Uno stile riconoscibile, costruito attraverso pattern e colori che definiscono le sue stampe. Pierre-Louis Mascia parte da una formazione come illustratore e fonda il suo marchio nel 2007, grazie al fortunato incontro con i fratelli Uliassi, proprietari della stamperia serica Achille Pinto di Como, con cui inizia a sviluppare una piccola collezione di sciarpe. Grazie a una crescita graduale ma costante, oggi è diventato un vero lifestyle brand che vede al centro le collezioni di abbigliamento uomo e donna e gli accessori, come pure le proposte per la casa. Tante declinazioni di uno stile che è rimasto sempre fedele al suo DNA, grazie a un animo e approccio decisamente artistico. Da anni il designer francese è presente a Pitti Uomo con le sue presentazioni, che dimostrano la sua passione e naturale attenzione verso il mondo dell’interior. Per questa straordinaria storia di creatività che lo lega all’Italia, Pierre-Louis Mascia è stato scelto come Special Project di Pitti Uomo 103, protagonista di un evento speciale ambientato nelle sale di palazzo Antinori, aperto per l’occasione. Un progetto che coniuga natura, cultura, arte e moda e trova espressione nei tessuti realizzati da Achille Pinto, che proprio nel 2023 celebrerà i quindici anni di partnership con la griffe.
Pierre-Louis Mascia – Casa Cabana (ph. @SGP)
“Mi sento più vicino alle belle arti che al fashion design”
Parlaci dell’incontro con Achille Pinto, imprenditore della seta con cui è nata quest’avventura.
Ero art director della fiera parigina Première Classe, all’epoca ben pochi brand lavoravano su scampoli e stampe. Essendo un illustratore di moda, pensavo di cambiare supporto, passando dal rettangolo di carta a quello di un foulard in seta. Ho provato dunque a contattare delle aziende francesi, che però non hanno mostrato alcun interesse rispetto allo sviluppo di nuove label. Poi ho incontrato Matteo Uliassi di Achille Pinto e abbiamo cominciato a lavorare insieme, in maniera naturale. Siamo partiti disegnando una piccola collezione di sciarpe e, quindici anni dopo, siamo una maison di livello globale.
Dai foulard all’abbigliamento fino all’interior, quali sono i momenti salienti, le tappe memorabili del tuo percorso creativo?
Si è sviluppato tutto in modo progressivo, costante. Nel 2016 ho avuto un incidente che ha cambiato la mia visione del mondo e, logicamente, la mia concezione della creatività. Nel 2018, abbiamo avuto l’opportunità di presentare la collezione Pierre-Louis Mascia Primavera/Estate 2019 con una sfilata a Shanghai; dopo questo, il team ha capito che il marchio avrebbe potuto funzionare.
Pierre-Louis Mascia Fall/Winter 2023-24
Ti definisci più artista che stilista. Quali sono i tuoi riferimenti nel mondo dell’arte o, semplicemente, quali artisti segui, al di là delle ispirazioni per il brand che porta il tuo nome?
Mariano Fortuny, Serge Lutens, Romeo Gigli, Rei Kawakubo di Comme des Garçons, Yohji Yamamoto e gli stilisti giapponesi, in generale, mi ispirano tanto. Tuttavia, mi sento più vicino alle belle arti che al fashion design.
Quali sono le stampe e i colori diventati must have delle tue collezioni?
Non ci sono motivi o colori in particolare, mi piacciono tutti!
“Da Pierre-Louis Mascia cerchiamo di definire un interior in cui le persone si sentano a proprio agio”
Come è nata la passione per l’home décor? Il concept del tuo primo negozio a Milano?
Ho cercato di mettere a punto il concept pensandolo nella sua interezza. Quando creo una collezione, la immagino in uno spazio speciale, con un odore peculiare, una musica o dei suoni particolari. Progettando lo store di Milano, abbiamo cercato di seguire lo stesso ragionamento. Adoro gli atelier degli artisti, per questo apprezzo il lavoro di François Halard, che fotografa case e studi di molti di loro. Ad ogni modo, da Pierre-Louis Mascia cerchiamo di definire un interior in cui le persone si sentano a proprio agio. L’estetica della boutique, poi, s’ispira al mio atelier di Tolosa.
Pierre-Louis Mascia nel suo atelier
Hai sviluppato negli anni numerose collaborazioni con altri marchi, quali sono state le più significative, cosa ti hanno lasciato a livello personale?
La collaborazione col Palais Galliera, un lavoro decisamente interessante per me. Dall’incontro con Pascale Gorguet Ballesteros, curatrice del dipartimento “XVIII secolo” del museo, alla realizzazione dei singoli pezzi, è stato un progetto davvero gratificante, in termini di crescita sia professionale che personale.
Cosa vedremo a Pitti Uomo? Puoi dirci in anteprima su cosa verterà il progetto?
Presenteremo un evento chiamato Philocalie, ossia “amore per la bellezza”, collegato alle collezione Autunno/Inverno 2023/24, per il quale verrà creata un’installazione concettuale nel fiorentino palazzo Antinori. Si tratta di un progetto pensato per stupire gli ospiti, coinvolgendoli nella ricerca di una bellezza naturale, scevra da ogni tipo di artificio, da scoprire e vivere appieno.
Nell’immagine in apertura, Pierre-Louis Mascia – Casa Cabana (ph. @SGP)
È arrivato alla decima edizione il popolare format Bake Off Italia, condotto da Benedetta Parodi, che vede come giudici Ernst Knam e Damiano Carrara, insieme alla new entry Tommaso Foglia. Tra i concorrenti di quest’anno abbiamo incontrato Riccardo Erbini, 32enne di Villanova del Sillaro (Lodi), che nella vita si divide tra l’essere un preparatore chimico farmaceutico e un istruttore di body building e fitness. In realtà Riccardo coltiva diverse passioni, tra cui il sogno di aprire una sua pasticceria con la mamma, che lo ha sostenuto nei momenti difficili. Una storia, la sua, che ci ha colpito per l’autenticità, oltre a rappresentare un bell’esempio per le nuove generazioni.
Riccardo Erbini
Com’è nata la tua passione per lo sport?
La mia passione per lo sport è nata tardi, quando avevo 22 anni; ero un ragazzo obeso che si continuava a lamentare con gli amici del proprio aspetto fisico, senza però fare nulla. Così proprio i miei amici, stanchi delle mie lamentele, mi hanno iscritto e portato di peso a una lezione di crossfit. Me ne sono innamorato da subito, da quel momento non sono più riuscito a smettere di allenarmi. È nata una tale passione che ho deciso di studiare il mondo del fitness e prendere degli attestati per poter lavorare in palestra, con l’idea di aiutare altri ragazzi come me, infelici del proprio aspetto fisico.
Cosa ti ha insegnato il crossfit?
Il crossfit è stato il primo sport che ho sperimentato, devo ringraziare per questo un caro amico. Anche grazie a lui e alla passione che mette nel suo lavoro, è riuscito a farmi innamorare di questa disciplina. Mi ha insegnato a credere di più in me stesso, a darmi quell’autostima che non avevo e quel pizzico di competizione che, secondo me, nella vita serve sempre.
“Bake Off è un’esperienza unica. Ho avuto l’occasione di imparare tantissimo, riscoprendo un nuovo modo di fare pasticceria e, soprattutto, capendo quanta strada ho ancora da fare”
Tra le altre tue passioni c’è quella della moto…
La passione per la moto è nata intorno ai 14/15 anni, quando di nascosto rubavo le chiavi del motorino di mia sorella per fare dei giri per il paese. Poi quando ho avuto l’età giusta per guidare, mamma mi ha preso una moto naked dell’Aprilia, tutta nera. Era bellissima, il mio gioiellino. All’età di 21 anni ho preso la patente per le moto, anche se ero consapevole di non avere le possibilità economiche, visto che dovevo aiutare mia mamma con le spese di casa. La prima vera moto l’ho comprata circa 4 anni fa, una Kawasaki Z650, una naked come quella di quando ero piccolo; un modello molto tranquillo per chi è alle prime armi, ma che ti regala belle soddisfazione ed emozioni. Tra i viaggi su due ruote è stato memorabile quello sul lago d’Iseo. Siamo partiti da Lodi e abbiamo fatto Il giro del lago in giornata. Devastante, ma allo stesso tempo emozionante.
Riccardo Erbini in una puntata del programma
I viaggi che ti hanno maggiormente ispirato ed emozionato.
Ho iniziato a viaggiare quando ho conosciuto il mio attuale compagno, da quel momento non abbiamo più smesso. Insieme cerchiamo sempre nuove città da visitare. Tra i viaggi più emozionanti cito quelli in due grandi capitali europee: Barcellona e Parigi. Della prima mi sono innamorato appena atterrato perché mi ha fatto sentire subito a casa. E poi la capitale francese, città che ho visitato in occasione del nostro anniversario, mi ha affascinato per la sua bellezza, la sua storia, i suoi musei e per la magnifica pasticceria.
Le città che vorresti visitare prossimamente e che consigli di non perdere?
Nel futuro spero di visitare New York e Singapore. Un weekend a Barcellona vale sempre la pena.
“Mi piacerebbe aprire una pasticceria, così da trasmettere tutta la mia passione attraverso i dolci. E poi vorrei tenere dei corsi di formazione agli aspiranti pasticceri in giro per il mondo”
Com’è nata la passione per la pasticceria?
La passione per la pasticceria mi è stato tramandata da mamma, cuoca e pasticcera amatoriale da quando era ragazza. Mi ha insegnato alcune basi della pasticceria e molti dei dolci tradizionali pugliesi, tipo le cartellate al miele e i taralli dolci al vino.
Come sei finito a Bake Off Italia?
Sono sempre stato un appassionato di quella trasmissione; il mio compagno e i miei amici continuavano a ripetermi “che buono questo dolce, perché non provi a partecipare a Bake Off?”. Quindi ho voluto ascoltare il loro consiglio, provando a mettermi in gioco per far assaggiare le miei torte a dei professionisti.
Cosa ti ha lasciato quest’esperienza?
Bake Off è un’esperienza unica che non dimenticherò mai! Qualsiasi pasticcere amatoriale dovrebbe provare a farla. Ho avuto l’occasione di imparare tantissimo grazie ai giudici, riscoprendo un nuovo modo di fare pasticceria e, soprattutto, capendo quanta strada ho ancora da fare.
Hai tante passioni, come vedi il tuo futuro?
Al momento sento ancora tanti i dubbi e le incertezze. Spero di riuscire a fare chiarezza il prima possibile, per poter seguire a pieno i miei sogni, che al momento vedo difficili da realizzare. Prima di tutto mi piacerebbe aprire una pasticceria, così da trasmettere tutta la mia passione attraverso i dolci. E poi vorrei tenere dei corsi di formazione agli aspiranti pasticceri in giro per il mondo.
Nell’immagine in apertura, Riccardo Erbini durante una puntata di Bake Off Italia
Abbiamo incontrato Andrea Amadei, esperto capace di raccontare il mondo del vino tramite i media più diversi, dalla tv ai social.
Come hai coltivato e fatto crescere la passione per il vino?
È nata da bambino, all’inizio era rivolta al cibo, mi affascinava per la sua potenzialità di rappresentare un potente veicolo d’amore, o per come mangiare i piatti tipici di un luogo fosse un’esperienza imperdibile per comprenderne la cultura di posti mai visti. Con l’età ho cominciato a legare questi concetti anche al vino, mi piaceva capire perché un’etichetta si producesse in un dato territorio e fosse impossibile replicarla altrove. Una spinta me l’ha data la facoltà di scienze gastronomiche dell’università di Parma, il resto l’hanno fatto la lettura di Vino al vino di Soldati e la conoscenza dei docenti della Fondazione Italiana Sommelier, con cui a Decanter, su Rai Radio 2, abbiamo realizzati i podcast di Sommelier ma non troppo, il corso per imparare l’argomento senza troppi giri di bicchiere. Ho iniziato ad assaggiare un vino ogni volta diverso, chiedendomi in continuazione cosa lo differenziasse da tutti gli altri. È stato fondamentale per riuscire a parlare in radio, ogni giorno, di una specifica etichetta. Per sviluppare e sistematizzare le mie conoscenze, infine, ho frequentato il corso della Fondazione Italiana Sommelier.
“L’enologia si presta bene al paragone, dovremmo insistere su questo”
Come sta cambiando la comunicazione in materia nell’era dei social?
Siamo in una fase di sperimentazione, abbiamo capito che la comunicazione è stata finora troppo elitaria e impostata, a tratti incomprensibile, respingente. Il vino è cultura, certo, ma anche natura, emozione, convivialità, quotidianità, e come tale dovrebbe arrivare alla gente. C’è un potenziale pubblico che ancora beve rinunciando a comprendere cos’abbia nel bicchiere, non perché non gli interessi, piuttosto non ne viene coinvolto né affascinato.
Sui social network si trova di tutto, c’è chi fa copia e incolla dai vari siti e chi invece prova a semplificare il più possibile i concetti, per svecchiare la comunicazione e renderla breve, divertente. Sono queste le figure che riscontrano il maggior seguito, ma sono ancora poche, spesso hanno poca autorevolezza. Anche la fusione con altri campi emozionali sta premiando, l’accostamento di vino e arte funziona, bisogna però stare attenti a non diventare troppo cerebrali. Secondo me avrà successo chi, con un’adeguata preparazione alle spalle, riuscirà a descrivere i vini in maniera affabile e sintetica, avvicinandoli ad ambiti eterogenei. L’enologia si presta bene al paragone, dovremmo insistere su questo.
“Ogni vino ha una storia diversa, non si può ricorrere a uno schema preimpostato per tutti”
Lavori in questo settore usando media diversi, come riesci a raccontare il vino in tv e in radio?
Uno dei primi incontri che ho fatto, appena ho cominciato a lavorare a Decanter, è stato con un famoso critico enologico che, con fare supponente, mi aveva detto che era inutile raccontare il vino alla radio perché l’ascoltatore, non potendo assaggiarlo, non era in grado di provare sul palato ciò di cui si parlava. All’inizio ci sono rimasto male, poi ho imparato a non dare importanza a quelle parole, figlie di una comunicazione ingessata ed escludente, la stessa che elenca una serie infinita di sentori e profumi e, nove volte su dieci, fa sentire l’interlocutore un analfabeta sensoriale, quando le sensazioni olfattive sono legate all’allenamento e alla personale memoria gustativa di ciascuno. Ogni vino ha una storia diversa, con tratti più o meno interessanti, non si può ricorrere a uno schema preimpostato per tutti. Alcune etichette vanno raccontare attraverso aneddoti storici, per altre sono più importanti il clima o il terreno o la vicinanza di un lago, altre ancora preferisco raccontarle seguendo la storia dei produttori; di tutte cerco di capire cosa le renda uniche, cercando di trasmettere quel preciso contenuto. Solo il punto di partenza è uguale per tutte, l’abbinamento col cibo. Tutti noi sappiamo che sapore ha una bistecca alla fiorentina, quasi nessuno però, tra i non addetti ai lavori, conosce il gusto del Brunello di Montalcino. Dunque parto da ciò che è presente nella memoria sensoriale di ognuno e poi inizio ad occuparmi di quale caratteristica del vino in questione si “incastra” perfettamente con quella del cibo. È anche un modo per fornire un’occasione di consumo, un consiglio utile.
Andrea Amadei
“Mai avere preconcetti, col vino”
Il luogo comune più diffuso sul vino e un aneddoto curioso in tal senso.
Il pesce vuole il vino bianco, la carne il rosso: non è così. Ci sono piatti di pesce cucinati col pomodoro che pretendono il rosso, certo, non un Barolo o Super Tuscan, ma in Italia abbiamo tutta una serie di vitigni che ne producono di leggeri, freschi e poco astringenti; si sposano bene con zuppe di pesce, polpi alla Luciana o triglie alla livornese, penso ad esempio al Rossese di Dolceacqua, al Piedirosso della Campania, alla Schiava altoatesina, all’Ottavianello di Ostuni e così via.
Anche la carne a volte riserva sorprese, una volta, in una storica enoteca romana dov’ero a pranzo, avevano preparato la frittata all’amatriciana con pecorino, pomodoro e guanciale. Ho pensato di andare sul sicuro ordinando un Pinot Nero, che però spariva completamente di fronte al forte sapore della portata, allora ne ho approfittato per colmare una lacuna, provando a combattere un pregiudizio. Ho ordinato un Asolo Prosecco Docg Extra Dry che, come indicano gli ultimi due termini della denominazione, ha un residuo zuccherino leggermente più alto del normale, senza però risultare dolce al palato; una caratteristica che conferisce rotondità e “potenza” al vino, e si è rivelata la chiave di riuscita per l’abbinamento. In quell’istante ho rivalutato una categoria enologica che fino ad allora avevo guardato con diffidenza ed evitato di approfondire. Mai avere preconcetti, col vino.
“Lo scopo del corretto abbinamento è quello di pulire perfettamente la bocca dopo il sorso”
Il tuo consiglio su come abbinare cibo e vino?
Un ottimo punto di partenza è l’abbinamento cromatico, carni scure e portate a base di pomodoro vogliono vini rossi, carni chiare e piatti a base di carboidrati dei bianchi; sembrerà semplicistico, ma funziona quasi sempre. Poi si può ragionare sull’abbinamento territoriale: nel caso di una pietanza tipica, probabilmente nello stesso luogo da cui proviene la ricetta si produce anche un vino che potrà abbinarvisi bene. Esempi noti sono le trofie al pesto col Pigato, gli arrosticini col Montepulciano d’Abruzzo, il maialetto sardo con il Vermentino isolano, o – meno scontati – le olive col Marsala e il gorgonzola col Moscato di Scanzo, colpi di fulmine imprevedibili che vi lasceranno di stucco. Sta comunque tutto nella curiosità, nel semplice “provare”, ricordando che lo scopo del corretto abbinamento è quello di pulire perfettamente la bocca dopo il sorso, rinnovando ogni boccone come fosse il primo. In sostanza, vino e cibo devono quasi “annullarsi” a vicenda, il sapore di uno non deve mai prevalere sull’altro. Altra regola aurea: la portata non deve mai essere più dolce del vino, quindi scordatevi il panettone con lo spumante secco, se avete voglia di una bollicina fresca stappate un passito o un buon Moscato d’Asti.
Ph. dal profilo IG di Andrea Amadei, @andreaamadei80sete
“Vino e cibo devono quasi ‘annullarsi’ a vicenda, il sapore di uno non deve mai prevalere sull’altro”
Un territorio a cui sei particolarmente legato e da conoscere?
È davvero difficile scegliere. Potremmo parlare della Valtellina o della Costiera Amalfitana, o magari di Carema o Lipari, ma credo che alla fine ti racconterò di quella zona d’Italia dove il Friuli bacia la Slovenia. Fra le provincie di Udine e Gorizia, in pochi chilometri quadrati, si concentra una miriade di tipologie di vini, vitigni autoctoni e vignaioli veraci. Si passa dai bianchi muscolosi e profumati ai vini macerati, ai rossi beverini e a quelli più strutturati che escono a dieci anni dalla vendemmia, fino ad alcuni dei passiti più prestigiosi al mondo.
Così si possono trovare Pinot Grigio ramati, Schioppettino, Pignolo e Picolit, tanto per citarne alcuni. Il Picolit è l’orgoglio del posto, deve il suo prestigio a un difetto genetico che lo porta a perdere più della metà dei suoi fiori a fine primavera; solo i boccioli rimasti sulla pianta si trasformeranno in acini, pochi dunque, che però sanno concentrare tutti gli zuccheri e i profumi, dando vita a un vino dolce estremamente ricco e leggiadro. La presenza contemporanea di vento costante, vicinanza al mare e abbondanza di minerali nel terreno porta le viti a crescere verdi e rigogliose, con grappoli pronti ad essere spremuti per creare vini longevi e di gran classe. Il tutto a un prezzo spesso molto abbordabile.
“Il vino è la sintesi di una storia, di un luogo e di un tempo in grado di elevare gli spiriti, proiettando l’animo altrove”
Raccontaci del tuo prossimo progetto che vede dialogare arte e vino.
Dal 30 novembre al Museo Bagatti Valsecchi di Milano si terrà à un ciclo d’incontri per approfondire i maggiori punti di contatto tra i due mondi. Ogni sera condurremo gli ospiti in un percorso multisensoriale che sposerà vino e pittura, con l’esposizione di 50 dipinti della collezione privata Gastaldi Rotelli, molti dei quali ritraggono scene conviviali. Il curatore della mostra, Antonio D’Amico, ne racconterà la storia, io proporrò tre vini in degustazione, indagando le più disparate collaborazioni instaurate dalle cantine odierne col settore delle arti figurative.
Abbiamo stretto accordi di partnership con tre importanti realtà nostrane, Rocca di Frassinello (che ci consentirà di parlare di Renzo Piano e David LaChapelle), Donnafugata (che ci mostrerà la nuova collaborazione con Dolce&Gabbana) e Altemasi. Dopotutto il vino, per noi italiani, è la sintesi di una storia, di un luogo e di un tempo in grado di elevare gli spiriti, proiettando l’animo altrove; se non è un’opera d’arte questa…
Ph. dal profilo IG di Andrea Amadei, @andreaamadei80sete
Nell’immagine in apertura, un ritratto di Andrea Amadei
Le regole auree del design (fissate da massime come la celebre “la forma segue la funzione” sullivaniana, o la triade spazio-luce-ordine di Le Corbusier) di rado – per non dire mai – contemplano un quid scherzoso, che smussi un po’ la seriosità in cui incappano regolarmente marchi storici e autori di grido. La proverbiale eccezione alla regola ha un nome e un cognome: Marcantonio Raimondi Malerba, conosciuto più semplicemente come Marcantonio.Nato a Massa Lombarda nel 1976, creativo eterodosso, il suo approccio alla materia si risolve in un coacervo fantasioso che miscela senza soluzione di continuità surrealismo, dadaismo, arte classica, la diade uomo-natura e una (immancabile) verve spiritosa.
Un ritratto di Marcantonio Raimondi Malerba
L’affinità elettiva con un altro outsider dalla visione “pop”, Seletti (per cui firmerà collezioni best-seller, dalle Monkey Lamp alle porcellane Kintsugi), lo introduce al fior fiore della progettazione, nomi del calibro di Mogg, Qeeboo, altreforme®, Slamp, Scarlet Splendour, Natuzzi. Tra i suoi fan insospettabili, Giorgio Armani, che pure è il sommo sacerdote del verbo riduzionista: Uri, riproduzione a grandezza naturale di un gorilla in resina, troneggia nella casa milanese dello stilista, l’anno scorso è comparso addirittura sulla passerella autunno/inverno 2021-22 della linea ammiraglia.
In occasione del party di lancio della fashion issue Youth Babilonia, Manintown ha avuto l’opportunità di rivolgere qualche domanda a uno dei protagonisti più istrionici del design italico, presente all’evento a Palazzo San Niccolò con alcune novità della serie a quattro mani con Slide, tra poltrone dalla silhouette curvata, che riproducono la sagoma del coccodrillo (Kroko), e totem di matrice tribal (Threebù).
Marcantonio con la poltrona lounge Kroko di Slide
Sei nato in provincia di Ravenna e hai studiato lì, venendo a contatto con l’arte locale, le cromie dei mosaici… Quali influenze artistiche ti hanno formato?
Sicuramente l’arte antica, intesa come classica. Faccio affidamento su referenze antiche nelle tonalità, nei volumi… Studiando mosaico, ho potuto trattare smalti dai colori pieni, brillanti, e i marmi, che mi hanno avvicinato alla pietra. Ho capito così che, per ottenere risultati, è fondamentale mettere insieme numerose discipline. Per una scultura, ad esempio, c’è bisogno di competenze di disegno, analisi delle proporzioni, della conoscenza di materiali come ferro, creta, gomme siliconiche.
Al design sei arrivato per vie traverse…
Sono sempre stato incuriosito dall’arte, che raffina l’uomo, lo pone dinanzi a interrogativi che lo spingono a sfruttare tutte le risorse a disposizione per provare a capire ciò che ha di fronte, l’eleganza intrinseca dell’opera; l’arte ci mostra quanto un’idea possa essere elegante. Al tempo stesso, adoro gli oggetti quotidiani che si trovano nei mercatini, ci educano in quanto trasmettono un certo modo di fare le cose. Confesso che girare per i marché aux puces, per me, èquasi come visitare un museo. Seguendo queste passioni, ho creato una commistione personale tra arte e design che mi ha consentito di ritagliarmi una fetta di mercato, portando nel secondo la prima, pezzi scultorei nello specifico, quindi illustrativi, narrativi, anche, poiché nel momento in cui degli animali vengono inseriti nell’ambito della funzionalità, con ogni probabilità avranno una storia da raccontare.
Ti aspettavi il successo ottenuto dai complementi d’arredo per Seletti, come la linea Love in Bloom o le lampade Monkey, divenute dei tormentoni?
È stata una fantastica sorpresa, ne sono davvero felice; ha dell’incredibile quel che è successo, a me quelle creazioni piacevano, ma non mi aspettavo certo che si guadagnassero un tale seguito. Tuttavia quando si ragiona su concetti lontani dalle tendenze, se si ha la fortuna di azzeccare quello giusto, sarà immune allo scorrere del tempo, non avrà insomma una data di scadenza, potrebbe funzionare ora come tra dieci anni.
Ti sei avventurato anche in aree naturalistiche, penso alle installazioni site-specific del Parco nazionale d’Abruzzo, nel 2018. Secondo te viene percepita correttamente la necessità della relazione con la natura? Quant’è importante ritrovarla?
La ritengo indispensabile, personalmente parto da un presupposto basilare: nel momento stesso in cui ci distacchiamo da essa, ci alieniamo. L’uomo è la massima espressione della natura, avrebbe tutte le sensibilità e doti per goderne appieno, entrando in totale armonia col mondo che lo circonda. Se riuscissimo a far ciò, ne guadagnerebbe anche il trattamento che riserviamo ai nostri simili e agli animali, vivremmo in una società migliore. Poi non si può non rispettare la natura perché, banalmente, non perdona, ne siamo testimoni; eppure si continua a contaminare l’ambiente, distruggere, procedere spediti come se nulla fosse.
Le aziende sono realmente coinvolte nell’impegno verso l’ecoresponsabilità, a tuo parere?
Indubbiamente possono fare la differenza, anzitutto sul piano culturale: se si immettono sul mercato oggi prodotti di un certo tipo, si creerà una cultura sul tema domani. Per dire, se tutti gli oggetti in plastica venissero assemblati in bioplastica, avremmo risolto un problema enorme. È necessaria inoltre una sensibilizzazione sull’argomento, cerco sempre di evocare la natura, magari non con materiali eco al 100%; è un discorso complicato, ricorda un po’ la disputa sulla pelliccia sostenibile, quale lo è davvero, quella vera o l’alternativa sintetica? La questione della plastica, comunque, non riguarda tanto il pezzo di design in sé, che dura teoricamente una vita e finisce poi nei circuiti dell’antiquariato, quanto le collezioni usa e getta, il packaging… Da consumatori e produttori abbiamo enormi responsabilità, questo è sicuro.
Com’è nata la collaborazione con Slide?
Lavorando con Persico, industria bergamasca di stampi che rifornisce tutta una serie di aziende, tra cui Slide. Mi hanno presentato Marco (Colonna Romano, amministratore delegato, ndr), abbiamo chiacchierato ed è venuto fuori un comune entusiasmo per l’Africa, per l’arte tribale, così ho deciso di sottoporgli delle idee. Sono molto soddisfatto del risultato, i pezzi della collezione sono piaciuti, Kroko secondo me ha tutte le potenzialità per trasformarsi in un’icona.
Marcantonio con un totem Threebù, parte della collezione disegnata per Slide
Altre partnership in vista di cui puoi anticipare qualcosa?
Sto stringendo un proficuo sodalizio professionale con Natuzzi, per il recente Fuorisalone mi ha commissionato l’installazione per lo showroom di via Durini, con i germogli giganti. Con Seletti lavoro costantemente ormai da tempo, ci sono poi le collaborazioni con Qeeboo, Mogg… Ho intenzione di portarle avanti tutte, ciascun marchio è un universo a sé.
Co-lab con la moda, invece?
È stata appena presentata la capsule Imperfectum con Pianegonda, una collezione completa tra anelli maschili e femminili, chevalier, orecchini, bracciali… S’ispira alla tecnica giapponese del Kintsugi, con sezioni e finiture saldate utilizzando l’oro, devo dire che è stato interessante. Nonostante vesta sempre basic, la moda mi affascina. Sono settori che si somigliano, trovo giusto ci siano connessioni frequenti.
Credi che la comunicazione del design, coi social, sia cambiata in profondità?
Basti considerare Instagram, che permette agli studenti che magari debbono ancora finire l’accademia di cominciare a lavorare con produttori e gallerie. È diventato tutto più organico, fluido, nel mare magnum dei social si può incappare in qualunque cosa, ognuno può avere pari opportunità. Il design, per giunta, sta abbracciando sempre di più l’emozionalità, con un numero crescente di persone, non addette ai lavori, che lo seguono perché ne restano colpite.
Il designer in posa con alcuni pezzi della linea Threebù
Quale messaggio del tuo lavorio vorresti fosse percepito distintamente dal pubblico?
Mi piacerebbe strappare un sorriso a chi, nel momento in cui osserva un mio oggetto, si trova a rifletterci su, l’ironia è un valore aggiunto; non nascondo, però, che mi appassionano parecchio le sfide tecniche, per cui mi sono dedicato a progetti più complessi e scultorei che non la contemplano, non potrò cercarla sempre, mi evolvo, come tutti.
Luoghi che ritieni particolarmente ispiranti, dove ti rechi per ricaricare la tua creatività?
Quelli dove c’è meno, di tutto, Sardegna, Puglia, Indonesia, Sud-Est asiatico… Ovunque ci siano acqua, rami, legno, non ho bisogno d’altro, svuoto la mente e le intuizioni arrivano da sole. Milano dà una carica pazzesca, mi accoglie ogni volta a braccia aperte, ma è piena di input già rielaborati, non riesco a reperire informazioni originali perché, in qualche modo, sono già “semilavorate”. In certi posti sperduti nei quali il tempo s’è fermato, al contrario, si può rintracciare la storia nelle cose, anche in un semplice sasso.
Dopo la partecipazione a Sanremo, Tananai, nome d’arte di Alberto Cotta Ramusino, ha conquistato il pubblico diventando uno degli artisti più di tendenza e seguito dai giovani. Dopo il Festival, il suo singolo Sesso occasionale è stato certificato disco di platino.
Total look Alexander McQueen
Nato nel 1995 a Milano, Alberto è stato sempre appassionato, fin da adolescente, di musica elettronica, e si è dedicato da subito alla produzione musicale, pubblicando nel 2017 il primo album intitolato To Discover and Forget, utilizzando lo pseudonimo Not For Us. Presto inizia a esplorare vari generi musicali e a scrivere anche in italiano, pur occupandosi ancora principalmente di produzione. Nel 2019 emerge come vero e proprio cantautore con il nuovo nome d’arte Tananai, e nel 2020 fa uscire il suo primo EP intitolato Piccoli Boati. Ci racconta lo stesso Alberto: “Il primo EP è nato dalla voglia di raccontare quello che mi succedeva nella vita, perché reputo che la quotidianità sia particolarissima a modo suo per chiunque. Quindi ho cercato di trasporre le mie giornate e storie d’amore, le mie delusioni e momenti in cui ero preso bene all’interno della musica che facevo. Venendo da un passato di produttore per la musica elettronica, dovevo imparare a scrivere e disimparare a produrre. Ho parlato di quello che conoscevo: la mia quotidianità”.
Nel 2021 la sua carriera prende una nuova piega con il singolo BABY GODDAMN, che arriva anche ad essere certificato disco di platino, con cui è ora in vetta alla classifica Top50 di Spotify Italia. Nello stesso anno arriva a collaborare con artisti come Fedez e Jovanotti, partecipando a Sanremo Giovani con la canzone Esagerata, grazie alla quale rientra nel podio dei vincitori.
Il 2022 si apre con la partecipazione al 72° Festival di Sanremo in cui presenta Sesso occasionale, un brano carico di ironia e positività. La partecipazione al Festival – nonostante le diverse critiche – gli restituisce grande visibilità, tanto che pochi giorni dopo la fine della competizione il singolo entra nella Top 10 tra i brani più ascoltati di Spotify Italia e anche BABY GODDAMN scala le classifiche, fino alle primissime posizioni della Top 50. Ci confessa Alberto: “‘Sesso occasionale’ è nata in maniera molto naturale durante una sessione in studio. È saltata fuori come continuazione di ‘Esagerata’- il pezzo di Sanremo Giovani, ci ha coinvolti da subito e abbiamo lavorato fino alla scadenza per mandarla. Non sapevo cosa aspettarmi dopo Sanremo. Sono andato a ruota libera perché pensavo solo a dare energie positive e al fatto di tornare a cantare sul palco davanti a un vero pubblico”.
Un successo che continua anche nel suo primo tour italiano che in poco tempo è finito sold out in molte date. “Il mio sogno nel cassetto lo sto realizzando, ovvero suonare dal vivo davanti a più persone possibili. E finalmente dopo tanti momenti di stop vedo che sta per succedere… Questo mi riempie di entusiasmo”.
Left: total look Dior; right: suit and shirt N°21 by Alessandro Dell’Acqua, shoes Dr. Martens, sunglasses Retrosuperfuture
Total look Valentino, sunglasses Versace, shoes GCDS
Scoprite qui la videointervista completa a Tananai, realizzata in esclusiva per Manintown durante lo shooting per una delle sei cover dell’issue Hot child in the city.
Un percorso nella moda in cui ha avuto l’opportunità di fare esperienze professionali altamente formative dal punto di vista tecnico e creativo al tempo stesso. Claudio Furini, oggi, vanta una fruttuosa e lunga collaborazione con le più importanti realtà del fashion a livello internazionale e oggi ci racconta come nasce la sua passione per l’hairstyling e il beauty, svelandoci in tempo per le festività i trend da seguire e i look di alcuni personaggi.
Com’è nata la tua passione per hair&make up e beauty in generale?
La mia passione è nata con mia mamma. Era una donna dalla cura e dall’aspetto impeccabile, capelli con un taglio long bob biondo miele, pelle molto chiara, indossava sempre rossetto rosso e mascara, unghie nude e ballerina di Chanel. Io ero sempre affascinato quando la accompagnavo nei suoi momenti dedicati al beauty.
Quali consideri i tuoi maestri e le persone che sono state fondamentali nel tuo percorso?
All’ inizio della mia carriera, è stata fondamentale la mia insegnante della scuola di acconciatori. Sognavo già il mondo del fashion, lei ha compreso questa mia passione insegnandomi tanti segreti del mestiere.
La tendenza hair per lui e per lei e i personaggi che meglio la rappresentano?
In questi ultimi anni abbiamo assistito a diverse tendenze: capelli con onde con taglio lungo, corto, frangia con ogni taglio e colore. In questa immagine possiamo vedere Francesca Rocco all’evento di Natale per Dior, abbiamo realizzato un look glamour con onde lunghe e morbide, dando un effetto sofisticato ed elegante.
Parlando di tendenze hair uomo, troviamo il modello Marco Bellotti. Abbiamo studiato un look versatile, sia per il giorno durante il lavoro che per la sera nei momenti di svago; in entrambi i casi, il capello è diventato un accessorio da cambiare a seconda della serata, dell’evento o dell’umore. In fondo, il bello è potersi divertire con la propria immagine.
Il modello romano Edoardo Sebastianelli è il perfetto esempio di come un taglio maschile leggermente lungo, ma ben calibrato sia una soluzione molto cool e interessante, che permette cambi strategici di look. Strutturati per essere più corti nella parte inferiore ma non rasati, i capelli hanno in questo caso nella parte superiore maggiore corpo, che rende la chioma morbida e scompigliata. Ma ci vuole poco per trasformarla: basta una pasta modellante per spostarla completamente all’indietro e creare un effetto elegantissimo, che può essere più o meno “rigido” a seconda dell’occasione.
Il classico look easy-chic: così potremmo definire lo stile dell’influencer Francesca Rocco, che sa come esaltare al massimo i suoi lunghi capelli castani in maniera contemporanea ed elegante. Infatti, sceglie un taglio medio-lungo pari ed esattamente come vogliono i trend, la chioma ha un colore pieno, senza schiariture né variazioni di colore, ma è luminoso e tridimensionale. Un hairstyle versatile che Francesca porta con la riga centrale, perfetto sia con una piega liscia da tutti i giorni, che mossa per un look più particolare e raffinato.
L’ispirazione è sicuramente anni ’90, ma l’applicazione è totalmente moderna: il look del modello Marco Bellotti è una delle proposte più cool di stagione. Il capello ben sfumato è lasciato più lungo nella parte superiore, dove può essere libero e spettinato, oppure disciplinato per un effetto più elegante e in un certo senso vintage. Una versatilità che lo rende perfetto sia per coprire leggermente la fronte oppure per lasciarla completamente libera, il tutto senza sforzo. Un taglio perfetto per chi ha i capelli mossi e cerca qualcosa che sappia esaltare le onde ma che sia anche facile da gestire. E che in un attimo passi dal casual allo chic.
Last but not least un personaggio affascinante e un po’ misterioso, tra bellezza e talento: Nima Benati è più che una fotografa, un vero talento e un’ispirazione, oltre a essere una delle media personality più seguite. Nata nel 1992 a Bologna, è decisamente eclettica: sa stare sia davanti che dietro l’obiettivo con grande naturalezza, protagonista o fotografa che firma campagne, sempre mantenendo il suo stile unico.
Il suo nome ha ormai da tempo valicato i confini ed è una star internazionale. Nima è una vera e propria diva e il suo hair look riflette alla perfezione questo suo ruolo: i suoi capelli sono lunghissimi e ondulati, degni di una sirena, che porta tagliati pari e con la riga centrale per lasciare il suo bellissimo viso completamente scoperto. Naturalmente mora, ha scelto di schiarire la chioma in maniera graduale partendo alcuni centimetri dopo le radici per ottenere un effetto più morbido, ideale per esaltare le lunghezze. Il risultato è un look sofisticato, elegante e che rappresenta al massimo la sua femminilità, con la quale ama giocare e sperimentare. Non è raro vederla con acconciature dal sapore vintage, che la rendono ancora più glamour.
Hai lavorato con tanti personaggi, raccontaci qualche aneddoto curioso…
Tempo fa ero stato chiamato per un lavoro con un personaggio internazionale talmente importante che non potevano dirmi chi fosse fino al mio arrivo in hotel nel centro di Roma. Ero molto teso e poco prima di salire nella sua suite mi dissero: “Signor Furini, la signora Charlotte Casiraghi la sta aspettando”. Ero molto emozionato, nel momento in cui mi aprì la porta, tutta la mia ansia scomparve, poiché la sua gentilezza ed eleganza mi avevano subito messo a mio agio.
Quali sono i personaggi con cui vorresti lavorare nel futuro?
Nel corso della mia carriera, mi piacerebbe molto poter lavorare con nomi della musica italiana come Baby K, Annalisa, Marco Mengoni, Mahmood e Gaia; sarebbe interessante realizzare videoclip musicali dove vi è la possibilità di creare look molto creativi.
Un corpo statuario temprato da una disciplina, la danza, che richiede una dedizione fisica e mentale pressoché assoluta, oltre a una miriade di tatuaggi: questi i tratti che caratterizzano Alessio La Padula, visto attraverso l’obiettivo di Davide Musto. Nato a Eboli 25 anni fa, lascia casa quand’è ancora un adolescente per inseguire il sogno di diventare ballerino, cominciando presto a ottenere riscontri importanti; viene selezionato 14enne dal Russian Ballet College di Genova per poi diplomarsi al Conservatorio Nazionale Superiore di Musica e Danza di Lione.
Tornato nel nostro Paese, non smette più di danzare, e il trampolino di lancio definitivo è rappresentato da Amici: partecipa da concorrente al popolare talent Mediaset nel 2016 e, tre anni dopo, entra a far parte del corpo di ballo del programma.
