Tananai, il fenomeno musicale della new generation

Dopo la partecipazione a Sanremo, Tananai, nome d’arte di Alberto Cotta Ramusino, ha conquistato il pubblico diventando uno degli artisti più di tendenza e seguito dai giovani. Dopo il Festival, il suo singolo Sesso occasionale è stato certificato disco di platino.

Tananai Instagram
Total look Alexander McQueen

Nato nel 1995 a Milano, Alberto è stato sempre appassionato, fin da adolescente, di musica elettronica, e si è dedicato da subito alla produzione musicale, pubblicando nel 2017 il primo album intitolato To Discover and Forget, utilizzando lo pseudonimo Not For Us. Presto inizia a esplorare vari generi musicali e a scrivere anche in italiano, pur occupandosi ancora principalmente di produzione.
Nel 2019 emerge come vero e proprio cantautore con il nuovo nome d’arte Tananai, e nel 2020 fa uscire il suo primo EP intitolato Piccoli Boati. Ci racconta lo stesso Alberto: “Il primo EP è nato dalla voglia di raccontare quello che mi succedeva nella vita, perché reputo che la quotidianità sia particolarissima a modo suo per chiunque. Quindi ho cercato di trasporre le mie giornate e storie d’amore, le mie delusioni e momenti in cui ero preso bene all’interno della musica che facevo. Venendo da un passato di produttore per la musica elettronica, dovevo imparare a scrivere e disimparare a produrre. Ho parlato di quello che conoscevo: la mia quotidianità”.

Nel 2021 la sua carriera prende una nuova piega con il singolo BABY GODDAMN, che arriva anche ad essere certificato disco di platino, con cui è ora in vetta alla classifica Top50 di Spotify Italia. Nello stesso anno arriva a collaborare con artisti come Fedez e Jovanotti, partecipando a Sanremo Giovani con la canzone Esagerata, grazie alla quale rientra nel podio dei vincitori.

Il 2022 si apre con la partecipazione al 72° Festival di Sanremo in cui presenta Sesso occasionale, un brano carico di ironia e positività. La partecipazione al Festival – nonostante le diverse critiche – gli restituisce grande visibilità, tanto che pochi giorni dopo la fine della competizione il singolo entra nella Top 10 tra i brani più ascoltati di Spotify Italia e anche BABY GODDAMN scala le classifiche, fino alle primissime posizioni della Top 50. Ci confessa Alberto: “‘Sesso occasionale’ è nata in maniera molto naturale durante una sessione in studio. È saltata fuori come continuazione di ‘Esagerata’- il pezzo di Sanremo Giovani, ci ha coinvolti da subito e abbiamo lavorato fino alla scadenza per mandarla. Non sapevo cosa aspettarmi dopo Sanremo. Sono andato a ruota libera perché pensavo solo a dare energie positive e al fatto di tornare a cantare sul palco davanti a un vero pubblico”.

Un successo che continua anche nel suo primo tour italiano che in poco tempo è finito sold out in molte date. “Il mio sogno nel cassetto lo sto realizzando, ovvero suonare dal vivo davanti a più persone possibili. E finalmente dopo tanti momenti di stop vedo che sta per succedere… Questo mi riempie di entusiasmo”.

Tananai social
Total look Gucci
Tananai Alberto
Total look Valentino, sunglasses Versace, shoes GCDS

Scoprite qui la videointervista completa a Tananai, realizzata in esclusiva per Manintown durante lo shooting per una delle sei cover dell’issue Hot child in the city.

