenti interne. E adesso? Insidiato dalle piattaforme in streaming planetarie, poco o nulla aiutato dal sistema politico, è distribuito poco all’estero se non nel caso di rari, grandi nomi che assicurino un sicuro ritorno economico – Nanni Moretti, Paolo Sorrentino, Matteo Garrone, Giuseppe Tornatore, Mario Martone, Paolo Virzì e pochissimi altri – che ci fanno temere per la sua capacità incisiva sulla contemporaneità come invece era successo per la generazione degli autori del secolo (ma è anche trascorso un Millennio) scorso.


Il punto è che lamentarsi non ha senso, né tantomeno crogiolarsi in una nostalgia di sale fumose dove il fascio di luce faceva vivere sullo schermo storie fantastiche o iperreali, secondo la solita narrazione di «era meglio prima», quando è invecchiato anche il Nuovo Cinema Paradiso. Puntualmente, ogni cinque anni circa, qualche critico recupera l’idea che il cinema italiano stia vivendo una nouvelle vague: si parla allora di una particolare visibilità italiana e internazionale delle nuove generazioni di autori, di un recupero delle quote di incassi del cinema italiano rispetto a quello straniero, di un’improvvisa notorietà dei divi nostrani, ecc. L’ultima di queste fiammate di entusiasmo si è avuta nel 2013 con il successo di La Grande Bellezza di Sorrentino e l’apparizione di nuovi film di Ozpetek, Bellocchio e Muccino.  Purtroppo, altrettanto puntualmente, in una stagione il cinema italiano ritorna poco visibile e poco appetibile, con una forbice sempre più larga tra piccole produzioni autoriali semiclandestine da un lato, grandi circuiti di distribuzione dall’altro.

Però è interessante, parlando con attori molto giovani dalla solida preparazione professionale come Jozef Gjura, arrivato in Piemonte a sei anni – ora ne ha 26 ed è uno dei protagonisti della trilogia Sul più bello, Ancora più bello e Sempre più bello, il primo con la regia di Alice Filippi, il secondo e il terzo diretti da Claudio Norza – che «essere cresciuti con il cinema italiano del trentennio Cinquanta-Settanta è un dovere, oltre che un privilegio, per essere non attori, ma artisti che devono immettere la loro verità nella parte che gli viene assegnata. Se non avessi cercato i primi film di Antonio, essermi innamorato di Gian Maria Volonté, avere amato Mario Monicelli e molti altri registi allora considerati di puro intrattenimento, probabilmente non avrei intrapreso questa strada». Resiste il mito del cinema italico come grande palestra di attori indimenticabili e di autori visionari ma ormai, attori e registi, tutti defunti, mentre fa fatica a diventare significativo l’apporto valoriale – estetico, etico, narrativo – del cinema italiano contemporaneo, che pure può contare su nomi nuovi sia per le sceneggiature, sia per la direzione: penso ai gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, ad Alice Rohrwacher, a Giorgio Diritti, ad Alessandro Aronadio, a Michelangelo Frammartino, a Valeria Golino, Sergio Rubini, o a Valeria Bruni Tedeschi, attori  passati dall’altra parte della macchina da presa.

Sono loro che, negli ultimi anni, stanno in qualche modo ridisegnando la cartografia di una cinematografia nazionale ma non nostrana, in grado di sostenere anche trame che non siano solo e semplici riferimenti a questioni locali, ma abbiano un respiro e una qualità creativa internazionale. Il problema è che, come ha notato lo scrittore e saggista Gianfranco Marrone su Doppiozero, cambiando profondamente il cinema come macchina produttiva dominante dell’immaginario mediatico, sono cambiate, a traino, anche le teorie che cercano di spiegarne ragioni e meccanismi, percorsi qualitativi e sistemi di funzionamento. Una volta c’erano il grande e il piccolo schermo le cui dimensioni distinguevano due media differenti – il cinema e la televisione –, con linguaggi differenti, pubblici differenti, contenuti differenti. Oggi è tutto intrecciato con tutto, con raffinatezze progettuali e ideative straordinarie, e ogni nuova piattaforma che si presta a veicolare immagini in movimento, video e audiovisivi deve reinventarsi quasi da zero una poetica e un’estetica, per non dire le forme della narrazione e della figurazione. La condizione è tale per cui l’avvento del digitale ha scompigliato le carte, di modo che l’imbuto del computer ridistribuisce di continuo non solo quello che una volta era il sistema delle belle arti, ma anche i media stessi, portati a ibridarsi euforicamente fra di loro.


Ma allora, questa decadenza perdura o no? «Se ci poniamo nella posizione di artisti, e non di semplici interpreti o registi o sceneggiatori, credo che sia possibile uscirne: abbiamo ottimi scrittori, ispirati registi, una nuova generazione di attori che, come me, sono sfuggiti alla trappola del “non studiare, così la tua recitazione sembrerà più naturale” che ancora adesso ammanniscono alcuni agenti. Più alta è la preparazione, al contrario, più naturale sembrerà la nostra interpretazione», continua Giura, sicuro di come l’Italia sia all’orlo di una profonda trasformazione di tipo migliorativo nel campo dello spettacolo, compreso il teatro, «ma è come se non si volesse rischiare, ci fosse la paura di fare un salto nel vuoto».