L’innegabile talento, assieme a un look decisamente strong che contrasta con le pose, i gesti e le movenze armoniose di chi ha consacrato la propria vita all’arte di Tersicore permettono ad Alessio di collezionare ruoli di spessore, collaborando con direttori creativi e coreografi del livello di Luca Tommassini e Giuliano Peparini, dividendosi tra il palco di Amici, videoclip (tra i più recenti quello del singolo Venere e Marte di Takagi & Ketra, Marco Mengoni e Frah Quintale), concerti (è stato in tour con Alessandra Amoroso) e spettacoli teatrali, come l’acclamato musical Romeo e Giulietta – Ama e cambia il mondo, del 2018.
Tra i suoi sogni per il futuro è quello di diventare un coreografo, mentre per quanto riguarda le sue passioni, Alessio ama l’arte contemporanea (dipinge e si diletta anche con i tatuaggi), i viaggi e, soprattutto, perdersi in montagna con la moto.
Nell’editoriale in black&white in esclusiva per MANINTOWN lo vediamo interpretare con la sua esuberanza istrionica, camicie, blazer e pantaloni sartoriali tutti firmati Dsquared2.
MODALISBOA festeggia 30 anni di creatività interrogandosi sul proprio futuro
Cravo Studios
Il Portogallo si conferma un Paese ricco di tradizioni e importanti manifatture, ma anche fucina di una nuova generazione di designer portoghesi che lavorano sull’innovazione sostenibile. Proprio questo 2021 ModaLisboa ha festeggiato 30 anni di attività a sostegno della creatività portoghese. E lo ha fatto con un calendario in presenza su 4 giorni con 34 designer e 21 presentazioni divisi tra due location l’Estufa Fria magnifico orto botanico e il Capitólio.
Duarte
Proprio pensando agli importanti cambiamenti nel fashion system di questi ultimi due anni la campagna di ModaLisboa, guardando al proprio passato, si interroga sul presente e futuro con la domanda: and now what? (e adesso?). Una domanda profonda, che lascia poco spazio alle risposte, ma che d’altra parte lascia tanto spazio per la libertà, specialmente quella espressiva.
Constança Entrudo
Questo senso di libertà e voglia di sperimentare si coglie specialmente nelle nuove generazione che hanno partecipato al contest Sangue Novo che hanno visto partecipare: AMOR DE LA CALLE , ANVI, CAROLINA COSTA, FILIPE CEREJO, IVAN HUNGA GARCIA, MARIA CLARA, MARIA CURADO, REIMÃO, SOUSA e VEEHANA.
Filipe Augusto
Ricardo Andrez
Tra i designer da tenere d’occhio che giocano su sostenibilità, sperimentazione tessile e colori è Duarte, designer con un’anima da illustratrice, che ha fondato le sue collezioni sulle sue grafiche esclusive. Il suo streetwear pieno di energia e la capacità di unire allo storytelling uno story-making virtuoso la rendono uno dei nomi più interessanti della moda portoghese.
Fora de Jogo
La sua collezione ‘Reef’, richiama l’attenzione sull’emergenza legata alla barriera corallina al largo dell’Australia, ad alto rischio di sbiancamento, rappresentando gli esemplari marini – attraverso le sue grafiche stilizzate – su parka, tute e varsity jacket. Ovviamente prodotti con filati tecnici come il neoprene, ricavate dal riciclo di plastiche e cotoni riciclati.
João Magalhães
Sempre nel segno della sperimentazione materica e sostenibile è il lavoro di Constança Entrudo, fino a tutta una nuova generazione di nomi che fanno della moda genderless il loro baluardo come Cravo Studios, Filipe Augusto, Fora de Jogo, João Magalhães, Luís Carvalho e Ricardo Andrez. Nomi che da Lisbona stanno gradualmente facendosi conoscere anche nel resto dell’Europa e che speriamo riescano a farsi conoscere anche nelle altre fashion capital.
Sulla contaminazione arte-moda si potrebbe scrivere un intero libro, partendo da grandi maestri come la Felt Suit di Joseph Beuys alle opere di Flavio Lucchini; gli esempi potrebbero essere tantissimi, fino ad arrivare a tempi più recenti in cui, soprattutto la moda, ha guardato all’arte. In un momento storico in cui è radicalmente evoluto il concetto di bellezza e di identità.
Il lavoro di Mariano Franzetti, artista e creativo eclettico di origini argentine, ha ripensato all’estetica dell’ugly (il brutto) in chiave ironica, per trasformarla in qualcosa di contemporaneo e cool. Dopo gli iniziali studi di architettura, Mariano si trasferisce a Buenos Aires per dedicarsi completamente alla sua passione, la pittura, che coltiva fin da piccolo, studiando i pittori rinascimentali e l’arte in generale.
Si trasferisce poi in Italia nelle Marche, iniziando subito a lavorare come artista in collaborazione con un laboratorio di architettura e interior design. Dopo essersi trasferito a Milano, sviluppa ulteriormente la sua carriera di artista e direttore creativo. Sin dagli esordi, le sue opere si caratterizzano per la ricerca cromatica, i toni brillanti e audaci, le immagini e i motivi grotteschi. Un universo costituito da fantasie apparentemente giocose, narrative stravaganti, atmosfere inusuali, che lasciano un segno sui fruitori, suscitando emozioni e stati d’animo differenti. Incuriosito dall’essere umano, dalle sue vicende e della sue svariate sfaccettature, all’interno delle sue opere si trovano spesso personaggi eccentrici, “diversi”, deformati, non solo per l’abbigliamento modaiolo e le sembianze, ma anche per lo stile di vita e la personalità.
Scoolture, dipinti e arazzi: la mostra a Bologna “PUTTY TOYS TRICKY, LORO”
Mariano Franzetti ha presentato a Bologna i giorni scorsi per la prima volta il suo nuovo lavoro artistico, che sviluppa il tema dell’Ugly but Cool tramite media diversi, dalle scoolture (come le definisce lui), gli arazzi, fino ai dipinti. Il tutto all’interno della cornice rococò di Palazzo Hercolani di Bologna, all’interno degli spazi di Zefyro e Silaw Tax & Legal, merchant holding indipendente fondata da Alessandro Tempera, che ha supportato il progetto. Questa mostra segna un importante sviluppo nel suo percorso creativo, che senza rinunciare alla dimensione pittorica e neofigurativa, si declina ora verso una tridimensionalità materica ricca di contrasti. Protagonisti assoluti di questa nuova mostra sono una strana e grottesca community di personaggi che indossano abiti iconici di importanti maison della moda, come Saint Laurent, Celine, Prada, Bottega Veneta, tanto per citarne solo alcune.
Inizialmente, queste piccole sculture in stucco erano state pensate per sostituire i modelli nell’impossibilità di realizzare servizi fotografici per la moda durante il lockdown del 2020 e hanno colmato le giornate dell’artista. Si sono nel tempo moltiplicate, trasformandosi in personaggi grotteschi, dai volti deformi con pochi capelli colorati e arruffati, ma dai look super cool. In modo spontaneo è nata un’intera generazione di questi personaggi che esplorano il dualismo costante tra realtà e voglia di apparire. Quella di Mariano è la ricerca di una bellezza non canonica come quella imposta dalla moda; da questa idea nascono questi Beautiful Loser, che riflettono bene le contraddizioni della realtà che ci circonda. Così spiega lo stesso Franzetti: “I personaggi di Putty Toys Tricky riflettono bene i contrasti del nostro tempo. Sono brutti ma cool o forse troppo cool ma brutti? Una strana e deforme comunità di individui che, pur indossando abiti delle più prestigiose griffe di moda, si atteggiano in posizioni anomale, parlano un linguaggio incomprensibile, muovendosi in modo strano e bizzarro. Ma è proprio nella loro diversità e nella loro distanza che questi personaggi vivono e comunicano.” Queste “scoolture” di improbabili fashion victims, vanno poi a comporre dei veri e propri tableaux vivant, scene che rimandano a note iconografie sacre o alla cantiche della Divina Commedia. Un’attrazione verso l’arte sacra che l’artista ha tratto dal suo retaggio e formazione in Italia, durante i quali ha visitato in modo capillare le chiese e abbazie tra le Marche, l’Umbria e l’Emilia Romagna.
Un passato come art director e un presente-futuro da artista indipendente: questo in estrema sintesi il percorso di Paolo Troilo, che ha recentemente inaugurato la mostra “Troilo-Milano solo andata”, curata da Luca Beatrice a Palazzo Serbelloni. Come ben osserva lo stesso Beatrice: “Troppo spesso siamo abituati a chiedere, pretendere, preoccupandoci poco di dare in cambio di restituire. Paolo da Milano ha avuto e ha dato tanto, mi ha ricordato l’unicità di questo posto dove sei in mezzo alla vita e poi ti chiudi in studio senza vedere nessuno per giorni. Mi ha raccontato che i quadri esposti a Palazzo Serbelloni è come fossero cresciuti insieme a chi ha poi scelto di acquistarli. Ripresentandoli al pubblico, Paolo ci sta dicendo qualcosa come “grazie a questa città che sono diventato grande, questo è il risultato del mio lavoro, ve lo affido”.
Così, in modo del tutto imprevisto, le opere monocromatiche dell’artista– spesso di formati monumentali – entrano in dialogo con gli spazi iper decorati di Palazzo Serbelloni, creando un cortocircuito creativo. Differenti soggetti che hanno in comune la rappresentazione del corpo umano maschile in continua evoluzione tra sacro e profano, oltre alla speciale tecnica di fingerpainting, o “iperrealismo con le dita”, tecnica che ha reso Paolo un artista ben riconoscibile, unitamente alla scelta dei soggetti. Fil rouge tra le opere e protagonista della mostra è proprio Milano, città che ha accolto Troilo nel 1997 e lo ha reso un pubblicitario noto a livello internazionale, fino a renderlo un artista. Oltre alle opere è stata anche esposta nel cortile di Palazzo Serbelloni uno speciale modello Lamborghini Huracán EVO interpretata dall’artista. Si chiama “Minotauro” e riprende il mito del corpo di uomo e toro raccontanti in un dipinto e trasposti sulla carrozzeria di una Lamborghini Huracán Evo. Attraverso le sembianze di un corpo maschile riprodotto per mano di Troilo con l’uso dei polpastrelli, l’opera è l’espressione della dinamicità, della potenza e delle emozioni che l’artista ha provato alla guida della Huracán Evo, la super sportiva di Sant’Agata Bolognese. Il tributo dell’artista alla Huracán Evo celebra la fusione tra l’uomo raccontato dalla sua pittura, il toro simbolo di Lamborghini e il concetto di mito espresso nello slancio soprannaturale, quasi animalesco, che la figura maschile dipinta sulle fiancate è in grado di sprigionare. Il cuore dell’opera è incentrata sulla fantasia del conflitto tra uomo e toro, il segno zodiacale del suo fondatore.
Conclude Christian Mastro, Direttore Marketing di Automobili Lamborghini: “Per me è stato ispirante incontrare Paolo Troilo e la sua espressività pittorica. In Azienda siamo abituati all’arte e al modo in cui questa da sempre permea le nostre automobili. Tuttavia, quando il nostro prodotto e le emozioni che questo sa dare incontrano la sensibilità di un artista come Troilo, nasce qualcosa di diverso ed eccezionalmente unico come l’opera Minotauro, di cui siamo orgogliosi”.
Lamborghini Huracàn EVO
“Il tempo. Io sono innamorato della lentezza, e l’ho sempre difesa considerandola un ingranaggio cardine del piacere, della cultura, della bellezza, del successo. Ma capita che ci siano degli incontri che ti cambiano.” ha affermato Paolo Troilo, creatore dell’opera. “Incontrare la Lamborghini Huracán EVO e provarla mi ha suggerito che esistono anche cose capaci di sprigionare le stesse energie con l’accelerazione, con la velocità, con lo scatto. Così ho sentito il rumore del vento che aumenta mentre lo spazio si accorcia e il tempo si deforma: ho sentito un vento liquido e l’ho usato per dipingere sulla musa stessa, ispiratrice di queste emozioni – la Huracán – il mio Minotauro”.
Ben pochi retailer possono vantare un heritage ultradecennale come quello di Nugnes 1920; il multibrand tranese, nei giorni scorsi, ha tagliato il traguardo dei cento anni tondi di attività regalando una nuova veste allo store, che si presenta ora come uno spazio di oltre 1000 mq distribuiti su due livelli, con 18 vetrine affacciate sul centralissimo corso Vittorio Emanuele. Una storia centenaria dunque, che affonda le sue radici negli anni ‘20 del secolo scorso, quando Giuseppe Nugnes aprì l’omonima sartoria nel cuore della perla dell’Adriatico, com’è soprannominata la cittadina pugliese. Se già nel 1956 era stata inaugurata la boutique maschile, divenuta rapidamente un place to be per la clientela locale, e a cui seguì nel 1989 quella femminile, sarà la terza generazione a porre le basi per l’espansione dell’impresa familiare che, pur rimanendo saldamente radicata nel proprio luogo di nascita, è cresciuta col tempo fino a imporsi come un punto di riferimento nell’ambito del fashion e luxury retail, imperniata, oggi come allora, su tre cardini, ossia eclettismo, amore per il territorio e spirito avanguardista, dal respiro internazionale; la mission primaria è rimasta la stessa di allora: instaurare un rapporto speciale con i clienti, che rispecchi unicità e personalità degli stessi.
Ph. by Paola Pansini
Oggi l’intento, spiega il titolare Beppe (nipote del fondatore), è «portare avanti un concetto che ci appartiene da sempre, essere commercianti con l’animo del sarto devoto alla clientela». È proprio questa filosofia ad aver permesso all’insegna di distinguersi nell’affollatissimo panorama fashion, interpretando al meglio il ruolo di ambasciatore, di curatore quasi della moltitudine di marchi trattati, 250 in tutto, tra griffe simbolo della moda con la M maiuscola (tra le altre Prada, Valentino, Bottega Veneta, Saint Laurent, Givenchy, Balenciaga) e brand dal gusto contemporary quali Golden Goose, Ami, Nanushka o Sunnei, nomi cult dello streetwear (da Off-White a Palm Angels) e designer avantgarde del calibro di Maison Margiela, Sacai e Marni.
L’anniversario ha rappresentato l’occasione per svelare un retail concept innovativo che, pur implementando i principi ormai fondamentali dell’omnicanalità, invita i visitatori a riscoprire il piacere dell’esperienza d’acquisto in presenza. Ad accogliere le novità non poteva che essere la sede di Palazzo Pugliese, felice espressione dello stile delle dimore nobiliari meridionali di fine XIX secolo, svettante a mo’ di fortezza sul bianco accecante che domina l’orizzonte di Trani. A seguito di una progressiva acquisizione degli spazi e della meticolosa ristrutturazione, seguita dallo stesso Nugnes in tandem con lo studioDini Cataldi, si presenta ora come un multimarca raffinato e accogliente, riflesso ideale dei valori che contraddistinguono l’azienda.
Beppe Nugnes, ph. by Paola Pansini
Progettato per restituire l’impressione di una sorta di salon raccolto e discreto, il negozio riunisce i tre satelliti di Nugnes, ovvero il salotto bespoke, l’area dedicata ai globetrotter contemporanei e il reparto donna. Mentre il primo, pensato come una reinterpretazione intimista dei club per gentiluomini d’antan, è caratterizzato da cromie ricche e brunite, nel secondo l’eleganza dinamica e cosmopolita degli articoli esposti viene declinata nel décor ricorrendo alle tonalità del bianco e nero. A sottolineare la poliedricità della selezione di capi e accessori, un mix di arredi retrò da club berlinese e capolavori del design nostrano firmati Cassina e Osvaldo Borsani. Il piano superiore, riservato al womenswear, è suddiviso in una serie di stanze dalle differenti personalità, arredate con divani vintage o realizzati appositamente per lo store. Qui l’opulenza degli affreschi originali risulta temperata dai rivestimenti in tessuto retroilluminato delle pareti, che creano giochi di trasparenze. È ancora Nugnes a rivelare come l’obiettivo del rinnovamento fosse «tirare fuori l’anima dell’impresa, l’inventiva unita alla profondità di pensiero che ci contraddistingue. Abbiamo trasferito tutto ciò nel nuovo shop, con i suoi ambienti diversi che, tuttavia, si integrano tra loro in modo omogeneo».
Ph. by Paola Pansini
Nel celebrare l’opening con una serata ad hoc, Nugnes ha chiamato a raccolta creativi dalle competenze eterogenee, dall’architetto Filippo Dini all’art director Susanna Cucco allo stylist Adonis Kentros, artefici di un evento immersivo in grado di trasmettere la cifra eclettica e sperimentale del retailer pugliese, culminato nel cocktail dînatoire animato dal parterre cosmopolita di amici del marchio. È stato perciò ideato un set-up sui generis che ha coinvolto tutti i prodotti in esposizione e perfino otto vetrine del palazzo, avvolte in una tela bianca chiusa dallo spago, rimando ai primi passi in azienda di Beppe Nugnes che, ancora ragazzino, si occupava dei pacchi per i tessuti da conservare. Le dieci vetrine rimanenti, invece, sono state protagoniste di allestimenti ad effetto, così da raccontare l’identità della boutique. A sorprendere gli ospiti, infine, l’ultimo coup de théâtre in forma di installazione dal sapore artsy, un cubo specchiato che custodiva all’interno 50 outfit delle collezioni Autunno/Inverno 2021 in vendita, ulteriore dimostrazione di come la commistione tra sperimentalismo e shopping experience d’eccezione, curata fin nei minimi dettagli, sia la vera forza di Nugnes.
Per l’artista 48enne Sergio Fiorentino, catanese ma ormai trapiantato a Noto, proprio la cittadina del Siracusano ha rappresentato un punto di svolta fondamentale, uno spartiacque nel suo percorso lavorativo ed esistenziale: innamoratosi della culla del Barocco, un unicuum irripetibile quanto a luci, colori, ispirazioni e sensazioni, vi si è trasferito in pianta stabile, adibendo ad atelier uno spazio ricavato nel refettorio di un convento del XVIII secolo. Ha dunque ripreso a dipingere, una passione messa da parte dopo gli studi all’accademia di Design e Comunicazione Visiva Abadir per dedicarsi alla vendita (e restauro) di oggetti di design, riversando nei quadri una visione che potrebbe definirsi classicamente contemporanea, definita da ritratti, volti e figure rese in pennellate veloci e decise nei toni del blu, rosso, bruno e bianco, manipolate poi attraverso graffi, abrasioni e tamponature che donano un’aria evanescente all’insieme, accentuando la sensazione di silente immobilità, di sospensione che caratterizza le tele.
Gli artwork di Fiorentino, esposti nelle collezioni permanenti di diversi musei (inclusi il MacS e la Fondazione La Verde La Malfa della sua città natale), sono stati inclusi in numerose fiere di settore e mostre ospitate da varie istituzioni museali, dai Musei Civici agli Eremitani, a Padova, alla galleria romana RvB Arts, dalla Fondazione Mazzullo di Taormina alla Palm Beach Art Fair americana. Lo abbiamo incontrato nella sua casa-studio di Noto, nel pieno centro della cittadina Patrimonio Unesco dal 2002, colma di opere terminate o work in progress, manifestazioni di un estro creativo a tutto tondo che trova applicazione anche in mobili e oggetti che sfuggono alle classificazioni.
Quando e come hai iniziato a dipingere?
«Dopo gli studi in restauro e, successivamente, pittura all’accademia Abadir, a Catania, la mia passione si è trasformata in lavoro, con l’apertura di una piccola galleria in città dove vendevo – e restauravo, anche – oggetti di design del Novecento, dal futurismo agli anni ‘60. Dieci anni fa, giunto a Noto per caso, me ne sono innamorato, ritrovandomi così da un giorno all’altro a cambiare vita; ho chiuso il negozio, che pure andava assai bene, e ho ricominciato a dipingere. La prima mostra è arrivata con Vincenzo Medica, nonostante siano passati anni mi sembra ancora un sogno, è un’enorme fortuna poter trasformare ciò che si ama in lavoro, in vita tout court».
Da Catania a Noto, le persone continuano a raggiungerti e il tuo atelier è diventato un place to be locale…
«In effetti dal mio studio è passata tanta gente, d’altronde il luogo, all’interno dell’ex refettorio di un convento del Settecento, è meraviglioso. Pur essendo separate solo da un’ora di strada, Catania e Noto secondo me non potrebbero essere più diverse: la prima è tutta nera, lavica, sovrastata da un vulcano attivo, pervasa da una grande energia, tutto un altro mondo rispetto alla seconda, completamente bianca, sospesa, metafisica».
L’atmosfera di Noto, con la luce, il cielo, i colori unici nel loro genere, ha influenzato il tuo lavoro?
«Senz’altro, è qui che ho ripreso a dipingere, un simile contesto non può che essere presente, a iniziare dal blu, che nella mia idea è una sorta di liquido amniotico in cui iniziano a formarsi le figure; la mia pittura è legata visivamente al cielo di Noto, l’incarnato dei volti ricorda invece gli intonaci, le pietre, i muri dei palazzi, con tutte le screpolature e i segni del tempo, per non parlare dell’energia sospesa che si avverte, soprattutto d’inverno».
Con quali tecniche intervieni sui dipinti?
«Di solito realizzo volti o corpi in blu (sfumatura presente in tutti i miei lavori, anche quando non è subito visibile), quindi dipingo a olio l’incarnato e, quando il colore è ancora fresco, lo graffio, fino quasi a sfaldarlo, in modo da far emergere il fondo, come avviene nella serie dei ritratti con piante dove, dopo la prima stesura, sono intervenuto rimuovendo la materia e facendo venir fuori le foglie».
Oppure nella serie dei corpi…
«Esatto, ho fatto lo stesso nei dipinti sui tuffatori, figure in blu che risultano sospese, immobili, senza un punto di partenza né di arrivo, come fossero cristallizzate per sempre nella dimensione del quadro».
A cos’altro stai lavorando attualmente?
«A una serie di arredi in materiali tipici delle arti decorative siciliane del Settecento, in particolare del Trapanese, che vanta una tradizione straordinaria con maestranze che, già all’epoca, utilizzavano argento, ottone, corallo o lapislazzulo. Sto lavorando ad esempio a un mobile con le aguglie, un link ai dipinti dei sognatori con i pesci: si tratta di tirature limitate, nove pezzi unici diversi uno dall’altro. Ci sono poi due mobili con fili sottilissimi che percorrono una lastra di ottone, riempiti da polvere di lapislazzuli nei toni del blu oppure da polvere di corallo rossa. Tra i lavori in corso d’opera c’è anche una creazione in rame sbalzato, nata dall’incontro casuale con un bravissimo artigiano che ho visto in azione, esponente della terza generazione di una famiglia di pupari; insieme abbiamo realizzato questa specie di scultura, di totem a due moduli. In passato ho invece realizzato delle ceramiche ispirate ai miei temi ricorrenti, come quello dei tuffatori».
Quali sono i tuoi artisti o designer di riferimento?
«Ce ne sono tanti, da Ico Parisi e Gio Ponti a un un pittore come Antonio Donghi (esponente di spicco del realismo magico, ndr), quest’ultimo mi emoziona per la capacità di ritrarre figure di vita quotidiana come se fossero “imbalsamate”, bloccate nel tempo; mi ricorda la tradizione siciliana dei bambinelli o delle statue di cartapesta, è come se le ponesse all’interno di una campana di vetro, fermandole per sempre, per certi versi provo anch’io a fissare un istante, come nei tuffi, che siamo abituati a vedere come un’immagine in movimento e nei miei quadri diventano, invece, una frazione di secondo eternamente sospesa.
Amo ciò che è antico, mi piace creare opere che abbiano un linguaggio attuale e al contempo legate al passato, vale anche per i dipinti, in cui i volti sono di persone realmente esistenti, che per vari motivi hanno per me un significato; inserendoli nella tela cerco tuttavia di estrarli dalla dimensione spazio-temporale, infatti non ci sono mai riferimenti a luoghi o tempi, in alcuni casi neppure al sesso, tanto che alcuni soggetti potrebbero essere maschili o femminili, come se provenissero da un altro pianeta».
Come descriveresti il tuo stile?
«Quando dipingo mi sforzo di essere quanto più possibile essenziale, sia a livello di immaginario sia di resa cromatica: di base utilizzo quattro colori, bianco per la luce, una sfumatura bruna per le ombre e due cromie opposte, rosso (che nella mia visione è l’anima, lo spirito) e blu, che rappresenta la carne, la materi
Nata a Milano nel 1919 come prestigiosa azienda di diamanti e pietre preziose, Antonini diventa immediatamente un “must have” della sofisticata aristocrazia milanese e italiana, e nel tempo riconosciuto come marchio di alta gioielleria. Attualmente si posiziona come un marchio di nicchia, esprime un lusso ricercato e mai ostentato, tramite l’estrema artigianalità di ogni sua creazione e la ricerca nell’utilizzo dei materiali delle pietre migliori.
Sergio Antonini, oggi interprete della storia del marchio e attualmente direttore creativo del brand, ci racconta del suo lavoro all’interno dell’azienda.
Raccontaci il tuo processo creativo, dalla prima ispirazione allo sviluppo dell’idea…
Il processo creativo è frutto di una ricerca e di un confronto, solitamente parto da un tema, da un soggetto, da un determinato periodo storico o una forma e dopodichè con il team approfondiamo la ricerca selezionando immagini o forme attinenti, per poi lentamente far emergere quello che è più congruo alla ricerca iniziale e più in sintonia con lo stile Antonini e con i nostri valori.
Come riesci a far convivere heritage e innovazione nella maison?
L’heritage per noi è un fil rouge relativo alle nostre forme al nostro stile, mentre l’innovazione sta nella ricerca sulle finiture, sulle superfici, sui materiali, che in tante collezioni abbiamo voluto esplorare ottenendo effetti inconsueti che sono diventati identificativi di Antonini (l’oro bianco naturale satinato per la collezione Matera, la superficie effetto lava per la collezione Etna, o la martellatura per la collezione Aurea).
Come lavori sulla linea haute couture rispetto alla gioielleria ready to wear?
Sono entrambi mondi affascinanti ed estremamente diversi dal punto di vista di realizzazione, di know-how, di materiali (pietre e finiture) e di lavorazioni con “processi/procedure” completamente diverse. La tempistica dei one-of-a-kind della collezione Extraordinaire non segue dei tempi prestabiliti e si presta a delle varianti in corso d’opera, spesso anche per incontrare il gusto del cliente finale che a volte commissiona il gioiello in base ad qualcosa che gli era piaciuto della stessa collezione. Per i ready to wear invece, i gioielli vengono studiati e preventivati tutti in 3D e, dopo aver valutato e calibrato pesi e volumi tramite i prototipi in resina, parte l’industrializzazione dell’oggetto che a questo punto ha una vita propria e anche le tempistiche di realizzazione sono state definite a monte.
Come hai affrontato la boa dell’Anniversario dei 100 anni? Scegli 3 pezzi o momenti della maison che siano evocativi del passato, present e futuro.
Per il nostro centenario abbiamo voluto investire in ciò che sappiamo fare meglio, ovvero disegnare gioielli. Abbiamo deciso quindi di realizzare una collezione iconica partendo dalle forme di quella disegnata per il novantesimo, quindi un segno esplorato per un precedente anniversario ma con dei nuovi valori quali l’oro giallo lucido come materiale principale / di riferimento, una straordinaria indossabilità, e la peculiarità dell’utilizzo di diamanti bianchi tutti rigorosamente F color. Pezzi/momenti da ricordare: “der Konigin in Der Nacht” che ha vinto il “Diamond award” nel 1996, capsula pezzi unici “Mosaic” anelli Extraordinaire, e alcuni gioielli rodiati in nero èer la nuova collezione Anniversary100 (foto credit: Avi Meroz).
Come è nata la tua passione per l’arte e quali gli artisti che prediligi? Come l’arte contamina la tua visione creativa?
Milano in cui vivo e lavoro è sempre stata grande fonte di ispirazione, dall’arte al design, dalla musica, all’architettura. In particolare mi sono appassionato all’arte moderna e contemporanea e ultimamente il mio interesse è indirizzato ad artiste donne che rispetto ai loro coetanei hanno sempre avuto meno spazio e rilievo, pur realizzando lavori di grande spessore semantico, ad esempio Carla Accardi, Dadamaino, Joana Escoval, Monica Bonvicini. Milano, e le arti in generale, contamina, sviluppa, enfatizza, sottolinea e suggestiona la visione creativa per me come per tutti.
Con Palazzo Borromeo e il progetto con Miart hai iniziato un importante dialogo con la città e di mecenatismo…ce lo racconti e come evolverà nel futuro?
Tutto è cominciato grazie al rapporto di intesa LCA che ci ha fatto pensare di valorizzare ancora di più i bellissimi spazi del nostro showroom a Palazzo Borromeo. Poi con la collaborazione di APICE e AXA abbiamo esordito in occasione di Miart 2016 con la prima mostra site specific realizzata da Letizia Cariello rappresentata da Galleria Massimo Minini; un altro bellissimo lavoro è stato quello di Michele Guido rappresentato dalla galleria Lia Rumma. L’appuntamento di Miart è rivolto ad un pubblico internazionale più esteso, un database specifico di appassionati di arte, e siamo sempre lieti di presentare artisti unicamente italiani. Durante l’anno organizziamo in collaborazione con altre gallerie appuntamenti più ristretti per presentare lavori selezionati. Infine nel mese di novembre un evento dedicato al gioiello che coinvolge i clienti dello showroom. Pensiamo che queste attività potranno continuare ma sicuramente con eventi più intimi e visite private per i nostri clienti per una fruizione più personale delle opere.
Sergio Antonini non solo direttore creativo ma uomo e Cultore del Buon vivere. Ci racconti qualcosa? Che artista vorresti facesse il tuo ritratto e come lo immagini?
Nell’arte non amo il figurativo, prediligo l’astratto tramite il quale gli artisti riescono a rappresentare le loro tensioni interne. Quindi non penso che vorrei un ritratto da un artista mentre amo moltissimo grandissimi fotografi/artisti quali Mimmo Jodice o Armin Linke rappresentati dalla Galleria Vistamare.
Come evolverà la gioielleria e il lusso post Covid-19?
Questa bruttissima esperienza sicuramente ci farà riconsiderare le relazioni con le persone, specialmente con i nostri cari e l’intimità della vita domestica. Per un po’ di tempo probabilmente non sarà più possibile viaggiare e forse cercheremo una gratificazione premiandoci con qualcosa che rimane negli anni e potrebbe appunto essere un gioiello. Credo anche che nella scala dei valori che ci influenzerà nella scelta di un gioiello, non daremo importanza solo all’aspetto economico (o di investimento) del prodotto ma piuttosto alla qualità della manifattura, al contenuto di design differente, alla produzione italiana, alla possibilità di indossarlo tutti i giorni e di viverlo in modo più intimo. Stiamo molto riscoprendo e riflettendo su ciò che ci circonda, una volta tutto ciò che arrivava dall’estero era cool, ora finalmente stiamo valorizzando la filiera dei prodotti/esperienze made in italy, dagli alimentari alle vacanze.
Visto il periodo complesso per gli spostamenti e i viaggi limitati, gli italiani hanno riscoperto le tantissime bellezze disseminate lungo lo stivale. Anche questa estate sarà per molti versi molto italiana e se le coste sono letteralmente prese d’assalto, vogliamo augurarci che le destinazioni artistiche non siano del tutto trascurate. Proprio per stimolare un turismo più attento e responsabile, l’amministrazione comunale di Siena ha creato un progetto composto da 9 itinerari inediti per scoprire i volti nascosti della città. Un totale di 81 percorsi che possono soddisfare le esigenze più diverse: dalla cultura al food fino al benessere, passando per i luoghi della fede. Gli itinerari si possono trovare sul sito Terre di Siena, un vero motore di ricerca culturale e uno strumento importante per organizzare il proprio soggiorno a Siena. Nel cuore della Toscana, Siena con le sue mura medievali mostra intatte le sue bellezze storico artistiche, un patrimonio degno delle più̀ grandi capitali europee, che va conosciuto anche tramite i retroscena storici, attraverso associazioni, accademie e circoli privati che da secoli perseguono obiettivi di tutela delle grandi tradizioni italiane in ambito letterario, storico, artistico e scientifico. La città del Palio, con le sue 17 contrade, raccoglie e tramanda nel vivere quotidiano la cultura popolare di una città che non si esaurisce nei passaggi generazionali anzi ne trae maggiore vitalità̀. La bellezza di Siena – immortalata in opere d’arte di Simone Martini, Ambrogio Lorenzetti o nelle architetture di Piazza del Campo – può essere scoperta anche tramite una serie di realtà meno conosciute, dimore storiche come l’Accademia Chigiana, i Rozzi o il circolo degli Uniti, senza dimenticare l’Accademia delle Scienze di Siena, detta anche dei Fisiocritici, per finire con i salotti letterari tardo settecenteschi come quello di casa Regoli Mocenni. E proprio centri di fama internazionale come l’Accademia musicale Chigiana o Accademie culturali come quella dei Rozzi rigenerano il rapporto tra Siena e le comunità̀ internazionali, proiettando l’immagine della città oltre ai suoi simboli più conosciuti. Qui un veloce e personale itinerario di luoghi da non perdere in questo tour senese, guidato ma non troppo.
Partiamo da dove dormire: sicuramente il centro della città offre diversi hotel storici, ma l’esperienza immersive tra le vigne al DIEVOLE WINE RESORT è davvero indimenticabile. Immerso nel verde lussureggiante di uno degli angoli più̀ incantevoli della Toscana, il Resort di Dievole è situato a Vagliagli, a soli 12 Km da Siena, in posizione privilegiata tra le colline del Chianti Classico, i Monti del Chianti e le Crete Senesi che da lontano guardano il Monte Amiata, oltre ad essere a breve distanza dalle località̀ toscane di maggior interesse storico artistico quali appunto Siena, Firenze o San Gimignano. Il cuore del resort è la Villa Padronale, realizzata nel XVIII secolo, circondata da giardini all’italiana e alberi secolari che, insieme agli altri edifici del piccolo borgo e la chiesetta dedicata a San Giovanni Battista, rappresenta la massima espressione dell’ospitalità̀ d’autore del Chianti Classico. Tra i punti di forza della struttura: due infinity pool panoramiche e la cantina con esclusivo wine club dove è possibile degustare e acquistare vini e oli toscani D.O.P, senza tralasciare la cucina toscana tradizionale che strizza l’occhio al gourmet. Un mix tra tradizione e ricerca, che si ritrova anche nella produzione dei vini eleganti e freschi, le cui radici affondano nella terra dei vitigni da cui nascono per arrampicarsi sulle solide mura delle cantine per dare vita a etichette importanti. Da sperimentare con compagni di viaggio amanti del bien vivre e del vino!
Siena inedita e segreta: alcune tappe da non perdere
Archivio di Stato di Siena e le Biccherne
Un luogo magico dove il tempo è sospeso e che conserva circa 60 000 pergamene, le delibere e gli statuti della Repubblica, i carteggi e gli atti delle amministrazioni giudiziaria, finanziaria (la piccole opere d’arte dette Tavolette di Biccherna). La tavolette di Biccherna sono, o per lo meno erano all’inizio della loro storia, le copertine dei registri di amministrazione della più importante e antica magistratura finanziaria del Comune di Siena, la Biccherna appunto. Su queste copertine gli ufficiali di Biccherna dal 1257 cominciarono a far realizzare delle pitture. Le tavolette furono commissionate in seguito anche da altre magistrature del Comune di Siena: la Gabella, il Concistoro, la Camera del Comune, l’amministrazione dei Casseri e delle Fortezze, nonché da diversi enti cittadini: l’Ospedale Santa Maria della Scala, l’Opera Metropolitana, la Compagnia di S. Giovanni Battista della Morte. All’interno dell’archivio è l’esposizione complete delle Biccherne, che vede coinvolti artisti importanti come Ambrogio Lorenzetti, Paolo di Giovanni Fei, Giovanni di Paolo, Sano di Pietro, Francesco di Giorgio, Francesco Vanni, Ventura Salimbeni, Francesco Rustici detto “il Rustichino”. Un piccolo tesoro da scoprire.
Teatro e Musica: Accademia e Teatri dei Rozzi – Accademia Musicale Chigiana
Il Teatro dei Rozzi fu inaugurato nel 1817, con una grandiosa festa da ballo riservata ai Soci dell’ omonima Accademia culturale. La prima opera rappresentata fu L’Agnese di Fitzenry di Ferdinando Paer ed in breve divenne uno dei principali teatri di prosa italiani. Nel 1873 venne deciso un nuovo rifacimento del Teatro. In questa nuova veste il Teatro dei Rozzi restò aperto fino al 1945, anno in cui venne dichiarato inagibile a causa dei danni riportati durante la seconda guerra mondiale. Il Teatro dei Rozzi è stato riaperto al pubblico, completamente restaurato, il 29 maggio 1998, a seguito di una convenzione con il Comune di Siena
L’ Accademia Musicale Chigiana è una delle più prestigiose istituzioni musicali italiane. Nata nel 1932 per volontà del Conte Guido Chigi Saracini, l’Accademia rappresenta da quasi un secolo uno dei crocevia più importanti perla formazione e la crescita artistica dei nuovi talenti musicali. Sede dell’Accademia è Palazzo Chigi Saracini che conserva uno dei tesori artistici più importanti della città di Siena. La raccolta è composta da pitture, sculture, mobili e suppellettili di vario genere, collezionati nel tempo dal Conte e dai suoi avi secondo il gusto dell’epoca. Si ritrovano dipinti di Bernardo Strozzi, Giorgio Vasari, Stefano di Giovanni detto “il Sassetta”, Francesco di Giorgio Martini, Domenico di Pace detto “il Beccafumi”, Giovanni Antonio Bazzi detto “il Sodoma”, Marco Pino, Andrea del Brescianino, Francesco Vanni, Alessandro Casolani, Rutilio. Manetti, Bernardino Mei, e di molti altri artisti italiani e stranieri che trovano posto nella preziosa quadreria e nei salotti riccamente arredati del Palazzo, accanto a urne etrusche, bronzetti e preziosi lampadari di cristallo. Nel chiostro il ristorante-bar merita una tappa per un aperitivo.
Percorsi nel verde: Orto Botanico e Orto de’ Pecci
Siena è una città immersa nella natura anche dentro alle mura. Per tutti gli appassionati due green spot da vedere: l’Orto botanico e il cuore verde dell’Orto de’ Pecci. Il percorso all’interno dell’Orto botanico si sviluppa su due livelli tra le terrazze con le piante officinali, per proseguire con le piante indigene della Toscana centro-meridionale. Cuore dell’orto è l’antica serra di fine Ottocento con le specie tropicali, mentre “il podere”, area che si estende fino alle mura è coltivato con viti e olivi, in un contesto che conserva l’aspetto paesaggistico della città. Nella parte alta del podere è stato realizzato un giardino roccioso mentre, più a valle è stato ricostruito un felceto. Con maggiore predisposizione turistica è l’Orto de’ Pecci, un enorme polmone verde nel cuore della città. In passato era inglobato nelle proprietà dell’Ospedale Psichiatrico: i ricoverati coltivavano i campi e gli orti per il fabbisogno di verdura, frutta e animali da cortile dell’Ospedale. Oggi l’Orto è gestito dalla Cooperativa sociale La Proposta fondata con lo scopo di inserire nelle proprie attività produttive soggetti svantaggiati che provengono dal disagio psichiatrico e da altre situazioni di marginalità sociale. Si occupa, infatti, in primo luogo della conservazione, cura e gestione del parco verde dell’Orto de’ Pecci che ospita anche un ristorante e bar. Ideale come pausa di relax mentre si visita la città, un luogo unico con vista panoramica nel quale è ricostruito anche un antico orto urbano medievale.
