La danza introspettiva di Andrea Crescenzi
Sin da piccolo coltiva la sua grande passione per la danza: Andrea Crescenzi ha trasformato ogni palcoscenico in un viaggio introspettivo, che vede protagonista la sua visione artistica. Dopo gli studi di danza classica e contemporanea e lavori importanti con il Teatro alla Scala, Crescenzi arriva alla coreografia, aprendo con il progetto Luce il Salone del Mobile. Il suo è un percorso ricco d’ispirazione, rilevanti esperienze professionali, un esempio per le nuove generazioni.
Quando hai capito che la passione per la danza si poteva trasformare anche in una professione?
Ho iniziato danza all’età di tre anni, a Potenza; poi ho cominciato a frequentare la scuola di ballo nel 2006, quando avevo dieci anni. In realtà non c’è stato un momento preciso in cui ho capito che sarebbe stata la mia professione, ho sempre un po’ saputo di voler fare il ballerino. Mi sono trasferito presto a Milano con l’idea di fare questo nella vita, e con il tempo ho incanalato l’arte della danza anche in altre forme. Adesso principalmente vorrei fare coreografia.
«Sono una persona che ricerca sempre nuovi stimoli, per me George Balanchine è stato un grande innovatore»
A proposito dei tuoi primi momenti di formazione a Milano, puoi raccontarci di quel periodo e di come sei entrato nella compagnia del Teatro alla Scala?
Ho iniziato a lavorare con la compagnia nel 2014, dovevo ancora diplomarmi e la prima opera a cui ho preso parte è stata Romeo e Giulietta. In quel periodo ero molto preso dal diploma, una nuova esperienza con grandi professionisti. Ricordo Excelsior, a maggio 2015: quella è stata la prima volta in cui ho iniziato a lavorare come professionista con altri ballerini in scena. In generale, durante il mio primo anno all’interno della compagnia, ho cercato di capire come funzionasse il tutto, dopodiché adattarsi è diventato sempre più facile; ormai quell’ambiente era diventato casa mia. Il primo ricordo della mia vita milanese è quindi sicuramente Excelsior, sotto la direzione di Machar Vaziev.
E invece il tuo primo ruolo da solista?
Il mio primo ruolo da solista con la compagnia è stato nello Schiaccianoci di George Balanchine. L’ho sentito davvero mio e sono inoltre molto legato all’opera di Balanchine. Per me è stato un precursore della danza, che ha sviluppato una visione più complessa dello scenario classico, introducendo tantissimi elementi che erano considerati “non conformi” dal repertorio tradizionale. Sono una persona che ricerca sempre nuovi stimoli, quindi per me lui è stato un grande innovatore. Il periodo che mi ha impegnato nello Schiaccianoci è stato stupendo, mi sono sentito benissimo interpretando il mio ruolo in tutti i diversi momenti dell’opera.
«Dico sempre che tutto quello che faccio nella mia vita è un processo, è tutto un crescere, non c’è una fine o un inizio»
Sei partito dalla danza classica per poi sfociare in quella contemporanea e nella coreografia…
Dico sempre che tutto quello che faccio nella mia vita è un processo, è tutto un crescere, non c’è una fine o un inizio. Via via sto cambiando, sto evolvendo, sono una persona che ricerca tanti stimoli. Quello che sono oggi magari non lo sarò tra cinque anni, quello che mi piace ora non mi piacerà tra cinque anni o magari sì, però è sempre una sorta di crescita.
Ho iniziato da bambino facendo danza classica, ma in maniera innata la danza contemporanea è sempre stata un po’ dentro di me. Fin da giovanissimo ho sentito il bisogno di muovermi in maniera libera. Al tempo stesso, però, ho sempre mostrato un approccio e un’autentica vocazione all’improvvisazione: mi piace tantissimo improvvisare, lo faccio anche in sala quando sono solo. Chiaramente, con il passare del tempo e dopo aver maturato un po’ di esperienza, questa mia passione si è evoluta ed è sfociate anche nel creare qualcosa per gli altri e nel progettare coreografie.
Parlando di coreografia, quali sono i progetti che hanno segnato il tuo percorso?
Come coreografo parto sempre da un’idea concettuale; non mi definisco un coreografo narrativo, ma mi baso molto sulle sensazioni e sul “feeling”. Sono una persona sensibile e cerco di rimettere nel mio lavoro quello che provo, sia verso ciò che mi circonda sia verso me stesso.
Se penso a Luce, per l’apertura del Salone del Mobile, la tematica ruotava intorno alla luce che lasciamo dietro di noi nel tempo. Un’idea, questa, che si collega anche alla parte di Via Lattea intitolata Anima e Cuore, in cui, all’interno di una nebulosa, tre punti formano una fonte luminosa che continua a proiettare luce pur non esistendo più. Questi sono alcuni esempi di quei processi introspettivi che io cerco di trasmettere con la danza.
Passo a due con Domenico Di Cristo
Nato a Villafranca di Verona, il ballerino Domenico Di Cristo ha un unico grande sogno: far sì che la sua prima passione, la danza, possa diventare una professione a tutti gli effetti. Diplomatosi nel 2015 presso la prestigiosa Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala, Domenico inizia a lavorare con il Czech National Ballet, sotto la direzione di Petr Zuska a cui segue Filip Barankiewicz. Ci rimane fino al 2017 per poi tornare in Italia, a Milano, la città che ha visto il suo talento nascere e consolidarsi.