Credits

Talent Tananai

Editor in Chief Federico Poletti

Text Federico Poletti

Photographer Leandro Manuel Emede

Stylist Nick Cerioni

Stylist assistants Michele Potenza, Salvatore Pezzella, Noemi Managò

Make-up & hair Mara De Marco

Nell’immagine in apertura, per Tananai total look Alexander McQueen

Models to follow: Angelica Maino

21enne, originaria della provincia di Vicenza, Angelica Maino si è trasferita a Milano per frequentare l’università, muovendo i primi passi da mannequin dopo una mail inviata all’agenzia The Fabbrica, che le ha aperto le porte del settore. Merito di una bellezza in un certo senso antica, diafana e sottilmente melanconica, con occhi di un blu penetrante, lunghi capelli ondulati e un fisico flessuoso e affusolato; tutte qualità che risaltano in maniera evidente nell’editoriale scattato, per Manintown, dal fotografo Riccardo Albanese con lo styling di Adele Baracco, dove la vediamo passare da maglioni cozy, soffici solo a guardarli, a spacchi e micro top bandeau da femme fatale provetta, mantenendo un innegabile magnetismo.


Jumper Pomandère, culottes Romeo Gigli, bag A.Cloud, earrings Gala Rotelli
Scarf worn as a dress Sara Wong, earrings Gala Rotelli

Come e quando hai iniziato a fare la modella?

Mi sono trasferita a Milano l’anno scorso per studiare all’università, ho pensato di tentare questa strada scrivendo a The Fabbrica, gli sono piaciuta subito e così, intorno a febbraio o marzo, ho cominciato.

I traguardi professionali che reputi più importanti e quelli che speri di raggiungere.

Tra i lavori fatti finora la campagna pubblicitaria di Chitè Milano (marchio di lingerie sostenibile italiano, ndr) e gli scatti per gli e-commerce di Furla, Malloni e Rinascente, da circa tre mesi sto lavorando principalmente come indossatrice per Alexander McQueen.
Un sogno è quello di sfilare in passerella, magari proprio per McQueen.




Ci sono griffe o designer che ammiri con cui vorresti collaborare?

Prada, Miu Miu e Marni, so che sono nomi difficili da raggiungere, ma ci spero.

E come “consumatrice”, invece, quali brand di abbigliamento e beauty prediligi?

Su tutti Prada e Miu Miu, ricorro però quasi sempre al vintage, frugo negli armadi dei miei genitori alla ricerca di abiti che mi piacciano, uso molto i pezzi vintage di mamma e anche qualcosa di papà. Per quanto riguarda il beauty, apprezzo il make-up Dior e le fragranze Parfums de Marly.


Cardigan Juicy Couture, culottes Battista, earrings Gala Rotelli, rings Voodoo Jewels and Elena Donati

Dress Uniqlo, earrings Gala Rotelli, belt and shoes @PWC Milano

Ci sono capi, accessori, gioielli che consideri dei personali “mai più senza”?

Non esco mai senza anelli, collane o orecchini, utilizzo spesso dei cerchietti d’oro che appartenevano a mia madre e una collana di Vivienne Westwood, la metto però in occasioni particolari, non è un gioiello da indossare tutti i giorni.

Come descriveresti il tuo stile?

Vado a momenti, d’inverno solitamente vesto tutta di nero, quindi pantaloni larghi, maglione e cappotto total black, in estate vado su jeans magari over, a vita bassa, con sopra camicie o t-shirt e sotto le sneakers, quando c’è l’occasione, considerato il mio debole per le scarpe, non mi dispiace portare modelli con il tacco.




Nell’editoriale per Manintown di cui sei protagonista indossi parecchi pullover, ampi e avvolgenti, è uno styling che ti si addice oppure è lontano dalle tue corde?

I capi erano quasi tutti vintage, ho adorato le décolletés, stupende, in generale era tutto abbastanza in linea col mio modo abituale di vestire, mi è venuto naturale indossare gli outfit proposti.

C’è qualche modella che apprezzi particolarmente, a cui ispirarsi?

Vittoria Ceretti e, sebbene non sia una mia collega, Benedetta Porcaroli, comunque ne seguo diverse sui social, specialmente quelle più semplici e spontanee, anche nel modo di porsi.


Scarf worn as a dress Sara Wong, earrings Gala Rotelli

Cardigan Juicy Couture, culottes Battista, earrings Gala Rotelli, rings Voodoo Jewels and Elena Donati, shoes vintage Dolce&Gabbana @PWC Milano

I lati migliori e quelli che invece ti suscitano maggiori perplessità del mestiere?