Il percorso delle botteghe storiche
Siena è anche sinonimo di artigianalità che coinvolge diverse attività storiche che si tramandano da generazioni come le farmacie, pelletterie, fucine di fabbri che conservano il fascino dei secoli passati e in molti casi la storia di famiglie che per generazioni si sono prodigate per far sopravvivere la propria attività. Arredi antichi, insegne, conservate a volte anche da attività che sono cambiate nel tempo, ma che hanno intuito il valore della memoria. Le botteghe rimaste sono infatti testimonianza della storia, della cultura e della tradizione imprenditoriale senese, monumenti vivi della Siena del passato.
Dove mangiare: Osteria le Logge, un vero crocevia tra gastronomia e cultura internazionale
Come spesso accade in Toscana, la proposta enogastronomica è talmente ricca che difficilmente si può restare delusi. Tantissimi gli indirizzi ma questo vanta il perfetto mix tra rispetto della tradizione e innovazione gastronomica. Il ristorante Osteria le Logge nasce dalla passione per l’enogastronomia che ha unito indissolubilmente Gianni Brunelli e la sua compagna di vita, Laura. Nel 1977, i due decisero di profondere tutte le loro energie nell’apertura di questo ristorante a due passi dalla Piazza del Campo. L’atmosfera resta quella tipicamente da osteria che è stata per anni la sede della drogheria Barblan & Riacci, di cui Gianni, peraltro, non ha voluto cambiare molto, facendo convivere l’atmosfera tradizionale della bottega con la sperimentazione e la ricerca della qualità arricchita da nuove proposte più innovative. Un ristorante che è diventato vero luogo di ritrovo con vocazione cosmopolita per intellettuali, politici, artisti, gastronomi e semplici visitatori.
Si è inaugurata lo scorso 28 maggio, nelle sale nobili di Palazzo Cusani, la mostra Tramestio, a cura di Michael Camisa e Sophia Radici. I protagonisti sono tre artisti milanesi under 30: Davide Ausenda (1994), Alice Capelli (1997) e Marco Vignati (1994). L’immaginario collettivo ha subito un cambiamento: la pandemia di COVID-19 ha costretto una riprogrammazione quotidiana delle nostre azioni generali, vincolate all’interno delle proprie abitazioni per diversi mesi. Le generazioni Millennials e Post-Millennials hanno visto i propri sogni spegnersi ulteriormente a causa dell’obbligo a rimanere fermi, nonostante la loro mente non lo sia mai stata. L’ambiente domestico è diventato così sia prigione, sia officina creativa: ricordi, ambizioni, perplessità si sono mischiati tra loro. La mostra è una risposta al ribaltamento epocale che ogni individuo ha vissuto e che continua a vivere. Le alterazioni hanno colpito la dimensione spaziale, nella quale pubblico e privato sono diventati un tutt’uno all’interno di un tempo sospeso nel quale abbiamo udito un costante rumore di fondo: il tramestio.
Scopriamo qualcosa in più attraverso un dialogo con uno dei protagonisti, Marco Vignati, che ci racconta della mostra e del suo percorso.
Raccontami il tuo percorso e come sei approdato all’arte e alla fotografia
Credo che tutto sia nato molto presto, fin da piccolo. Parlando però concretamente già dall’inizio delle superiori ho capito che avrei voluto fare tutt’altro. Durante quei cinque anni mi sono approcciato quasi casualmente alla fotografia e da lì ho capito che avrei voluto continuare il mio percorso all’interno di essa. Diplomato, ho frequentato il corso di arti visive/fotografia presso L’Istituto Europeo di Design di Milano durante il quale ho iniziato a collaborare come assistente per alcuni fotografi, dalla moda allo still-life. Ho continuato dopo la laurea triennale a lavorare come fotografo di moda e still-life. Nonostante il mio corso fosse incentrato sulla fotografia di moda, il mio interesse per la si è sempre mosso verso l’utilizzo semantico dei principi costitutivi del mezzo stesso. Una ricerca che utilizza l’immagine fotografica, ma che è assolutamente distante dalla “fotografia” in quanto prende forma attraverso installazioni.
Cosa significa per te Tramestio?
Credo sia ciò che sia successo (e sta ancora succedendo) a Palazzo Cusani. Tre artisti e due curatori tutti under trenta, Un palazzo storico nel cuore di Milano. È stata un’opportunità meravigliosa e ci siamo subito adoperati per creare contenuti che fossero da un lato qualcosa che scuotesse, dall’altro che riuscissero a coesistere con il circostante. Per me è stata la prima vera occasione per mettere in mostra il mio lavoro. Chiaramente un onore.
Il tuo lavoro è a metà strada tra l’installazione e la fotografia, come è nato questo approccio?
Il mio interesse appunto fin dall’inizio dello IED si è subito spostato verso l’utilizzo della fotografia in maniera performativa/installativa. Questo sono riuscito ad unirlo a piccoli lavori di “artigianato” che ho sempre fatto, fin da piccolo, nel laboratorio di mio nonno. Ho preso molti spunti che riguardavano la mia infanzia e crescita e li ho uniti a quello che desidero raccontare ora.
Il tuo rapporto con la memoria e il tempo, tra recupero e negazione…
Il discorso della memoria legato al tempo chiaramente passato mi ha sempre affascinato, un interesse quasi ancestrale. Il fatto che poi abbia portato avanti la strada della fotografia sicuramente ha fatto coincidere questi due aspetti che in qualche modo parlano della stessa cosa ma sono anche all’opposto. Da un lato l’immagine fissa ciò che è appena successo, dall’altro nel momento stesso in cui avviene inizia il suo processo di storicizzazione che impone il trascorso temporale. In un certo senso, attraverso l’installazione 002 (lo “scrigno”), ho fatto in modo che ogni fruitore possa contribuire al cambiamento costante di un’immagine fotografica. In questo senso il tempo diventa a sua volta parte costituente di quell’immagine, strettamente legato a ciò che volevo comunicare con l’immagine inserita all’interno dell’opera stessa.
Quali i tuoi materiali preferiti per le installazioni e che significato hanno per te?
Ferro, cemento e legno sono materiali che ho sempre usato e visto usare durante le estati e le vacanze invernali nel laboratorio del nonno. Mi è sempre piaciuto poter essere in grado di modellare e creare oggetti con le mie mani, potrei dire che è stato un passaggio scontato. Le installazioni presenti vedono come protagonisti effettivamente questi materiali che ho usato in realtà più per appesantire le strutture e quindi parlare la stessa lingua rispetto al concept dell’opera. Pensiero e ricordo pesante nel personale, e pesante concretamente già solo come immagine.
I social media contribuiscono a comunicare anche l’ arte e il tuo lavoro? Memoria o dispersione?
Ho provato a comunicare questo tramite social, ma ho riscontrato davvero poco seguito. Posso aver sbagliato la modalità così come può essere che il mezzo stesso non sia fatto per questo tipo di dinamica. I social chiaramente li uso, li apprezzo e ne capisco il valore ma non sono un grande fan.
Sogni e progetti imminenti…
Per il futuro credo semplicemente che tutto ciò che è stato realizzato quest’anno sia la base di un percorso. Non è che il primo passo in fondo. La prima vera mostra. Da qui a fine anno ci saranno altre novità, nuove mostre e collaborazioni con altri mondi creativi.
Un percorso internazionale quello di Francesco Maria Messina che dall’originaria Pisa, cresce a Parigi e si forma professionalmente tra Francia, Stati Uniti, Africa e Mauritius. Per lui il punto d’inizio è sempre rappresentato da una storia, un tema o anche un reportage, da declinare non in modo astratto, bensì concretamente in oggetti, installazioni e complementi d’arredo che riescono a raccontare una storia. Nelle sue creazioni convoglia spunti relativi alla società, all’attualità, all’evolversi di usi e costumi del mondo contemporaneo, filtrandole attraverso un approccio sui generis al design, frutto di numerose esperienze internazionali e di una formazione umanistica.Nel suo corpus lavorativo si stagliano le opere realizzate durante il soggiorno mauriziano, cinque collezioni per un totale di venticinque pezzi sviluppati nell’arco di soli sei mesi, che restituiscono le suggestioni della natura dell’isola africana. Per quanto riguarda invece i suoi lavori in progress, Messina intende evidenziare, con la sua pratica al confine tra design e scultura, argomenti di grande rilievo quali lo scioglimento dei ghiacciai, il riscaldamento globale, l’erosione delle coste e il riciclo della plastica finita nelle spiagge. Le creazioni di Francesco, sorprendenti e mai convenzionali, si presentano come esempi eclettici di functional art, realizzati in edizioni rigorosamente limitate e imitando la natura, da cui il creativo trae costantemente ispirazione.
Sebbene sia un architetto-urbanista, influenzato durante il percorso di studi in Francia dall’esempio dei suoi maestri (ossia l’archistar Odile Decq e Matteo Cainer), Messina porta avanti fin dall’inizio un modus operandi che vede nell’idea forte, nel concept un elemento centrale e ineludibile, da sviluppare poi in corso d’opera, che si tratti di progetti d’architettura (per esempio musei o edifici) oppure di design. Riallacciandosi alla propria formazione classica e usando quasi esclusivamente materie prime naturali, crea oggetti scultorei che stupiscono per l’originalità delle forme e i forti contrasti materici, contraddistinti dall’impiego di insoliti materiali d’eccellenza, unici e quasi mai riproducibili. Lui stesso sottolinea come la ricerca, in questo senso, sia funzionale a mantenere la coerenza dell’idea iniziale: così, ad esempio, “nel caso dell’ultima collezione ispirata allo scioglimento dei ghiacci polari ho impiegato mesi per trovare il marmo/cristallo giusto che meglio rispondesse alle mie necessità, trovando nell’alabastro il compromesso perfetto”.
Dopo tredici anni all’estero, è tornato in Italia dove, nel giugno 2020, ha fondato FMM DesignStudio in Toscana, suo luogo d’origine e fonte d’ispirazione impareggiabile, nonché meta ideale per scovare i migliori artigiani e materiali unici al mondo, tra cui il marmo di Carrara e l’alabastro di Volterra. Oggi le sue creazioni trovano posto nella prestigiosa Galleria Rossana Orlandi (a Milano e Porto Cervo) e nelle sedi di Parigi e Cannes della Galerie des Lyons.
È proprio Francesco Maria Messina a illustrare nel dettaglio le sue esperienze e progetti passati e presenti e tanto altro ancora.
“Ile Maurice ” low table basalt stone and bespoke glass 110x155x60 ph by Stefano Pasqualetti by Cypraea
Iniziamo dalla tua formazione, vuoi parlarcene?
«Ho studiato a Parigi, mi sono trasferito quando avevo sedici anni per seguire mia madre, quindi ho finito lì il liceo per iniziare poi l’università, studiando con Odile Decq all’École spéciale d’architecture, storica istituzione parigina. Rispetto al classico percorso di studi in architettura italiano, quello francese presenta una vena artistica e creativa piuttosto che scientifica o strutturale, e ho avuto la fortuna di relazionarmi con professori provenienti da paesi come Stati Uniti, Spagna e tanti altri, che hanno sempre cercato di trasmettere l’importanza di avere un concept, di partire da un’idea forte che non fosse un semplice esercizio formale, di concentrarsi su una riflessione, un’analisi, una ricerca e cercare di rispettarla in corso d’opera. Dunque mi sono formato come architetto e, dopo la laurea triennale a Parigi, ho fatto un’esperienza di sei mesi in America, a New Orleans, con un progetto di social housing nato dopo il disastro dell’uragano Katrina, quindi sono tornato in Francia e la direttrice Decq ha proposto a me ed altri sei studenti di partecipare alla realizzazione della sua nuova scuola di Lione; così sono partito per la città, dove sono rimasto oltre due anni, preparando allo stesso tempo la tesi del master. Tutto questo per dire che la mia formazione è quella canonica dell’architetto, finché nel 2017 sono partito per il Camerun, lavorando come project manager assistant per uno studio italiano che supervisionava i lavori di uno stadio per la Coppa d’Africa. Mi mancava la possibilità di esprimermi creativamente, poi quasi per caso sono stato contattato da un’azienda mauriziana che cercava un architetto-designer per lanciare una linea di design di lusso da esportare all’estero; perciò mi sono trasferito a Mauritius, trovandomi decisamente bene (tanto da rimanerci due anni e mezzo) e cominciando un percorso nel settore per me inedito del design. Mi è stato chiesto per la prima volta di occuparmi di mobili, mi sono confrontato con questo mondo ed è nato un amore, privo degli ostacoli legati all’architettura odierna (tempistiche lunghe, modifiche ecc.), che mi dava la possibilità di mantenere la stessa creatività ed approccio concettuale esprimendoli, però, nell’arco di poche settimane, perché dallo sketch iniziale al modello finale volendo possono bastare tre giorni; l’ideale per me che sono molto attivo, voglio tutto e subito, avere la possibilità di accedere all’atelier di turno e chiedere un prototipo per la fine della giornata è stato fantastico, ho liberato tutta l’energia creativa e in nove mesi ho realizzato venticinque pezzi, prendendo spunto ovviamente da Mauritius per collezioni ispirate ai vari aspetti dell’isola, dalle spiagge e la barriera corallina alle parti meno conosciute del luogo (foreste, roccia, legno ecc.)».
Ile aux Fouquets free standing mirror-light basalt stone and bespoke mirror ph by Stefano Pasqualetti by Cypraea
Parli della linea Cypraea giusto? Nel tuo lavoro ricorre l’elemento naturale…
«Sì assolutamente, la natura è stata – e rimane – la mia prima fonte d’ispirazione, ma con Cypraea volevo raccontare qualcosa che non fosse solo una celebrazione del mare per cui è famosa Mauritius; ci sono certamente dei pezzi che lo fanno, come la libreria ispirata ai coralli con la sua struttura organica in sabbia, però ho impostato un percorso diverso, puntando al mercato internazionale dei vari brand. Ci siamo resi conto, tuttavia, di aver realizzato prodotti di nicchia, dal design esclusivo sia in termini di forme che di materiali, e così siamo finiti nel mondo delle gallerie d’arte, tanto che dal voler partecipare al Salone del Mobile (l’obiettivo primario dell’azienda) siamo approdati al Fuorisalone, alla galleria Rossana Orlandi, a Parigi, Londra ecc., occupando una nicchia assai esclusiva ma anche più “alta” a livello di clientela e immagine.
Rossana Orlandi ci ha scoperto praticamente per caso: a Milano facevamo quasi un porta a porta per cercare showrooom ed esporre al Salone, è stato cruciale l’incontro con Andrea Galimberti della galleria milanese Il Piccolo, che trovando incredibili le nostre proposte e non potendo esporci di persona, ha chiamato davanti a noi la Orlandi; l’abbiamo incontrata il giorno seguente, ha voluto l’intera collezione e così è partito tutto.
Credo che il mio lavoro, alla fine, consista in una sorta di functional art, sono pezzi di design che, al tempo stesso, mostrano un côté scultoreo, opere con una funzione insomma. Il cabinet, ad esempio, è funzionale in quanto contenitore, però ha una forma, un tipo di materiale che somiglia a una scultura, lo stesso vale per il tavolino o la libreria.
Aggiungo, da ultimo, che parteciperò alla prossima Venice Design Biennial, purtroppo a causa della pandemia non ci saranno molti eventi, ma rimane una vetrina per il design parallela a quella di architettura, con nomi d’eccezione. Mi presenterò alla manifestazione con due pezzi inediti: un coffee table chiamato Iceberg, realizzato interamente in alabastro e vetro, e uno specchio nei medesimi materiali; sono ispirati entrambi allo scioglimento dei ghiacci, quindi due creazioni di denuncia se vogliamo, ed è proprio ciò sui cui volevo puntare l’attenzione, lo specchio è da terra, con la base in alabastro, e ha la forma di un iceberg alla deriva che proprio recentemente si è sciolto, frantumandosi in mille pezzi».
“Aqua” shelf Sand and acrylic ( 3 modules , tot dims :2100 x 3600 ) ph by Eric Lee by Cypraea
Questo dei ghiacciai è un tema decisamente attuale, Ludovico Einaudi tempo fa ha eseguito una performance al pianoforte al Polo Nord. Pensi che l’arte debba avere anche una funzione di denuncia e di impegno sociale?
«Lo credo anch’io, con Cypraea infatti avevamo deciso di riservare una percentuale dei profitti alla Mauritian Wildlife Foundation e a un altro ente ambientale, in questo senso non ho ancora preso accordi a titolo personale, però mi piacerebbe prendere parte a delle iniziative che abbiano un risvolto pratico».
“Rochester” cabinet. solid wengè, solid brass, premium leather 53x155x95 ph by Stefano Pasqualetti by Cypraea
Quali i progetti per il futuro e il prossimo Salone del Mobile?
«Il Fuorisalone in qualche modo verrà probabilmente organizzato e dunque sì, mi piacerebbe provare a fare qualcosa, magari con Rossana Orlandi. Ad ora di confermato ci sarebbe, a settembre, un evento della Paris Design Week curato da François Epin, uno dei principali curatori francesi di design e arte contemporanea, in una bella cornice qual è la Cornette de Saint Cyr, hôtel particulier nel XVII arrondissement, e che avrà una bella curatela di artisti, se tutto procede come previsto dovrei partecipare con un pezzo dedicato, ancora una volta, alla questione dei ghiacciai. A giugno, inoltre, dovrebbe arrivare un altro evento in Sicilia, a Noto, non so ancora precisamente su quali temi (con ogni probabilità sarà incentrato sui quattro elementi naturali), una collettiva di 3-4 artisti in cui sarò anche io. Si tratta di una bella iniziativa perché la location è quella di Palazzo Nicolaci, un edificio patrimonio Unesco con saloni gattopardeschi, semplicemente meraviglioso».
“Aqua Cube bar”. 100x80x80. sand and acrylic ph by Eric Lee by Cypraea
Ile Maurice & Ile Rodrigues low tables coral stone and bespoke glass (60x240x120) ph by Stefano Pasqualetti by Cypraea
Da Anversa a Roma, passando da Hollywood: questo è il percorso di Alan Cappelli Goetz, attore diventato un volto noto delle fiction Rai ma anche in alcuni importanti produzioni americane. La sua carriera è tutt’ora in ascesa e lo dimostra il fatto che lo abbiamo potuto vedere interpretare personaggi sempre più importanti nelle fiction e nelle serie TV in onda negli ultimi anni. Oggi, ci racconta della sua ultima produzione internazionale: The Poison Rose, un thriller in cui interpreta John Travolta da giovane.
Pantalone Etro, maglia ricamata Maison Laponte
Partiamo dal tuo ultimo film in uscita The Poison Rose, un thriller in cui interpreti John Travolta da giovane. Come è stato confrontarsi con grandi attori in questa produzione? Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
Purtroppo o per fortuna per me i grandi attori sono rimasti a Hollywood e la parte italiana del film è stata girata integralemnte nel Lazio da noi italiani. Ti assicuro che anche solo l’idea di sapere che lo stesso Travolta visionava il materiale e lo approvava (essendo lui anche uno dei produttori del film) mi metteva abbastanza ansia ed emozione. Ci siamo poi incontrati al festival del Cinema di Roma.
Quali le scene di The Poison Rose per te più difficili? Come è stato lavorare con Alice Pagani (di cui ti innamori nel film) ?
Lavorare con Alice è stata una bella esperienza. E’ una grande attrice ed una professionista, ci siamo aiutati tanto, specialmente nelle scene di intimità e penso che alla fine il risultato si veda. Nonostante il mio personaggio (John Travolta da giovane) sia duro e riflessivo, mentre giravamo le scene, dentro mi sentivo sciolto dall’intima connessione che si era creata.
Frame dal film La rosa velenosa (The Poison Rose)
Cosa puoi dirci invece del tuo ruolo ne “La Fuggitiva” ora in onda su Rai 1?
In questa serie interpreto un banchiere svizzero, ma non voglio anticipare troppo perchè ho un ruolo chiave nella riuscita dell’impresa dei due protagonisti (Vittoria Puccini e Eugenio Mastandea). Carlo Carlei, che è il regista di questa serie ( e precedentemente di altre serie in cui ho lavorato come i Bastardi di Pizzofalcone e Il Confine) mi ha voluto fortemente e ha proprio pensato a me per questo personaggio. Pensa che la colonna sonora presente ne “il Confine” compare anche in una scena andata in onda la scorsa settimana ne la Fuggitiva.
Raccontaci il tuo percorso fino ad oggi. Come è nata la tua passione per il cinema e teatro?
Ho da sempre desiderato fare questo mestiere. E’ come se non si scegliesse davvero, la passione esiste dentro da sempre, va solo ascoltata, e questa cosa vale per tutti i mestieri del mondo, secondo me. Sono arrivato a Roma a 19 anni, un passaggio ad Amici, poi lo studio matto e disperatissimo al centro sperimentale di cinematografia, dove sono stato notato da Francesco Vedovati, (forse il casting italiano più conosciutio all’estero) che mi ha lanciato nello spot della Tim diretto da Muccino. Da li è cominciato tutto. Tante serie e film, anche internazionali. Alcuni dei progetti che porto più nel cuore sono sicuramente Il principe abusivo, Tutti Pazzi per Amore, I Medici, Il confine diretto da Carlo Carlei e anche Crossing Lines.
Poncho Pierre Louis Mascia, pantalone Sabato Russo
Della tua città natale Anversa che ricordi hai? E’ considerata la patria della moda concettuale e dell’arte…tu che rapporti hai mantenuto con le tue origini belga?
Purtroppo non ci vado spesso quanto vorrei, ma amo molto le mie origini. penso sia una fortuna crescere contaminati da idee e culture diverse specialmente in questi tempi dove anche la politica vede l’aumento di forze nazionaliste di vecchio stampo, mi sento fortunato a non aver alcun dubbio al riguardo. Più siamo mischiati, contaminati, incrociati, meglio è.
Un personaggio tra quelli che hai interpretato a cui sei particolarmente legato?
Franz- de “Il Confine” (visibile anche su raiplay). Un ragazzo che esattamente come me è attraversato da due culture, quella italiana e quella austriaca, in questo caso il tutto condito in salsa 1914, prima guerra mondiale. Una storia d’amore in due direzioni, una fraterna e una romantica. Un ruolo che non dimenticherò mai anche grazie alle incredibili location nel Carso (dove hanno ricostruito le trincee) e per la verità della storia che raccontavamo. Vivere anche se solo sul set i drammi dei soldati 18enni mandati al massacro sul confine è qualcosa che ti lascia un grande senso di gratitudine verso la vita che vivi e di responsabilità na farne del mio meglio.
Con quali registi ti piacerebbe lavorare in futuro?
Uno su tutti, lo ripeto da anni, chissà che non gli arrivi prima o poi la pulce nelle orecchie, Xavier Dolan. L’ho anche incontrato a Parigi, ma non ho avuto il coraggio di propormi per un suo film…
Abito Alexander McQueen, calzature Attimonelli’s
Parlando di serie invece, una che stai apprezzando in questo periodo?
Sarà banale ma sto riguardando per la seconda volta tutto The Crown.
Sei vegetariano e ambientalista, quali i tuoi progetti?
Cerco di divulgare il più possibile temi importanti e che possono veramente fare la differenza attraverso i social. Penso che sia responsabilità di tutte le persone con un seguito più o meno folto di sensibilizzare il mondo verso valori a loro vicini, oltre che usarli come autocompiacimento. Purtroppo in molti casi questo non accade e allora ci provo io a compensare. Battaglie contro l’abuso di alimenti di origine animale, la plastica, il fast fashion e contro chi non rispetta i diritti umani. Ci metto dentro un pò tutto quello in cui credo. Ma diciamo che il focus principale sono gli allevamenti intensivi e il modo brutale in cui è prodotta la carne oggi nel 90% dei casi. Questo disastro oltre che eticamente inaccettabile è anche un problema per la nostra salute e guarda un pò, anche per l’ambiente. Bisogna fare un piccolo sforzo e rivedere le nostre diete verso alimenti di base vegetale e limitare il consumo di proteine animali. E’ un imperativo che la scienza ci chiede, e anche L’OMS. Non vedo come sia possibile pensare che sia dietrologia o “propaganda” vegana. Non c’è nemmeno bisogno di essere vegani, per l’ambiente già una riduzione di 2-3 unità al mese è un passo avanti importante. Ognuno deve fare quel che può, l’importante è che faccia qualcosa. Non basta chiudere l’acqua del rubinetto quando ci laviamo i denti, pensa che un solo hamburger richiede per essere prodotto l’equivalente di due mesi di docce. Capisci perchè ce l’ho con la carne??
Oggi per te anche la moda deve essere ripensata in chiave sostenibile?
La moda o fa questa scelta o è destinata a finire come le pellicce nuove, nel dimenticatoio delle nuove generazioni e negli armadi di clienti show off ancorati a concetti del passato. Per fortuna tante aziende (come il gruppo VF) stanno facendo seri passi in avanti con l’utilizzo di nylon rigenerati, scarpe con suole eco-sostenibili ecc…
Total look Etro
Sei su Clubhouse, cosa ne pensi di questo nuovo social e come lo utilizzi?
Mi piace molto, ma non so se diventerò un abituè… Vedremo! Intanto mi sono iscritto subito alle stanze sulla sostenibilità!
I capi essenziali nel tuo armadio?
Maglietta bianca, jeans chiari e scuri, camicie anni Ottanta.
Se potessi partire domani dove andresti?
In Giappone a finire di esplorare il sud del paese e le sue coste tropicali.
Dove ti vedi tra 10 anni?
Innamorato, immerso nella natura, circondato dagli amici migliori. Non troppo distante da come mi trovo ora a dire il vero…
Un passato da Youtuber, performer e infine l’entrata a gamba tesa nel mondo della musica, vera e principale passione di Lorenzo Paggi, in arte Jayred.
Classe 1997, con Roma nel cuore ma residente a Milano, lo abbiamo intervistato all’interno di @chillhouseita, in cui Lorenzo risiede momentaneamente come guest. La scelta della location non è casuale: se la Chill House è un crocevia di percorsi e carriere differenti, il punto di unione è la creatività, la capacità di pensare fuori dagli schemi e soprattutto la voglia di mettersi in gioco. E Lorenzo ne ha da vendere.
Lo stile skate punk che lo ha accompagnato mentre muoveva i suoi primi passi nel mondo del web ha lasciato spazio ad una ricerca più profonda di sé stesso, tra influenze punk e pop punk e sperimentazioni originali e inedite il percorso di Jared nel mondo della musica è partito con il botto: ‘14‘, singolo d’esordio, conta oltre 8 milioni di ascolti su Spotify.
Da poco è uscito un nuovo singolo, Dipendenza, che ha tutte le carte in regola per diventare un nuovo successo: il suo percorso nel mondo della musica è appena iniziato.
Total look Wayeröb by Alessandro Onori
Giacca Gucci, pantalone Sandro Paris
Trench Annakiki
Giacca Magliano
Giacca Magliano, borsa Gucci
Gilet Magliano, pantaloni Annk, jewels Vincent vintage bijoux
Web star, artista, attore e creativo a 365 gradi. Tancredi Galli in arte Sightanc è uno dei talent più versatili del panorama Italiano. Vi ricordate di lui? Lo abbiamo visto lo scorso autunno sfilare sul tappeto rosso del festival del cinema di Roma in occasione della prima di “Cosa Sarà”, pellicola diretta da Francesco Bruni dove Tancredi ha recitato al fianco di Kim Rossi Stuart. Questa volta lo abbiamo incontrato all’interno di @chillhouseita, progetto tutto italiano che vede coinvolti alcuni tra i creators più influenti della GenZ, e tra un TikTok e una diretta su Twitch, Tancredi coltiva la sua passione per l’arte dipingendo quadri che hanno mandato in tilt internet.
Alex De Pase è uno dei maestri più quotati, specializzato nel tatuaggio realistico e nella ritrattistica. Inizia a tatuare per caso, da ragazzino infatti aveva la passione del disegno e in mano pochi rudimentali attrezzi del mestiere, ma anche un destino segnato: diventare non solo uno dei maggiori esponenti del tatuaggio realistico nel mondo, ma far entrare un percorso di studi dedicato al tatuaggio in una istituzione accademica. Tra gli ultimi progetti anche la creazione di una linea di sneaker di lusso di cui ci svela di più nella nostra conversazione.
Com’è nata la tua passione per il tatuaggio e la ritrattistica?
La mia passione per il tatuaggio è nata molti anni fa nel 1990, quando conobbi una persona piuttosto eccentrica e molto tatuata, che a sua volta tatuava, e che poi sarebbe diventata per me un mentore. Parliamo di anni in cui essere tatuati dava ancora molto scalpore e ti etichettava immediatamente come una persona poco raccomandabile, figuriamoci poi l’alone di mistero che aleggiava su chi i tatuaggi li faceva. Io ero un quattordicenne decisamente ribelle che andava controcorrente e al tempo stesso ero fortemente appassionato di disegno. Da questa amicizia è iniziata la mia avventura nel mondo del tatuaggio e non mi sono mai più fermato.
Mi sono accorto che nell’eseguire i primi ritratti provavo un’emozione enorme, dare vita a qualcosa di simile sulla pelle mi coinvolgeva in maniera assoluta. Da lì ho iniziato a dedicarmi esclusivamente a quello mettendomi come obiettivo di diventare tra i più conosciuti tatuatori al mondo per la ritrattistica a colori. La gratificazione che senti e il trasporto che hai quando fai qualcosa che realmente ti nasce da dentro è impagabile e al tempo stesso ti consente di raggiungere risultati davvero importanti.
Quali sono stati gli step fondamentali nella tua carriera?
Gli step fondamentali sono stati diversi in diversi momenti. Il primo è stato quando appunto ho deciso di dedicarmi alla ritrattistica a colori, decisione che ha segnato e dato il via alla mia. Poi un altro momento importante è stato quando sono stato inserito dal giornale storico del settore, la rivista americana “TATTOO”, tra i 10 migliori tatuatori al mondo. Questo mi ha dato una grande notorietà e l’anno successivo un’altra nota rivista del settore, “REBEL INK”, mi ha inserito nella lista dei 25 tatuatori più ricercati al mondo. Poi sarebbero davvero tanti i momenti significativi della mia carriera ma forse quello più importante è arrivato qualche anno fa quando il museo Macro di Roma mi ha conferito il titolo di artista contemporaneo, cosa del tutto inaspettata per il mondo del tatuaggio e da lì poi l’esposizione dei miei tatuaggi al museo M9 di Venezia. Infine, non ultimo, quello di realizzare una linea di sneakers luxury.
Com’è nato il progetto di calzature?
Tra le mie passioni c’è sempre stata anche quella per la moda e in particolare per le sneakers. Per diletto creavo dei progetti che raffiguravano proprio delle calzature tra l’elegante e lo sportivo. Cercavo di immaginare come avrei potuto dar seguito alla mia creatività e a come i miei tatuaggi potessero essere visti anche in altri ambiti e in particolare quello della moda. Quindi nei disegni che preparavo inserivo i tatuaggi che avevo fatto. Un giorno li mostrai al mio amico Kardif e insieme abbiamo deciso di concretizzare questo progetto, creando una linea di luxury footwear.
Quali sono i tuoi punti di riferimento nel mondo creativo?
Non posso dire di aver mai avuto dei punti di riferimento ai quali ispirarmi per stimolare la mia creatività, la creatività secondo me è frutto della tanta curiosità, della voglia di rimanere affascinati davanti alla bellezza, davanti a qualcosa che è percepito come diverso. La curiosità secondo me è una fonte inesauribile di creatività, io sono sempre stato incuriosito da tutto e alimentando la mia curiosità sono poi arrivato a un mio modo personale di essere creativo.
Che personaggi vorresti portassero le tue sneaker e i tuoi tattoo?
Immagino che le nostre sneakers siano perfette per chi ama l’arte e il luxury, ma non sente il bisogno di esibirlo o di ostentarlo. Una persona dall’essenza estrosa e che ama la peculiarità dei dettagli, così come l’appeal strong del nostro stile.
Arlo Haisek è un designer di gioielli e micro sculture cresciuto nel Chianti e poi formatosi a Firenze dove frequenta l’Istituto d’Arte, facendo esperienza in diversi laboratori orafi a Pontevecchio per poi lanciare il proprio marchio e atelier in via dei Bardi a Firenze. Grazie alla passione per i minerali, per le pietre dure e all’esperienza nel taglio fatta a Jaipur, realizza pezzi unici con pietre e materiali non sempre ordinari ma capaci di avvicinarci a quell’emisfero fatto di sensazioni e ricordi ancestrali che tali materiali possono far emergere in chi li indossa. Trae ispirazione dalla natura, che rappresenta anche un importante valore da difendere. Un’estetica che privilegia l’irregolarità dei materiali che contribuiscono a rendere l’oggetto unico e speciale.
Raccontaci il tuo percorso e come è nata la tua realtà…
Ho sempre creato sculture e altri oggetti con frammenti di legno, ingranaggi, ma unire il metallo era un’alchimia sconosciuta. Quando si presentò l’occasione di scegliere il mio percorso scolastico ho pensato che avrei potuto realizzare il sogno di costruirmi una bicicletta. Così mi sono iscritto alla sezione di oreficeria all’Istituto d’arte di Firenze per imparare la tecnica della saldatura. La mia è stata una lunga gavetta nei laboratori di Pontevecchio, guidato sempre da una grande determinazione nel proseguire il mio percorso nonostante le difficoltà. Ho iniziato a collaborare con aziende di moda come creatore di fibbie, oggetti grazie ai quali si creò interesse verso le mie lavorazioni, arrivando così ad essere selezionato come modellista di gioielli per le sfilate. In seguito, pur lavorando con importanti maison, ho deciso di mettermi in gioco e ho lanciato il mio brand.
Come si porta avanti la tradizione restando al passo con i tempi? Porto avanti la tradizione della tecnica antica della cera persa, utilizzandola con uno stile contemporaneo. Oggi la società impone di utilizzare macchine moderne in 3D, portando però a produzioni dozzinali. Il mio intento è di valorizzare il fatto a mano. L’economia di oggi si basa su manufatti creati con macchinari a controllo numerico e a mio parere molto più freddi, dove si perdono i particolari e l’essenza di un tipico prodotto artigianale.
Quali i tuoi pezzi iconici che caratterizzano il tuo marchio e come sono nati?
I miei pezzi iconici sono gli anelli e i bracciali che fanno parte della collezione Fusion, nata alla fine degli anni novanta/inizio anni duemila. Sono caratterizzati da colature primordiali che riportano alle trasformazioni delle superfici naturali date dall’eruzione dei vulcani. Altra collezione cui tengo molto si chiama Wood, che equivale a un grido d’allarme per la natura, essendo parte fragile e vittima di guerre, inquinamento e della distruzione dell’uomo. Questa linea è nata montando frammenti di legno, come se fossero preziosi più dei diamanti.
Raccontaci delle tue ispirazioni e processo creativo…
Spesso tutto parte da una gemma, da una pietra. La mia ricerca si nutre nel vedere le fasi che la pietra attraversa, dalla terra al taglio. Studio la valorizzazione di gemme che presentano inclusioni per sottolineare l’unicità della natura, il bello del diverso e dell’irregolare. Per me la simmetria è simbolo di freddezza. Il mio processo creativo nasce, oltre che dall’osservazione dei miei miti e maestri dell’arte, da ispirazioni naturalistiche, da ciò che vedo tutti i giorni partendo dalla campagna ai centri storici medievali. Esprimo quello che assorbo dalle visioni quotidiane.
Quali le tecniche artigianali che sono parte del tuo heritage e utilizzi ancora oggi?
La tecnica artigianale che prediligo e di cui sono maestro è la cera persa. Sono stato scelto per tenere un corso alla Scuola Lorenzo de Medici e per trasmettere ai giovani questa tecnica preziosa. Questa è la materia che la professoressa Piera Bellini dell’Istituto d’Arte di Firenze mi ha fatto amare e che caratterizza le mie creazioni.
I progetti per il futuro e che strategie stai sviluppando per superare questo momento?
Di sicuro sono concentrato verso una continua crescita per rendere i miei gioielli e le sculture sempre più importanti. La mia strategia è di essere sempre più visibile e presente nei paesi da dove provengono i miei clienti più consolidati. Vorrei far conoscere ad un pubblico sempre più vasto il mio lavoro. Per questo è importante potenziare l’online, i social e altri canali, ovviamente portando sempre avanti le collaborazioni con grandi negozi di moda.
Il laboratorio Barbera Sandro & Figli nasce 53 anni fa a Biella, comune dalla lunga e gloriosa tradizione nel settore tessile, dove Sandro Barbera, con il supporto cruciale della moglie Luciana, apre un’omonima “bottega”, passando ben presto dalla riparazione alla produzione in proprio di scarpe. L’obiettivo è chiaro e ambizioso: proporre a una platea di intenditori calzature in pelle della miglior qualità possibile, realizzate rigorosamente a mano, impiegando pellami di pregio e seguendo alla lettera i dettami della tradizione artigianale locale.
Queste peculiarità sono state mantenute dai figli del fondatore Stefano e Andrea, subentrati al padre e decisi a perpetuarne il lavoro, scrivendo nuovi capitoli di una storia pluridecennale che, proprio in occasione del 50esimo anniversario, si è arricchita del riconoscimento di Eccellenza Artigiana, conferito dalla regione Piemonte, al quale sono seguiti il premio Eccellenze Italiane e quello di Artigiano del Cuore.
Ogni modello dell’azienda è totalmente – e orgogliosamente – made in Italy, unico e personalizzabile su richiesta del cliente, al quale Barbera si impegna a consegnare una scarpa pensata per durare, in equilibrio tra raffinatezza timeless e stile contemporaneo, dai materiali preziosi (anch’essi di provenienza 100% italiana), nobilitata da colorazioni e procedimenti ad hoc come la tintura a mano o la lavorazione stone wax. L’offerta è ampia sia per l’uomo che per la donna, e comprende i classici intramontabili (derby, francesine, mocassini, ecc.) affiancati da modelli più moderni e attenti al gusto odierno.
Abbiamo parlato di tutto ciò, ripercorrendo il percorso del laboratorio di famiglia, con Andrea Barbera.
Può raccontarci com’è nata l’azienda Barbera Sandro & Figli e il suo percorso fino ad oggi?
«Barbera Sandro & Figli è una bottega artigianale che, da oltre mezzo secolo, realizza calzature di qualità, lavorandole rigorosamente a mano e utilizzando solo i migliori materiali italiani. Il laboratorio è stato avviato nel 1968 dai nostri genitori Sandro e Luciana, cui nel tempo siamo subentrati io e mio fratello Stefano. Proseguire l’attività di famiglia è stato per entrambi un percorso spontaneo, che ha iniziato a delinearsi apprendendo i segreti del mestiere da nostro padre e, più di tutto, lasciandoci contagiare dalla sua passione nel creare con le proprie mani accessori unici, in grado di esprimere tutta la qualità e bellezza del fatto a mano italiano».
Com’è possibile proseguire una tradizione pur restando al passo con i tempi?
«Per quanto ci riguarda, fare scarpe a mano va oltre la “semplice” creazione di calzature eleganti, significa infatti anche ricercare di continuo lavorazioni e materiali innovativi, che garantiscano sempre il massimo comfort. Per raggiungere questo traguardo sono stati necessari anni di studio, esperienza sul campo e un costante aggiornamento a livello di ultime novità del mercato. Non abbiamo trascurato neppure l’aspetto green, ad esempio ricorrendo per le nostre iconiche Wooly alla lana Merino, sostenibile per definizione, oppure alla gomma eco-friendly per le suole.
È stato poi fondamentale il settore digitale, su cui abbiamo puntato molto, per farci conoscere di più e mantenere un canale diretto con i clienti, vicini o lontani che fossero. Siamo presenti sui social con i nostri account su Facebook, YouTube e Instagram, e abbiamo naturalmente un sito web completo di e-store, così da essere sempre raggiungibili e avere l’opportunità di raccontarci a un pubblico online».
Quali sono i modelli iconici del brand?