Ad oggi parte del corpo di ballo del più celebre teatro meneghino, Domenico Di Cristo ha preso parte a Sylvia di Manuel Legris, interpretando il ruolo di un Pastorello, ed è stato protagonista del passo a due in Giselle. Tra le sue esperienze più recenti, la consegna del premio Nazionale Sfera d’Oro per la Danza 2023 e la partecipazione a un lavoro firmato Andrea Crescenzi durante l’ultimo Gala Fracci alla Scala. Qui, insieme a Linda Giubelli e Navrin Turnbull, il ballerino è stato solista in Luce, su musica di Philipe Glass.
Questo e molto altro ci viene raccontato dallo stesso Domenico Di Cristo che con il teatro sente una profonda connessione, un legame da perfetto passo a due.
Quando hai capito che la danza sarebbe diventata una professione, oltre che una passione?
L’ho capito probabilmente nell’ultimo anno di Accademia Teatro alla Scala, che è stato un momento molto delicato. In quel periodo ero concentrato nel finire gli studi e contestualmente a cercare lavoro. Mi trovavo lì, a un passo dall’entrare nel mondo professionale. Nell’ultima parte dell’anno ho iniziato ad andare alla ricerca di contratti di lavoro, a capire se ci fossero dei direttori interessati a iniziare un percorso con me. Quello è stato uno dei primi momenti in cui mi sono approcciato ad altri ballerini, pronto a mettermi in gioco dopo tanti anni di studi. E proprio lì ho capito l’importanza della strada che avevo intrapreso sin da piccolo e la necessità di vivere la danza non solo come una passione, ma anche lavorativamente.
Ti sei formato presso il Teatro alla Scala, dove poi, a seguito di una serie di esperienze oltreconfine, sei tornato come parte del corpo di ballo. Cosa hai imparato nel tuo periodo all’estero?
Lasciare l’Italia a 18 anni è stato un po’ come lasciare casa, Verona, a 10, quando mi sono trasferito a Milano per iniziare la scuola di ballo dell’Accademia del Teatro alla Scala. L’estero ha sicuramente tanto da offrire, sia a livello di arte, sia a livello umano. Credo di essere cresciuto tanto, ho imparato a farcela da solo, mettendomi a confronto con culture e tradizioni diverse.
In seguito ho lasciato l’estero con il desiderio di tornare in Italia e stare un po’ più vicino alla mia famiglia. Inizialmente pensavo di far ritorno verso fine carriera, poi le cose sono andate in un modo diverso. Inoltre avevo voglia di rendere orgoglioso anche il pubblico italiano, il mio pubblico. Ho quindi ricominciato a ballare in Italia e sono contento che questo mio sogno si sia avverato.
«Probabilmente i momenti che ricordo con maggior piacere e gratitudine sono due: aver ballato le coreografie di George Balanchine all’inizio della mia carriera come solista e aver avuto l’occasione di lavorare direttamente con William Forsythe»
Quali maestri, sia classici sia contemporanei, del Teatro alla Scala pensi ti abbiano maggiormente influenzato nel tuo percorso come ballerino?
Sicuramente Hans van Manen, Natalia Horecna, Patrick de Bana, Philippe Kratz e McGregor. Ma ci sono sicuramente tanti momenti, tanti balletti che mi hanno formato, e mi stanno ancora formando, contribuendo a rendermi il ballerino che sono. Probabilmente i momenti che ricordo con maggior piacere e gratitudine sono due: aver ballato le coreografie di George Balanchine all’inizio della mia carriera come solista e aver avuto l’occasione di lavorare direttamente con William Forsythe. Mi sono divertito moltissimo e ho imparato a conoscere me stesso e quanto un ballerino possa spaziare divertendosi con il proprio corpo.
Tra i tuoi ultimi progetti c’è quello con Andrea Crescenzi per il Museo Bagatti Valsecchi…
Quella organizzata al Museo Bagatti Valsecchi è stata una serata speciale con l’unione di più arti a supporto di una causa importante. Trattare un tema come l’Ucraina non è sicuramente facile, ma è stato giusto farlo. È stato meraviglioso ricevere delle composizioni musicali create apposta per l’evento; proprio da lì Andrea ha realizzato il passo a due in cui noi ballerini ci siamo esibiti.
Tra sogni nel cassetto e prossime sfide, dove ti vedremo prossimamente?
Parlando di sogni, il mio desiderio più grande è quello di poter ballare all’arena di Verona. E un ruolo che mi piacerebbe interpretare, e che guardo con ammirazione, è Romeo in Romeo e Giulietta. Mi sarebbe piaciuto moltissimo lavorare con Rudolf Nureyev; è venuto a mancare parecchi anni fa, quindi purtroppo non ho avuto questa possibilità. Tuttavia mi sono affiancato a vari insegnanti che hanno il diritto di portare in giro per il mondo le sue coreografie, ne ho ballate e interpretate diverse.