In realtà mi piace molto, lo trovo anche divertente, soprattutto alla mia età, certo i casting sono numerosi e bisogna sempre farsi trovare pronte, prestando attenzione alla linea, sotto questo punto di vista è un po’ pressante, ma viene tutto ripagato.

Cosa speri per il futuro, professionalmente e umanamente?

Umanamente spero di diventare il più possibile sicura di me ed essere soddisfatta della persona che sarò, professionalmente parlando vorrei crescere e cercare di realizzare gli obiettivi cui accennavo prima, in primis quello della sfilata, che sia a Milano, Parigi, Londra o in altre città.


Top Reamerei, jeans 501 Levi’s Red Tab, earrings Gala Rotelli

Credits:

Model Angelica @Fabbrica Milano

Photographer Riccardo Albanese

Stylist Adele Baracco

Make-up artist and hair stylist Annamaria Fanigliulo

Nell’immagine di apertura, cardigan Juicy Couture, rings Voodoo Jewels, Elena Donati

Da ‘Ghiaccio’ a ‘Suburra’, i mille volti di Giacomo Ferrara

La notorietà è arrivata grazie a Spadino, boss della malavita romana cui ha prestato corpo e voce nel film Suburra e, soprattutto, nelle tre stagioni del serial eponimo targato Netflix, personaggio cult per varie ragioni e amatissimo dai fan della serie, ma adesso Giacomo Ferrara, attore 31enne tra i più carismatici e talentuosi della scena italiana, è pronto a raccogliere nuove sfide.



Mosso, oggi come ieri, dalla volontà di contribuire, con le sue interpretazioni, alla costruzione di storie che, come dice lui, abbiano «un motivo per essere raccontate» e «arrivino dritte al cuore»; era il caso delle esistenze maledette, violente e irredimibili, di Suburra come di Guarda in alto, Il permesso – 48 ore fuori, Alfredino – Una storia italiana (in cui impersonava, rispettivamente, un fornaio che vive avventure “sopraterrene” sui tetti di Roma, un detenuto alle prese col reinserimento nella società, lo speleologo che provò a salvare il bambino della tragica vicenda di Vermicino) e, da ultimo, di Ghiaccio, pellicola nei cinema da oggi a mercoledì 9 febbraio, per cui si è calato nei panni di un ragazzo di borgata che, nella boxe, cerca il riscatto da una vita a dir poco travagliata, sostenuto in tutto e per tutto dall’allenatore-mentore Massimo (Vinicio Marchioni), dove la nobile arte è un “pretesto” per parlare di «amore, amicizia e rapporti umani»; sono, ancora, parole di Giacomo, che nella videointervista in esclusiva per Manintown che trovate qui, condivide le sue riflessioni sul film scritto e diretto da Fabrizio Moro e Alessio De Leonardis, su com’è stato dar vita al protagonista, Giorgio, sui rapporti creatisi su questo e altri set, sugli obiettivi di un ragazzo che, un passo alla volta, sta riuscendo a realizzare i propri sogni.




Credits:

Production Manintown
Editor in chief Federico Poletti
Art director & photographer Davide Musto
Video director Federico Cianferoni
Stylist Alfredo Fabrizio
Interview Marco Marini
Photographer assistant Valentina Ciampaglia
Stylist assistant Chiara Polci
Make-up/hair Charlotte Hardy, Alessandro Rocchi @Simone Belli Make-up
Music Endgame
Location Coho Loft

Nelle foto, Giacomo Ferrara indossa 424

Il cinismo in chiave pop dei Santi Francesi

I Santi Francesi (ma in passato erano i The Jab) sono i piemontesi Alessandro De Santis (voce e chitarra) e Mario Francese (tastiere, synthesizer e producer). Vincitori presso alcuni contest e con un’esperienza televisiva alle spalle, hanno raggiunto il successo con un album totalmente indie che ha superato i due milioni di streaming su Spotify. Brillantemente riflessiva la visione che emerge nel nostro incontro a pochi giorni dall’alba del 2022.