«Uno dei modelli più apprezzati è senz’altro la sneaker unisex Wooly, sviluppata insieme al team di Reda Active: è un omaggio al nostro territorio (il biellese, ndr) celebre per i tessuti pregevoli, perciò abbiamo scelto una lana Merino neozelandese – un filato dalle eccezionali proprietà termiche, indossabile dunque in ogni stagione; è una scarpa adatta a uno stile casual come all’abbinamento con il completo spezzato.
Per celebrare il 50esimo anniversario abbiamo lanciato invece le Barberine, belgian loafers esclusive declinate in vitello, suede e altri tessuti; presentano una costruzione Flex, perciò uniscono il massimo della comodità a uno stile raffinato, di gran tendenza.
Da ultime, certamente non per importanza, le Multicolor: sono le calzature con cui ci siamo fatti conoscere ovunque, una gamma di stringate maschili interamente rifinite e tinte a mano; offrono un’ampia possibilità di personalizzazione, perché ciascun cliente può scegliere la sfumatura di ogni elemento che compone la tomaia».
Quali sono le tecniche artigianali che definiscono il vostro heritage e vengono tuttora utilizzate?
«Facciamo ampio ricorso alla tecnica Black Flex cui si accennava prima: si tratta di una lavorazione esclusiva che accentua la morbidezza della calzatura, donandole così un aspetto peculiare e, soprattutto, un’elevata flessibilità.
Un’altra tecnica che è parte integrante del nostro heritage, utilizzata tuttora in alcuni modelli, è quella della tintura a mano, capace di arricchire la scarpa con sfumature di colore irripetibili.
Va menzionata, infine, la procedura stone washed che, come suggerito dal nome, prevede il “lavaggio” con pietre delle calzature, per conferirgli una patina vintage e ammorbidirne la pelle, ottenendo così una texture unica, attuale e dagli accenti grintosi».
Quali sono i progetti per il futuro e quali, invece, le strategie che state mettendo in atto per superare questa fase di difficoltà?
«In questo periodo puntiamo molto sull’online e continuiamo a investire nella comunicazione digitale, implementando inoltre servizi innovativi per soddisfare le richieste ed esigenze della nostra clientela, ad esempio il Virtual Shop, ossia la possibilità, attraverso la prenotazione di una videochiamata su WhatsApp, di entrare virtualmente nel laboratorio ed essere consigliati riguardo numeri e stili delle calzature.
Il rapporto diretto con le persone è certamente uno degli aspetti che amiamo maggiormente del nostro lavoro, crediamo però che, anche a distanza e con tutte le difficoltà del caso, relazionarsi con gli altri sia più importante che mai, sia per noi che per i nostri clienti».
È Lorenzo Zurzolo – uno dei new talent più promettenti del cinema italiano che, a soli vent’anni, ha già all’attivo ruoli in titoli di grande successo quali ‘Baby’, ‘Sotto il sole di Riccione’ e ‘Compromessi sposi’ – il protagonista degli scatti realizzati da Davide Musto e pubblicati su Man In Town. L’attore romano si fa qui interprete dell’estetica flamboyant, a tutto colore di Gucci, indossando pantaloni, maglie, completi e accessori dall’allure seventies, nei quali l’estetica squisitamente retrò del periodo si unisce agli stilemi della maison fiorentina, dall’iconico logo GG al nastro Web. Tra blazer dagli ampi revers a lancia, completi svasati, borse di grande formato, boots ornati dal morsetto e cromie brillanti alternate a nuance pastello, si fanno notare le fantasie floreali tratte dagli archivi di Ken Scott, marchio celebre proprio per le stampe variopinte ispirate al mondo animale e vegetale, oggi di proprietà di Mantero Seta. Così i motivi ideati dal “giardiniere della moda” animano le texture dei capi, espressione di uno stile caleidoscopico, libero da qualsiasi timore o condizionamento.
Da sinistra: Giacca e pantalone flare in lana, borsa hobo Jackie 1961 misura grande in pelle scamosciata marrone con nastro Web verde e rosso, stivaletti in pelle. Giacca e pantaloni flare in lana mohair con stampa Ken Scott, camicia in crêpe di seta beige con fiocco annodato. Giacca in velluto con stampa floreale rosa e verde Ken Scott, pantaloni flare in tessuto GG organico arancione e blu, t-shirt a righe marrone e avorio con dettaglio patch GG
Da sinistra: Giacca e pantaloni flare in seta e lana rosa e beige con pattern jacquard d’ispirazione greca ed etichetta Gucci, camicia in cotone a righe color crema e blu, mocassini in pelle con dettaglio nastro Web e nappine. Giacca, gilet e pantaloni in lana blu con dettaglio etichetta, camicia in cotone rigata.
Da sinistra: Giacca, gilet e pantaloni in lana verde, camicia in cotone rigata, mocassini in pelle con dettaglio nastro Web e nappine.
Giacca, gilet e pantaloni in lana blu con dettaglio etichetta, camicia in cotone rigata, stivaletti in pelle bordeaux.
Filippo Cini (@filippocinireal), una laurea in economia aziendale appesa al muro e un’impastatrice sulla dispensa, si divide tra la gestione dell’azienda nel settore automotive e la realizzazione di ricette. Ama la pasticceria e la fotografia.
Il suo approccio, per quanto riguarda il food, parte dal concetto di “cucina dei ricordi”, cercando di far evolvere su un piano creativo e attuale il sapore della tradizione, anche perché il profumo di un piatto deve esaltarne il ricordo sensoriale ed emozionale.
Nel suo percorso di food blogger ha partecipato a diverse trasmissioni televisive e radiofoniche, collaborando inoltre ad alcuni eventi di show cooking. Adora le spezie, la cucina sensoriale e il cioccolato, sua grande passione! I dettagli, com’è noto, fanno la differenza, ma anche una nota speziata, pur sembrando a volte stonata, può portare ad un piatto gustoso, esaltandone in modo esponenziale la materia prima.
Sostiene di non ricercare la perfezione, bensì l’effetto ‘wow’, fedele al suo mantra «make it sweet: se tutto va storto fatti una torta al cioccolato!».
Per Man in Town ha pensato alla famosa cecina ligure (la base della ricetta è dunque una crespella fatta con farina di ceci), a come poterla declinare in modo nuovo, moderno eppure dal fascino retrò.
Un piatto gluten free e veggie per venire incontro a tutte le esigenze, leggero e dal sapore autunnale.
La farina di ceci è naturalmente senza glutine, molto proteica, ottenuta dalla macinazione dei ceci secchi; è un alimento salutare e la troviamo in numerosi piatti. La zucca, invece, è un ortaggio molto versatile quanto a usi in cucina, amico delle diete poiché il suo apporto calorico è di sole 18 Kcal per 100 grammi. Ricca di vitamina A, è fonte di potassio, fosforo, magnesio e ferro; notevole anche la percentuale di vitamina C e del gruppo B. La parte “grassa” della ricetta è rappresentata dall’avocado, che apporta una buona dose proteica, e dalla maionese veg, che presenta la nota aromatica e cromatica della curcuma.
Un piatto che può essere una portata unica oppure un antipasto se “vestito” da finger food; per renderlo più light possiamo sostituire la maionese con una marinatura di olio, peperoncino e limone.
Ricetta per 2 persone
Per la crespella: 80 g di farina di ceci 5 g di bicarbonato
160 ml di acqua 1 cucchiaino di olio evo
Per il ripieno: 100 g di zucca 1/2 avocado maturo
sale
Per la maionese veg alla curcuma:
50 g di latte di soia
1 cucchiaino di curcuma
100 g di olio di semi 1 pizzico di sale 1 cucchiaio di succo di limone
Insalata: sedano rapa
spinaci freschi
melagrana
olio evo, sale e pepe
Procedimento: Preparate le crespelle di farina di ceci setacciando la farina di ceci con il bicarbonato; aggiungete l’acqua e l’olio evo, mescolate bene con una frusta e lasciate riposare qualche minuto. Scaldate bene una padella, ungetela con l’olio e cuocete le crespelle da entrambi i lati. Proseguite fino al termine dell’impasto e lasciatele freddare. Ricavate, con l’aiuto di un coppapasta, 6 crespelle.
Su una placca da forno foderata con carta forno mettete ben distanziata la zucca tagliata a quadratini, irroratela con olio evo e salate. Cuocete a 180 gradi in forno statico per 15/20 minuti.
Pulite l’avocado, tagliatelo a dadini ed irroratelo con succo di limone.
Preparate la maionese inserendo in un bicchiere alto il latte di soia, la curcuma e un pizzico di sale, mescolate con l’aiuto di un frullatore ad immersione, aggiungete a filo l’olio di semi continuando a miscelare. Aggiungete il succo del limone filtrato e continuate a mescolare; il succo aiuterà ad addensare la vostra maionese. Riponete la maionese in frigo per farla riposare.
Componete il vostro piatto andando ad alternare gli strati di crespella a quelli di maionese veg, zucca e avocado, come se fosse un millefoglie.
Servite le crespelle con un’insalata fatta con spinaci freschi, melagrana e fili di sedano rapa, il tutto condito con olio evo, sale e pepe.
Continuate a seguire le ricette di Filippo sul suo profilo @filippocinireal !
Stylist milanese con il pallino del vintage, Susanna Ausoni ha iniziato la carriera come look maker. Il suo percorso nella moda è iniziato quasi casualmente, grazie a un outfit collegiale indossato al lavoro nel negozio Fiorucci in centro, notato da Paola Maugeri. Da lì in poi si è dedicata allo styling e alla consulenza d’immagine, diventando negli anni Duemila responsabile dello stile di MTV Italia e collaborando con diversi brand, aziende ed etichette discografiche alla realizzazione di campagne pubblicitarie, spot e progetti legati alla comunicazione. Ha curato lo stile di numerose personalità d’eccezione del mondo dello spettacolo (Michelle Hunziker, Daria Bignardi, Victoria Cabello, Virginia Raffaele solo per fare qualche nome) e musicale, unendo così due delle sue principali passioni, moda e musica, appunto. L’elenco dei cantanti da lei seguiti comprende Carmen Consoli, Mahmood, Nek e Dolcenera, e nell’ultima edizione del Festival di Sanremo ha firmato gli outfit di Francesco Gabbani e Le Vibrazioni.
Abbiamo parlato di tutto ciò, e anche di altro, nell’intervista che potete leggere di seguito.
Come è nata la tua passione per la moda e come ci sei arrivata?
La mia passione per la moda credo sia sempre stata nell’aria. Un gene che viene non so da dove o chi, forse dalle crinoline delle gonne anni ‘50 ereditate da mia nonna Gioconda, oppure dalla pittura, mia grande passione. La cosa più bella rimane l’emozione che continuo a provare ogni qualvolta mi trovi a maneggiare certi look, avendo la possibilità di toccarli con le mie mani. Mi emoziona molto entrare in contatto con la creatività altrui, mescolare le immagini fondendole con la personalità dell’indossatore o con ciò che viene indossato, magari perché sono sempre stata interessata alle contaminazioni, agli incontri; è così che svolgo il mio lavoro.
Come sono arrivata nel mondo della moda, non saprei… Diciamo che è stato lui ad arrivare a me, attraverso altre forme creative. Direi quindi in un modo del tutto casuale.
Oltre alla moda, nella tua vita è da sempre protagonista la musica. Raccontaci del tuo lavoro e delle tue esperienze a MTV Networks.
La mia è una lunga storia d’amore con la musica. Ho iniziato a svolgere questo lavoro facendo televisione musicale e videoclip. Se è vero che attraiamo ciò che desideriamo profondamente, io ho sempre amato la musica, di tutti i generi, dall’hardcore punk alla classica. Non mi sono mai limitata ad ascoltarla, l’ho osservata usando sin dall’inizio la vista, un senso non richiesto. Mi sono sempre piaciute le differenze e le diverse immagini rappresentate dai generi musicali, ho ampliato questi contesti spontanei affiancandoli alle proposte fashion.
Quando lavoro con un musicista parto da lì, ascolto il suo progetto musicale, ma non mi limito al sentire, lo guardo.
MTV è stata la miglior scuola formativa che avessi potuto desiderare. Si respirava nei corridoi l’aria di una cultura visiva che non aveva confini geografici, molto cosmopolita.
Ho capito da subito che sarebbe stato il miglior contesto per inserire contenuti di moda, che spesso fanno fatica a passare attraverso la televisione, e così ho fatto. È stato un esercizio di stile durato oltre dieci anni, di cui serbo un ricordo indelebile.
Nella pratica lavorativa non avevamo nessun vincolo redazionale, nessun imposizione dagli sponsor, il contrario di quanto succede ora con gli influencer. Usavamo quello che ritenevamo fosse più innovativo. Mischiavamo, trasformavamo, costruivamo, passando da Chanel alle ragazze di Prato che customizzavano i Levi’s facendone gonnelloni hippie, alle t-shirt vintage con appeso il cartellino con nome e foto di chi le aveva indossate prima.
Di MTV Networks ho molti ricordi. Sono stati anni, per la televisione non generalista, irripetibili. Un team lavorativo che ha generato figure professionali di alto profilo, giovani di grande talento, molti dei quali sono diventati ora professionisti affermati, come Nicolò Cerioni o Lorenzo Posocco.
Ho capito solo dopo cosa volesse dire lavorare in tv, lasciando il microcosmo in cui mi muovevo.
Ho imparato che ci sono tante figure professionali che intervengono sulla decisione del look durante la fase di produzione televisiva, aspetto con il quale non mi ero quasi mai confrontata prima. Da MTV non esistevano gli autori, noi avevamo figure come i producer.
Ora che è finita posso dire che quell’esperienza ha rappresentato, per me, la scoperta di un universo professionale e televisivo nuovo, con regole che ignoravo e ho imparato ad ascoltare, trasformando il tutto in un mio personale dialogo visivo.
Raccontaci qualche aneddoto o esperienza che ti hanno influenzato a livello professionale e personale.
Quanto agli aneddoti più recenti: lo scorso anno ho vestito, per il palco dell’Ariston, la band ospite più anziana, a livello anagrafico e di percorso artistico, del Festival di Sanremo, I Ricchi e Poveri, e contemporaneamente la più giovane dei big ospiti, la meravigliosa Francesca Michielin. Nel mezzo, le potenti Vibrazioni ed il sorriso e il talento di Francesco Gabbani. Un mix interessante, direi.
Quali sono i designer che hanno influito sulla tua visione e ti hanno ispirato nel lavoro?
I designer che hanno influenzato il mio percorso creativo sono tanti: Riccardo Tisci per la sua genialità, il coraggio, la sensibilità; sicuramente Margiela, la sua sperimentazione; Coco Chanel per la sua storia personale, per il suo “caricare” l’outfit e poi togliere, vedendo da lontano chi vestiva.
Trovo ispirazione anche in quello che non mi piace personalmente, che non indosserei, e apprezzo moltissimo chi contamina il suo lavoro con altre forme d’arte.
Sempre in tema di musica, hai portato sul palco dell’Ariston di Sanremo tante novità. Come hai lavorato per rinnovare il festival più seguito dagli italiani?
Se devo riportare la cosa più rischiosa o per me innovativa che abbiamo fatto è stata quella con Alessandro (Mahmood, ndr): portare sul palco dell’Ariston, in prima serata su Rai 1, il volto di ‘Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino’, facendogli indossare una t-shirt di Raf Simons che la ritraeva. Un film generazionale e musicale iconico. Un pugno nello stomaco forte. Due generazioni a confronto: lui è parte di una nuova, bellissima, multietnica e moderna; lei di quella berlinese separata dal muro degli anni ‘80, con David Bowie-Ziggy Stardust come colonna sonora. Il vecchio ed il nuovo, lì insieme.
Il Festival di Sanremo è la festa della musica più stimolante che ci sia nel nostro Paese.
Ho iniziato molti anni fa, con la leggerezza di una creativa giovane e piena di entusiasmo. Non ho mai sentito il peso di quel palcoscenico, dato dall’importanza, la storia e il valore che rappresenta.
Ho permesso il bicolor nei capelli e vestito di oro e pizzi, quando sarebbe stata una passeggiata optare per un bell’abito nero lungo. Ho cercato di diventare la cassa di risonanza di chi avevo di fronte, in una chiave molto personale, perlomeno con un tentativo di originalità. Non mi sono mai trovata a mio agio nel percorrere la strada più facile.
Segui personaggi maschili come Mahmood. Che percorso di stile hai costruito con lui? Quale look ricordi tra i suoi più forti?
Ho un particolare curioso su Mahmood: non dovevo seguirlo a Sanremo l’anno della sua vittoria, nonostante l’abbia preparato per buona parte dei suoi lavori, incluso il Sanremo Giovani di qualche anno prima.
In quel momento stavo già lavorando a un progetto ambizioso, la conduzione di Virginia Raffaele, ed ero concentrata sullo styling del mio caro amico Nek.
Vedere poi Mahmood presentarsi come un “bambolotto”, con il look di Rick Owens e i pantaloni a ventaglio che gli avevo scelto per la serata, mi ha commosso un po’. Vederlo vincere è stata un’emozione grande.
Cerco sempre di dare un messaggio che non sovrasti la musica, che, per un musicista e il suo pubblico, è il centro di tutto.
Tra i personaggi femminili, invece, quello che ha rappresentato per te una sfida, a cui ti senti particolarmente legata?
Tra i personaggi femminili che ho la fortuna di vestire ci sono donne molto diverse, di grande talento e sensibilità. Ho portato sul palco di Sanremo con Virginia Raffaele creatori di moda come Schiaparelli, in omaggio alla stilista che veniva definita da Coco «quell’artista italiana che fa vestiti».
La sua prima collezione, risalente al 1938, si chiamava Circus;è dal circo che proviene Virginia, mi sembrava un’immagine ed un racconto bellissimo da proporre. Giambattista Valli, il giovane Lorenzo Serafini, il maestoso Giorgio Armani l’hanno accompagnata ogni serata in questa rappresentazione nella cornice prestigiosa del Festival.
Non è stata la prima volta che ho vestito la conduttrice sul palco dell’Ariston: l’avevo fatto tanti anni prima con Victoria Cabello in Miu Miu, una capsule collection creata per lei appositamente da Miuccia Prada.
Hai anche aperto un vintage store a Milano, come è nato questo progetto?
Uno degli ultimi progetti, certo non per importanza, è Myroom Vintage Shop, appunto la mia stanza.
La mia passione per il vintage, gli accessori, gli oggetti… Il mio caos di colori e bellissimi vestiti che non mi appartengono, ma sono di chi se li accaparra.
Una boutique di ricerca, il mio luogo di partenza e d’arrivo. Di qui passano tutti e buttano la testa dentro, anche per un semplice ciao.
Ci puoi trovare un pezzo degli anni ‘70, una Chanel o una nuova Prada, disposti sui cavalletti originali della pittrice Felicita Frai, famosa per le donne dipinte con corone di fiori nei capelli e per aver affrescato a mano una sala da ballo della storica nave italiana Andrea Doria.
Nel suo ex studio, che ora è la mia casa, c’è un oblò sulla parete del salotto.
Quali sono le tue prossime avventure professionali e i sogni nel cassetto?
Le prossime avventure professionali le racconterò appena terminate.
Per me un progetto esiste solo quando lo porto a compimento e lo consegno nelle mani, e negli occhi, di qualcun altro. I miei cassetti contenenti sogni sono aperti… E hanno occhi su tutto il mondo fuori e dentro di me. Fintantoché sarà così, rimarrò nel giro. Quando saranno chiusi, mi rintanerò nella mia stanza per cercare altre forme creative dai mille colori.
Nato all’alba degli anni ’90, Andrea Bertolucci è un giornalista e scrittore esperto di cultura giovanile e si occupa di trap fin da quando questa ha mosso i suoi primi passi nel nostro Paese. La sua attività professionale lo ha avvicinato negli anni ad alcune tra le principali redazioni televisive e web nazionali, con le quali tuttora collabora. Per Hoepli è appena uscito il suo libro “TRAP GAME. I sei comandamenti del nuovo hip hop”, che vede la partecipazione di alcuni fra i principali artisti sulla scena italiana.
Raccontami della tua passione per la musica trap…
Arrivare a raccontare la mia passione per la trap è impossibile senza prima raccontare quella per l’hip hop, che nasce quasi per caso, da ragazzino. Avevo quindici anni e nessun interesse per il rap: suonavo la batteria in una band punk, erano gli anni dei Green Day e dei Blink-182, degli Offspring e dei Linkin Park. La svolta è avvenuta nel 2006, anno dell’unico concerto di Jay-Z in Italia. Non ci volevo proprio andare, ma un’amica dell’epoca mi ci ha trascinato, quasi a forza. Eravamo vicinissimi, sotto al palco percepivo le vibrazioni newyorkesi di Mr. Carter: erano gli anni del “Black Album”, delle collaborazioni con Kanye West, della New York “Empire State Of Mind”. Sono rimasto letteralmente folgorato da quel live, durato quasi tre ore, e da lì ho iniziato ad appassionarmi a questa musica e a questa cultura. Crescendo poi ho iniziato a frequentare la scena di Milano – la città in cui vivo – dove dal 2010 hanno iniziato a svilupparsi le vite e le carriere di quelli che oggi sono i principali artisti trap italiani, alcuni dei quali sono diventati anche miei amici. Artisti che oggi riempiono i palazzetti, li ho visti soltanto sei anni fa con 50 persone sotto al palco.
Come è nata l’idea del libro?
Ho iniziato a pensarci dopo la tragedia di Corinaldo, che aveva scosso l’Italia e portato la trap agli onori delle cronache. In quel momento, è iniziato un processo mediatico che non ha precedenti e si protrae tutt’oggi, in cui la colpa di qualsiasi problema o incomprensione generazionale è da attribuire alla trap. Magari la trap avesse tutte queste responsabilità: sarebbe anche molto più semplice risolverle! Ecco che allora ho iniziato a lavorare su un libro che potesse far incontrare l’amore che tanti giovanissimi hanno per questa cultura, con la necessità dei loro genitori di capirci di più. E devo dire dai molti messaggi che mi arrivano su Instagram, di esserci riuscito. Proprio pochi giorni fa mi ha scritto una mamma per dirmi che grazie a “TRAP GAME” aveva trascorso del tempo per leggerlo assieme a suo figlio e aveva abbattuto molte incomprensioni generazionali. Cercare di capire una cultura complessa come questa, che ovviamente porta al suo interno profonde contraddizioni e cicatrici, è il primo passo per poterla anche criticare.
Le 5 cose da sapere sulla musica trap?
Per capire innanzi tutto gli eccessi e le provocazioni che porta con sé questa cultura, occorre sapere che è profondamente legata ad un senso di riscatto, di redenzione verso una vita che prima non ha concesso niente se non povertà e preoccupazioni.
Un altro trait d’union che collega molti artisti trap, è la totale indifferenza – che spesso si trasforma in provocante irriconoscenza – nei confronti della vecchia scena hip hop: alcuni di loro durante le interviste fanno addirittura finta di non conoscere i nomi portanti della old school.
Tutti gli artisti trap hanno un profondo legame con il blocco, che non a caso è anche uno dei “sei comandamenti” del mio libro. In questo senso, c’è invece un filo rosso che lega questa alla scena precedente: il legame territoriale è sempre stato essenziale e unisce oggi tutti i quartieri e le periferie del mondo che trovano negli artisti trap i propri rappresentanti territoriali.
Rappresentare un territorio o una scena, significa anche scontrarsi con gli altri per mantenerne alto il nome. Ecco che nascono i dissing, litigi che possono assumere di volta in volta forme diverse (dalle barre di una canzone fino alle Instagram stories) e che vedono gli artisti (e non solo) uno contro l’altro. Infine, la quinta e ultima cosa da sapere è che la sostanza prediletta dalla cultura trap è la coloratissima – ma non per questo meno dannosa – lean, chiamata anche purple drank per via del colore viola. Si tratta una miscela ottenuta combinando sciroppo per la tosse a base di codeina insieme a una bevanda gassata, generalmente Sprite e la cui diffusione maggiore coincide con il boom dei social network, che ne fanno uno dei tanti ingredienti dell’ostentazione, al pari di una giacca di Vuitton o dell’ultimo modello di Lamborghini.
Come è nato e si è sviluppato questo fenomeno?
La musica trap è nata ad Atlanta in un momento imprecisato all’inizio degli anni 2000 all’interno delle “trap houses”, delle case – molto spesso abbandonate – presenti nei sobborghi delle metropoli americane, nelle quali veniva prodotta, venduta e consumata ogni tipo di droga. L’ascesa di popolarità di questo genere ha coinciso però con l’ascesa dell’organizzazione criminale della Black Mafia Family, nota per le spese considerevoli e uno stile di vita esagerato. La BMF ha tentato di ripulire una buona parte dei proventi guadagnati dal traffico di sostanze, lanciandosi nel business della musica hip-hop e avviando la BMF Entertainment. Oltre al beneficio di riciclare i soldi, la musica trap era anche lo strumento narrativo e propagandistico di questa organizzazione: i primi trapper sono veri e propri aedi dei trafficanti e degli spacciatori. Bisognerà aspettare però i primi lavori di T.I. e Gucci Mane – fra il 2003 e il 2005 – per una diffusione più ampia di questa musica, fino agli anni ’10 del nuovo millennio in cui molti produttori iniziano a mescolare le sonorità trap con note decisamente più EDM, contribuendo alla sua diffusione a livello mainstream.
Parlaci dei temi più frequenti e dei tuoi brani preferiti…
I temi più frequenti sono proprio quelli che nel libro ho definito “i sei comandamenti”, dedicando un capitolo ciascuno. I soldi, da cui passa buona parte della voglia di riscatto di questa cultura, il blocco, di cui abbiamo parlato poco fa, lo stile, che si può declinare in tante sfumature differenti. Ma anche – ovviamente – le sostanze, che accompagnano la trap lungo la sua storia, le donne, uno dei temi su cui viene maggiormente criticata e la lingua, che indubbiamente sta contribuendo a trasformare. L’evoluzione di questi ultimi anni ha portato la trap a non essere più un unico blocco, ma ad avere molte sfumature differenti. Personalmente, amo molto artisti come Travis Scott, che stanno reinventando lo stile giorno dopo giorno, ma anche buona parte della scena francese, dai decani PNL – unici artisti ad aver girato un videoclip nel punto più alto della Tour Eiffel – fino ai più giovani MHD e Moha La Squale.
Come hai selezionato i musicisti?
Erano tutti perfetti portavoce dei rispettivi comandamenti, per un motivo o per l’altro. Con alcuni è nato casualmente, con altri eravamo già amici prima di lavorare al libro, con altri lo siamo diventati grazie a “TRAP GAME”. Quello che li unisce è l’appartenenza alla scena italiana e ovviamente una profonda consapevolezza della propria arte, che ha permesso di scrivere assieme i vari capitoli. Diversa è la storia delle prefazioni, che sono ben due. La prima è affidata ad Emis Killa, che non ha bisogno di presentazioni. Volevo uno dei padri dell’hip hop in Italia, che dicesse la sua e guardasse anche un po’ dall’alto questi giovani trapper. L’altra è una vera chicca per gli appassionati, ed è firmata da TM88, uno dei maggiori produttori al mondo e tra gli inventori del sound trap. Posso dire che è davvero un grande onore per me, non smetterò mai di ringraziare il mio amico Will Dzombak (manager di Wiz Khalifa e di molti altri artisti americani) per questo regalo.
Musica trap e moda: come dialogano questi mondi? L’identikit fashion del trapper…
Una delle più evidenti cesure tra la vecchia scena e quella nuova si gioca proprio sul terreno della moda, che assume anche in questo caso un carattere maggiore di ostentazione e provocazione. I comuni baggy jeans che indossavano i rapper negli anni ’90,si trasformano in costosi e attillati Amiri che cadono sopra sneakers sempre diverse e customizzate, linee firmate spesso in partnership con gli stessi artisti. Le t-shirt si riempiono con loghi di brand sempre più attigui all’alta moda e questi ultimi iniziano a strizzare maggiormente l’occhio agli artisti, portandoli a sfilare, uno dopo l’altro, in passerella e contribuendo alla nascita dello “streetwear di lusso”.
Se oggi ci stupiamo e talvolta indigniamo di fronte a foto che ritraggono centinaia di ragazzi che passano la notte in fila per “coppare” un paio di Yeezy o di NikeXOffWhite, oppure di fronte ai video YouTube nei quali troviamo dei giovanissimi hypebeast intenti a mostrare il valore del proprio outfit, troviamo la risposta proprio nella trap e nei suoi protagonisti. Stessi brand, stesse movenze, stessa ricerca dell’esclusività all’interno di un mercato che tende a uniformare.
La playlist che consigli per avvicinarsi a questo genere?
Cinque canzoni americane e cinque italiane, per degustare entrambe le scene. In America piantiamo le basi con Gucci Mane e T.I., i due “padri fondatori”, per poi spostarci su vere e proprie hit che hanno fatto la storia, come “XO Tour Llif3” di Lil Uzi Vert (prodotta fra l’altro da TM88, che ha scritto la prefazione di “TRAP GAME”) “Sicko Mode” di Travis Scott e “Bad and Boujee” dei Migos. Venendo all’Italia, ho inserito “Cioccolata” di Maruego, che considero il primo brano trap prodotto nel nostro Paese e “Cavallini” della Dark Polo Gang feat. Sfera Ebbasta, che segue a ruota. Per finire, la mia canzone preferita di Sfera – “BRNBQ” – e due hit italiane: “Tesla” di Capo Plaza con Drefgold e Sfera, e la versione remixata da Achille Lauro e Gemitaiz del brano di Quentin40, “Thoiry”.
Oneshot agency è una realtà italiana che opera nel settore del management e della comunicazione digital. Nel suo portfolio vanta nomi noti nel panorama social (soprattutto Tik Tok e Instagram) come Elisa Maino, Marta Losito, Paola Di Benedetto e il giovanissimo Tancredi Galli.
Nell’intervista i tre fondatori Eugenio Scotto, Benedetta Balestri e Matteo Maffucci ci raccontano il loro background svelandoci i nuovi progetti social in partenza nei prossimi mesi a cominciare da Chill House, un reality-format di successo con origini USA, che coinvolgerà i creator più famosi d’Italia.
Eugenio Scotto
Benedetta Balestri
Matteo Maffucci
Come è nato il progetto Chill House e chi sono i protagonisti?
M: Il progetto Chill House è un talent show contemporaneo in cui i protagonisti sono influencer con numeri da capogiro, che si trasferiscono in una scenografia da sogno, una villa dove vivere e creare contenuti. Abbiamo replicato lo stesso meccanismo della Hype House americana: gli influencer che abbiamo selezionato sono i Q4 (Tancredi Galli, Gianmarco Rottaro, Diego Lazzari e Lele Giaccari), Valerio Mazzei e Zoe Massenti, e la villa si trova a pochi chilometri da Milano. Nel contesto della villa i ragazzi faranno experience di ogni genere: lezioni di inglese, sport, lezioni di pianoforte, recitazione e molto altro, oltre alla creazione di contenuti insieme sui profili della casa. Stima di numeri aggregati: oltre 13,5 milioni di utenti su Instagram e oltre 25 mln su Tik Tok. E’ un progetto molto ambizioso ma già in ascesa, a un mese dal lancio i profili della casa hanno raggiunto 165mila follower su Instagram e 400mila su TikTok: un incubatore perfetto per aziende di qualsiasi categoria merceologica.
Come la moda si sta avvicinando ai nuovi social media come TikTok?
B: Tik Tok è uno strumento imprescindibile per raggiungere un nuovo target, quello della Gen Z, cioè i consumatori del domani, e sempre più aziende della moda hanno deciso di inserire la piattaforma nelle loro social media strategies. Se prima la piattaforma era dominata da brand del Fast Fashion, nel corso dell’ultimo anno aziende come Prada, Gucci, Burberry, Celine, hanno inaugurato i loro canali social sulla piattaforma, con contenuti costruiti ad hoc per Tik Tok. Molti brand hanno deciso anche di coinvolgere TikTokers per il lancio dei profili o per attività specifiche: ad esempio, si sono rivolti a noi brand come Dolce e Gabbana, che ha ospitato i nostri Tik Tokers in front row alla scorsa Fashion Week o Etro, per il lancio della collezione Toys natalizia 2020.
Quali le strategie secondo voi vincenti per moda e lifestyle con i new media?
M: Una strategia vincente deve rispettare i canoni e il linguaggio propri della piattaforma su cui si sviluppa. Quindi sono giusti i contenuti patinati e molto curati per Instagram, dove vince un feed molto curato, mentre su Tik Tok bisogna lasciar spazio alla creatività utilizzando le features della piattaforma. La prima regola comunque rimane selezionare talent che rappresentino completamente i valori e l’immaginario del brand. Una volta selezionati gli influencer da coinvolgere, bisogna concentrarsi sullo sviluppo di uno storytelling che integri il brand nella storia e nella vita dei creators.
Gli ultimi talent che avete scoperto?
E: Oggi raccogliamo i frutti di quello che abbiamo seminato nei primi tre anni di vita della nostra azienda. Elisa Maino, Valeria Vedovatti, Gordon, sono gli esempi più lampanti del nostro lavoro. Ultimamente stiamo cercando di cercare target e profili diversi: ad esempio Gaia Sabbatini, atleta delle Fiamme Azzurre, o le 4Calamano, un gruppo di quattro sorelle che su Tik Tok cantano, oppure Ludovica Nasti che è una giovanissima attrice.
Raccontateci il vostro background professionale e perché avete deciso di aprire One Shot Agency?
E: Abbiamo background e storie molto diverse e probabilmente questo è il nostro punto di forza, che ci ha permesso di ottenere risultati così ottimi in soli tre anni. Io lavoro come talent scout da oltre dieci anni, ho scoperto talenti come Frank Matano, Francesco Sole, oltre a Elisa Maino. Matteo oltre alla sua carriera da artista (fa parte del duo musicale Zero Assoluto), ha prodotto programmi televisivi, è appassionato di street art e ha lavorato come speaker e autore di numerosi programmi. Benedetta ci mette in riga, ha una laurea in Economia che fin da giovanissima ha applicato in televisione (RSI), e nel mondo degli eventi e della musica, lavorando per un’etichetta musicale che distribuisce il festival di musica elettronica Tomorrowland. Quando ci siamo incontrati, circa quattro anni fa, è stato tutto molto naturale e immediato.
Cosa differenzia la vostra agenzia da altre digital agency?
B: Il nostro team è costituito da persone che provengono da realtà diverse tra di loro, con un bagaglio di esperienze nel settore televisivo, radiofonico, musicale e degli eventi. L’età media del gruppo è di 30 anni, siamo Millenials e il nostro linguaggio è a cavallo tra due generazioni che faticano a parlarsi. Il nostro compito è interpretare le richieste e necessità delle aziende e facilitare il dialogo con le nuove generazioni. La nostra carta vincente però è il rapporto che costruiamo con i talent, la familiarità che si respira nei nostri uffici e il lavoro attento che viene fatto su ogni singolo talento. Siamo come una sartoria: i talent arrivano e noi gli cuciamo addosso il vestito perfetto.
Abbiamo incontrato Vincenzo Lamberti (@vvvinsss) yoga teacher presso [hohm] street yoga Milano. Da sempre interessato al movimento in ogni sua forma e alla cura ed il benessere del corpo, Vincenzo decide di abbandonare il mondo della moda in cui lavora per dieci anni come designer, prima diventando prima personal trainer, per poi trovare nell’insegnamento dello yoga il percorso che meglio si adattava alle sue naturali predisposizioni: “ho così potuto fondere la passione per il corpo in movimento a quella per le filosofie orientali, a cui già da tempo mi dedicavo attraverso lo studio”.
La scuola in cu insegna è stata fondata da Marco Migliavacca e Giovanna De Paulis, e le sedi milanesi sono due, una in viale Tunisia 38 e l’altra in via Solari 19. Da oltre 10 anni il centro si dedica allo studio e all’insegnamento dello yoga in modo a-dogmatico, con un’offerta che spazia dal vinyasa allo yin e al restorative, e rivolge la sua attenzione tanto agli aspetti sottili e tradizionali della disciplina, fra cui il pranayama, quanto a una più moderna ricerca, come l’introduzione in Italia del metodo Katonah yoga. La scuola affianca in calendario classi multilivello a percorsi pensati appositamente per i principianti, e di recente si è aperta anche a persone con disabilità o semplici difficoltà motorie, proponendo lezioni di yoga adattivo. Per completare la ricerca di chi vuole approfondire lo studio dello yoga e portare la propria pratica a un nuovo livello di consapevolezza, [hohm] street yoga organizza inoltre formazioni, ritiri e laboratori con insegnanti italiani e internazionali.
Come è nata la tua passione per lo yoga? Raccontaci il tuo percorso.
L’interesse per le filosofie orientali e la meditazione, unitamente ad un’istintiva esigenza di esprimermi attraverso il corpo ed il movimento, mi hanno portato per la prima volta a sperimentare la pratica dello yoga, che inizialmente era però circoscritta a ritagli di tempo che difficilmente riuscivo a riservarmi, in quanto assorbito dai ritmi lavorativi particolarmente intensi. Solo quando ho trovato il coraggio di lasciare la mia precedente attività lavorativa e mettere così in discussione quelle che fino ad allora erano state le mie certezze, fonte in realtà anche di insofferenza e blocchi, ho avuto modo di approfondire il mio rapporto con la pratica, scoprendo in essa uno strumento di conoscenza della nostra più profonda essenza e un potente stimolo al cambiamento.
Quale tipo di yoga pratichi e quali sono i benefici di questa disciplina?
L’approccio metodologico che prediligo è quello del Vinyasa Krama, che consiste nel creare una struttura ordinata e graduale di posture o asana che si inseriscono in una sequenza dinamica, in cui ogni movimento è connesso e supportato in primis dal respiro, ma anche da altri elementi quali visualizzazioni, meditazioni, bandha, mudra ecc. Il tutto infatti concorre a focalizzare l’attenzione su ciò che si sta facendo nel momento presente, rendendo così il corpo più consapevole dei propri movimenti nello spazio e la mente sempre meno in balia di pensieri che possano proiettarla nel futuro o tenerla ancorata al passato. Oltre ai benefici fisici in termini di flessibilità, resistenza e qualità del respiro, la pratica diviene così una sorta di meditazione dinamica che ci aiuta ad allenare la nostra concentrazione e a liberare la mente da ansie e stress.
Quanto è importante la respirazione e come si pratica correttamente?
Fondamentale è l’utilizzo corretto del respiro durante la pratica; alle sue fasi infatti coordiniamo le diverse tipologie di movimento ed è inoltre considerato un punto di connessione tra corpo e mente: come il nostro sistema corpo-mente e le emozioni che si generano in esso in base agli stimoli esterni possono influenzare il nostro respiro rendendolo più agitato o calmo, allo stesso modo attraverso il controllo consapevole del respiro (pranayama) possiamo modificare tutto il nostro sistema. Oltre ad essere la nostra principale guida durante la pratica per mantenere il giusto raccoglimento, il pranayama stimola profonde trasformazioni fisiologiche, rende più limpida la mente, portandoci gradualmente a modificare i nostri schemi abituali, ed amplia la nostra capacità respiratoria rinforzando così la nostra salute.
Un tuo consiglio per avvicinare una persona a questo mondo?
Se dovessi dare un consiglio per far si che una persona si avvicini a questo mondo direi semplicemente di lanciarsi e provare, in quanto solo l’esperienza diretta può dare una chiara idea di quanto si possa essere in sintonia o meno con questo tipo di pratica. Consiglierei inoltre di provare anche diversi tipi di insegnanti e metodi, in quando ciascuno può avere qualcosa di diverso da offrire ed ogni allievo si sentirà più a suo agio in determinate modalità piuttosto che in altre.
Un’esperienza che cambia la vita: questo il motto di SHA Wellness Clinic, realtà riconosciuta a livello internazionale, che quest’anno compie l’importante traguardo dei 12 anni. Qui la salute è intesa come stato ottimale di benessere fisico, mentale e spirituale, in armonia con l’ambiente e con una ritrovata vitalità. Non a caso la stessa clinica si trova in una vera oasi naturale tra montagne e mare, vicino alla baia di Altea (nella regione di Valencia e vicino ad Alicante) che si affaccia sul Mar Mediterraneo e sul Parco Naturale della Sierra Helada, riserva marina di straordinaria bellezza.