Ma non è solo questo, anche non abbiamo più i produttori coraggiosi e miliardari che scommettevano su registi “pericolosi” come Pasolini o Ferreri, quanto la matrice che caratterizza la storia del cinema italiano che ha visto all’opera quattro modelli produttivi, linguistici e di consumo: il realismo, l’apologo, il prodotto di consumo e il prodotto “artistico”. Nel perimetro definito dai quattro poli si giocano due tipi di movimenti: una vitale sovrapposizione e contaminazione tra i quattro modelli di cinema; un altrettanto vitale rielaborazione di modelli prelevati dall’esterno. Occorre anzitutto ricordare le coordinate di fondo dell’attuale sistema cinematografico italiano. A partire dagli anni Settanta il consumo di cinema entra in crisi a favore del mezzo televisivo; da tale crisi, il cinema esce alla fine degli anni Ottanta con uno scenario del tutto rinnovato: alle piccole sale locali sono ormai subentrati i Multiplex; il sistema delle prime, seconde e terze visioni è stato sostituito da un sistema in cui il successo di un film si gioca tutto nei primi giorni di programmazione. Si apre in tal modo una forbice tra film italiani prodotti e film italiani di successo (o semplicemente visti e visibili nei circuiti normali). Il sistema produttivo conferma il suo carattere frammentato: per la produzione di film diviene indispensabile l’aiuto dello Stato o dei due colossi televisivi, Rai e Mediaset. Tuttavia, sarebbe sbagliato sostenere che il nuovo scenario implica una frattura con la tradizione o una “rifondazione” del cinema italiano. Al contrario: proprio questa condizione di costante incertezza e vulnerabilità stimola il cinema italiano a cercare una propria identità e visibilità specifica; di qui una ferma intenzione di recuperare e gestire le risorse simboliche del proprio passato, risorse rappresentate appunto da quella matrice di caratteri delineati nei due paragrafi precedenti. Ne deriva un cinema al tempo stesso moderno e ‘antico’, consapevole della propria tarda modernità e radicato nel proprio passato. Le continue rinascite del cinema italiano confermano insomma che il cinema rappresenta una delle principali istituzioni di costruzione e ricostruzione della nostra identità. Attraverso magari dei linguaggi nuovi, stratificazione di letture, modalità di sovrapposizione che rifiutino i generi: del resto, quanto c’è di più amaro in alcuni film della commedia all’italiana e perfino nei cinepanettoni e quanto, invece, di fiabesco in un film di denuncia come Favolacce dei gemelli D’Innocenzo o Lazzaro felice della Rohrwacher? Solo uscendo dalle gabbie dei “caratteri” e ritrovando quella felice contaminazione tra umorismo e tragedia che è tipica della nostra modalità del raccontare storie, secondo noi, il cinema italiano tornerà ad avere un riflettore puntato addosso, per essere applaudito.

Testo di Antonio Mancinelli

Piero Gemelli: quando la perfezione rima con rivoluzione

Se si volesse sintetizzare in una formula la localizzazione intellettuale dell’opera di Piero Gemelli, la cui mostra La bellezza svelata a cura di Maria Savarese e Maria Vittoria Baravelli è prorogata fino al 21 novembre al Pan di Napoli, risiederebbe nell’intersezione – che appartiene alla storia della fotografia di moda negli anni 70 e 80 – tra “corpo vestito” e “vestito corporeizzato”. È proprio in quegli anni, infatti, che inizia la conversazione fra immagini che s’insinuano nel solco tra la “bella” foto di moda e tranches de vie quotidiane nelle quali il vero soggetto non è più l’abito in quanto tale, bensì l’abito incarnato.  Non è un caso che sul finire del decennio più edonista della nazione nasce il fenomeno delle top model. È, almeno in parte, il riflesso di una situazione nella quale si avverte l’esigenza di sostituire alla consueta ricetta “vestito + modella” un corpo unico, reale, effettivo, identificabile in un volto, un nome, una personalità, una provenienza geografica.



Gemelli, uomo di grande cultura e di ricche letture, non si schiera né dall’una, né dall’altra parte, pur ritraendo, in scatti divenuti emblematici, signore come Carla Bruni o Monica Bellucci. Piega i due rami della questione realizzando corpi vestiti e abiti resi corpo all’interno di composizioni dalle proporzioni vitruviane: del resto, la sua formazione in architettura, lo porta a privilegiare la composizione formale, mantenuta – come in un leitmotiv – sempre con un occhio vigile, partecipe, mai distaccato. C’è un sentimento geometrizzato che deriva, da un lato, dai suoi studi; dall’altro si fa partecipe dell’interiorità del soggetto. «La fotografia non ruba l’anima», appunta sui suoi taccuini poiché è anche un pensatore finissimo. «Racconta invece l’anima messa a nudo di chi fotografo». E, ancora, in un altro appunto: «Cerco in te ciò che riconosco di me e tu trovi con me una parte nuova di te».