Trench e t-shirt Esemplare, bowling shirt Grifoni, salopette Napapijri e sneakers Levi’s
Trench e t-shirt Esemplare, bowling shirt Grifoni, salopette Napapijri e sneakers Levi’s

Amate definire la vostra musica una visione filtrata sul mondo e identificarvi come baluardo dei giovani favolosi alle prese con un’intimità cupa e decadente. Insomma due ragazzi che sopravvivono quotidianamente, come tanti dei propri coetanei, nell’era della digitalizzazione massiva. Come traslate musicalmente questo status? 

Non abbiamo necessità di impegnarci particolarmente, in fondo raccontiamo le nostre emozioni quotidiane. Passiamo da mood profondamente malinconici a quelli estremamente felici e giocosi. Il contrasto è da sempre interessante ed è importante che ci sia un animo dark anche indossando la più bella delle corazze.



Le basi della vostra carriera hanno preso il via in chiave rock con la vittoria al Liga Rock Park Contest e la conseguente apertura del concerto di Luciano Ligabue al parco di Monza nel settembre 2016. Cosa raccomandereste ai Santi, pardon ai The Jab, di qualche anno fa?

Si tratta di una risposta veramente difficile. Magari rendere meno impattanti e più brevi le esperienze negative. Ci siamo sempre fidati di noi stessi e della nostra musica e senza dilungarci troppo ci direi “non perdete mai tempo!” . In fondo è quello che facciamo sempre.

Uno dei vostri brani, Birkenau è stato scelto per il docufilm La vera storia di Lidia Maksymowicz andato in onda su Rai Storia. Se poteste scegliere di musicare un altro prodotto visivo per quale tipologia optereste?

Siamo sempre stati affascinati dal mondo della pubblicità e ci siamo ritrovati a produrre brani anche in questa direzione. Inoltre, amiamo i magnifici immaginari del cinema. Mario, tra l’altro, è proprio un ingegnere cinematografico laureatosi a Torino.

Tutti Manifesti, un album che senza un’etichetta né promozione, ha superato i due milioni di streaming su Spotify e vi ha spianato la strada per lavorare al brano Giovani Favolosi, supportati dal musicista e produttore Dade (Salmo, Marracash, Margherita Vicario). C’è chi lo interpreta come uno uno sfrontato pezzo electro-pop, ma per voi è davvero così?

Ci risulta difficile proiettarci in un genere musicale. Grazie a Dade abbiamo ottenuto una spinta incredibile per produrre il brano mentre l’album è interamente frutto della nostra matrice indipendente e ne siamo fieri.


Completo Blue of a kind e bucket hat Jail Jam

Santi e vincitori, reduci dal trionfo presso il Festival musicale Musicultura, lasciando da parte il cinismo, dove proiettate la vostra mente e il vostro caleidoscopico talento?

I nostri pensieri sono solo onde positive per la risoluzione di questo difficile momento storico. Siamo in piena produttività musicale e presto uscirà molto materiale. Vorremmo tanto suonare nei teatri perché ne siamo profondamente affascinati. Amiamo l’intimità generata dal contatto ovattato con il pubblico.

Crediti 

Photographer Jacopo Noera

Production, interview and styling Alessia Caliendo

Grooming Eleonora Juglair using Bullfrog

Alessia Caliendo assistants Andrea Seghesio & Laura Ronga

Location Cascina Nascosta

Special thanks to Bullfrog

In apertura, a sinistra k-way Napapijri e  t-shirt Out/Fit Italy. A destra trench e t-shirt Esemplare, bowling shirt Grifoni

Immanuel Casto, artista dalle mille sfumature tra “porn groove”, concerti e giochi dissacranti