Quello di SHA è un metodo davvero all’avanguardia in cui si utilizzano strumenti evoluti per diagnosi e rilevazioni bioenergetiche al fine di capire e prevenire i meccanismi di invecchiamento. Una sintesi tra medicina occidentale e orientale, tra discipline antichissime (come l’agopuntura) e ultimi ritrovati della medicina anti-aging, rigenerativa, bioenergetica, fino ai trattamenti estetici più innovativi. Vera forza di SHA è il team di specialisti nelle diverse discipline che guardano però alla persona in modo olistico e non specialistico. L’assunto di partenza è che lo stile di vita e l’alimentazione, insieme alla genetica, danno forma alla nostra salute e al nostro benessere. Il Metodo SHA integra le terapie naturali più efficaci con un’alimentazione altamente terapeutica, senza trascurare gli ultimi progressi della medicina occidentale, in particolare della medicina genetica. La fusione coordinata e controllata di queste discipline aumenta in modo significativo l’impatto positivo che ciascuna di esse avrebbe individualmente.
E per garantire il massimo risultato per ogni ospite è sviluppato un piano terapeutico personalizzato, che include terapie naturali e mediche, insieme a un menu pensato ad hoc dal ristorante SHAMADI. Sono ben 14 i programmi sanitari proposti, ognuno dei quali può soddisfare le esigenze e gli obiettivi personali di ogni singolo cliente. A SHA si può sperimentare lo shiatsu, l’agopuntura, la riflessologia fino alla crioterapia, che riattiva metabolismo e sistema immunitario. Alle pratiche di mindfulness e pranayama può seguire una seduta di neuro-feedback e stimolazione cognitiva con macchinari futuristici frutto delle ricerche di Harward per mantenere giovane anche la mente. Si valutano i livelli di stress, le capacità cognitive, la memoria, ma anche la capacità di gestione dell’ansia, con relativi esercizi per migliorarli. In questa clinica si riesce a ritrovare la connessione fra corpo e mente per migliorare la qualità di vita. E soprattutto si riesce a capire come portare tutto questo nella propria vita quotidiana al rientro a casa!
Questa è la filosofia di SHA: trasformare le vite delle persone. E questo è stato il punto di partenza per Alfredo Bataller Parietti, Founder di SHA, che soffriva lui stesso di problemi di salute. Dopo aver ricevuto una diagnosi preoccupante, ha avuto la fortuna di conoscere un medico esperto in nutrizione e terapie naturali, che gli ha permesso di ritrovare la sua salute attraverso il potere curativo di un’alimentazione sana combinata a delle terapie naturali. Così ha deciso di condividere questa preziosa conoscenza, avviando un progetto unico nel suo genere, insieme alla sua famiglia. E’ nato un vero e proprio metodo SHA che fonde le antiche discipline con le più recenti scoperte della medicina occidentale, grazie alla supervisione di esperti di fama internazionale, come Michio Kushi, considerato il padre della macrobiotica, che nel 1995 è stato anche nominato Presidente dell’Organizzazione Mondiale di Medicina Naturale. Racconta lo stesso Bataller Parietti, Presidente e Fondatore di SHA: “Ho deciso di combinare le più efficaci terapie occidentali e orientali insieme a uno speciale tipo di alimentazione sana e ricca di energia all’interno di un’ambiente sostenibile e confortevole. E sono riuscito anche a inglobare in tutto questo le più recenti scoperte della medicina. Questa utopia è SHA, che non solo ha ricevuto oltre 60 prestigiosi riconoscimenti grazie a un team incredibile di professionisti, ma ha soprattutto cambiato la vita di oltre 50.000 persone”.
Il metodo si basa su 8 aree principali: alimentazione sana, terapie naturali, medicina preventiva e rigenerativa, dermoestetica avanzata,stimolazione cognitiva e salute emotiva, benessere ed equilibrio interiore, fitness e apprendimento di nuove abitudini sane attraverso la Healthy Living Academy. Tutti questi fattori combinati consentono di migliorare e aumentare la salute fisica, mentale e spirituale con un approccio olistico e integrativo. Il detox parte dal cibo con il ristorante SHAMADI all’interno di SHA e The Chef’s Studio, dove si studiano piatti gourmet che eliminano carboidrati raffinati, zuccheri, proteine e latticini a favore di ingredienti stagionali e biologici, dai cereali non raffinati (avena, miglio, riso integrale) legumi, soia, tofu, verdure e molte alghe, blu, brune e rosse, dal Giappone e dai Mari del Nord, nuova frontiera proteica vegetale, nonché oggetto di studio della nutrigenomica in tema di cibi che favoriscono la longevità. SHAMADI propone una cucina fusion in equilibrio fra tradizioni del mediterraneo e quelle orientali. Per ogni ospite viene inoltre studiato un piano personalizzato sulla base dello screening medico e degli obiettivi che si vogliono raggiungere. L’idea non è solo che gli ospiti acquisiscano nuove abitudini nutrizionali, ma anche che imparino a godere pienamente e consapevolmente del cibo per proseguire poi a casa questo stile di vita.
E in questi momenti dove si parla tanto di cura delle malattie, SHA vuole prendersi cura della salute attraverso la prevenzione. Da qui l’importanza che la clinica attribuisce alla medicina preventiva e il motivo per cui sin dall’inizio SHA ha concentrato gli sforzi sulla ricerca delle migliori tecnologie e terapie per rafforzare il sistema immunitario. Un sistema immunitario forte è fondamentale per combattere i virus. In questo senso SHA ha creato un programma specifico incentrato sul rafforzamento del sistema immunitario, per ripristinare e stimolare le difese naturali del nostro corpo al fine di combattere efficacemente qualsiasi aggressione esterna. E sempre in questo filone è l’area Healthy Aging & Preventive Medicine che vuole rallentare il processo di degenerazione cellulare e riattivare il potenziale di salute di ogni persona. Altro fiore all’occhiello della clinica è tutta la parte neurologica guidata dal Dott. Bruno Ribeiro in cui si possono combattere anche i più gravi stati di stress e ansia, massimizzare le nostre capacità cognitive e promuovere le nostre forze intellettuali. “Si parte con una valutazione cognitiva iniziale e alcuni test, come il neurofeedback, per capire il livello di stress, il quadro generale e l’andamento delle onde del cervello per sondare cosa non funziona e cosa andrebbe modificato. Grazie a tecnologie co-sviluppate dalla NASA e dalla Harvard Medical School, come la Photobiomodulation e Transcranal Current Stimulation (TCS) siamo in grado di ottenere risultati importanti sia nello stimolare specifiche aree e funzioni del cervello per migliorare performance fisiche e mentali, sia di alleviare malattie e patologie, come nei casi di Alzheimer e Parkinson” raccconta il neurologo Dott. Ribeiro. SHA non è la solita SPA (dove pure non mancano i numerosi trattamenti viso e corpo), ma una destinazione dove ritrovare e imparare a coltivare la salute fisica ed emotiva.
Classe 1961, Simon Foxton è considerato uno dei creativi e stylist più influenti e visionari del panorama internazionale. Dopo essersi laureato in fashion design al Central Saint Martins nel lontano 1983 e aver lanciato il suo marchio Bazooka, ha iniziato a lavorare per il magazine i-D e successivamente ha intrapreso una lunga collaborazione con Nick Knight, diventando poi direttore artistico del magazine. Foxton è riuscito nel mescolare e far convergere in modo sperimentale l’abbigliamento sportivo, il tailoring, lo streetwear fino al fetish. La sua estetica ha contribuito a delineare un nuovo immaginario e stile maschile. In occasione dell’uscita del libro dedicato a Stone Island lo abbiamo intervistato parlando del suo percorso e delle prospettive future per la moda.
Qual’è stato il tuo percorso di studi e come hai scoperto la tua passione per la fotografia e la moda?
Simon Foxton: Ho frequentato la Central Saint Martins School of Art tra il 1979 e il 1983 che ha rappresentato un periodo molto bello e intenso. È stato il momento migliore nel quale essere giovane e frequentare una scuola d’arte, soprattutto a Londra! Non credo di essere stato uno studente particolarmente diligente, ma mi sono fatto molti amici e con molti di essi sono ancora oggi particolarmente legato. C’era molto da divertirsi, andavamo nelle discoteche e alle feste, è stato davvero fantastico. Poi, mi è sempre piaciuto leggere attentamente le riviste e amavo le immagini, ma non avevo mai pensato di crearne di nuove. Solo dopo aver lasciato l’università e aver iniziato a disegnare, mi sono reso conto di quanto fosse difficile e richiedesse tempo. Successivamente, una mia cara amica, Caryn Franklin all’epoca Fashion Director di i-D, mi chiese se fossi interessato a fare un po’ di styling per il magazine. Così ho provato e mi sono subito reso conto che sembrava la cosa adatta per me. Mi è piaciuta la sua immediatezza. C’era un’idea, c’erano i vestiti, li fotografavo ed era tutto immediato! Basta con le ordinazioni di tessuti, i rapporti con I sarti, le consegne nei negozi, ecc. Era una tale seccatura… Ho sempre preferito la via più semplice.
Vieni considerato come uno dei principali creatori di immagini della moda maschile. Dove hai visto maggiori cambiamenti in questi ultimi anni?
Non sono certo di aver mai creato realmente “fashion looks”. Sono un creatore di immagini da un po’ di tempo ormai, ma è solo perché sono in giro da molto tempo e non sono ancora deceduto. Spesso mi viene posta questa domanda e non sono mai sicuro di come rispondere. Credo che il più grande cambiamento sia la dimensione e la portata dell’industria della moda. C’è un’enorme ricchezza investita in questo ambito che è diventato un ambiente di lavoro molto più rischioso. All’inizio le cose erano molto più rilassate. Quando facevo le riprese per le riviste, i crediti erano più un suggerimento che una necessità. Siamo stati lasciati da soli a creare ciò che volevamo, non c’erano direttori artistici o dipartimenti commerciali a interferire. È solo recentemente che mi sono reso conto di quanto sono stato fortunato a crescere fotografando in quel tipo di cultura. Naturalmente non tutto era fantastico e alcuni dei lavori erano auto-referenziati, ma il bello era che potevamo sperimentare e anche fallire. Il fallimento è una parte cruciale del processo creativo. Purtroppo questo non è più permesso in un mondo dove la moda si caratterizza con cospicui investimenti, forti competizioni e e rigide organizzazioni.
Hai iniziato con la rivista i-D nel 1984. Raccontaci alcune storie particolari sul tuo lavoro di allora e su come questa esperienza ha plasmato la tua vita professionale e privata.
Non credo di avere storie particolari da raccontare. Non sono una persona particolarmente pazza o drammatica. Penso che l’impatto più evidente sulla mia vita personale e professionale venga dalle persone che ho incontrato per lavoro. Da quando ho incontrato e lavorato con Nick Knight subito dall’inizio, a quando ho chiesto a Edward Enninful di fare da modello per me e poi di diventare il mio assistente. Allo stesso modo, ho fatto un casting per strada con Steve McQueen per un servizio fotografico su i-D e siamo diventati molto amici. Inoltre, grazie ad un incontro con il fotografo Jason Evans, che stava facendo uno stage con Nick Knight, ho iniziato a lavorare insieme a lui a partire dal 1990. Non posso dimenticare tutti gli altri meravigliosi assistenti che ho avuto nel corso degli anni, come Jonathan Kaye (ora a The Gentlewoman) o Elgar Johnson (a GQ Style), o Nick Griffiths con il quale ho ancora l’attività creativa &SON. Ho lavorato con la meravigliosa Penny Martin di Showstudio che ora è l’editore di The Gentlewoman. Sono ancora tutti amici molto cari e persone estremamente importanti nella mia vita.
Potresti selezionare 5 foto dalla tua home di Instagram che sono particolarmente importanti e significative per te e spiegarci il motivo?
Nick Knight -i-D magazine , 1986
Uno scatto davvero memorabile. Lo abbiamo scattato di notte, girando fra le vie attorno a vecchi magazzini vicino al Tower Bridge. Era completamente deserto, abbandonato. Ora sono stati trasformati in veri e propri appartamenti e spazi di lavoro che costano milioni di sterline. Il fuoco di fronte ai ragazzi, in realtá, è stato realizzato grazie a me che passavo davanti con un grande rastrello di metallo, avvolto in un pezzo di carta ed incendiato.
Questo invece fa parte di uno shooting che io e Jason abbiamo scattato e che abbiamo chiamato “Strictly.” L’abbiamo scattata fra stradine periferiche attorno a casa mia ad Ealing. Al tempo, il modello era Edward e mi ha aiutato molto con il casting. È stato molto divertente scattarlo e anche il feedback è stato positivo.
Jason Evans , i-D magazine 1991 . Model – Edward Enninful .
Ben Dunbar-Brunton , i-D magazine 2009
Ho sempre amato questo scatto del modello Dominique Hollington che ho fatto con Ben. Molto semplice ma allo stesso tempo di grande effetto.
Questa è la scena di un film che io e Nick abbiamo fatto per la mostra retrospettiva di Walter van Beirendonck’s ad Anversa. Ho avuto accesso all’intero archivio di Walter e mi ha permesso di mixare le sue collezioni per creare dei look grintosi. È stato davvero molto divertente.
Questa é una sorta di foto del backstage che ho scattato in un set che Nick Knight ed io abbiamo chiamato Frillaz! Ho vestito questi ragazzi dall’aspetto piuttosto duro con degli abiti a balze che ho trovato online, da un sito fetish per bambini adulti. Li avevo preavvisati riguardo alle immagini che avrei voluto scattare, ma ero comunque piuttosto nervoso della reazione che avrebbero potuto avere. Tuttavia, hanno reagito positivamente ed è stato fantastico.
Hai lavorato con una mente veramente creativa come Nick Knight. Chi sono i fotografi/persone creative più stimolanti per te?
Nick Knight lo trovo ancora molto stimolante. È molto creativo e una persona molto entusiasmante con cui lavorare. Lavorare con Nick ti fa sentire sempre in mani sicure. In un modo diverso, Jason Evans è un fotografo estremamente stimolante perché si interroga sulle cose, ti fa mettere in discussione te stesso. Non in modo arrogante, piuttosto in un modo costruttivo per creare qualcosa di totalmente nuovo. Infine, ho sempre ammirato il lavoro di Jean-Paul Goude e devo dire che amo le sue creazioni.
Com’è stato lavorare alla mostra “When you’re a boy”?
Beh, è stata un’idea di Penny Martin. L’ha curata e ha fatto tutto il duro lavoro per mettere insieme la mostra. E’ stato molto emozionante avere una mostra dedicata esclusivamente al mio lavoro alla Photographer’s Gallery. Non mi è piaciuto essere al centro dell’attenzione nelle serate di apertura, ecc. Sono piuttosto inutile in tutte queste cose e preferisco stare più sullo sfondo. Tuttavia, una volta che la mostra è stata allestita e ha preso vita, mi sono divertito molto anche io nel vederla, quasi come se guardassi il lavoro di qualcun altro.
Come sta cambiando il tuo lavoro durante questa pandemia globale?
Sto continuando a lavorare con Stone Island, ma siccome sono considerato nella categoria ad alto rischio mi sto auto-isolando. Per questa ragione sto facendo la mia consulenza tramite la piattaforma Zoom, che è stata una manna dal cielo. L’anno scorso ho rinunciato agli shooting per gli editoriali e al mio lavoro di insegnamento.
Che tipo di relazione hai con i social network?
Sono spesso su Facebook solo per vedere cosa fanno gli amici o per guardare video insensati. Sembra che Facebook sia ormai popolato solo da vecchi strambi come me. Non credo che i giovani lo usino più. Instagram è divertente, ma anche in questo caso è piuttosto insensato. Mi piace pubblicare le foto che scatto quando vedo qualcosa di notevole o bello, altrimenti non mi preoccupo. Tutte quelle foto di cibo, o di bambini… Datemi un po’ di tregua!
Ho usato Tumblr per anni e mi è piaciuto moltissimo, ma poi l’hanno rovinato con la loro posizione puritana antiporno che ha eliminato qualsiasi cosa anche solo vagamente spinta. Ho chiuso il mio account e da allora non l’ho più usato. Ho trasferito alcune immagini sul mio profilo Instagram “foxtonscrapbooks”, ma non è la stessa cosa ad essere sinceri. Twitter lo uso per le notizie, questo è tutto. Io non twitto. Non ho mai avuto a che fare con tutto ciò in realtà. Per quanto riguarda gli altri social reputo che siano per bambini e quindi non mi interesso di loro.
Come hai lavorato al libro di Stone Island? E quale è stata la sfida nella realizzazione del libro?
Io e il mio partner di lavoro Nick Griffiths abbiamo lavorato con Stone Island per gli ultimi 12-13 anni. Ci occupiamo della regia, del casting e delle riprese di tutte le campagne e di altre immagini fotografiche. Nick realizza molte delle immagini in movimento per le loro piattaforme online. Ci consultiamo anche con il team di design per dare un contributo alle collezioni, e siamo coinvolti in molti altri aspetti del marchio. Sabina Rivetti di Stone Island mi ha contattato un paio di anni fa con l’idea di fare un libro. Credo che all’epoca avesse già l’editore Eugene Rabkin e Rizzoli come publisher. Il mio ruolo come direttore artistico era proprio quello di guidare il lavoro e fare in modo che rimanesse fedele al “linguaggio” di Stone Island. Deve essere moderno, reale e con stile quasi industriale. Niente di troppo appariscente o troppo progettato. Ho scelto Rory McCartney come designer per il libro, perché abbiamo lavorato con lui all’ultimo, “Stone Island, Archivio” e in questo modo ha capito bene l’estetica di tutto il progetto. Abbiamo passato molto tempo a cercare tra le masse di immagini per trovare foto che si sperava fossero interessanti e informative, ma che non erano già state utilizzate in altre pubblicazioni. Abbiamo avuto l’assistenza di una meravigliosa ricercatrice fotografica, Sarah Cleaver, che ha fatto un lavoro straordinario. Credo che la sfida principale sia stata quella di mantenere il linguaggio visivo pulito e spassionato del marchio, ma di produrre un libro che fosse interessante da vedere. Speriamo di esserci riusciti.
Ci dica qualcosa sui suoi progetti futuri… le piace ancora lavorare nella moda?
Al momento con il modo in cui va il mondo non ho fatto grandi progetti. Prendo ogni giorno come viene. Mi piace ancora molto lavorare con Stone Island, è un’azienda fantastica per cui lavorare, ma ad essere onesti, mi sono piuttosto disinnamorato della moda e delle riviste. Ho smesso di girare editoriali di moda perché trovo i parametri che le riviste fissano e l’aderenza ai crediti che impongono sono troppo soffocanti. Forse sto diventando troppo vecchio per tutto questo. Vediamo cosa succede!
Parliamo di nuovi scenari sostenibili legati al settore del fashion con Matteo Ward, co-fondatore del brand responsabile Wråd e art director della sezione di White dedicata ai progetti green. Nell’intervista ci racconta il suo percorso e la visione per il futuro.“Siamo nel mezzo di una rivoluzione sistemica che va ben oltre aspetti come il cotone organico o il nylon riciclato. Oggi il prodotto deve avere uno scopo e offrire un servizio».
Raccontaci come è iniziata la passione per la sostenibilità?
Mentre lavoravo in Abercrombie, il ruolo che ricoprivo mi ha portato ad intraprendere un percorso di scoperta della verità circa il reale costo dell’industria di cui facevo parte. I dati sono spaventosi: per produrre una maglietta occorrono fino a 2.700 litri di acqua, per la tintura e finissaggio dei capi possono essere utilizzate tra le 1.600 e 2.000 sostanze chimiche dannose per la nostra salute e gli ecosistemi. E ancora, pensare che più della metà dei nostri capi contiene polyestere e che questi, acquistati e consumati ad un tasso sempre più elevato, possono impiegare fino a 200 anni per essere smaltiti o ragionare attentamente sull’impatto sociale della produzione tessile. La scoperta di tutti questi fattori e molti altri hanno contribuito a far crescere in me la voglia di mettere in discussione lo status quo. Decido quindi di licenziarmi e di investire la mia liquidazione per dar vita ad un progetto con un impatto sociale e ambientale, educativo in primis. Non potevo più accettare di contribuire involontariamente a rendere l’industria della moda una delle più inquinanti al mondo. Quindi assieme a Victor Santiago e poi Silvia Giovanardi diamo vita a WRÅD ispirare il mercato a manifestare valori sociali e ambientali attraverso prodotti tangibili al fine di catalizzare il cambiamento.
C’era e c’è ancora, un’enorme asimmetria informativa rispetto al vero costo della moda. Questa è stata la vera motivazione ad abbandonare la mia zona di confort per dedicarmi a trovare soluzioni finalizzate a generare consapevolezza attraverso il design, l’educazione e la comunicazione.
Quale è il tuo approccio a questo mondo?
Bisogna lavorare con approccio e visione sistemica, ragionare a compartimenti stagni nel campo dello sviluppo sostenibile è rischioso e potenzialmente controproducente. Dobbiamo tenere a mente che tutto ciò che produciamo nel campo tessile (anche se fatto con materie prime naturali considerate responsabili) ruba comunque risorse naturali necessarie per rispondere alle reali esigenze di una popolazione in aumento. Non possiamo continuare a rubare acqua a persone e paesi in crisi di risorse per produrre milioni di tonnellate di vestiti di cui nessuno ha reale bisogno.
Noi lavoriamo su tre fronti: educazione, innovazione e design. Ogni business unit è sinergica alle altre e lavoriamo per ispirare il pubblico a voler seguire modelli di consumo più responsabile e al tempo stesso per mettere sul mercato progetti e processi innovativi, smart e responsabili, in risposta alle rinnovate esigenze dell’umanità. Il prodotto deve essere ri-allineato con i veri bisogni delle persone, salute in primis – e il sistema deve passare da uno stato di individualismo lineare, che sta distruggendo l’ambiente e le persone, ad una nuova forma di collaborazione circolare.
Quali le figure di riferimento che sono state di ispirazione?
A livello lavorativo Susanna Martucci, founder & CEO di Alisea e Perpetua. È stato il nostro primo investitore, con lei abbiamo fatto una partnership che ci ha portato a inventare una nuova forma di tintura che recupera la polvere di grafite scartata dai processi di lavorazione industriale.
I tuoi prodotti più significativi e innovativi?
Nel 2016 ha preso appunto forma la partnership con Susanna Martucci di Alisea che ci ha messo a disposizione la sua esperienza nel campo dell’economia circolare per portare innovazione nelle filiere tessili. Frutto di questa sinergia è G_pwdr technology, un processo innovativo di tintura con grafite riciclata, oggi brevettato. Una tecnologia che ci ha consentito di giustificare la creazione di nuovo prodotto in un mondo che di certo non ha bisogno di altre t-shirt e jeans in quanto ci rendiamo subito contro che attraverso la tecnologia g_pwdr anche una semplice maglietta poteva diventare molto di più – un reale servizio. G_pwdr technology consente infatti di ridurre il consumo d’acqua in fase di tintura del 90% e di eliminare l’utilizzo di pigmenti chimici riciclando il sottoprodotto inevitabile della produzione di elettrodi in grafite. Un processo unico, ispirato da una tradizione di tintura minerale che affonda le sue radici nell’antica Roma, che WRÅD ha riscoperto e re- immaginato grazie agli abitanti di Monterosso Calabro che per secoli si sono tramandati oralmente questa pratica. Questa scoperta consente la creazione di GRAPHI-TEE endorsed by Perpetua. La prima t-shirt che recupera 20 grammi di grafite altrimenti destinata alla discarica.
Come sta evolvendo il mondo della sostenibilità?
C’è molta più attenzione da parte del mercato (Gen Z in primis) anche se il value-action gap, la distanza cioè tra chi manifesta la volontà di volere prodotti responsabili e di adottare uno stile di vita piu smart e chi poi effettivamente mette in atto questi principi, è ancora alto a causa di barriere di diverse tipo che dobbiamo abbattere.
Ci sono vere rivoluzioni in corso nella filiera tessile, anche con diverse eccellenze italiane, che stanno mettendo a punto processi innovativi per ridurre sempre piu il consumo e deturpazione di risorse naturali fondamentali per l’umanità. Persiste però il problema che se i brand e il sistema pensano che basti fare uno switch a modelli produttivi più responsabili per potersi definire “sostenibili” senza cambiare il loro modello di business allora non vedo evoluzioni sul fronte dello sviluppo sostenibile. Crescita incrementale e idea di profitto che non considera il capitale umano e quello naturale nell’equazione non sono compatibili con il concetto di sostenibilità. Fondamentali diventano i servizi e le tecnologie funzionali a rendere anche il prodotto tessile un servizio, riducendo cosi significativamente la sovra-produzione, in un sistema che deve riportare il rispetto per la salute dell’uomo e di tutte le specie viventi al centro.
In giro per Roma con l’architetto e giudice di Cortesie per gli ospiti
Foto 1: Total look Gucci
Foto 2: Camicia Gucci e Impermeabile e jeans Ferragamo
Foto 3: Total look Gucci
Foto 4: Camicia Gucci e Impermeabile e jeans Ferragamo
Foto 5: Camicia Shirtstudio, Pants Fila
A Roma – città dove vive e lavora – abbiamo incontrato Diego Thomas, l’architetto che ha appena finito di girare la nuova serie di Cortesie per gli ospiti. Tra il serio e il faceto abbiamo fatto un giro per la capitale alla scoperta dei suoi luoghi del cuore.
Ecco i posti dove potrete incontrare Diego e il suo cane Paco passeggiando per la capitale.
Fare jogging al Circo Massimo e sentirsi l’atleta più acclamato della Roma imperiale
Chiacchierare sotto le stelle seduto sugli scalini di una delle tante scalette di trastevere, poi su altre, poi su altre, poi su altre…
Illudersi di fare tutta la pista ciclabile lungo il Tevere da nord fino al mare e rinunciarci per un gelato vicino al grande raccordo anulare
Prendere il sole cullati dallo scroscio delle cascatelle del Tevere sugli argini dell’Isola Tiberina
Fare un giro di vernissage nelle gallerie tra via Giulia e via dei Coronari per essere aggiornati dai galleristi sugli ultimi pettegolezzi nell’arte
Andare alla ricerca del capo vintage che proprio mancava nel guardaroba per i negozietti del rione monti e tornare a casa vestiti da hippy
Andare a prendere un caffè in piazzetta la domenica e incontrare talmente tante persone che la domenica è già finita
Armarsi di metro in tasca e girare in tutti i mercatini e robivecchi a cercare il mobile dalle dimensioni perfette
Avventurarsi in un piccolo tracking nella foresta nelle zone selvagge di villa Ada o villa Pamphili, poi aperitivo fashion in centro
Innamorarsi per i negozi di antiquariato e modernariato di pezzi che non sai dove mettere ma “vabbè intanto li prendo”
Accendere una candela in qualche intima chiesetta nascosta tra le vecchie case, in quelle grandi e famose la candelina si confonderebbe con le altre
Essere catapultati in giappone nel giardino zen dell’orto botanico
Rinvigorirsi davanti all’imponenza del Foro di Augusto: non avevano l’elettricità, internet e neanche instagram ma erano forti
Scegliere una via, assegnare a ogni palazzo una data di costruzione, calcolare la media matematica, la mediana, frullare bene in una matrice e giocare il risultato al lotto
Lanciare i legnetti al mio bassotto Paco su una spiaggia deserta in un’assolata giornata di primavera, a volte li riporta.
Passare incolumi tra il dominio dei principi Orsini e dei Colonna elencando tutte le differenze tra quelli di Roma Nord e quelli di Roma sud, rivali fin dal quattrocento e per quanti secoli ancora?
Classe 1998, Antonio Nunziata è un talent che ha iniziato a lavorare nella moda dal 2015. Dopo aver collaborato con numerose aziende di abbigliamento, a seguito delle ultime vicende legate al periodo del lockdown, lo vediamo protagonista di numerosi progetti legati al turismo e alla valorizzazione delle bellezze nel nostro paese. Lo abbiamo incontrato e ritratto a Roma, città in cui vive e lavora spostandosi dalla sua amata Napoli.
Pantaloni Fila, giacca Roy Roger’s
Pantalone e maglia Fila, sneaker Gucci
Maglia e giacca Salvatore Ferragamo
Pantaloni Fila, giacca Roy Roger’s
Foto: Manuel Scrima
Styling: Vincenzo Parisi
Racconta il tuo percorso, di studi e lavorativo..
All’età di 15 anni ho iniziato a scattare le mie prime campagne a Napoli come modello. La prima mi fu proposta da un amico che lavorava per una piccola azienda nel Vesuviano. Mi chiese di scattare qualche foto per un’azienda di moda e questa è stata la mia prima campagna. Da lì ho anche girato qualche spot pubblicitario in tv e ho aperto la mia pagina Instagram su cui condividevo gli scatti che via via realizzavo.
Contemporaneamente frequentavo il Liceo Scientifico e dopo il diploma, a 19 anni, mi sono trasferito a Milano. Avevo una gran voglia di mettermi in gioco e fare un’esperienza di vita lontano da casa, anche per misurarmi con le sfide di un mondo adulto e diverso da quello in cui sono cresciuto; un’occasione per crescere e cogliere le opportunità di una metropoli super dinamica e complessa. Lì ho avuto le mie prime esperienze lavorative anche in altri settori.
Come sei arrivato al mondo influencer e social?
Ho impiegato del tempo per capire le potenzialità che avevo in mano. Durante la mia permanenza a Milano continuavo a curare il mondo “social” parallelamente al mio lavoro, dove ho potuto conoscere e frequentare tante persone e da lì sono nate grandi amicizie. In quel periodo mi sono reso conto anche cosa non mi piacesse di questo mondo fatto di luci e scatti. Mi ci sono ritrovato dentro, ma non era nei miei piani. Al liceo pensavo di fare il modello, influenzato da quelle prime opportunità di lavoro, crescendo poi mi son accorto che non era ciò che volevo.
Quali sono le passioni che coltivi o che vorresti avere tempo di seguire?
Più di ogni altra cosa amo viaggiare. Infatti è ciò su cui sto focalizzando il mio profilo Instagram ultimamente. Durante questo periodo di crisi sanitaria, sociale ed economica, si è molto parlato di opportunità e di strategie per rimettere in moto il Paese. Il turismo è stato sicuramente uno dei settori più colpito in Italia e nel mondo. Abbiamo la fortuna di possedere circa il 70% dell’intero patrimonio artistico e culturale e tutto questo va valorizzato.
Viaggiando ho imparato ad apprezzare le incredibili bellezze e ricchezze del nostro territorio. Tengo molto a cuore il Paese in cui sono nato, in particolare la Campania, Napoli e tutti i tesori che abbiamo, un motivo di orgoglio per il mondo intero. E’ iniziata così la voglia di promuovere collaborazioni per la promozione del turismo. Provo a dare fiducia ai miei follower incoraggiandoli a tornare a viaggiare in Italia, muoversi, scoprire le bellezza e l’offerta eno-gastronomica che è presente in tutto il territorio nazionale. Ogni viaggio che sto facendo è una scoperta sorprendente anche per me, quindi non faccio altro che riportare quelle che sono le mie impressioni ed esperienze, sperando di poter dare nel mio piccolo un contributo al turismo italiano, possibilmente responsabile ed ecosostenibile. Altre mie passioni sono il nuoto e il fitness che spero di riprendere in modo costante appena sarò più stabile e naturalmente la fotografia.
La tua giornata tipo?
Sono un tipo abbastanza mattiniero. Sveglia alle 8, ricca colazione, check delle notizie principali sui giornali online e subito palestra o nuoto. Verso pranzo rispondo alle mail e poi in base agli impegni mi organizzo la giornata. In ogni caso non amo la routine.
La tua playlist – le tue 5 canzoni del momento?
Vienimi (a ballare) – Aiello , Erykah Badu – On & On, Bimbi per strada – Fedez, Chega – Gaia, Savage Love – Jason Derulo.
I tuoi posti del cuore dove torni a ricaricarti o cui sei particolarmente legato?
Senza dubbio, la costiera amalfitana! E’ il posto dove stacco i pensieri , spengo il cellulare e passo ore e ore a passeggiare e osservare il paesaggio.
Che stile hai? Cosa non manca nella tua valigia quando viaggi?
Come è possibile capire dal mio profilo, ho uno stile abbastanza casual. Alcune volte passo a quello più elegante. In ogni caso la parola d’ordine è: camicie. Non mancano mai nel mio armadio e in valigia. Sono quasi ossessionato, ne ho di tutti i tipi. Monocromatiche, a righe, floreali, cotone, lino, seta etc. Proprio non posso farne a meno.
Il tuo rapporto con la moda?
Sto imparando a conoscerla. E’ un mondo tanto straordinario quanto complesso che va studiato e conosciuto prima ancora che utilizzato per scopi commerciali. Personalmente non ho gusti “estremi” o eccentrici e difficilmente mi lascio condizionare dai trend del momento. Per certo posso dire che se è italiana è meglio. E non lo dico per solo campanilismo. Sono consapevole che il Made in Italy sta vivendo un periodo di fragilità, assediato dalla competizione manifatturiera di altre aree del mondo che però non garantiscono le nostre stesse performance e qualità. E’ qui che ci giochiamo la partita. In un mondo globalizzato è difficile anche per noi influencer poter collaborare, non dico solo, ma soprattutto con marchi italiani. Ultimamente una sartoria pugliese mi ha spedito una giacca di lino superlativa per qualità e bellezza. Un prodotto tipicamente artigianale, motivo di orgoglio per chi come noi non dovrebbe solo limitarsi a indossare un indumento per scattare, ma anche capirne la storia, il lavoro e la creatività che ci sono dietro a quel capo. Mi piacerebbe che i marchi italiani, soprattutto i piccoli, conoscessero meglio il “mercato dei talent” e noi viceversa il mondo dell’artigianato e della sartoria italiana per far crescere insieme questo mercato con maggior consapevolezza e qualità.
Cosa vuoi fare da grande? E progetti per il futuro..
Ho intenzione di studiare recitazione, vorrei fare l’attore. È uno dei miei prossimi obiettivi.
Il successo di Skam Italia continua a raccogliere consensi di critica e una community di fan molto forte, così come quello dei giovani e talentuosi interpreti che danno vita ai suoi amati personaggi. In esclusiva per MANINTOWN, abbiamo incontrato Rocco Fasano, uno dei protagonisti che nella serie interpreta il personaggio di Niccolò Fares, un personaggio che ha segnato un momento importante nel percorso dello stesso attore.
Hai avuto sin da piccolo una formazione musicale…
Mi sono avvicinato alla musica molto presto. Mio padre mi ha spinto a fare un corso propedeutico musicale quando avevo 5 anni e da lì l’anno successivo ho iniziato a studiare pianoforte con un’insegnante e mi sono iscritto al conservatorio a 9 anni che ho finito 12 anni dopo.
La musica la vivi ancora, ti eserciti?
La esercito ma più in forma di passione privata; in realtà è sempre stato un po’ così, anche se l’ho studiata in maniera completa. Forse un po’ per timidezza, non mi è mai piaciuto esibirmi davanti a tante persone, mi ha messo sempre un po’ di ansia. Quella del concerto per esempio e quella del set sono molto diverse come situazioni e le vivo diversamente.
Raccontami il tuo debutto…
Avvenne nel 2014 con un film indipendente in lingua inglese con una distribuzione molto di nicchia. E’ stata la mia primissima esperienza e da lì, anno dopo anno ho sempre cercato di continuare con la mia passione e fare un passo in più rispetto all’anno precedente.
Di questa prima esperienza cosa ti ricordi?
Il set mi sembrava un luogo astruso, pieno di attrezzatura tecnica: la prima esperienza fa sempre un po’ paura, ti mette in soggezione. Però alla fine ero molto focalizzato, col regista abbiamo fatto un bel lavoro di cui sono ancora oggi contento.
Dopo quello cosa è successo?
Ho continuato a fare provini e ho fatto una piccola serie per Fox e poi per Sky dal titolo ‘Hundred to Go’ sempre in inglese. Quando posso cerco di lavorare anche in inglese perché mi piace molto.
Leggevo che parli diverse lingue, dialetti anche?
Dialetti sicuramente, in repertorio come dialetti italiani ho dal milanese al siciliano, napoletano, romano, cadenze che sento abbastanza mie. In inglese ho lavorato col britannico e con l’americano, poi parlo un pochino di francese.
Come è arrivato Skam Italia?
Con un classico provino tramite il mio manager: ho portato una mia idea di personaggio e poi il regista mi ha detto “sarei interessato che tu portassi fuori invece una forma di dolcezza”. Io non conoscevo il progetto al tempo, avevo portato un personaggio un po’ più fighetto e invece abbiamo lavorato su vulnerabilità e dolcezza e da li è nato il personaggio.
Un personaggio molto complesso, visto che non te l’aspettavi. Come ti sei preparato a un ruolo così?
Quando ho letto la sceneggiatura e il disturbo borderline di personalità e l’omosessualità ho fatto ricerche soprattutto sul disturbo borderline. Questi pazienti sono estremamente sensibili e vivono la loro emotività come se ci fosse un’enorme lente di ingrandimento di fronte. Anche la comunicazione e le piccole cose per loro non sono banali; ogni piccola sfida emotiva può diventare una grande sfida. Oltre a questo aspetto c’era quello della paura dell’abbandono, dell’incertezza e delle fasi depressive. Le ricerche poi le ho dovute coniugare con script e sceneggiatura e capire dove si potevano fare uscire questi aspetti, coadiuvato da una direzione oculata.
Quanto ti rispecchi in questo personaggio, in questi lati un po’ oscuri e un po’ fragili?
Tanto! Lavorare su Niccolò è stato importante perché ho dovuto raggiungere quella parte recondita e molto vulnerabile di me stesso, portandola fuori con scioltezza e con tante persone attorno. Il set è un ambiente paradossale, devi cercare di accedere a quelle zone di te stesso magari anche nascoste rapportandoti con altri personaggi. Questa è stata la sfida che poi è parte del lavoro. Questo mi ha fatto riscoprire quel lato di me stesso e me l’ha fatto amare molto di più. Prima tendevo ad accantonare e superare vulnerabilità e fragilità, Niccolò me le ha fatte riscoprire come fonte di ricchezza enorme.
La serie è importante perché ha un messaggio per i giovani, di essere se stessi..
Di essere se stessi al massimo possibile perché nell’essere te stesso, chiunque tu sia e nei limiti di non fare del male all’altro non c’è nessuna colpa. Questo deve passare come messaggio. Ad esempio la relazione omosessuale che c’è nella seconda serie viene normalizzata del tutto. Questo era l’intento del regista, non pesare sull’aspetto drammatico, ma mostrare gli aspetti normali che esistono nella nostra società, molto semplicemente fra due persone che si amano.
Ti aspettavi un successo così grande visto che alla fine questa serie conquista veramente persone con punti di vista diversi.
Skam ha creato un precedente nella serialità italiana. Dopo la quarta stagione si chiude un primo ciclo di serie teen in Italia. Io non me lo aspettavo quando sono entrato nel cast. Era un bellissimo progetto e scritto molto bene ma non potevo prevedere l’eco e la risonanza che avrebbe avuto e che abbiamo accolto con grande entusiasmo.
La tua vita quotidiana come è cambiata?
È cambiata tanto sia dal punto di vista pratico e pragmatico perché vieni riconosciuto per strada, non si sfugge agli incontri casuali che sono sempre delle gioie. Il fandom di Skam Italia poi è molto educato e pieno di energia. Ti viene davvero voglia di interagire con loro.
Invece con la moda? Come è iniziata la tua carriera di modello?
È iniziata leggermente più tardi della recitazione e per caso. Io stavo a Monti e una fotografa che poi è diventata una mia carissima amica mi ha fermato facendomi notare il mio particolare un profilo greco e mi ha voluto scattare. E da lì molto inconsapevolmente è iniziata questa carriera parallela che ho coltivato, ma la mia passione primaria rimane la recitazione.