Nessun atteggiamento dominante da parte del fotografo demiurgo alla Blow Up, per intendersi, quanto l’esercizio dell’empatia, la ricerca della complicità con chi è ritratto da lui, senza prevaricazioni di nessun tipo. Anzi, “nome omen”, per Gemelli tutte le persone che si trova a fotografare sono in qualche modo dei suoi doppi. E spesso lo sono anche le cose: se il mondo degli oggetti non ci offre alcun conforto, allora li si distrugga, come nella celebre serie di still-life di cosmetici che vengono letteralmente fatti esplodere e ripresi al momento della deflagrazione, come le fragili composizioni di frammenti di statue classiche che vivono in precario equilibrio, come le sculture di ferro ritorto che somigliano ai mobiles di Calder. Perfino l’erotismo per cui Gemelli è così noto, non ha valenze sessuali, è un elemento che fa parte di uno spiritoso trompe l’oeil, con le due ragazze unite/divise da una zip dipinta sulla parte laterale delle loro nudità, nell’ambiguità intrisa di humour in cui una Bellucci/Jessica Rabbit accosta la guancia a una Bellucci/Rodolfo Valentino.


Perché questo è il punto che, secondo chi scrive, in pochi notano: le sue foto, che solo a un primo, fuggevole sguardo, possono sembrare levigate, glamorous, perfettamente riuscite dal punto di vista tecnico (anche per questo Gemelli è un maestro della fotografia internazionale), ma a una più attenta visione sono profondamente, assolutamente, indubbiamente politiche. E con questo non intendiamo etichettare Gemelli come appartenente a una precisa ideologia: il flacone di profumo che salta in aria, a richiamare alla mente la scena finale di Zabriskie Point, va nella direzione di un anti-consumismo marxiano: dato ancora più ironico se si pensa che quella foto è pubblicato su una delle riviste più leggendarie per la moda da vendere, Vogue Italia. E così, certe donne oggettivizzate – di lui felici complici – o costrette nei stereotipi di bellona che soggiace al seduttore, sono una presa di posizione nei confronti del femminile che pochissimi fotografi di moda hanno o hanno avuto. Perfino le nature morte hanno la foto di un occhio, di una bocca, un ciuffo di capelli accostati a squadre, forme da scarpe, righelli: l’organico convive con l’inorganico, il caduco si sposa al quasi-eterno. La grandezza di Gemelli risiede nell’usare le espressioni più “canoniche” della fotografia per introdurvi sempre un elemento che scava più nel profondo, sempre di più. Fino fare anche un po’ male, o perlomeno a continuare un lavorio che dall’occhio dello spettatore si trasferisce al suo cervello e poi al suo cuore. Sorge il dubbio se per Piero Gemelli valga il contrario della famosa massima di Dostoevskij «La bellezza salverà il mondo». Me il mondo, sembra chiederci lui, salverà questa bellezza strapazzata dal capitalismo, questi corpi usati come attaccapanni, quest’erotismo mercificato che illustra una mineralizzazione dell’umanità? Il Maestro usa codici strutturali antichi, rassicuranti, rinascimentali: «Ho sempre cercato un punto di equilibrio tra la libertà creativa e i limiti racchiusi nelle richieste dei clienti. In questa continua ricerca tra la progettualità dell’architetto e l’anarchia emotiva del creativo, ho sempre trovato il modo di raccontarmi; per fortuna, senza avere mai avuto la sensazione di esserci riuscito fino in fondo, altrimenti il gioco sarebbe già finito», dichiara in un’intervista. «Ritengo la bellezza l’equilibrio tra opposti ed imperfezioni. Cerco il dialogo tra istinto e progetto».


Tutto il suo corpus di opere si svolge sotto il segno della tensione tra essere e divenire, mostrare e dimostrare, consolare e fare riflettere. Usando i criteri della foto di moda “ben fatta”, Piero Gemelli porta avanti un linguaggio che è formale e malinconico, lieve e impegnato, perfettamente leggibile eppure continuamente enigmatico. Se imparassimo a leggerle, le immagini ci porterebbero in un tempestoso turbinio di sensazioni. Ma è come un mulinello sotto l’acqua di un lago: la loro superficie è perfetta, specchiata, impeccabile. E in quest’ennesimo ritrovamento del doppio che ritroviamo il suo fascino più autentico. E se anche volessimo per forza definirle “classiche”, queste foto, queste costruzioni visive, ricordiamo le parole di Salvatore Settis in Futuro del classico: «Quanto più sapremo guardare al “classico” non come a una morta eredità che ci appartiene senza nostro merito, ma come qualcosa di sorprendente da riconquistare ogni giorno, come un potente stimolo a intendere il “diverso”, tanto più sapremo formare le nuove generazioni per il futuro». 

Immagine di copertina: Giada, Milan, 1996