Parlando di attori, musicisti e altri personaggi dello spettacolo si tende ad abusare di concetti quali versatilità o eclettismo; nel caso di Immanuel Casto, però, espressioni simili sono una soluzione praticamente obbligata per provare a sintetizzare l’operato di un artista dalle mille sfumature. Manuel Cuni, questo il suo vero nome, è innanzitutto un cantautore “porn groove” – termine da lui coniato per indicare una miscela di elettropop, sonorità ’80s e testi outré anticipati da titoli come Escort 25, Tropicanal o i recenti D!CK PIC e Piena – che, muovendosi sul crinale tra camp e arguta disamina sociale, non manca di sbeffeggiare ipocrisie e storture del Belpaese, dalla mercificazione del sesso alla spettacolarizzazione della violenza. In parallelo, realizza giochi da tavolo dai nomi inequivocabili (Squillo, Witch & Bitch, Red Light – A Star is Porn), è presidente del Mensa, associazione che riunisce le persone che raggiungono o superano il 98° percentile del Q.I., è “postacuorista” (come si autodefinisce) di Gay.it.
L’abbiamo raggiunto al telefono per una chiacchierata che ha toccato diversi argomenti, dal ddl Zan alla predilezione per l’inglese “to play”, verbo polivalente che lui considera il fil rouge di una vis espressiva rara a trovarsi.



Il 6 gennaio sarai in concerto all’Alcatraz, «un ritorno ai club dove tutto è cominciato», come ti senti a riguardo, che sensazioni dà il comeback dal vivo?

La prima sensazione è di terrore, non del palco bensì dei problemi che potrebbero sorgere da qui ad allora. Come lavoratori dello spettacolo siamo stati tra i più colpiti dalla pandemia, si è parlato a lungo – giustamente – di tutte le categorie in difficoltà, di noi invece sembra non importi granché.
In uno slancio di ottimismo, abbiamo comunque messo su un grande spettacolo (mi piace definirlo tale), provo un’immensa felicità al pensiero di tornare su un palco così bello e rincontrare il pubblico, del resto è quello il vero punto di inizio.
Non so se ogni artista lo senta, ma durante gli show avverto un senso di celebrazione di valori condivisi, è davvero un momento di comunione con i fan, non vedo l’ora di viverlo.

Puoi parlarci dei tuoi ultimi singoli? Come li descriveresti a chi dovesse leggerne per la prima volta?

Stratificati, mi sembra un termine calzante. Mi piace mescolare elementi diversi, unendo un linguaggio o immagini ridanciane, ironiche, provocatorie a riflessioni più profonde; nonostante sia veramente difficile padroneggiare i due registri, mescolare tragedia e commedia è una sfida che mi ha sempre attratto; credo sia, peraltro, una delle caratteristiche più distintive del mio lavoro.
Adoro generare un po’ di straniamento, mettendomi nei panni di chi vede un mio video vorrei sentisse una sorta di shock, poi il divertimento, quindi la comprensione degli spunti che cerco di inserire, una stratificazione, appunto.



Ti sei fatto conoscere nel 2011 con Adult Music: come hai dichiarato recentemente, «un disco che resta moderno, non sento che sono passati dieci anni», cosa lo rende ancora così attuale?

Lo sforzo artistico alla base, c’è un principio junghiano per cui, quando si scava veramente a fondo, la verità che si trova è quella di tutti. Un errore in cui incappano tanti artisti emergenti (lo capisco, ci sono passato anch’io) è realizzare prodotti eccessivamente autobiografici, operazione legittima e interessante, sia chiaro, però alla lunga non risulta universale.
Da parte mia, cerco di concentrami sulla società, resistendo alla tentazione, per quanto ghiotta, dei riferimenti nominali all’attualità, nonostante li comprendano tutti anzi, probabilmente prendendo il tema in trend o il personaggio del momento puoi godere di immediata visibilità; hip hop, rap e trap agiscono così, è del tutto plausibile ma trovo che abbia il problema di invecchiare rapidamente.
Raccontare un’epoca anziché un mese è difficilissimo, poi però riascolti i brani e senti di aver realizzato una foto dell’epoca.

Sei dell’idea che l’arte non debba avere nobili fini, parafrasando Wilde affermi «nasce inutile e questa inutilità va preservata»; anche in Italia si comincia a parlare di cancel culture e politicamente corretto, credi che un eccesso di controllo, seppur animato dalle migliori intenzioni, possa finire per limitare la creatività artistica?