Un sogno nel cassetto che speri di realizzare prossimamente?
Sicuramente continuare a far parte di progetti belli, non è una cosa scontata perché di cose se ne fanno veramente tante e anche in Italia ci sono tantissimi nuovi investimenti in questo settore. La mia speranza è di continuare sul filone di Skam in termini qualitativi e di fare sempre meglio.
Ludovico Tersigni è tra i giovani talentuosi, che sono parte di una nuova generazione italiana che sta riscuotendo grande successo, anche grazie a Netflix. Il suo successo è stato decretato da due serie tra le più amate e seguite non solo dai teen, come come Skam Italia e Summertime. Carattere riservato e poco incline ai social, lo abbiamo incontrato a Roma, dove in esclusiva per MANINTOWN ha anche indossato i panni di un dandy, protagonista di una notte romana anni Trenta nel servizio che scoprite qui.
Come è nata la tua passione per il cinema?
È nata prima la passione per il teatro e la musica (amo suonare la chitarra) e poi sono arrivato al cinema. Ho iniziato sin dalle elementari con le prime recite a scuola e ho poi continuato alle medie e superiori a coltivare questa passione a livello amatoriale.
Quando ti sei detto voglio fare l’attore?
Non l’ho ancora detto io. È stata una cosa fluida e ho tentato di cogliere le opportunità. Il primo film Arance e martello l’ho fatto con Diego Bianchi e quel provino è stata la mia occasione. Sono stato preso per il ruolo e poi il film è andato a Venezia; lì ho incontrato Vittorio Pistoia, che mi ha chiesto se volessi entrare nella loro agenzia per fare una prova e ho accettato, anche se dovevo ancora laurearmi. La laurea non l’ha più vista nessuno ma in compenso ho fatto tante cose, ho preso tanti provini e ho continuato negli anni successivi con ruoli molto formativi. È stato un percorso a tratti difficile, per esempio il film ‘Slam. Tutto per una ragazza’ con Andrea Modaioli è stato lungo e complicato. C’è stato bisogno di un allenamento perché il protagonista è uno skater e ho dovuto raggiungere un buon livello in poco tempo. È uno sport che comporta infortuni ed è rischioso. Quindi farlo con l’idea che non ti dovevi fare male è stata una bella sfida.
Ti piacciono le sfide…
Non solo nel cinema, ma anche nello sport come l’arrampicata, dove il rischio è più controllato; tu sai qual è il tuo livello quando approcci una parete e sai di stare in sicurezza.
Secondo te perché il successo incredibile di Skam Italia?
Skam Italia è un ritratto fedele della realtà dei giovani di oggi. Il successo è dovuto a questa fedeltà. I produttori, i registi e gli attori non vogliono fornire un modello, ma un’idea di quello che è per noi il liceo oggi. Oltre a quello tematiche complesse affrontate in un’età che è l’età della costituzione della personalità, sono dei momenti che ti resteranno dentro per tutta la vita. Questo secondo me è il punto di forza di Skam: la non belligeranza nei confronti dei giovani. È una dichiarazione di alleanza, “noi siamo dalla vostra parte”. È anche un’interrogazione: “noi crediamo che ci siano queste cose, a voi sono successe?”. La cosa bella è che rispondono, si immedesimano e ne parlano. E la cosa bella che la serie ha saputo coinvolgere generazioni diverse.
Nella serie il tuo personaggio conosce un’evoluzione e crescita. Quanto c’è di te in Giovanni il tuo personaggio?
In Giovanni c’è forse una parte di me che ho lasciato da parte. Nessuno di noi vorrebbe crescere. Come dice Caparezza: “è che ho un progetto in mente, di rimanere sempre adolescente”. Giovanni è un po’ il retaggio delle esperienze che ho avuto al liceo e che sono rimaste un po’ inespresse.
L’altra versione di Skam l’avevi vista?
Sì ma dopo la prima stagione. Ho visto la prima puntata prima di iniziare le riprese e ho visto qualcosa di Skam Francia ed è stato interessante vedere le varie modalità interpretative e i temi diversi in ogni Paese. Skam credo sia uno dei progetti più belli cui ho partecipato.
Summertime è arrivato a seguito di questo? Come l’hai vissuto?
E’ sicuramente una serie più d’intrattenimento e con un obiettivo di essere più accogliente. Si rivolge a un pubblico più ampio. A livello sociale Skam è una mina, apre degli spazi. Summertime invece accoglie e non si possono mettere a confronto.
Secondo perché stiamo vivendo un’ondata di serie televisive di genere teen.
Io credo che questo sia dovuta all’età del fruitore, che adesso è molto giovane. Io per esempio alle medie nel fine settimana andavo al cinema con i miei amici. Era un’usanza, si litigava anche per la scelta del film. E’ proprio diversa la modalità di fruizione. A me dispiace un po’ vedere i giovani molto legati agli schermi, se ci fosse più equilibrio forse sceglierebbero di fare anche altre cose.
Oggi i giovani sono anche molto legati ai social, tu ad esempio sei un po’ diverso…
La gestione del tempo è molto delicata. Rischi di passare un’ora o due davanti al cellulare e poi non hai fatto niente. Hai visto delle foto dei tuoi amici, vedi cos’hanno fatto nelle stories, hai “partecipato” alla loro vita, ma in una modalità virtuale. Quindi la mia domanda è: poi nella vita reale noi siamo ancora in grado di stare insieme, andare fuori, organizzarci, partire, fare le cose per vederci? O basta sentirci al telefono per avere quel rapporto? Per questo cerco di investire il mio tempo anche in altre cose che non siano soltanto virtuali.
Quindi nel tempo libero che passioni coltivi?
Negli ultimi anni ho avuto la crisi manuale, mi sono reso conto che non sapevo fare molte cose con le mani e ho iniziato un percorso che ha toccato vari ambiti dal restauro (ho fatto un’accademia di liuteria) fino al costruire una chitarra acustica. Mi sono reso conto di come il lavoro manuale aiuta a liberare il pensiero, perché la concentrazione ti fa dimenticare ciò a cui stai pensando e quindi i pensieri si chiariscono. Il fare qualcosa di manuale, la concentrazione e poi il vedere l’opera finita non solo è una grande soddisfazione, ma è anche terapeutico. Adesso sto facendo un corso di scultura in argilla e ho finito la mia prima Venere e adesso sto facendo un busto equino molto difficile. Ci sto mettendo molto tempo però il maestro è contento.
Che progetti hai per questa summer 2020?
Stiamo lavorando alla seconda stagione di Summertime e si riparte per Ravenna tutti insieme. Nella nuova serie ci saranno interessanti sviluppi e crescita nei personaggi, che l’anno scorso si sono incontrati…stay tuned
Manintown x Gucci
Photography: Manuel Scrima @manuelscrima
Video: Marlon Rueberg @marlonrueberg
Camera operator: Jacopo Lupinella @jacopolupinellaph
Talent: Ludovico Tersigni @ludovicotersigni
Art Direction & Styling: Giorgia Cantarini @giorgiacantarini
Styling Assistant: Giorgia Musci @mushiland
Grooming: Francesca Bova @francesca_bova_
Location: Hotel Valadier – Roma @hotel.valadier
Production: Manintown @manintownofficial
Theme SHIFT#4 BY XU & TIM ROWE from BLUESHIFT
Special thanks: Sonia Rondini e Lapalumbo comunicazione
Edmond Eisenberg è il perfetto ambassador dell’omonimo brand beauty. Figlio di Josè Eisenberg, fondatore dell’azienda e grande innovatore, ne condivide la visione e i valori. Il beauty per entrambi è una scienza esatta, e necessita di una grande ricerca tecnologica. Al tempo stesso però anche l’arte gioca un ruolo fondamentale nella strategia, poiché il prodotto beauty deve essere scientificamente avanzato e offrire un’esperienza sensoriale a chi lo utilizza. Abbiamo incontrato Edmond per scoprire il DNA di Eisenberg e i suoi consigli per una beauty routine tutta al maschile.
Il tuo brand ha percorso generazioni differenti, come riuscite a combinare insieme tradizione ed innovazione?
La nostra filosofia riguarda i concetti di bellezza, perfezione, arte, tecnologia, innovazione ed eccellenza. Diamo estrema importanza alla ricerca e sviluppo e all’innovazione. Il nostro fine ultimo è cercare sempre il prodotto perfetto, piuttosto che una mera strategia di marketing. Ad ogni modo, EISENBERG è in primis un’azienda familiare. Questo ci permette di rimanere fedeli alla visione autentica di mio padre, ai suoi valori e di essere liberi e indipendenti per mantenere la nostra autenticità. Non siamo un’azienda multinazionale e abbiamo un’unica storia da raccontare: una creatività degna di nota, una passione reale per ciò che concerne la bellezza e il rispetto per i nostri consumatori.
La ricerca del prodotto vi ha sempre contraddistinto. Quali sono le prossime innovazioni che vorreste introdurre?
Certamente miriamo a offrire prodotti beauty con un reale valore aggiunto, per fare in modo che i nostri clienti si sentano bene con se stessi e per offrire un’esperienza unica. Di conseguenza, la ricerca nell’ innovazione e l’ eccellenza sono le nostre priorità. Credo che la bellezza, o la sete di essa, sia eterna e lo è anche la nostra missione per trovare le formule più innovative al fine di preservare e rivelare la bellezza della pelle. Attualmente stiamo lavorando su progetti molto interessanti che non vediamo l’ora di condividere. Come per tutti gli sviluppi di prodotti futuri però teniamo i dettagli segreti fino a che il prodotto non sia effettivamente lanciato sul mercato: il che rende il momento del lancio ancora più emozionante per tutti.
Come descriveresti la crescita e l’evoluzione del mondo beauty per gli uomini?
Gli uomini moderni hanno molto a cuore il desiderio di apparire belli e di sentirsi bene con la propria pelle, di conseguenza compiono azioni per raggiungere questi obiettivi. Vogliono essere sempre in forma e stanno acquisendo una consapevolezza di sé sempre maggiore; questo va di pari passo con il consumo di prodotti di bellezza. Oggi gli uomini sono diventati consumatori fedeli e hanno accettato l’uso dei prodotti beauty nella loro routine quotidiana.
Inoltre, la cura della pelle e della bellezza fanno parte pienamente dell’idea dello “stare bene”.
Ultimo ma non meno importante, il Covid-19 ci ha insegnato l’importanza dell’igiene, di una sana e consapevole cura della pelle, di un brand su cui poter fare affidamento. E il nostro risponde a queste caratteristiche. È importante creare prodotti su misura per anticipare e rispondere alle richieste specifiche degli uomini di oggi. La nostra pelle soffre quotidianamente le aggressioni dell’inquinamento, specialmente urbano. C’è una domanda in crescita per prodotti che siano facili da utilizzare, efficienti e che contengano prodotti naturali mirati.
Quale è il vostro target per gli uomini e quali sono i nuovi bisogni?
Pensiamo che tutti gli uomini si meritino di sentirsi belli. Grazie alla nostra vasta gamma di prodotti proviamo a consegnare loro la cura perfetta per ogni bisogno specifico e per ciascun tipo di pelle: da normale a grassa, da secca a sensibile. Ogni uomo che cura il proprio aspetto e che desidera una pelle in salute e radiosa troverà la routine di skincare completa da EISENBERG Man. In genere l’uomo che acquista il nostro brand cerca prodotti veloci ed efficienti che rispondano perfettamente ai suoi bisogni quotidiani. Per lui, la cura della pelle non riguarda sono una crema da applicare quando capita perché la sua partner gli dice di farlo. Lo fa perché vuole sentirsi bene.
Quali per te 3 prodotti must have da donna e 3 indispensabili per gli uomini…
Ogni donna deve provare la “Masque Tenseur Remodelant”, una dei più venduti. È una maschera anti-età che assicura elasticità e corposità in pochi minuti. Un altro fra i migliori è il tanto amato “Soin Anti-Âge”, che ha una consistenza morbida, vellutata sulla pelle. I suoi ingredienti principali tonificano, lisciano e rassodano, in modo che la pelle appaia visibilmente più giovane. Il terzo must-have è “Crème Contour des Yeux & Lèvres”, un anti rughe specifico per occhi delicati, applicabile anche sulla zona labbra che riduce le rughe sottili e i segni della stanchezza.
Per quanto riguarda gli uomini direi che non piò mancare il rinomato “Soin Actif Calmant Hydratant”, la cura perfetta per chi ha la pelle sensibile. Questo trattamento pensato per la città agisce a 360° come scudo contro le aggressioni esterne. Immancabile! “Complexe Anti-Âge” è una formula eccezionale per ridurre i segni dell’età. Questa crema ultra leggera è arricchita da un anti rughe e da ingredienti attivi idratanti, i quali mantengono la pelle rinvigorita tutto il giorno. Il terzo prodotto è “Duo Essentiel”, un due in uno che può essere utilizzato sia come detergente, sia come gel per la rasatura. Lascia la pelle liscia e confortevole, è un prodotto molto pratico per l’uomo di città!
Come curi la tua pelle durante l’anno? Raccontami della tua routine estiva…
In generale rimane quasi sempre la stessa, ma in estate amo utilizzare formule fresche dalla consistenza leggera, quindi adatto la mia routine di conseguenza.
Uso Duo Essentiel per lavarmi il viso e radermi ogni mattina, poi il Gel Après-Rasage Apaisant. Mi piace molto la sua consistenza fresca e non unta! Per assicurarmi che la mia pelle riceva la giusta idratazione uso Baume Essentiel Hydratant, che dà una sensazione piacevole di benessere per iniziare la giornata nel migliore dei modi. Inoltre, uso entrambi i nostri deodoranti, o lo spray DEODORANT o il nostro DEODORANT J’OSE.
Di sera uso nuovamente Duo Essentiel per eliminare le impurità accumulate durante il giorno e poi applico Soin Crème Réparateur Nuit, che ripara in profondità e rigenera durante la notte. A questo aggiungo Élixir de Jeunesse se ho un evento speciale o per il jet-lag, che è un acceleratore istantaneo contro la stanchezza. Il tocco finale è sempre il nostro profumo iconico J’OSE, che è il mio preferito da l’Art du Parfum e che uso da tanti anni!
Quali prodotti e abiti non mancano mai nella tua valigia quando viaggi?
La stessa routine che ho descritto in precedenza. E in aggiunta troverete nella valigia il mio iPad, un orologio, capi sportivi per allenarmi ovunque nel mondo, un completo nero o blu notte, un paio di jeans, una maglietta bianca fresca, un maglioncino di cashmere nero e ancora più importante il Rispetto per qualunque cultura e Paese in cui io stia viaggiando.
Tu e tuo padre siete amanti dell’arte e collezionisti. Come coniugate questa passione nell’ambito beauty e la tecnologia nelle vostre linee di prodotti?
L’arte ha sempre giocato un ruolo fondamentale nella mia vita e in quella di mio padre. Oltre alle nuove tecnologie, definisce ogni creazione di mio padre e si riflette profondamente nel brand. Siamo costantemente alla ricerca del prodotto perfetto, che porti risultati reali ma che offra al consumatore un’esperienza artistica e sensoriale. La nostra prima linea di fragranze “l’Art du Parfum” rappresenta perfettamente questa unione: arte e profumi in un connubio che esprime l’essenza di vita, l’eternità, la sensualità e la bellezza. Il talentuoso pittore brasiliano Juarez Machado ha creato un dipinto per ogni profumo, il quale rappresenta lo spirito di ogni fragranza e cattura emozioni. In aggiunta, ho un retaggio artistico che mi piace coltivare nella vita personale. Sono grato di poter utilizzare questa passione e che il brand ne benefici durante il processo creativo.
Quali sono gli artisti che ti piacciono maggiormente e perché?
Dipende da quale arte stiamo parlando, ma in generale direi che i miei gusti sono molti eclettici. Se parliamo di musica, amo Verdi, Puccini, Travis Scott, ma anche Chopin, BB King o John Mayer. Se parliamo di arte, ammiro il Rinascimento e la cosiddetta Arte “Zero” italiana (Lucio Fontana e Turi Simeti), o addirittura l'”Arte Povera” che mi appassiona molto, ma anche Arnaldo Pomodoro.
Abbiamo incontrato Marco Guazzone, cantante, pianista e frontman del gruppo STAG. Il suo percorso inizia con gli studi di pianoforte al Conservatorio di Musica Santa Cecilia e composizione per musica da film al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Nel 2010 poi, auto-produce e pubblica il suo primo singolo Love Will Save Us, che viene scelto come colonna sonora ufficiale dello spot Fox Life di San Valentino. Ma è solo l’inizio, tra il 2012 e oggi sono diverse le apparizioni in televisione e i lavori per la televisione ed altri nomi noti del panorama musicale italiano. Lo scorso Aprile esce la sua cover di Azzurro di Adriano Celentano, che diventa la sigla ufficiale del programma radio C’è sempre una canzone – Live da casa.
In che modo le tue radici inglesi e la tua esperienza nel Regno Unito hanno influenzato la tua carriera da musicista?
La parte della mia famiglia dal lato di mio padre che vive a Londra mi ha permesso di poter visitare fin da piccolo la città più volte e quindi viverla sentendomi sempre un po’ a casa imparando subito la lingua. Nel tempo che poi ho passato lì dopo il liceo, grazie alla facilità in cui ci si può esibire davanti a un pubblico, (si chiamano “open mic nights” quelle serate in cui ti segni su una lista e suoni in locali sempre pieni di gente) sono venuto a contatto con delle realtà di musica dal vivo molto forti che quando sono tornato in Italia mi hanno spinto a mettere su una band con cui lavorare.
Come si è evoluto nel tempo il rapporto con gli altri membri degli Stag?
Sono quasi dieci anni che ci conosciamo e siamo praticamente diventati una famiglia. La vita in sala prove, in studio di registrazione e in tour ti avvicina così profondamente che a un certo punto ti ritrovi ad avere dei fratelli acquisiti, non si è più solo amici o collaboratori. E poi scrivere una canzone é un processo così intimo che richiede un grande atto di fiducia. Diventa indispensabile quindi poterlo fare con le persone giuste che ti conosco per davvero.
Che tipo di immagine cerchi di avere sui diversi social network e perché?
Ho un rapporto controverso con i social perché se da una parte sono fondamentali per chi fa il musicista al giorno d’oggi, dall’altra parte non mi ci sono mai impegnato seriamente. Nel senso che non sono uno che bada ai numeri e nonostante riconosca l’importanza di una piattaforma che ti da la possibilità di azzerare la distanza tra te e chi ti ascolta dall’altra parte ho sempre preferito fare musica sui palchi, sui dischi e concentrare le mie energie sulla creatività piuttosto che sull’esposizione di questa. Sicuramente quando lo uso mi ci confronto un po’ come uno specchio che in maniera molto affascinante mi permette di far riflettere la mia immagine sul mondo esterno.
Come vivi le diverse collaborazioni con artisti di fama internazionale?
Ho avuto la fortuna di lavorare con degli artisti di fama mondiale che mi hanno insegnato tantissimo. In queste occasioni mi sento come uno studente privilegiato che ha l’opportunità di ascoltare una lezione di vita, di umanità e mestiere che mi ricorda sempre come la musica sia capace di unire e cancellare i confini geografici, di genere e di lingua.
Hai qualche tour in programma, da solista o in gruppo?
Con gli STAG abbiamo concluso prima dell’estate una tournée in cui presentavamo in versione acustica i brani del nostro disco ultimo disco, “Verso Le Meraviglie”. Ora siamo in fase di scrittura di nuovi brani.
Qual è la differenza tra lo scrivere musica per una colonna sonora e scriverla per un artista? Quale delle due suscita maggiormente il tuo interesse?
Direi che sono due stimoli diversi che richiedono metodi creativi differenti. Da una parte hai le immagini di un film e dall’altra un artista con un mondo musicale ben preciso. In entrambi i casi secondo me il risultato è già lì, nascosto nelle immagini o nelle corde di chi hai davanti, sta a me guardare, ascoltare per farmi guidare e tirar fuori l’abito migliore con cui vestire un film o la voce dell’artista.
Quanto ha influito la tua comparsa a Sanremo Giovani con i lavori che hai realizzato in seguito?
Potermi esibire dal vivo suonando un mio brano con un’orchestra di sessanta elementi di fronte a milioni di persone è un’esperienza magica che mi porterò sempre nel cuore. A livello professionale mi ha permesso di “entrare” ufficialmente nel mondo discografico. Per esempio, a Sanremo ho conosciuto Arisa (che era in gara con “La Notte”) che dopo quell’incontro mi ha chiesto di scrivere l’inedito di X Factor dello stesso anno. Da lì è nata una collaborazione che mi ha portato a scrivere per il suo disco “Se Vedo Te” fino a ritrovarla quest’anno di nuovo a Sanremo dove per lei ho scritto e curato la versione inglese del suo brano “Mi Sento Bene” per il duetto con Tony Hadley.
In un periodo non semplice per il retail, abbiamo intervistato Paolo Bassani, giovane fashion buyer della boutique Il Duomo Novara, una delle vetrine più belle d’Italia e indirizzo di culto per tutti gli amanti del fashion, che, ora più che mai non potrà mancare nella nostra shopping map.
Come avete reagito a questo lungo lockdown?
Non abbiamo voluto permettere alla paura di prendere il sopravvento e annebbiare la ragione. In un primo momento abbiamo rallentato la macchina, anzi l’abbiamo proprio spenta. Dapprima il negozio fisico e in seguito anche i magazzini e gli uffici. Le sirene delle ambulanze scandivano le ore della giornata e interrompere tutte le attività è sembrata l’unica cosa da fare. Una pausa, il silenzio. Limitare la diffusione del virus era l’unico obiettivo, a maggior ragione in queste aree duramente colpite. Lavorare non era possibile e non era giusto.
Non appena la fase critica è stata superata abbiamo riaperto il canale e-commerce le cui vendite hanno permesso un parziale recupero, seppur con tempi e ritmi lenti e progressivi.
Come vi siete attrezzati sul digitale e come sarà il vostro e-commerce?
L’e-commerce Duomo esiste da poco più di un anno perciò è in continua sperimentazione. Vogliamo che sia fluido e modulabile, che diventi uno spazio dove sì fare shopping, ma anche una pagina dove lasciarsi ispirare dalle novità, da dei mondi, da persone e da idee veicolate attraverso la lente de Il Duomo pur rispettando l’immagine dei singoli brand.
Ci sono molti siti e-commerce e spesso hanno la tendenza a essere simili tra di loro: la standardizzazione è un effetto che vogliamo assolutamente evitare.
Nel concreto abbiamo un team che si occupa dello shooting, dei contenuti e dell’aspetto “estetico”. Sia chiaro, è ancora un progetto appena nato e spesso è tutto mosso da una certa artigianalità delle idee ma non vogliamo forzare i tempi.
Come gestirete le vendite alla riapertura?
Il pericolo di svendere un’intera stagione è in agguato e ogni brand del lusso sta reagendo in modo più o meno impattante. Non abbiamo mai creduto nel potere salvifico di una scontistica aggressiva perché è all’origine della svalutazione di un qualsiasi oggetto di lusso, non limitatamente alla moda ma anche in relazione a un’automobile, a un gioiello, a un orologio.
L’acquisto di un nuovo abito o di un paio di scarpe non è solo una risposta a un bisogno reale ma soprattutto la realizzazione di un desiderio ed è inevitabile che sia perciò proprio il desiderio il motore fondamentale che muove tutto. E gli sconti svalutano il desiderio. Lo neutralizzano.
Oggi lo scenario è però piuttosto “impazzito” e bisognerà trovare un equilibrio per rimanere competitivi senza svalutare. Parallelamente i brand hanno chiuso la produzione per un lungo periodo e molte consegne sono state annullate o posticipate.
Come pensi evolverà in generale il retail post covid?
Il retail stava attraversando un periodo di difficoltà già prima dell’avvento del virus che ne ha decretato definitivamente l’esigenza di rinnovamento. Noi consideriamo l’e-commerce elemento imprescindibile del business ma non ci vogliamo arrendere all’importanza del negozio come luogo della bellezza, crocevia di immagini e suggestioni. Un luogo altro rispetto al classico negozio di abbigliamento, un luogo dove si respira lusso informale e distinto – come sono i tratti delle clienti e dei clienti novaresi – ma orientato alla modernità. Focale è quindi l’esperienza che ne deriva: all’asettico pacco consegnato dal corriere fa da contrappunto un mondo di relazioni e attenzioni che rendono l’esperienza dello shopping indimenticabile. I clienti italiani hanno bisogni diversi dai clienti americani o asiatici e quindi ci saranno conseguenze diverse da paese a paese. Sicuramente soffrirà molto chi negli ultimi anni non si è dotato di un massiccio supporto on-line o chi non ha instaurato con la propria clientela un rapporto forte e sincero. Probabilmente soffriranno molti department store.
L’auspicio è però che venga elaborata una sintesi tra il Mondo Vecchio pre-virus e un Mondo Nuovo moderno, realmente sostenibile, non solo attraverso vaghe iniziative strumentali. Così come è necessario che le aziende trovino una sintesi tra il rispetto dei conti economici di fine anno e il ritorno a un’umanità vera.
Di origini comasche, Tommaso Spinzi si definisce un Interior & Furniture designer. Dopo aver trascorso molti anni tra la Svizzera e gli Stati Uniti, facendo base per poco meno di un decennio a Melbourne decide di tornare in Italia stabilendosi a Milano, che sempre di più, a livello internazionale è la capitale del design. Proprio per questo, Spinzi Design, la sua nuova “casa” è uno spazio aperto alla città, un laboratorio in divenire, ma anche un racconto visuale e materico delle esperienze del giovane designer, affascinato da sempre dai motori e amante dell’arte.
“Cerco di contaminare il mondo Interior e Furniture con quello del Lifestyle maschile , come potete notare su entrambi i miei account instagram @tommasospinzi@spinzidesign”. “Il primo, racconta il mio tempo libero e tutto l’universo che mi circonda e incuriosisce , il secondo e’ piu orientato all’interior design e ai servizi che offriamo con Spinzi Design.”
Tra Milano e Como, Tommaso possiede due spazi galleria, contenitori delle sue passioni e luoghi in cui nascono progetti e collaborazioni con brand automotive , furniture e fashion. L’importante è che abbiano sempre un filone artistico che li accumuna con una visione. Una sorta di fusion che il lifestyle contemporaneo e il nostro mondo ci porta a creare.
La contaminazione tra design e auto deriva poi da una sfrenata passione per il settore automotive, e in generale per i mezzi di trasporto. “Mi piace creare un link e un’influenza per questa passione quando disegno pezzi d’arredo , anche perchè sono parte integrante del mio stile di vita”.
“Vedo certe auto come sculture che tagliano l’aria , forme con un fascino ineguagliabile”. Proprio per questo il designer non disdegna l’auto anche in un contesto living , così come un componente meccanico di stile ed eleganza maschile, basti pensare alla Porsche 911 presente nel suo loft. Questo tratto sembra distinguere il suo studio nell’approccio all’interior design, aprendo questo concetto anche al mondo degli appassionati di auto.
Tra i progetti più recenti c’era in previsione una presentazione di pezzi e collaborazioni per il Salone del mobile che ora si e’ spostato sul Fuorisalone virtuale che si terrà dal 15 al 21 giugno.
Gli aggiornamenti verranno poi comunicati sui canali social e qualora sia consentito si potrà visitare Spinzi Design proprio durante in giorni dell’evento.
Alex Prequel (@alexprequel_tattoartist) è un tatuatore specializzato nello stile Abstract e Watercolor con base in Italia anche se partecipa a molti convegni sui tatuaggi in tutto il mondo. Ha iniziato la sua carriera nel 2013, a 22 anni, in modo davvero naturale perché è sempre stato a contatto col mondo dell’arte. Disegnava sin da bambino, prima il diploma al Liceo Artistico e poi a vent’anni il suo primo tatuaggio. Da allora, i tatuaggi sono certamente aumentati e l’amore per il disegno e la passione per questo lavoro si sono uniti definitivamente.
Raccontaci la tua formazione e come sei arrivato al mondo del tattoo
Disegno fin da piccolo, sono sempre stato portato e affascinato dal disegno. Ho frequentato e mi sono diplomato al Liceo Artistico ed è lì che ho imparato veramente a disegnare, ho sperimentato tante varie tecniche negli anni quali: matita, carboncino, pantoni, acquarello, acrilico, riproducevo ritrattistica anche su modelli dal vivo e ho fatto anche modellato con argilla e un po’ di scultura.
Dopo il liceo ho frequentato quasi 2 anni di Università in Design industriale del prodotto, interrotto poi perché è subentrata la passione per il tatuaggio e da subito mi sono concentrato su questa professione che ormai svolgo da quasi 7 anni.
Come stai vivendo la quarantena?
Inizio a lamentarmi a livello lavorativo, come tutti penso. Il mio lavoro è la mia passione, quindi oltre al fattore incassi, mi manca proprio svolgere ciò che amo fare. Fino ad ora ero speranzoso di riaprire il mio Studio e poter riniziare a Tatuare da Maggio, invece il desiderio e la voglia si prolungano fino a Giugno a quanto pare. Stringiamo i denti.
Comunque cerco di rimanere attivo il più possibile artisticamente parlando anche da casa e penso molto a progetti futuri. Per quanto riguarda la routine da quarantena non male dai, lavoro e ho lo Studio nelle Marche a San benedetto del Tronto ma abito in provincia Abruzzese, e fortunatamente sono abbastanza circondato da parchi e praterie. Solitamente amo il caos delle grandi metropoli ma in questo periodo mi ritengo fortunato a trovarmi qui, posso prendere una boccata d’aria in tranquillità mettiamola così, al contrario della gente che si trova a Milano o Roma magari.
Come cambierà il tuo lavoro post Covid-19?
Noi Tatuatori professionisti siamo già pronti a riaprire, lavoriamo da sempre con tutte le preoccupazioni e le protezioni necessarie che prescindono da questa situazione Covid. Non vedo l’ora di ricominciare a lavorare ma spero il governo si accorga di noi tatuatori e ci faccia riaprire prima di Giugno, perché nel periodo estivo solitamente abbiamo un grande calo di richiesta. Infatti, la gente si espone al sole e va al mare e si tatua di meno, dato che non è per niente indicato fare queste cose con dei tatuaggi fatti da poco tempo. Quindi se così fosse, sarebbe come stare fermi 6 mesi, non solamente 3. Speriamo bene, dipende anche dalla risposta che darà la clientela.
Sei appassionato di viaggi, raccontaci i tuoi luoghi del cuore nel mondo
Vietnam – Mua Caves Ninh Binh: è una montagna con 2 piccoli templi sopra e un dragone, si trova nel ben mezzo del nulla, nella zona di Tam Coc, si cammina parecchio e per arrivare qui in cima, si devono salire più di 500 gradini, ma non gradini normali sono circa 50 cm l’uno, si arriva in cima con il fiatone ma la vista lascia ancor più senza fiato. È un esperienza mistica perché devi sudare per raggiungerà la vetta e poter ammirare ciò che ti circonda.
Amsterdam – Kees de jongenbrug: adoro questo ponte nel centro di Amsterdam nella zona Jordan. È uno spettacolo da vedere, tutto si incrocia: le strutture caratteristiche della città, il canale, le barche, le bici. È uno scenario che descrive perfettamente il mood di Amsterdam.
Miami Beach – Lummus Park: da premettere che amo tutta Miami e Miami Beach, ma mi concentro su questo parco perché è strategico per godersi a pieno l’atmosfera Sunshine, percorre tutto l’Ocean Drive, quindi da un lato si ha la vista dell’immenso Oceano e delle lunghe spiagge e dall’altra tutti i possibili locali, ristoranti, bar, hotels tutti in stile Art Decó.
NYC – the high Line: La High Line è un parco lineare sopraelevato, situato nella parte West side di Manhattan nel quartiere Chelsea, mi piace in modo particolare perché oltre ad essere rilassante passeggiare lì, e proprio suggestivo camminare tra i vari grattacieli che si trovano ai lati del parco e poter ammirare le strade piene di vita sottostanti all parco. Offre una visuale diversa perché è a metà strada tra il vedere NYC nella tua piccolezza dal basso camminando per strada, oppure vederla completamente dall’alto di un grattacielo. Qui puoi ammirare sia in alto che in basso.
San Francisco – Golden gate Bridge: è un ponte sospeso che sovrasta il Golden Gate, lo stretto che collega l’Oceano Pacifico con la Baia di San Francisco. Per quanto mi riguarda penso sia il ponte più bello che esista, soprattutto per il luogo in cui si trova, tutto ciò che lo circonda è mozzafiato. Visto dall’alto sembra come se venisse fuori dall acqua. In lontananza da qui si ha anche una bellissima vista di San Francisco.
Quando si parla di sartorialità spesso si pensa all’immagine di vecchi sarti, abiti impeccabili ma pensati per l’avvocato o il manager classico e un po’ old style.
Da un’idea di artigianalità ma riletta in chiave moderna e anche digital Alessio Cursi, imprenditore e amante del bien vivre, ha pensato a una piattaforma verticale di prodotti e servizi sul mondo “su misura” dedicata a nuovi Gentleman.
Alessio Cursi, fondatore di The Savile Company
Così è nato The Savile Company, un atelier per abiti e accessori su misura nel cuore di Milano (in via Rovello 18) ma anche un club di prodotti e servizi esclusivi per i propri clienti.
Racconta lo stesso Alessio Cursi, perfetto esempio di globetrotter 2.0: “Grazie a un ampio network di artigiani e realtà straordinarie rigorosamente Made in Italy riusciamo ad avere accesso ad un mondo di stile e design in grado di sviluppare progetti one-off esclusivi”. Da qui sono nate tante collaborazioni esclusivi con brand e aziende come Mini, Stilnovo, Holland&Sherry, Sacs, e Zagato, tanto per citarne solo alcuni.
The Savile Company è un nuovo modello di business integrato (retali-digital) dove contenuti editoriali, prodotti e servizi BeSpoke si fondono in esperienze di acquisto e consumo uniche. E precisa Cursi, che è in prima linea impegnato nella supervisione creativa e produttiva: “ Vogliamo supportare i nostri clienti nella creazione di uno stile personale, trovando soluzioni e risposte ad hoc per le loro esigenze.
The Savile Company Via Rovello 18, Milano
The Savile Company Via Rovello 18, Milano
The Savile Company Via Rovello 18, Milano
Ci basiamo su un’accurata scelta di tessuti e materiali, che culmina nel design e nello styling del prodotto, per ottenere il perfetto abito e accessorio ‘sartoriale’. Presentiamo un’offerta vasta e strutturata, che comprende tutto il mondo del tailoring ‘su misura’.
E grazie alla nostra rete di maestranze dislocate su tutto il territorio italiano, siamo in grado di offrire l’eccellenza su tutti i prodotti e categorie merceologiche: dalla sartoria con abiti, capi spalla, camicie, polo fino a tutta una serie di accessori – sempre su misura – come cinture, scarpe, cravatte, borse, fino alle valigie.”
Un progetto che vuole portare una ventata di modernità a un mondo che vede oggi la nascita di una nuova generazione di uomini che sono alla ricerca di qualità senza compromessi, ma con forme e materiali più ‘aggiornati’ e abbinamenti meno consueti.
E proprio per questo The Savile Company sviluppa, inoltre, “capsule collections” e “private label” dedicate, prodotte sulle specifiche necessità dei committenti.
The Savile Company Via Rovello 18, Milano
The Savile Company Via Rovello 18, Milano
The Savile Company Via Rovello 18, Milano
I clienti possono infine ‘reinterpretare’ e recuperare abiti del passato, come il cappotto del “nonno” magari realizzato da sarti di un tempo con fitting over ma di ottima qualità con spalle giganti che si usava portare un tempo, o il pantalone tanto amato ma con fondo molto largo non più adatto ai tempi.
Grazie a sapienti maestri anche questi capi possono essere trasformati, integrandoli con qualche capo per sostituire la giacca o il pantalone di uno spezzato oppure semplicemente giocare con cravatta, pochette e camicia.
Un Atelier dove la dimensione umana e artigianale incontra lo stile moderno e senza tempo, supportato dal digital e dalla cultura di un saper fare rigorosamente italiano.
Un creativo poliedrico che ha saputo caratterizzare il suo brand grazie all’amore per l’architettura, il colore e la qualità tutta artigianale, ma sempre nel segno della contemporaneità.
Sono le creazioni di Michele Chiocciolini, che insieme alla sorella Francesca ha lanciato nel 2012 un brand di borse e di recente anche il primo flagship store nel cuore di Milano in via Stoppani 12.
La formazione di Michele parte dalla laurea in architettura cui si aggiungono la passione per la pittura e grafica con una visione della moda ispirata dalla cultura Pop & Graffiti e alle atmosfere anni Ottanta della New York di Keith Haring, Basquiat e Madonna. Una visione che ha saputo trasferire nelle sue collezioni e nei disegni che rappresentano sempre con ironia il suo immaginario.
Tra le altre passioni è da sempre la cucina, che ci racconta lo stesso designer: “Ho sempre amato cucinare, l’ho sempre fatto per gli amici; ho rubato l’arte con gli occhi dalla mia mamma e dalle nonne e ciò che mi ha sempre divertito di più era la creazione di piatti con quello che trovavo in frigorifero”.
Da questo amore per la convivialità e dal periodo di forzata quarantena Michele inizia a intrattenere i suoi amici cucinando in diretta dal suo account Instagram personale. Decide, quindi, di declinare questa sua filosofia anche nel food e nasce il progetto instagram @micolovescooking che diventa una nuova espressione di creatività che inizierà a condividere con tanti ospiti selezionati in diversi ambiti professionali.
E precisa Michele in merito alla nascita di questo progetto: “Questo momento storico ha reso ancora più forte il concetto di uguaglianza tra le persone, qualunque rilievo e ruolo ricoprano nella nostra società, tutti siamo vulnerabili allo stesso modo. Sulla base di questo principio, che mi è sempre appartenuto, ho scelto di chiacchierare con tante persone, ognuna con delle specialità che appartengono ad ambiti professionali diametralmente diversi”.
Anche noi di MANINTOWN abbiamo chiacchierato con Michele, che non solo ci ha raccontato di questa nuova passione, ma anche dedicato uno speciale burger di Quinoa. Godetevi quindi la lettura e provate la ricetta di MicoLovesCooking.
Come vive un creativo il lockdown? Raccontaci la tua giornata in questi mesi
La mia quarantena è all’insegna della riscoperta. Da poco sono a Milano in pianta stabile e non ho ancora effettuato un trasloco definitivo delle mie cose dalla casa di Firenze. Certo è che ho portato con me i miei piccoli tesori, le scatole con foto, biglietti, appunti e disegni di questi ultimi anni.
Tanti progetti e idee realizzate e adesso stipate in scatole di latta. Ripercorrere a ritroso questi anni di intenso lavoro è stato un passatempo divertente. Dopo aver dedicato tempo alla lettura e ai film che mi ero perso, ho curato le piante del ballatoio e cominciato un po’ ad allenarmi. Ma la cosa che più mi ha coinvolto in questo periodo è stato il mio amore per la cucina creativa.
Come è nato il progetto che unisce food e social?
Cucinavo dal mio instagram personale e molti apprezzando mi chiedevano ricette e consigli! Ho deciso così di aprire un nuovo profilo @micolovescooking dove incontrare e intervistare in modo molto democratico persone che destavano in me curiosità e interesse e che sono diventate amiche anche dopo l’intervista.
Inoltre la diretta Instagram fatta nei due appuntamenti quotidiani 12:30 e 19.00 non solo regalava loro un piatto, ma inspirava in me un disegno. Una ricetta disegnata in chiave pop secondo il mio gusto grafico da regalare all’ospite stesso.
Come scegli i personaggi e le ricette?
Il taglio che segna la scelta degli ospiti di “cucinando e conversando” è molto trasversale e democratico. Sono persone che provengono da ambienti lavorativi diversi, spesso da spettacolo, moda, cinema, food, ma non è detto.
Una nota che deve contraddistinguerli è la creatività e il mio spiccato interesse. Dopo una diretta Instagram dove gli ospiti parlano e io cucino, dedicherò loro una ricetta e un disegno speciale.
Quali le ricette cui sono legati particolari ricordi?
La ricetta del mio cuore è il tortello di Castagno d’Andrea fatto da mia nonna Jole con le patate di mio nonno Stefano. Indubbiamente la cosa più buona del mondo!
La ricetta che hai pensato per i lettori di MANINTOWN?
Vi dedico un panino molto speciale! Con un burger di Quinoa, green salad, french fries & tomato ketchup, sweet and sour cucumbers, mustard e cheese. E come caratteristica fondamentale del mio Mico’s burger per MANINTOWN un panino al sesamo a forma di cuore … come il cuore Chiocciolini.
Come evolverà il tuo brand post Covid -19?
Io e mia sorella Francesca, socia del mio brand, avevamo già prima della pandemia iniziato a riflettere su un concetto di moda più sostenibile. Lo avevamo fatto in modo spontaneo e naturale. Parlo di un’etica nella produzione.
Abbiamo cercato di fare collezioni mirate, destinate a rimanere nel tempo come continuative, allontanandoci dall’idea di moda veloce e temporanea che si possa bruciare sui social nel giro di pochi post per poi fare cose nuove. Post Covid continueremo a disegnare e creare meno cose, purché ben fatte e rigorosamente Made in Italy.
Accanto a ciò espanderemo il nostro progetto ad un mondo più completo fatto di altre sfaccettature della mia vena creativa, come la grafica e anche la cucina! Stay tuned…
La maggior parte di noi lo conosce perché è uno dei giudici di Cortesie per gli Ospiti su Real Time, anche se in realtà Diego Thomas è un architetto specializzato in interior design con percorso professionale di tutto rispetto.
Le passioni per l’architettura, l’interior e l’artigianato nascono fin dai tempi degli studi universitari con un filo conduttore: quello di trovare un’unione armoniosa tra ambiente esterno e interno. Lo abbiamo intervistato in questa pausa dalle scene per conoscere meglio l’uomo e il professionista…
Racconta il tuo percorso professionale e come è nata la tua passione per l’architettura
Immagina che se da piccolo mi avessi chiesto “cosa vuoi fare da grande?” avrei risposto “il gelataio”, ma, attenzione, questo solo fino ai sei anni! Il mio settimo anno fu il vero anno di svolta perché maturai il pensiero innovativo di poter mangiare sempre gelati senza venderli; cambiai così la risposta in “voglio fare l’architetto”.
Tutti si chiedevano come facesse un bimbo così piccolo a sapere cosa fosse un architetto: dipendeva dallo stile di vita di mia madre, artista, che si divideva tra i suoi quadri e i restauri di vecchie case di famiglia, che amava trasformare insieme agli operai e anche a me, che l’accompagnavo spesso nei cantieri. In linea di principio, quindi, con l’architettura ci sono nato e cresciuto.
Come sei approdato a Cortesie per gli ospiti?
Grazie a un’amica, o grazie a un corniciaio, forse grazie ad entrambi: praticamente una mattina dovevo ritirare un quadro che avevo fatto incorniciare e il corniciaio non lo trovava mentre io aspettavo spazientito.
In quel frangente un’amica d’infanzia mi manda uno screenshot di un annuncio che passava in TV, qualcosa tipo “stiamo cercando architetti simpatici”. Così, per ingannare il tempo mentre il corniciaio ribaltava il suo negozio per recuperare il mio quadro, chiamai il numero dell’annuncio e mi rispose la produzione di Cortesie Per Gli Ospiti.
Il cast di Cortesie per gli Ospiti: l’architetto Diego Thomas, la lifestyle coach Csaba Dalla Zorza e lo chef Roberto Valbuzzi
Mentre, finalmente, mi allontanavo con il mio quadro sotto braccio, prendemmo un appuntamento per un provino nel mio studio. Ne facemmo tre, a strettissimo giro, e dopo circa un mese venni catapultato direttamente dal mio studio di Campo de’ Fiori al set televisivo, e dovetti rapidamente abituarmi a tutte quelle telecamere puntate su di me…
L’errore più frequente che hai riscontrato nelle case viste sino a oggi?
A chi gli chiedeva consiglio, il grande Gio Ponti rispondeva: “Se è un artista se la caverà senza consigli, per l’intuizione e il temperamento. Se non lo è il consiglio è rivolgersi a noi. Gli faremo cose bellissime.”
L’errore più frequente, infatti, è quello di non investire nella consulenza di un professionista quando si approccia una casa. Molti credono di risparmiare, ma studi scientifici dimostrano che chi si affida a un progettista alla fine risparmia tempo, soldi e fatica, e il risultato sarà sicuramente migliore.
La casa (o le case) che ti hanno sorpreso in positivo?
Tutte le case che ricevono voti sufficienti mi sorprendono in positivo. La mia preferita? Una villa in Puglia, un’antica masseria ampliata con una struttura moderna ma rispettosa del contesto. Il tutto incorniciato da un giardino con vasche e sculture. L’armonia di quel luogo ci pervase tutti e gli abitanti sembravano illuminati dalla bellezza.
Nel backstage di Cortesie, tutto sembra rilassante e facile. Quanto tempo lavori al programma e quale impegno implica?
Sembra facile ma non lo è! I set cominciano alle 8 del mattino, forse i preparativi anche prima, e terminano la notte tra le 22 e l’una del giorno dopo, tutti i giorni. Dico ”i set”, al plurale, perché sono due al giorno.
Infatti registriamo le puntate incrociandole con due troupe diverse che si sovrappongono in due location differenti. Solo noi conduttori, gli addetti al trucco, un operatore e un producer facciamo doppio turno trasferendoci da un set all’altro.
I concorrenti, per loro fortuna, sono coinvolti solo parzialmente in tutto questo enorme lavoro di squadra. Il pubblico a casa, infine, vede il risultato condensato in 50 minuti dai montatori che spesso lavorano in casa di produzione a doppio turno: un gruppo di giorno e uno di notte, la mattina si scambiano i cornetti e il cappuccino.
Se potessi avere carta bianca e budget illimitato, come immagini la casa del tuoi sogni?
Con una bella vista.
Quali sono gli architetti e le opere che per te sono stati importanti nella tua formazione?
Penso che ogni architetto abbia dato il suo contributo in positivo ma anche in negativo. Se dovessi farmi disegnare la casa da qualcuno che non sia io, tra gli architetti del passato sceglierei sicuramente Michelangelo, tra gli architetti moderni forse ne sceglierei uno sconosciuto ai più, che praticamente ha fatto un’opera sola: Pierre Chareau con la sua Maison de Verre a Parigi.
Pierre Chareau, Maison de Verre (Casa di Vetro), 1932. Un progetto all’avanguardia al 31 di Rue St-Guillaume di Parigi, creata in collaborazione con Bernard Bijvoet e Louis Dalbet
Una casa concepita agli inizi degli anni Trenta molto poco instagrammabile ma danzante, dove la tecnica diventa poesia, un ibrido tra il deco e la purezza del razionalismo, che portò a un risultato ancora più innovativo per il tempo
Diego nella vita di tutti i giorni: quali sono le tue passioni e il tuo look fuori dalla tv?
In TV sono in vesti ufficiali, con la giacca e a volte la cravatta. Nella vita di tutti i giorni sono più casual: amo sperimentare, anche con i look.
Quando viaggi per lavoro e per piacere cosa, non può mancare nella tua valigia?
Delle cuffie per la musica, non vivo senza. L’architettura è musica.
Come hai vissuto il lockdown e come prevedi cambierà il post covid anche nel tuo lavoro?
L’emergenza è devastante, sotto tutti gli aspetti. Fortunatamente ho continuato a lavorare: anche se le riprese di Cortesie per gli Ospiti si sono interrotte, ho scritto molto, soprattutto un nuovo libro, e disegnato per portare avanti le progettazioni in attesa che ripartano i cantieri. Lavorare mi ha aiutato a mantenermi vitale.
In questo periodo miei validi alleati sono stati la musica e i libri, oltre che il mio cane che ringrazio perché ogni tanto mi porta a fare la passeggiatina sotto casa, nel centro storico di Roma deserto, dove ci siamo più volte imbattuti in pappagalli e perfino un riccio!
Pensare che gli animali si sono riappropriati dei loro spazi mi ha regalato un sorriso. Nei momenti peggiori, infatti, le uniche notizie confortanti sono quelle sull’ambiente: l’inquinamento che diminuisce drasticamente è un pensiero positivo.
Un altro risvolto bello della situazione è la riscoperta del vicinato: nell’antico rione dove vivo è capitato di parlare con i vicini della finestra di fronte, siamo arrivati anche a fare aperitivi dai terrazzi intorno. Credo che questi legami rimarranno anche quando, finita l’emergenza, ritorneremo a uscire.
Il confinamento dentro casa ha, poi, messo al centro l’importanza degli interni in cui viviamo. Ho avuto un boom di richieste perché le case sono diventate il nostro unico habitat: fondamentale non solo abitarci al meglio, ma anche lavorarci e studiarci. Le abitazioni, infatti, cambiano e assumono nuove funzioni diventando anche uffici e scuole individuali.
In un’ottica post covid anche il modello di città va ripensato. La concentrazione di funzioni, spazi e persone va rivista in un’ ottica di dispersione che consenta il distanziamento: dalla riorganizzazione degli spazi urbani a un nuovo tipo di mobilità pubblica, fondamentali, ad esempio, le piste ciclabili. Per le città d’arte, il turismo deve forzatamente virare da un sistema pensato per gli stranieri a uno per l’utenza interna, molto diverso. Sto appunto lavorando ad un articolo accademico su questi argomenti.
Parlano retailer e imprenditori: Giacomo Vannuccini, Giovanni Romano e Zack Moscot
Giacomo Vannuccini – Tricot – Chianciano Terme
Come vedi il futuro del retail moda dopo la pandemia?
Il futuro lo vedo positivo. Serviva un momento di pausa per ristabilire il giusto ordine delle cose. La moda non si ferma e mai si fermerà, dovremmo essere solo un po’ più attenti e ripensare a certe logiche produttive.
Quali sono le mosse che secondo loro il sistema moda dovrebbe attuare?
Non esistono mosse rivelatrici: navighiamo a vista, con la speranza che questa epidemia finisca e si ritorni a vivere tranquilli. L’unica cosa da fare è ciò che è stato fatto: spostare tutto a settembre, fiere e fashion weeks. Anche per le collezioni, sarebbe magnifico ricevere le nuove collezioni con un mese di ritardo, in modo tale da garantirci più tempo per la vendita delle vecchie.
Retail fisico e online?
Oggi l’online è obbligatorio: mentre il fisico purtroppo rimane chiuso e non sapremo quando riusciremo a riaprire, l’online rimane una certezza.
Giovanni Romano – Direttore di NOB Showroom – Parigi
Come vedi il futuro del retail moda dopo la pandemia?
Un futuro umano e interattivo in cui la tecnologia avrà un ruolo sempre più importante.
Ogni comunicazione tra gli individui sarà supportata e agevolata da nuove tecnologie che andranno a modificare tutte le modalità relative all’universo retail moda. Si potrà così provare virtualmente un capo e vedere se la taglia va bene, fino a informarsi sulle nuove tendenze e novità di prodotto.
Quali sono le mosse che secondo loro il sistema moda dovrebbe attuare
Come sta accadendo in Asia, penso che sicuramente anche negli altri paesi la tecnologia, e in particolare il live streaming e ogni forma di interazione tra gli attori della moda, dovrà essere implementata come. Inoltre saranno necessari dei fondi dedicati allo sviluppo di tutte queste nuove tecnologie necessarie per sviluppare al meglio un business in maniera ancora più personalizzata e per questo efficace. Penso anche a fibre ottiche per accelerare gli scambi di dati e anche i poli di formazione dedicati alle relative professionalità che queste tecnologie innovative richiederanno. Per facilitare questo il primo step dovrebbe essere snellire e velocizzare il sistema burocratico italiano.
Come il digital può supportare il vostro lavoro?
L’emergenza del Covid-19 a Milano ha costretto Parigi a una controffensiva immediata. Noi abbiamo pensato di creare una realtà digitale in cui buyer e clienti fossero direttamente interconnessi agevolando il processo B2B e prolungando la campagna vendite almeno fino a giugno. Oggi il digital può veramente supportare la moda e per questo abbiamo pensato a un vero e proprio Virtual Showroom. Grazie a V-Rroom, NOB inizia un percorso nuovo. Si potranno mostrare ai retailer le collezioni più in linea con i loro bisogni, esplorare con video e funzioni interattive l’universo dei designer e la loro creatività, fino alla produzione e digitalizzazione degli ordini. Tutto questo supporta e si affianca al lavoro dello showroom tradizionale, rafforzando il fattore umano che resta l’elemento principale, anche in un sistema interattivo che ci impone la distanza.
Zack Moscot, Vice President & Chief Design Office Moscot Eyewear.
Come vedi il futuro della moda dopo la pandemia?
La moda è in continua evoluzione, ma prevediamo che i comportamenti dei consumatori e i modelli di acquisto cambieranno a causa della pandemia. Lo shopping di lusso online è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi anni, poiché i clienti si sentono più a loro agio nell’acquistare beni di lusso e abbigliamento o accessori comodamente da casa. Tuttavia, Moscot che ha una distribuzione sia nella moda che dagli ottici, sarà sempre legato ai negozi fisici per provare le montature o fare gli esami oculistici. Ci aspettiamo la crescita di una esperienza omni-channel con punti di contatto diversi per i nostri punti vendita sia fisici che digitali: i nostri clienti potranno provare in negozio, fare acquisti online, quindi magari ordinare online o ritirare il prodotto in negozio. In generale pensiamo che i clienti diventeranno più a loro agio con gli acquisti online e potranno relazionarsi con il personale attraverso diversi canali di comunicazione.
Come state reagendo a questa crisi?
Come azienda a conduzione familiare con una storia di oltre 105 anni abbiamo affrontato molti periodi difficili e altre pandemie nel corso del tempo. Ad esempio la prima generazione è sopravvissuta all’influenza spagnola, mentre la seconda è riuscita a superare la grande depressione, distribuendo occhiali gratuiti durante quei periodi così difficili. Abbiamo imparato dai nostri predecessori e crediamo negli stessi valori morali. Abbiamo superato l’11 settembre e altri eventi tragici con la resilienza e restituendo forza alla nostra comunità. Oggi abbiamo lanciato una nuova iniziativa di solidarietà per combattere il Covid-19 e forniamo ai medici americani in prima linea occhiali gratuiti (con e senza prescrizione). Durante i periodi di crisi, sosteniamo le nostre comunità e prendiamo cura della salute degli altri. Questa situazione è particolarmente difficile per i nostri negozi Moscot per via del lockdown, ma stiamo facendo tutto il possibile per rimanere operativi e sopravvivere a questa crisi, soprattutto tenendo i dipendenti in azienda, che sono parte della nostra famiglia. Teniamo molto al nostro personale, alcuni dei quali sono stati con noi per oltre 50 anni e prevediamo di uscire da questa pandemia più forte di prima.
Il tuo messaggio di solidarietà …
Come marchio globale siamo grati per il modo in cui tutti stanno lavorando insieme per combattere questa pandemia. Speriamo che le cose tornino alla normalità e siamo qui e saremo sempre qui per soddisfare i bisogni anche “ottici” delle persone.
In occasione della Giornata della Terra, che promuove la formazione di una nuova coscienza ambientale, abbiamo pensato di raccogliere alcune immagini ispirazionali. Il 2020 è inoltre un anno speciale perché si celebrano i 50 anni dell’Earth Day.
Lo speciale reportage di Ricky A Swaczy (Creative director e Founder di Wabisabi Culture) coglie l’essenza di una natura magica e illusoria, che anche dall’oscurità svela la quiete dell’arte della contemplazione. Una cornice di vita transitoria. Il potere evocativo della Natura impermanente.
Abbiamo intervistato Yossi Fisher, brand consultant e stratega creativo, che anche in questo periodo delicato continua a portare avanti i marchi e a condurre progetti a livello internazionale con clienti e associazioni. Ecco alcune riflessioni inerenti alla fase che sta attraversando il fashion system.
Sei connesso con tanti creativi in tutto il mondo. Quale è il sentimento generale delle persone in questo momento?
Al momento circolano molte emozioni e nessuno nega le incertezze di questi tempi. Ciò che sto notando è che mentre per alcuni questo periodo sta causando grandi problemi alle loro carriere lavorative o ai loro affari, la maggior parte delle persone lo sta usando come un modo per capire realmente cosa li rende felici e cosa vogliono tornare a fare o meno quando tutto questo sarà finito. In fin dei conti, sembra un momento di grande riflessione e le persone lo stanno usando per fare un passo indietro e ridefinire su quali valori sono costruiti i loro affari o le loro carriere lavorative e qual è la loro rilevanza progressiva, come se stessero navigando in una nuova serie di panorami industriali.
Come pensi che riuscirà il mondo della moda a superare la crisi e a ripensare al suo proprio modello?
Il mondo della moda al momento è obbligato a fare un grande passo indietro e a rivalutarsi nella sua totalità. Ogni cosa, dalle strutture freelance ai contenuti, dalla produzione alla manifattura, dal retail al design passa per il Live streaming, così come le Fashion Week, le dinamiche delle Pubbliche Relazioni e le iniziative digitali… e questa è solo la punta dell’iceberg. Inoltre, essendo un sistema, tutte le componenti della moda influiscono anche sulla sua economia e su come l’industria opera nella sua totalità. La moda, per questo, sarà costretta a fare un grande passo indietro per poi poter andare avanti. Essendo un’industria collettiva, ognuno di noi ha percepito in un modo o nell’altro il suo momento di “pausa forzata”, ma fino ad ora non c’era ancora stato nulla che avesse veramente portato il cambiamento in tutti i suoi canali, rendendo così questo periodo molto stimolante.
Se mi chiedessi se c’è troppo romanticismo e non abbastanza praticità in questo periodo, ti risponderei che io credo che questa crisi sarà il catalizzatore per delle pratiche economiche più sane e per degli stimoli per delle iniziative di salute mentale, specialmente tra le comunità creative e freelance. Molte persone che appartengono a questi circoli stanno già ripensando al perché si siano messi per così tanto tempo in giri di incertezze finanziarie e mancanza di stabilità lavorativa. Dato che hanno trovato nuovi interessi e hobbies che li rendono felici durante questa pausa forzata, molti si stanno chiedendo che cosa vorranno fare veramente una volta finito tutto. Per quanto riguarda le varie imprese, avranno bisogno di umanizzare ancora di più le loro pratiche e dovranno affrontare molte questioni. Ad esempio, se negoziare valori etici per margini più elevati e vendere più prodotti sia sostenibile a livello emotivo e ambientale e come le loro catene di distribuzione e le loro pratiche verranno analizzate dai consumatori e se saranno considerate dei valori e dei cambiamenti umani.
Sono consapevole che molti pensano che la sostenibilità sarà una forza trainante, ma anch’essa ha le sue sfide: specialmente per la sua tendenza ad avere dei costi molto elevati nei confronti dei consumatori che condividono i suoi valori, ma non si possono permettere i prezzi dello slow fashion.
Dato che siamo in un mondo con sempre meno persone impiegate e una situazione finanziaria difficile, molte imprese dovranno riformulare strategicamente le loro perdite se stanno progettando di anticipare la curva e di contribuire a ridefinire il settore.
Come vedi il futuro del retail (negozi fisici vs negozi digitali)?
Siamo ancora molto lontani da un mondo completamente online, ma senza dubbio ci stiamo evolvendo. Il mondo fisico e quello digitale giocheranno un ruolo molto importante nel futuro del retail, ma entrambi dovranno essere ancora più focalizzati sul consumatore. Gli spazi fisici, probabilmente, dovranno ridimensionarsi, integrare più componenti digitali, tenere meno scorte e trattare i loro spazi come esperienze piuttosto che solo come luoghi in cui comprare. Esperienze di brand dinamiche all’interno del punto vendita, che gravitano molto più attorno alla loro cultura rispetto che ai prodotti e che rappresentano un modo per spronare i consumatori a tornare. Le iniziative online e digitali dovranno diventare più personali. Attualmente nello shopping sull’e-commerce manca un po’ di personalizzazione e di suggestioni emozionali coinvolgenti, quindi avere dei brand specialists potrà dare l’opportunità di fare dirette con proiezioni programmate, presentazioni e flussi di raccolta (a tu per tu con i vip o sessioni collettive, dove i consumatori potranno intervenire con domande per comprendere meglio i loro acquisti) che saranno un buon modo per approfondire la comunità, fidarsi e condurre conversazioni D2C.
Sicuramente assisteremo a più confusione e distorsione del mercato mentre ciascuno troverà il suo orientamento. Il retail fisico dovrà ridimensionarsi per investire più a fondo nei suoi ecosistemi, mentre il mondo digitale dovrà avere maggiori investimenti di prova visto che la profondità delle sue fondamenta e delle sue strutture è ancora in fase di esplorazione.
Io credo che i brand vincenti dei prossimi 6-18 mesi saranno quelli che promuoveranno un approccio più etico e un modello di business più focalizzato sul cliente.
Hai iniziato a fare alcune conversazioni in diretta con designer e imprenditori. Cosa hai ricavato da questi dialoghi?
Mi sono piaciute le dirette Instagram “Talks & Zoom Session” di cui ho fatto parte in questo periodo. Infatti, lì mi è permesso condividere consigli, strategie e approfondimenti con molte comunità e piattaforme (come ad esempio qui su MANINTOWN). Tuttavia, più di ogni altra cosa, sto cogliendo queste opportunità per ascoltare meglio le persone con cui mi sono impegnato e le domande che sto ricevendo dal mio seguito collettivo.
Avere un approccio empatico in queste conversazioni mi ha permesso di prevedere di cosa avrà bisogno il mondo dopo il Covid-19. Una cosa che ho notato è l’approccio umano con cui si sono svolte queste conversazioni in diretta. Siamo tutti vulnerabili durante questo cambiamento globale ed è ovvio essere così interconnessi. Ognuno di noi, infatti, deve ricordarsi che nonostante stiamo attraversando una serie di nuove sfide, lo stiamo facendo insieme. In particolare, i social media e le comunità online ci stanno offrendo supporto in molti modi ed è una cosa parecchio bella da vedere.
Qual è il tuo consiglio per le imprese e per i brand che vogliono ricominciare?
Ora come ora l’intelligenza emotiva è molto più importante del quoziente intellettivo. Il futuro delle imprese e dei brand, infatti, non saranno i prodotti o i servizi, ma sarà l’empatia. Avere empatia d’ora in avanti sarà fondamentale e soprattutto sarà lo strumento più importante a nostra disposizione. Le persone e le imprese che stanno per uscire dallo scenario sono quelli che non si sono solo focalizzati sui loro problemi, ma coloro che hanno cercato di risolvere anche quelli degli altri.
Per una boutique, ad esempio, una buona idea potrebbe essere quella di creare un’iniziativa o una campagna per le persone che si sono trovate recentemente ad essere disoccupate, offrendogli un outfit completo e una consulenza per il CV (magari offerta da un professionista esternalizzato). In questo modo quando le imprese riapriranno e cominceranno ad assumere ancora, queste persone saranno pronte e ben equipaggiate per accaparrarsi il mercato e migliorare le loro vite di nuovo.
Per le aziende CBD, invece, forse è il caso di integrare nella loro cultura una sessione di meditazione, dei video-esercizi, dei consigli giornalieri e una dieta sana per promuovere un corpo sano. È importante, infatti, cercare dei modi per aiutare gli altri nella loro salute mentale, proporre iniziative gratis di auto miglioramento e fornire delle risorse per nutrire e supportare gli spazi mentali delle persone. Tutte queste idee dimostrano che a tutte le imprese realmente importa dei consumatori ed è ciò di cui le persone hanno bisogno, più di ogni altra cosa.
Anche innovare le iniziative di apprezzamento dei consumatori attraverso canali digitali e fisici sarà una componente fondamentale per avere un grande successo nel tempo, così come approfondire l’apprezzamento della comunità e rafforzare le relazioni con i clienti. Per offrire una strategia di partenza, inoltre, le imprese dovrebbero porsi delle domande come: che cosa interessa ai consumatori? Che cosa migliorerebbe le loro vite? Come potremmo fargli capire che i loro valori si allineano ai nostri? Come potremmo farlo in un modo che non sia la vendita diretta? Come potremmo umanizzare il nostro approccio?
Questi sono dei consigli di salute e delle azioni empatiche che non servono solo a farci riacquistare fiducia nei brand, ma ancora più importante, servono a farci riavere fede nell’umanità.
In un periodo di forzata quarantena si moltiplicano i corsi online di yoga, che se da un lato possono essere utili specialmente per chi ha già le basi, dall’altro potrebbero rivelarsi pericolosi se eseguiti da principianti.
Quando si pensa allo yoga ci vengono in mente un caleidoscopio di posizioni, alcune apparentemente semplici, altre sono evidentemente complesse.
Per iniziare ad avvicinarsi a questa disciplina vogliamo mostrarvi la tecnica di base del saluto al sole con alcune modifiche (utili per chi ha problemi articolari), come si insegna nell’ashtanga yoga, una forma di yoga tradizionale con approccio dinamico detto anche meditazione in movimento in cui si coordina il respiro (ujjayi) e le posture (asana) prese attraverso un fluire attivato da uno stato di profonda concentrazione.
Grazie all’esperienza di Annelise Annelise Disnan, studiosa ed esperta di discipline orientali e direttore di Om Shanti Yoga Studio di Milano vimostriamo le tecniche di base che prevedono 9 posizioni di cui vi spieghiamo i relativi benefici sul corpo che potete provare anche da soli a casa.
Per chi avesse poi voglia di proseguire questo percorso è possibile frequentare un vero e proprio corso online sui fondamenti dello yoga che trovate a questo link e su instagram, oltre ai corsi di meditazione e quelli più avanzati.
Riscaldamento e posizioni di apertura pratica – Eka Pāda vīrāsana
Eseguiamo questa postura per scaldare e allungare il muscolo quadricipite e riscaldare l’articolazione del ginocchio. Si piega un ginocchio, portando la gamba verso dietro. Chi non ha problemi alle ginocchia ed è molto allungato può stendere totalmente la colonna a terra. Chi ha problemi all’articolazione deve necessariamente sedersi su un blocco, mattone di sughero o un supporto come un libro o un dizionario, prima di effettuare la posizione (asana).
Questa posizione porta all’allungamento del muscolo iliopsoas e del quadricipite e aiuta nella purificazione dell’apparato digerente, favorendo l’eliminazione dei metaboliti di scarto con benefici sul sistema linfatico. Ha anche un’azione drenante per le gambe ed è quindi utile per le vene varicose
Āñjaneyāsana
Passiamo all’allungamento dello psoas portando una gamba fra le mani, la testa cade verso il basso con il collo morbido. L’altra gamba rimane dietro con il ginocchio a terra e il piede appoggiato sul dorso, in linea con il ginocchio. Se la postura è stabile si completa sollevando il torso e portando le braccia in alto unendo i palmi delle mani. Questa asana aumenta l’energia generale, riapre le nadi (nella tradizione indiana le vie attraverso le quali passa il prana inteso come energia vitale o soffio, che alimenta tutte le parti del corpo). Si allunga il muscolo ileopsoas, si apre il petto aumentando la capacità inspiratoria, si tonificano milza e reni.
Dopo aver scaldato i muscoli e le articolazioni possiamo iniziare con il SALUTO al SOLE A – sūrya namaskāra. Nel video troverete la versione base, con le posture modificate che possono essere eseguite da tutti, e la versione avanzata per coloro che praticano con costanza da anni.
Concluso il Saluto al Sole A potete eseguire le seguenti posture:
Eka Pāda uttānāsana
Allunghiamo la catena miofasciale posteriore. Partendo con il bacino frontale, portiamo un piede dietro posizionandolo a 45 gradi dietro la propria anca, per poi scendere con le mani verso terra rimanendo con il petto aperto e l’ombelico in dentro (Uḍḍīyana Bandha). L’asana ha il beneficio di smobilizzare il grasso sui fianchi, rinforzare e tonificare la muscolatura delle gambe ed eliminare il muco dalle vie respiratorie.
Parśvakoṇāsana A
Una delle posizioni laterali fondamentali della pratica. Si prende divaricando ampiamente le gambe, girando un piede verso l’esterno e, mantenendo il tronco laterale, si scende con il ginocchio a 90 gradi per portare la mano a terra. La posizione completa prevede il braccio in alto con lo sguardo verso la mano. Altrimenti possiamo fermarci con il gomito sul ginocchio (come in foto) e l’altro braccio lungo il fianco. La posizione aiuta a rinforzare schiena e gambe, corregge squilibri dell’allineamento posturale, riallineando lo scheletro. Rinforza il sistema respiratorio e tonifica il sistema nervoso.
Utthita Astha Pādāṅguṣṭhāsana
Questa è una posizione in cui andiamo ad allungare profondamente le gambe, mantenendo un forte equilibrio. Il piede che rimane a terra deve essere ben radicato con le dita separate fra di loro. Per mantenere l’equilibrio è importante attivare l’uddiyana banda (contrazione dei muscoli addominali), portando l’ombelico verso la colonna. Le spalle devono rimanere aperte con le scapole vicine verso il basso. Aiutandosi con il braccio si porta un ginocchio al petto, rimanendo immobile per 5 respiri per poi aprire il ginocchio lateralmente e rimanere altri 5 respiri. La posizione completa prevede l’aggancio dell’alluce con la mano, per portare la gamba tesa verso l’alto, prima frontalmente e poi lateralmente. La posizione dà forza e flessibilità alle gambe, incrementa l’equilibrio psicofisico, rinforzando l’articolazione della caviglia. Infine purifica e tonifica i reni.
E per finire dopo il saluto al sole, due asana di chiusura, molto utili ed energetiche.
Dwi Pāda Pitham
Questa posizione serve a rafforzare la nostra schiena. Ci sdraiamo a terra con le ginocchia piegate e premendo uniformemente sui piedi, tenendo l’ombelico in dentro verso la colonna (per proteggere la schiena) inspirando portiamo il bacino verso l’alto senza divaricare le ginocchia. Le braccia rimangono a terra ai lati del corpo, le spalle sono a terra aperte e lontane dalle orecchie, le scapole appiattite. Questa posizione può essere tenuta 5 respiri, per poi scioglierla e ripeterla per 3 volte. La versione completa prevede l’estensione totale della colonna, posizionando le mani ai lati della testa, con un inspiro ci solleviamo da terra per entrare nel ponte (Ūrdhva Dhanurāsana)
L’asana rinforza la schiena, la muscolatura dei glutei e gli ischio crurali (muscoli posteriori delle gambe). Ne beneficia il sistema linfatico, l’apparato gastro intestinale favorendo la riduzione e ristagno delle tossine.
Sālamba Sarvāṅgāsana
Questa posizione porta energia e un profondo benessere, si tratta di un’inversione per cui tutti i nostri organi interni ne beneficeranno. Ci sdraiamo a terra e con un inspiro portiamo entrambe le gambe e il bacino verso l’alto, sostenendo la colonna, che dovrà rimanere dritta, con le nostre mani. I gomiti rimango a terra in linea con le spalle, non dobbiamo lasciare che si aprano. Se ci sono problemi di cervicale possiamo posizionare una coperta sotto le spalle per creare un piccolo spessore, lasciando però il collo fuori dal coperta. Porta il tuo sguardo direzionandolo verso le dita dei piedi che puntano al cielo, non ruotando mai la testa. La posizione permette la purificazione completa dei canali che defluiscono dolcemente. E’ un aiuto per il sistema venoso e un allenamento per il sistema arterioso. Libera dalle paure psico-fisiche ed emotive. Molti organi traggono benefici: gola, tiroide, apparato genitale, polmoni ed è utile anche per chi ha vene varicose e per combattere l’insonnia.
Fine della pratica – Śavāsana
Alla fine della pratica ci si sdraia a terra con i palmi verso l’alto e le gambe che cadono per fuori nella postura rilassante di śavāsana, mantenendo gli occhi chiusi e focalizzandosi sul respiro naturale si rimane completamente fermi e inattivi per almeno 5 /10 minuti.
Morto all’età di 84 anni Sergio Rossi, fondatore del brand omonimo, aveva contratto il coronavirus. Un grande imprenditore del distretto romagnolo calzaturiero che ha dato il nome a uno dei marchi più noti del made in Italy.
La sua storia non può prescindere da quella di San Mauro Pascoli, paesino dell’Emilia Romagna noto per la nascita di Giovanni Pascoli, poeta cantore della natura e del quotidiano. Gli anni del secondo dopoguerra vedono la trasformazione del territorio con la sua vocazione calzaturiera.
Il successo dei ciabattini, che giravano per i paesi e le fattorie, determina il cambiamento e il progressivo abbandono delle più tradizionali attività di agricoltura e allevamento. Grazie a lui il paese si trasforma in grande bottega artigianale specializzata nella produzione dei sandali, poi venduti nei piccoli negozi sulla riviera.
Da questa prima attività artigianale nasce e si sviluppa un’industria fiorente, che si specializza sulla calzatura femminile di alta moda. Insieme ai calzaturifici, nello stesso distretto di San Mauro Pascoli nascono e prosperano piccole aziende specializzate nella fabbricazione di semilavorati – suole, tacchi e fondi – e laboratori per il taglio delle tomaie a mano e a macchina.
Un vero artigianato industriale che ha saputo imporsi sul mercato globale, puntando tutto sulla qualità di materiali e manifattura oltre che sull’originalità del design. Così nel 1958 a San Mauro Pascoli viene costruita la Mir Mar, il primo calzaturificio di dimensioni industriali, mentre sono in pieno fermento le vicine città balneari come Rimini, poi celebrata da Federico Fellini nel suo Amarcord.Proprio da questa vicinanza culturale con il grande regista è nata una curiosa leggenda: nel capolavoro “La Dolce Vita” (1960) le décolleté indossate da Anita Ekberg sembrano essere quelle di Sergio Rossi, che proprio in quegli anni costruisce la sua fortuna puntando sulle calzature femminili.
Questo è il contesto da cui inizia l’avventura di Sergio Rossi, che segue le orme del padre, sapiente calzolaio, da cui riprende l’attività nel 1956, realizzando i primi sandali a mano. Proprio da questa storia di autenticità prende ispirazione Riccardo Sciutto, Amministratore Delegato del Gruppo Sergio Rossi, nominatoda Andrea Bonomi, fondatore e presidente di Investindustrial, gruppo finanziario indipendente che acquisisce il 100% dell’azienda dal Gruppo Kering.
Sergio Rossi torna in mani italiane e grazie alla visione di Sciutto inizia il percorso per il rilancio del brand. Il 2016 con la collezione sr1, ispirata a modellia punta squadrata dei primi anni Novanta rappresenta il nuovo inizio, nel segno dell’estetica più genuina del marchio.
Un percorso in cui è centrale la rilettura in modo contemporaneo della propria eredità. Aveva dichiarato nel 1988 Sergio Rossi: Sin dagli inizi della nostra attività industriale abbiamo concentrato tutti gli sforzi nellaricerca della forma, elemento che nella scarpaè di primaria importanza… Dopo la forma, l’attenzione si concentra sugli altri due elementi che completano la struttura di una scarpa di successo: lo stile e la qualità.
Una volta calibrati alla perfezione i tre ingredienti, il successo diventa semplicemente una logica conseguenza”. Oggi grazie al museo aziendale “Living Heritage” è possibile rivivere tutte le tappe salientidi Sergio Rossi attraverso una selezione di oltre 300 forme in legno tra le più rappresentative e innovative del brand.
Dalla forma del primissimo sandalo “Opanca” del 1966 alle forme a pianta larga e tacco basso degli anni Settanta, alle forme affusolate dei décolleté, fino all’intramontabile pump “Godiva”: una rappresentazione significativa della storia di questo straordinario artista-artigiano della forma. Ancora prima delle importanti campagne fotografiche, Sergio Rossi affida la sua immagine ad artisti e illustratori che hanno creato per lui illustrazioni e disegni riconoscibili e dal tratto ironico.
Tra i primi non poteva mancare l’illustratore e stilista eclettico Alberto Lattuada, che con le sue creazioni e battute ha animato il mondo della moda italiana per oltre cinquant’anni. Poi è la volta di Miguel Cruz, che oltre a creare alcune illustrazioni per pubblicizzare Sergio Rossi nei primi anni’70, è anche stilistache si avvale della collaborazione di Sergio Rossi per la creazione delle calzature da abbinare ai look e abiti delle sue collezioni.
Sempre disegni di grande forza e incisività sono quelli realizzati dallo svedese Mats Gustafson, nome diventato celebre per le importanti collaborazioni con Hermès, Dior e Yohji Yamamoto, oltre che con magazine del calibro di Vogue e Harper’s Bazaar. Quando il marchio arriva al successo scatta il momento di realizzare vere e proprie campagne pubblicitarie che definiscono l’immaginario e la donna Sergio Rossi.
A immortalare le sue scarpe per renderle icone di stile sono chiamati fotografi italiani e internazionali che hanno fatto la storia della fotografia. Si passa da immagini still life dove è protagonista il prodotto, a quelle ambientate e più seducenti grazie anche alla presenza ditop model.
Dai grandi maestri italiani come,per citarne solo alcuni, Piero Gemelli, Oliviero Toscani, Fabrizio Ferri, Giampaolo Barbieri, Marco Glaviano, fino ai più celebrati talenti stranieri, come Albert Watson, Miles Aldridge, Patrick Demarchelier, Steven Meisel, Michel Comte e Peter Lindbergh. Il gotha della fotografia con Helmut Newton in prima fila rende immortale lo stile modernista di Sergio Rossi.
Con lui scompare un pezzo di storia del made in Italy e una figura carismatica della calzatura italiana.
Da tempo ormai il focus della fashion week romana si focalizza sulle nuove proposte e i talenti emergenti. Dall’ultima edizione abbiamo selezionato alcuni nomi da tenere d’occhio e che stanno riscuotendo interesse tra gli addetti ai lavori. Una serie di proposte:
FEDERICO CINA
Uno degli show più emozionanti di Altaroma. La collezione si ispira all’archivio fotografico di Vittorio Tonelli, maestro e scrittore, nonché appassionato studioso della storia e cultura Romagnola. Nato a Sarsina, in provincia di Forlì-Cesena, Tonelli esalta la straordinaria bellezza della sua terra attraverso il racconto di piccole storie e raccolte di fotografie. La cultura, la tradizione gastronomica e folcloristica della Romagna sono il tema principale del lavoro del “Maestro” sarsinate che dal 1974 ad oggi ha scritto una trentina di volumi, partendo sempre da una visione antropologica che mette al centro la persona, le sue emozioni e i suoi ricordi. E proprio una vena nostalgica percorre lo show di Cina che esplora tecniche diverse per un guardaroba ricco di ispirazioni, sottolineando l’aspetto artigianale che è alla base della visione del designer.
GALL
Atmosfere urban dai colori decisi e tessuti ricercati. Per Gall – marchio fondato a Roma nel 2014 da Justin Gall e Chiara Nardelli – il focus è sui tre colori primari rosso, verde e blu che coesistono in armonia, in equilibrio con l’un l’altro, come in natura, come nel “tutto” conosciuto. Da qui il nome “Omnia” per la collezione Fall Winter 20/21. La ricerca dei tessuti parla in una sinergia eccellente tra naturale e sintetico, incontrando grandi prestazioni nel rispetto completo dell’ambiente e del mondo animale. I pezzi voluminosi delle collezioni non sono confezionati con piume animali, ma con materiali lavorati dalla plastica riciclata. La funzionalità di ogni articolo è sempre un elemento chiave in ogni collezione Gall, come: tasche rimovibili, cappucci nascosti e segmenti modulari che danno spazio alla trasformabilità, comfort e facilità in ogni momento e protezione dalle condizioni estreme.
SPENDTHRIFT
Nonostante il nome è italianissimo il brand, nato nel 2013 da un‘idea di Federico Cancelli e Marco Cuccagna. Una collezione all’insegna dell’arte e della sua condivisione. I due fondatori volevano usare la t-shirt bianca come una tela per esprimere la propria creatività. Si sono divertiti a cambiare colori e forme giocando con grafiche accattivanti, immagini trasformate e scenari visionari che mostrano il DNA del marchio. Una collezione di pezzi forti come il cappetto con patchwork foto e i pezzi di maglieria con lettering ironici
ACCADEMIA COSTUME & MODA
Sono 18 gli studenti (10 per l’abbigliamento e 8 per gli accessori) che hanno sfilato durante Altaroma per il Talents 2020 BA Fashion Show. I giovani hanno avuto l’opportunità di collaborare con 47 aziende del Made in Italy per la realizzazione di 18 capsule collection (6 outfit ciascuna) che sono state presentate in calendario. Tra i diversi talenti, due nomi da tenere d’occhio: Eva Bureau e Marco Passone. La prima ha vinto anche il premio Talents 2020 con la sua collezione “Hexapoda” (menswear e womenswear) incentrato sulla ricerca dell’identità e ricerca di materiali con un mix di texture e stampe davvero unico. I tessuti del progetto sono stati prodotti grazie al supporto con le aziende: Isa Seta, Italian Converter, Limonta, Ostinelli Seta, Thindown e Dyloan Bond Factory. Altro talent da tenere d’occhio è Marco Passone con la sua collezione “Gravity”, che distilla un calibrato equilibrio tra eleganza formale e tocco active. Il riferimento è alla all’attrazione gravitazionale, un’accelerazione contraria, che permette il rallentamento del paracadute durante la discesa verso il suolo. E in passerella si sono proprio visti dei spolverini in tessuto tecnico iper leggeri e abbinati a giacche e completi. Da un lato il paracadutismo militare, da cui viene ripresa la leggerezza e l’ampiezza del paracadute è riportata nei grandi volumi dei capispalla. Dall’altra è la subcultura dei Teddy Boy, in cui viene ripresa quell’eleganza Edoardiana data attraverso i tessuti lanieri maschili e da un taglio avvitato nei volumi. Di impatto le stampe grafiche di Ouzo Kim, artista Coreano, che sono state rielaborate attraverso la sovrapposizione di vedute aeree di Roma e a rilievi di mappe topografiche. La collezione – proprio come nella migliore moda coreana – sintetizza l’eleganza contemporanea con un tocco più sporty.
Abbiamo intervistato Daniele Giovani, fashion buyer della moda di Milano, ideatore e proprietario dell’omonima boutique milanese.
Hai sempre desiderato fare questo lavoro?
Ho sempre avuto un forte interesse verso il mondo della moda. Al suo interno operano numerose figure con differenti caratteristiche, ad esempio designer, esperti di comunicazioni e marketing, stylist, influencer e molte altre. Ho deciso di dare inizio alla mia attività come buyer. Da qui è nata l’idea nel 2014 di aprire una boutique multimarca dedicata al made in Italy in cui il mio stile e il mio gusto potessero evidenziarsi. Ma questo è solo l’inizio…
Come designer ho collaborato alla creazione della Fragranza Suprema “Perdizione” di Nobile 1942. È un eau de parfum unisex avvolgente e sensuale le cui note principali sono caratterizzate da neroli, ylang ylang, fiori d’arancio e vaniglia.
Inoltre, a partire dallo scorso settembre ho creato un mio Blog in cui posso esprimere e condividere i miei gusti e interessi. Tratta di accessori moda, tendenze, made in Italy, architettura, eventi e lifestyle. Si contraddistingue per il legame tra il mondo dell’accessorio e quello dell’architettura, un legame profondo che vuole evidenziare le analogie che caratterizzano le due realtà. Intende inoltre ricercare legami inediti che si associano all’accessorio.
Raccontaci il tuo percorso formativo
Dopo aver consultato i programmi di molte scuole di moda, ho deciso di iscrivermi al Politecnico di Milano perché proponeva, nell’ambito del design, un innovativo Corso di Laurea. Avevo scelto qualcosa che mi apparteneva veramente e così ho superato il test. Sono stati tre anni molto duri ma utili perché mi hanno dato la possibilità di conoscere il mondo progettuale del design e di tutte le fasi che lo compongono. Ho poi frequentato un corso di stilismo a Parigi, all’École Esmod, la scuola di moda più antica del mondo, dove ho affinato il mio gusto in una visione internazionale.
Dato che la creazione di moda si lega necessariamente all’ambito commerciale e il design della moda non va confuso con l’arte, ho deciso successivamente d’iscrivermi all’Università IULM dove mi sono specializzato in Marketing e Comunicazione per la moda, tematiche che ho approfondito anche in un corso di livello Master allo IED di Milano.
Come nasce l’idea di una luxury boutique?
Il concetto di boutique multimarca mi ha sempre appassionato perché dà la possibilità di creare “significati” a partire da altri “significati”. Mi è sempre piaciuto creare un mio stile riconoscibile e ben identificato partendo da altri stili. La mia boutique mi piace perché è un ”luogo” a differenza di altri negozi che sono dei “non luoghi” cioè degli spazi asettici e stereotipati.
Come mai ti sei focalizzato solo sugli accessori?
Provenendo dalla cultura del Politecnico, dove la moda trova la sua massima espressione negli accessori, la scelta è stata quasi inevitabile. Penso che gli accessori costituiscano un prolungamento di sé, un modo per esprimersi ed evidenziare la propria figura e personalità.
Cos’è per te l’eleganza?
Per creare un outfit perfetto a mio avviso bisogna realizzare un’armonia tra i diversi elementi. Mai utilizzare scarpe troppo vistose con un vestito troppo basico. Il vero stile sta nelle proporzioni e nell’abbinamento coerente degli elementi. Mi piace molto mescolare codici stilistici diversi ma bisogna farlo in modo bilanciato senza che nessun elemento predomini troppo.
Tre oggetti essenziali per un viaggio?
Non potrei partire per un viaggio senza uno smoking, la Fragranza Suprema “Perdizione” di Nobile 1942 e uno smartphone che uso soprattutto per scattare fotografie, una delle mie più grandi passioni.
Nuovi progetti legati alla tua attività?
Nel mese di maggio sfilerà nel Principato di Monaco, nell’ambito della Monte-Carlo Fashion Week, la mia prima collezione di scarpe. Sarà costituta da 12 modelli dallo stile elegante e seduttivo. Sfilerà con il brand “Daniele Giovani Design” e sarà sul mercato per la Spring/Summer 2021. A questo progetto tengo molto e lo trovo emozionante ma, per ora, non posso dirvi di più!
L’Italia torna di moda negli Stati Uniti. I nuovi trend del mercato d’Oltreoceano, che evidenziano una maggiore attenzione verso la qualità e la sostenibilità, hanno riaperto i giochi anche per le piccole e medie imprese del Made in Italy. Abbiamo incontrato Antonino Laspina, direttore esecutivo dell’Italian Trade Agency nel mercato statunitense. Nel corso della sua carriera, Laspina ha lavorato con università, comprese quelle in Cina, centri di formazione e riviste italiane e internazionali su argomenti legati al commercio internazionale e all’economia. È diventato membro del Young Leaders ‘Group (Consiglio Italia-Stati Uniti) nel 1998 fino all’attuale ultimo incarico come direttore esecutivo di ITA iniziato lo scorso Novembre.
Come stanno cambiando i mercati americani in relazione al Made in Italy?
Il mercato Americano, come tanti altri importanti mercati nel mondo, subisce profonde modifiche a seconda della composizione demografica e dei nuovi soggetti che intervengono nella spesa destinata all’acquisto di beni, in questo caso di beni di qualità, del Made in Italy. Davanti a noi abbiamo uno scenario con una forte presenza di soggetti che possiamo definire millennials, che si relazionano al Made In Italy cercando di apprezzarne alcuni aspetti che stanno emergendo recentemente, ma abbiamo anche dei clienti molto consolidati e affezionati a questo tipo di prodotti. Allo stesso tempo ci sono anche nuove tendenze relative alla possibilità che consumatori di fasce abbastanza alte possano essere interessati al Made in Italy, più di quanto lo siano stati nel passato anche per effetto della crescita della sua percezione sul mercato Americano.
E quale è la percezione del prodotto italiano negli USA?
La percezione del prodotto Italiano negli USA continua a rimanere abbastanza positiva. Direi che in alcuni settori, in termini di apprezzamento, il prodotto italiano non ha rivali perché costituisce un prodotto in una classe a se stante. Tuttavia dobbiamo tenere conto del fatto che ci sono delle tendenze che possono avvicinare i prodotti di altri paesi ad un livello pari allo standard di percezione del prodotto Made in Italy. Per noi è importante cercare di mantenere questa leadership con una fortissima azione promozionale, che deve, da un lato cercare di consolidare i consumatori nei territori dove siamo già abbastanza forti, come le zone delle coste, soprattutto con riferimento agli stati di New York e New Jersey, e la California, ma dall’altro lato andare ad operare delle azioni di promozione sui nuovi territori che stanno godendo di questa fase di crescita economica, che potrebbero essere identificati simbolicamente dallo stato del Texas.
Quali sono gli assets su cui le aziende italiane devono puntare?
Le aziende Italiane per farsi ancora strada su questo mercato e per rafforzare la propria posizione devono insistere sugli assets e i valori che hanno permesso di costruire nell’arco di questi vent’anni le posizioni di leadership che hanno ottenuto. Sostanzialmente, c’è la necessità di essere percepite come aziende che incorporano valori come la qualità, e in alcuni casi anche l’esclusività e l’utilizzazione di materie prime. Sia per quanto riguarda i prodotti attinenti al sistema della moda sia per quelli attinenti al sistema del design per la casa. Diventa importantissimo per le nostre aziende continuare ad insistere sull’ aspetto peculiare dell’Italia come centro unico rispetto ai suoi competitors, in quanto nel nostro territorio coesiste sia la fase creativa, della creative industry, che quella del settore manifatturiero. In qualche modo costituiamo un unicum e dobbiamo assolutamente puntare su questo, perché all’interno di questo meccanismo si può costruire un’ ulteriore riqualificazione del prodotto Italiano in termini di alta qualità, con delle componenti di artigianalità che sono uniche nel nostro sistema, come la craftsmanship. Tutti elementi che cominciano ad essere sempre più importanti per alcune fasce di consumatori americani. Più di quanto lo siano stati nel passato.
Come si articola e come si sviluppa il vostro piano e strategia di rilancio del made in italy?
Sulla base dei risultati degli ultimi anni si sono portati avanti un piano ed una strategia di rilancio del Made in Italy che puntano su un accresciuto valore delle risorse destinate all’attività promozionale. Come dicevo prima, questa strategia mira da un lato a fidelizzare e stabilizzare i consumatori che abbiamo in alcuni territori, ma dall’altro lato anche a conquistarne di nuovi soprattutto in quelle aree dell’interno dove le dinamiche economiche degli ultimi anni hanno permesso di avere, come ad esempio in alcune capitali, redditi pro capite che sono superiori ai 60 e 70mila dollari, e che presentano un ritardo rispetto alla percezione del prodotto italiano. Dobbiamo lavorare moltissimo per portare il prodotto sul territorio. Chiaramente uno strumento molto importante sono le attività di collaborazione con la grande distribuzione organizzata, sia che si tratti di distribuzione sul piano nazionale sia che si tratti solo di presenza di tipo interstatuale. Andremo, quindi, ad investire molto sugli inviti alla rete distributiva, svilupperemo una maggiore presenza presso le più importanti manifestazioni fieristiche italiane e addirittura ipotizziamo anche il ricorso a strumenti promozionali che sono attività proprie e autonome realizzate dall’ICE in collaborazione con altri partner. Inoltre, è importante avviare un piano di azione che copra un territorio molto più ampio per farsi conoscere maggiormente. In tutto questo c’è anche uno spazio per quanto riguarda le attività che si devono realizzare con il sistema digitale. Abbiamo, infatti, perfezionato un accordo con Amazon e stiamo studiando altre forme di collaborazione. L’idea principale è che questo mercato, come per altro i mercati che si trovano in Europa e anche in Asia, abbia bisogno di un’ utilizzazione dei due canali di commercio offline e online. Naturalmente, sarà fatto un notevole sforzo anche per recuperare l’interesse di un crescente numero di aziende Italiane per questo mercato. Tuttavia, abbiamo notato che dalla parte Italiana c’è la necessità di una fortissima azione di aggiornamento sul mercato Americano e quindi dobbiamo inviare alle aziende italiane un messaggio che gli permetta di capire che questo mercato ha regole molto rigorose per quanto riguarda la serie di normative sulla composizione dei prodotti e dei materiali, ma anche per quanto riguarda gli aspetti doganali. Questa difficoltà, però, non significa impossibilità e quindi si può pensare di aprire nuove prospettive per le aziende Italiane. La qualità comincia a farsi strada sul mercato e per questo motivo per le aziende di questo tipo potrebbe essere un’occasione per recuperare posizioni a livello globale.
Quali sono le aziende italiane che sono state supportate? I primi feedback?
I primi feedback sono abbastanza positivi. In effetti, il tempo che abbiamo avuto a disposizione per questa nuova strategia è stato abbastanza breve, ma generalmente costruiamo strategie su dei successi che sono innegabili. Per esempio, abbiamo una presenza molto consolidata nel sistema moda e una qualificata presenza di produttori di qualità. L’obiettivo è fare arrivare su questo mercato nuove tendenze, nuovi soggetti creativi e manifatturieri perché dobbiamo cogliere l’occasione che questo mercato presenta una maggiore sensibilità verso nuovi temi, come quello della sostenibilità, del green, del rispetto della natura, tutte problematiche in cui le nostre imprese si sono cimentate. Inoltre, questi temi hanno già riportato notevoli risultati positivi su altri mercati. Per noi, quindi, l’aspetto importante è quello di farci percepire come portatori di questi nuovi valori che si fanno strada sempre di più nel mercato Americano. Per le nostre imprese, nel corso degli ultimi anni, una scommessa sono stati i trattamenti rispettosi dell’ambiente per quanto riguarda le pelli, le fibre, soprattutto quelle naturali, o altri trattamenti di prodotti necessari a costituire il processo manifatturiero del settore del tessile e dell’abbigliamento. Oggi probabilmente presentiamo in termini anche di ricerca e sviluppo una produzione più sofisticata e più in linea con queste aspettative. Siamo, quindi, molto fiduciosi sul fatto che questo tipo di risposta positiva del mercato possa rafforzarsi nel corso dei prossimi anni.
Una vostra prima valutazione dopo la collaborazione con Project?
Già con questo evento possiamo dire che abbiamo saputo cogliere e interpretare queste tendenze di cui ho parlato prima. Le nostre imprese coinvolte in questo progetto, tra l’altro, erano già un numero abbastanza interessante. Per la parte futura riteniamo che si dovrà puntare molto sugli aspetti di comunicazione di quello che oggi è il nostro sistema sia creativo che manifatturiero. Dobbiamo sapere comunicare questi valori che a volte sono peculiari o addirittura esclusivi del nostro sistema Italia. Per fare questo, abbiamo bisogno di potere utilizzare diverse piattaforme. L’idea di fondo è di potere utilizzare delle piattaforme consolidate per quanto riguarda il sistema espositivo, ma non è da escludere il fatto che a queste attività si possano aggiungere, forti di queste indicazioni che arrivano dal mercato, anche altre presenze, che possono essere di totale nuova concezione, di intesa con le imprese Italiane e con le strutture che rappresentano l’interesse delle imprese.
Si parla molto di sostenibilità, come è recepita dal mercato americano?
La sostenibilità è un fatto che si accompagna ad una sensibilità in crescita non solo sul mercato americano ma anche su altri mercati in relazione a tutte le problematiche di trattamento dei prodotti nella fase manifatturiera, ma anche alle fasi che riguardano il trattamento delle materie prime, per arrivare anche a come si coltivano le piante da cui provengono poi le fibre vegetali o come si trattano le fibre che provengono dal mondo animale. Sostenibilità, quindi, è una parola d’ordine a cui tutto il sistema deve sottostare perché sul mercato americano questa sensibilità nei confronti della natura e dei processi che non siano troppo invasivi o distruttivi, si sta facendo strada di pari passo a quello che sta avvenendo nei mercati più sofisticati. Qui la risposta del sistema Italia, secondo me, è all’altezza delle aspettative perché, come avevo evidenziato, nel nostro sistema di trattamento delle pelli abbiamo introdotto tutta una serie di processi che limitano l’utilizzazione di sostanze nocive. Abbiamo applicato le tecnologie di recupero e quindi siamo produttori di materie prime o di semilavorati che possono essere una garanzia in termini di sostenibilità. Abbiamo delle aziende che trattano fibre naturali come il cotone, però abbiamo già controllato la fase di coltivazione. Abbiamo delle società che già nella fase di selezione delle fibre naturali, come ad esempio la lana proveniente da diversi animali, hanno una grandissima attenzione e cura per quanto riguarda i processi selettivi e poi trasferiscono nel processo di lavorazione queste fibre, dove le sostanze coloranti o qualsiasi altra sostanza deve essere assolutamente compatibile con il sistema della natura. D’altra parte, siamo obbligati a fare ciò dal fatto che le nostre imprese sono collocate in un contesto della nostra campagna, del nostro sistema Italia che convive e coesiste con dei capolavori dell’architettura e dell’arte. Abbiamo una campagna che essenzialmente ha una grande protezione perché da lì derivano anche altre fonti di reddito come quelli dell’agricoltura e del turismo. È un sistema, quindi, che prima ancora che si facesse strada la sostenibilità come elemento molto forte del mercato Americano, ha dovuto fare questa scelta per causa naturale, per proprie forze interne, perché l’intervento sulla natura soprattutto in Italia deve essere molto leggero e di scarso impatto perché deve salvaguardare anche altri settori dell’economia Italiana. Quindi siamo sicuramente un sistema produttivo in grado di soddisfare questi aspetti della sostenibilità, del green, e di queste legittime aspettative che ci sono nei consumatori. D’altra parte, se il sistema Made in Italy si sta rafforzando sempre di più anche in contesti che non sono sempre stati positivi dal punto di vista dell’economia, è proprio perché è riuscito ad interpretare e dare risposte adeguate a queste aspettative.
Il giovane ballerino Andreas Geisen rappresenta un equilibro perfetto tra mascolinità urbana e seduzione discreta. È naturale e autentico, si prende cura di se stesso e coltiva un’eleganza senza sforzo. Prima di tutto è uno sportivo, infatti scopre la passione per la danza da piccolo, portandola avanti con duro lavoro e sacrificio. Oggi però non c’è solo danza, arrivano anche i primi lavori nella moda e l’attività di lifestyle influencer sui social che lo entusiasma sempre di più.
Come e quando hai capito di avere una passione per la danza?
Quando ho iniziato a ballare ero davvero giovane, avevo solo 9 anni. L’idea fu di mia madre e mi piacque subito perché ero l’unico maschio circondato da bambine. Verso gli 11 mi feci male e non fui in grado di ballare. Per due mesi sentii che mancava qualcosa nella mia vita. È stato così che ho capito che il balletto era la mia passione che avrebbe guidato la mia vita.
Parlami dei tuoi studi e del tuo background professionale
Mi sono formato alla Paris Opera Ballet School e al Conservatoire Supérieur di Parigi. Successivamente sono andato al Balletto Nazionale Polacco per una stagione, poi in Germania. Ho passato 4 anni a dividere la mia vita tra Parigi e l’Opera di Bordeaux.
Ci sono persone che ti hanno ispirato sia dal punto di vista professionale che personale?
Ci sono così tante persone da cui sono ispirato, ad esempio tali Neil Patrick Harris, Hugh Jackman, Rudolf Noureev, Baryshnikov. Sono anche molto ispirato da film e storie che accadono nella vita reale, dalle persone che hanno cambiato il mondo e non l’avrevvero mai pensato. Adoro i film biografici.
Quali sono le tue opere più recenti e significative come ballerino?
Sicuramente Notre Dame de Paris di Roland Petit, in primo luogo perchè è un capolavoro del 20 ° secolo, e poi per quello che è successo a Parigi l’anno scorso. È stato davvero importante per me poter cogliere questa occasione. È un bellissimo tributo a Notre Dame.
Parlami della tua carriera come modello e della tua ultima esperienza
Fare il modello è un po ‘difficile perché il mio corpo non corrisponde ai canoni della moda. I ragazzi devono essere molto alti per farlo. Il mio ultimo lavoro importante è stato ballare all’inaugurazione dello spettacolo Dior S/S a Shanghai durante la settimana della moda ed è stato semplicemente fantastico per me. Tuttavia immagino che tutte le grandi campagne a cui prenderò parte come modello saranno sempre legate al balletto.
Sei anche un content creator che parla di viaggi e lifestyle, quando e perché hai iniziato questa attività?
Ho iniziato questa attività 3 anni fa, alla fine del 2016, e la trovo molto interessante. È un nuovo modo di connettersi con un brand senza l’intermediazione di un’agenzia. Quello che mi piace è che riesco a fare la mia campagna con le mie regole. Amo quella libertà e lasciare che la mia creatività faccia il lavoro da sé.
Com’è la tua giornata tipo?
La mia giornata tipo è svegliarmi verso le 9, svegliare il mio corpo (allenamento addominali), balletto alle 11.30 fino alle 13.30, poi stretching fino alle 2.30 e poi il pranzo. Quindi le prove, o Physio, o incontri con agenzie e brand.
Quali sono i tuoi posti preferiti a Parigi?
Adoro il 2° distretto, c’è sempre qualcosa da scoprire e la strada è bellissima lì. Soprattutto intorno a Montorgueil, è come un piccolo villaggio.
Quali sono i luoghi che ami di più per ricaricare/riabilitare te stesso?
Non ho un posto preferito, perché ogni settimana scopro nuovi bar. Nuovi hotel. Immagino che siano dove mi sento al meglio, casa e negli studi di balletto.
Quando viaggi, quali sono gli elementi essenziali per te?
Quando viaggio i miei elementi essenziali sono il mio telefono, le mie cuffie, una bottiglia d’acqua e limone, vestiti comodi, i prodotti per la cura della pelle e un costume da bagno.
L’ultimo libro che hai letto o la musica che ami?
L’ultimo libro che ho letto è stato Notre Dame de Paris di Victor Hugo. In questi giorni ascolto l’artista francese Angel e la playlist Jazz Romance su Spotify. Inoltre, sto ascoltando il re leone perché farò l’audizione per lo spettacolo di Broadway.
I tuoi prossimi progetti e sogni nel cassetto?
Ho questa enorme audizione per lo spettacolo di Lion King the Broadway in arrivo a Febbraio, oltre a tutte le audizioni delle compagnie di balletto. E vorrei anche provare un po’ di recitazione. Vediamo cosa ha da offrire il 2020!
Per Marco Bianchi cucinare è un gesto d’amore, per noi stessi, per le persone che amiamo, per tutti coloro che ci vogliono bene. Ma anche parlare di cibo e di salute rappresenta un modo di esprimere questo amore. Da qualche tempo è tornato nelle case degli italiani, sempre in cucina, con un nuovo programma, Il gusto della felicità, in onda su Food Network, canale 33 del digitale terrestre. Nel suo libro invece, Il gusto della Felicità in 50 ricette, si racconta ripercorrendo i momenti più importanti, gli incontri, gli aneddoti e i ricordi che lo hanno reso la persona che i suoi tantissimi fan conoscono e amano.
Ti definisci un food mentor, ma cosa significa nel concreto?
Significa ogni giorno andare alla ricerca di quello che il cibo ci può offrire, in qualità di prevenzione e benessere. Il mio compito è quello di studiare la letteratura scientifica e di portarla allo stato pratico nella quotidianità, attraverso i blog e i canali social.
Come è nato il tuo impegno con Fondazione Veronesi?
È nato un po’ per caso, ero ricercatore e borsista nello staff di Umberto Veronesi, nella parte di oncologia sperimentale, e chiacchierando con il Professore mi sono innamorato anche dell’aspetto divulgativo. Questo incontro ha permesso di sensibilizzarmi ulteriormente all’argomento, infatti mi sono buttato a capofitto su questo progetto che ha avuto poi un ottimo riscontro.
Quali sono oggi, secondo te, le barriere sulla prevenzione che bisogna abbattere?
Sicuramente tante, prima tra tutte quella sugli uomini. Sto portando avanti una campagna proprio dedicata a loro, ed è imbarazzante scoprire quanto un uomo oggi sia ignorante in termini di prevenzione. Un’autopalpazione ai testicoli, ad esempio, dovrebbe essere una prassi normale che chiunque potrebbe fare tutti i giorni sotto la doccia ed invece diventa per gli uomini qualcosa che non hanno mai pensato di fare. Purtroppo, invece, è un tumore che colpisce il genere maschile giovane, tra i 15 e i 45 anni, e ad oggi è ancora uno dei primi che colpisce questa fascia d’età. Abbiamo tanto da imparare dalle donne, che sono sempre in prima linea su questo, dal pap test alla visita ginecologica alla mammografia, sono certamente più attente.
Oggi ci sono molte più intolleranze rispetto ad un tempo, penso anche alla celiachia ad esempio. Perchè questo fenomeno? Quali potrebbero essere dei consigli?
Abbiamo veramente un incremento di sensibilità e intolleranze. Sembra dovuto al fatto che abbiamo perso l’abitudine di mangiare in maniera varia, ma ci focalizziamo sempre sugli stessi alimenti sensibilizzando così il nostro intestino a non accettare determinate sostanze come glutine, zuccheri e grassi. Purtoppo, ognuno di noi ha una propria sfaccettatura sotto questo punto di vista. Basterebbe resettarsi con un digiuno mirato, educato e fatto con un medico, variando la dieta. In un secondo tempo si potrebbero reintegrare pian piano alcuni alimenti mentre altri invece andrebbero allontanati per un certo periodo.
Quale è la tua giornata tipo?
Dipende, ho giornate veramente varie. La più standard vede la sveglia alle ore 7, una colazione piacevole e abbondante perché deve essere un momento bello e poi c’è lo studio dell’agenda e degli impegni da fare. Dopodiché, inizio solitamente con qualche riunione, e in base ai periodi sono più rilassato o meno. Devo anche gestire la vita da papà: c’è sempre la spesa da fare, devo cucinare, e a volte lo mostro attraverso i social mentre altre volte preparo 7/8 piatti diversi che poi presento nel corso delle settimane o dei giorni.
Prossimi libri o prossimi progetti in cui ti vedremo?
Fino a fine Gennaio sono in onda con “il gusto della felicita” su FoodNetwork dalle ore 21. Poi sto mettendo in cantiere un nuovo progetto TV che spero vada in porto e un nuovo libro. Per quest’ultimo ho ancora le idee un po’ confuse, ci metterò la testa da gennaio in poi.
Il food ha avuto un’esplosione sui canali TV negli ultimi anni. Ti piace che se ne parli così tanto?
All’italiano piace sedersi a tavola e ama cucinare e finché abbiamo programmi che fanno questo posso funzionare ancora anch’io. Tuttavia, mi distinguo dagli altri, mi piace essere un po’ di nicchia sotto quel punto di vista perché non cucino di tutto e seleziono ingredienti e ricette. Vado a cucinare per migliorare la salute altrui, e finché l’obiettivo c’è ed è forte, bisogna sempre inventarsi qualcosa di nuovo affinché non diventi tutto troppo monotono.
Rispetto ai social invece, cosa pensi anche di questa ascesa?
È la nostra rivoluzione oggigiorno. Probabilmente li guardiamo anche troppo, però dipende sempre dagli usi che ne facciamo. Personalmente, è l’unico modo che ho per scambiare opinioni con la mia community e quindi anche di migliorarmi. Le critiche possono esserci sempre e, costruttive o distruttive che siano, ci permettono di allinearci con le esigenze della fan base.
Ossimoro: accostamento di due concetti o parole opposte. Da questa figura retorica nasce il concept creativo dell’evento di Antony Morato che ha scelto Firenze per presentare la nuova collezione Autunno Inverno – il 7 Gennaio 2020 – con una serata dedicata al binomio tra tradizione e modernità.
La nuova collezione è una rappresentazione in videomapping in cui il mood contemporaneo e underground tipico dell’heritage del brand, viene reinterpretato grazie ai dettagli e alle ispirazioni che rimandano alla tradizione sartoriale del passato.
Lello Caldarelli, presidente e direttore creativo di Antony Morato ci racconta qualcosa di più su questo brand total look che sta crescendo a livello internazionale.
Raccontaci il tuo background professionale prima di Antony Morato
Ho iniziato a lavorare sulla donna gestendo una struttura che produceva collezioni per altre aziende, ciò mi ha aiutato molto a capire le esigenze della moda contemporanea e le innovazioni in termini di materiali, accostamenti di tessuti e dettagli del prodotto finito.
Quando ho fondato Antony Morato, nel 2007, sentivo l’esigenza di realizzare un progetto individuale: ho trasferito la conoscenza acquisita dall’esperienza con il mercato femminile adattandola alle esigenze del contemporary fashion maschile sviluppando la mia personale visione della moda.
Come sviluppi le tue collezioni che hanno anime così diverse?
L’uomo Morato è attento alla moda e cerca di esprimere la propria identità attraverso le nostre collezioni. Ecco perché, quando creo una nuova collezione, cerco sempre di soddisfare le aspettative del consumatore finale, che sono alte in termini di qualità e offerta, attraverso sempre nuove ispirazioni internazionali, ma tenendo sempre a mente le caratteristiche tipiche dei nostri clienti e il nostro DNA urbano e contemporaneo.
In che modo hai lanciato il brand e quale filosofia lo descrive meglio?
Date le mie esperienze pregresse, sarebbe stato naturale e logico cominciare dall’abbigliamento femminile, ma quando ho lanciato il brand ho condotto un analisi di mercato e mi sono reso conto che nel segmento della moda maschile mancava un concetto già radicato nella donna, lo smart luxury.
Una ‘moda democratica’ con un prodotto ricco di contenuti fashion, tipici del mondo del lusso. È per questo che ho deciso di intraprendere l’opportunità che il mercato offriva all’epoca proponendo un brand che potesse avvicinare alla moda i consumatori maschili più esigenti.
Quali sono i capi più iconici e riconoscibili del vostro brand?
Più che di un singolo capo parlerei di un approccio al total look che mi piace proporre in ogni collezione e che definisce bene l’identità e l’estetica del marchio. Mi riferisco al concetto del “Soft Tailoring” che consiste nell’abbinare un paio di pantaloni sartoriali con una t-shirt o un paio di sneakers. In questo contesto, il capo casual è l’ingrediente che “ammorbidisce” la formalità di un look classico, dando un tocco contemporaneo alla proposta finale.
Quale valore aggiunto da il fatto di essere un brand italiano?
Il DNA e il patrimonio italiano, visti come tradizioni consolidate e radici culturali nell’industria della moda, influenzano ogni collezione di Antony Morato in termini di rispetto di uno stile elegante e unico e di un gusto specifico sulla vestibilità e sulla lavorazione dei capi.
Napoli, in particolare, è anche una delle città più cosmopolite e il nostro DNA internazionale, aperto alle nuove tendenze, trae origine proprio da questo melting-pot culturale e sociale.
Come sta evolvendo il brand a livello internazionale?
Dopo 12 anni di crescita graduale ora vogliamo rafforzare i mercati in cui siamo già presenti – come Italia, Spagna, Paesi Bassi, Germania, Francia, Cina e India – al fine di aumentare e consolidare la brand awareness e il potenziale di vendita.
Consolidamento anche al livello di percepito, proponendoci come principali attori del mercato del fashion contemporaneo e offrendo collezioni total look basate sul concetto di mix&match. Questo approccio permette ai nostri clienti di raccontare le proprie storie e di esprimere la propria personalità adattando lo stile alle necessità.
Ulteriore obiettivo per i prossimi anni è quello di garantire una completa sostenibilità a qualsiasi livello aziendale: abbiamo già iniziato con un approccio ecologico all’industria 4.0 creando un nuovo hub logistico a Piacenza che è completamente eco-sostenibile e rappresenta un’avanguardia nel settore poichè ha un basso impatto ambientale garantito dalla produzione di energia attraverso il magnetismo.
Una piccola anteprima sulla prossima collezione?
La collezione autunno inverno 2020/2021 reinventa il look metropolitano grazie ad un mix di innovazione e reinterpretazione del DNA del brand. Spaziando tra quattro temi fashion, ognuno con una precisa inspirazione – dal punk/grunge allo sport sartoriale in chiave college – la collezione non rinuncia all’heritage del brand, con la linea Timeless, che propone un’eleganza contemporanea, fatta di dettagli minimal e rimandi al mondo retrò.
Cosa potete rivelarci per il 2020?
Il nostro principale obiettivo è quello di accorciare sempre di più la distanza tra marca e consumatore. Proprio per questo abbiamo pensato di dare vita ad una nuova modalità di presentazione delle nostre collezioni che sia innovativa e che rappresenti un momento di incontro tra stakeholder e consumatore finale. Il prossimo 7 Gennaio 2020 ospiteremo una serata dedicata al binomio tra tradizione e modernità.
All’Auditorium Santo Stefano al Ponte, sveleremo la nuova collezione autunnale in maniera insolita: una rappresentazione in videomapping in cui il mood contemporaneo e underground tipico dell’heritage del brand, verrà reinterpretato grazie a dettagli e ispirazioni che rimandano alla tradizione sartoriale del passato.
Il brand presenta a Pitti Uomo 97 una collezione ispirata alla natura e ai suoi colori, una collezione completa e ampia in cui si riconferma un’estrema qualità dei materiali e una cura per i dettagli che solo l’attenzione alla sostenibilità e il Made in Italy possono garantire. Abbiamo intervistato Franco Catania, Founder di Hand Picked e CEO di Giada Spa che ci ha raccontato come è nato il progetto.
Quando e come è nato il progetto Hand Picked?
Private label di Giada SpA, Hand Picked nasce nella PE19, presentandosi al
pubblico con una capsule di 15 pezzi e una filosofia molto green. hand picked
nasce dalla voglia di Giada nel mettere in campo tutto il know how acquisito in
oltre 30 anni di attività che l’ha resa leader mondiale nel settore del denim
di lusso
Come sta evolvendo dopo le prime stagioni?
Dopo il lancio a Pitti Uomo nel giugno 2018, Hand Picked oggi è posizionata in oltre 250 punti vendita in tutto
il mondo con una collezione che nella stagione AI20/21 è composta da 117 capi tra pantaloni e top
Quali sono i dettagli che rendono speciale la collezione?
I capi in collezione sono frutto di tanta ricerca, sia per quanto riguarda
i materiali in prevalenza ecosostenibili, sia per quanto riguarda lo stile. Ogni
pantalone, caratterizzato da una manifattura sartoriale, nell’intera filiera
produttiva vede circa 80 passaggi per arrivare ad essere completo e un tempo di
lavorazione 3/4 volte superiore rispetto a un qualsiasi altro
5 tasche. Giada, infatti, è sempre stata attenta ai particolari, dal sacco
tasca con bordino logato, il nostro baffo – segno distintivo del brand –
ricamato a punto pettine, bottoni e rivetti in rame martellato a mano, grograin
cucito all’interno della bottoniera e l’innovativa salpa in appleskin.
Qual è il capo iconico della capsule?
Giada è famosa in tutto il mondo per il 5 tasche, per cui il capo che più
ci rappresenta è il Ravello insieme all’Orvieto, ma anche altri capi con
concezione comfort come il Colonna e il Vieste stanno riscontrando grande
successo.
Quanto è importante la sostenibilità per il brand?
Hand Picked si basa sul concetto ecofriendly, perchè riteniamo che la moda debba dare il
proprio contributo nel rispetto e nella tutela dell’ambiente. oltre ai
materiali, anche le diverse fasi di lavorazione sono all’insegna della
sostenibilità. Infatti, oltre a riciclare il 60/70% dell’acqua, riutilizziamo
gli scarti di lavorazione come la pietra pomice che viene impiegata nel
giardinaggio, oppure il tessuto riutilizzato nell’industria automobilistica.
Il denim rappresenta il core business di Giada SpA, come è cambiato il mercato in questi ultimi anni?
il demin da tessuto utilizzato per la realizzazione di capi da lavoro,
quindi indossati da operai, oggi è diventato un must have da indossare in
qualsiasi momento della giornata e in qualsiasi contesto perché la sua versatilità lo trasforma da capo sportivo a capo elegante.
Le sfide e i progetti per il futuro?
Giada conta su una forza lavoro composta da circa 1000 addetti tra diretti e indiretti. personale specializzato e appassionato, con questa spinta, puntiamo a obiettivi sempre più ambiziosi e a mercati nuovi dove la richiesta di capi sartoriali si sta sempre più affermando.
Ad Anversa sono di scena i vincitori dei Belgian Fashion Awards 2019, una premiazione che vuole riconoscere non solo i creativi, ma anche i professionisti e imprenditori della moda belga.
Un progetto arrivato alla terza edizione e organizzato da Knack Weekend, Le Vif Weekend, Flanders DC (Flanders District of Creativity), MAD, Home of Creators e WBDM (Wallonie-Bruxelles Design Mode).
La cerimonia si è tenuta alla borsa di Anversa (Handelsbeurs) – il palazzo della borsa più antico del mondo – che è stata ristrutturata e riaperta per questa occasione.
Photo by Fille Roelants
Photo by Fille Roelants
Oltre alla cerimonia di premiazione è stata anche un’intera giornata dedicata alla moda belga con i Fashion Talks, una conferenza con numerosi interventi per capire come si sta evolvendo il settore.
Con questo progetto Flanders DC ha voluto stimolare il dibattito grazie alle voci di Raf Simons, Glenn Martens, Christopher Morency e Lucie Greene, tanto per citarne alcuni, che hanno parlato della loro visione sul futuro della moda.
Con questa iniziativa si riconferma il carattere indipendente e all’avanguardia della fashion belga, che sin dagli “Antwerp Six” ha rivoluzionato le regole, ma mantenendo forte il senso di appartenenza a un “community” pur nelle differenze individuali.
E proprio per riconoscere questo legame e particolare approccio ha vinto il prestigioso Jury Prize – consegnato da Patrick Scallon, Presidente della Giuria e Communications Director di Dries Van Noten – Dirk Van Saene, uno dei Sei di Anversa, premiato per il suo percorso coerente e lontano dai riflettori che ha privilegiato l’aspetto artistico e artigianale.
Photo by Fille Roelants
Photo by Fille Roelants
Van Saene rappresenta un importante pezzo nella storia della moda belga e come docente all’Accademia di Moda di Anversa ha un grande impatto sulla prossima generazione di stilisti.
Consegnato da Glenn Martens è il premio Designer of the Year che è stato assegnato a Christian Wijnants. La giuria ha evidenziato il suo essere rimasto fedele al suo DNA con la ricerca sui materiali, e in particolare il suo focus sulla maglieria. Il suo marchio è cresciuto in modo continuo e stabile.
Dopo aver aperto il primo negozio monomarca ad Anversa, Wijnants ha aggiunto la linea di calzature e una capsule di maglieria per uomo, che ha riscosso un ottimo successo.
Il premio Emerging Talent of the Year è stato assegnato a un giovane talento belga che lavora con un concetto forte di creatività. Il premio è stato vinto dalla menswear label Namacheko, formato dal duo Dilan e Lezar Lurr, fratello e sorella nati nel Kurdistan e cresciuti in Svezia, per la loro sperimentazione sulle forme e materiali.
Fondato nel 2017 la loro collezione è già venduta da top retailer in tutto il mondo. Pierre Debusschere si aggiudica invece il riconoscimento Professional of the Yearper la forza e originalità delle sue immagini. Il suo lavoro coniuga arte e moda, rappresentando una voce distintiva nel mondo dei media, che spinge sempre più avanti il confine dell’immagine.
Photo by Fille Roelants
Il premio Entrepreneur of the Year è stato vinto da Sofie D’Hoore e Chantal Spaas per il loro successo internazionale e il modo davvero o