Ne sono convinto, pur premettendo che ritengo spropositata l’attenzione riservata a un fenomeno che da noi non è ancora arrivato.
Mi piacerebbe ci fosse, in merito, un dibattito fondato sui dati, invece ognuno si concentra sui contenuti che non gli aggradano, anche per il meccanismo dei social.
Al netto dell’isteria sul politicamente corretto, le implicazioni che a me spaventano di più hanno a che vedere con il desiderio di moralizzare l’arte; si cerca da sempre di farlo, forse perché cambiare la realtà è quasi impossibile, al contrario per modificare la finzione artistica basta stabilire ciò che si può dire, quali concetti rappresentare. Per decenni lo abbiamo visto nei conservatori, ora sono soprattutto i progressisti a chiedere un controllo maggiore, con ragioni solide peraltro! È questo che rende complicata la faccenda, alla base ci sono motivazioni etiche che personalmente comprendo, in alcuni casi condivido.
Per quanto non ritenga si stia andando in quella direzione, comunque, avrei orrore di vivere in un mondo dove l’arte debba essere necessariamente morale.



Sei presidente del Mensa, com’è andata finora e quali altri obiettivi ti poni?

È stata un’esperienza davvero intensa, un’occasione di crescita personale all’interno di un contesto di circa 2000 soci.
Come associazione senza fini di lucro che raccoglie e mette in contatto persone con un elevato Q.I., gli obiettivi restano gli stessi, cioè far crescere la nostra realtà, rendendola un luogo più stimolante e fornendo così contributi interessanti al pubblico, a cambiare sono semmai gli strumenti.

Tieni la rubrica “C’è posta per Casto” su Gay.it, che quadro ne emerge, come sono messi, sentimentalmente parlando, gli utenti del sito?

Una situazione generalizzata che percepisco, specie nei più giovani, è la fame di educazione affettiva, il bisogno di parlare di questioni affettive come di quelle sessuali, una gran voglia di conoscere, confrontarsi, capire di non essere i soli a dover affrontare certi problemi, di normalizzarli.



I tuoi giochi da tavolo trattano con originalità e piglio dissacrante temi scabrosi, come è nata e si è sviluppata questa passione?

L’ho sempre avuta, il gioco per me è una palestra, anche per le emozioni “negative” quali rabbia o tensione che, nel contesto ludico, diventano sane, entusiasmanti. Se dovessi rispondere, in inglese, a una domanda su ciò che più mi piace utilizzerei il verbo “to play”, riferibile a svariati ambiti (“to play games, a song, a character…”), è un po’ il filo conduttore di tutto ciò che faccio a livello artistico.
A un certo punto, semplicemente, sono entrato a gamba tesa nel settore, privo di qualsiasi preparazione tecnica, in fondo credo che quando si ignorano totalmente le convenzioni diventi più facile romperle, almeno in linea teorica.

Ti eri esposto pubblicamente in favore del ddl Zan, impallinato dal voto del Senato a ottobre. Perché, a tuo parere, un disegno di legge che si proponeva semplicemente di contrastare la discriminazione basata (anche ma non solo) su orientamento sessuale o genere ha scatenato una tale cacofonia di polemiche, accuse, appelli e controappelli? Credi che riusciremo, prima o poi, a compiere passi significativi in questa direzione?

Penso di sì, per natura sono ottimista, credo si tenda naturalmente al progresso, purtroppo non è mai una linea retta.
Nel caso specifico, è stato orribile il livello di inquinamento del dibattito, a cominciare dai detrattori che hanno portato avanti un processo di disinformazione, mentendo letteralmente sui contenuti del testo, lasciando intendere che fosse a beneficio esclusivo di specifiche categorie, quando si trattava dell’estensione di una legge già in vigore per cui stabiliva delle aggravanti, certamente non che la discriminazione degli omosessuali fosse più “grave” di altre. L’obiezione del reato d’opinione, invece, si infrange sul fatto che la Reale-Mancino non è mai stata utilizzata per perseguire espressioni poco lusinghiere, diciamo così, nei confronti di persone di altre etnie o religiose.
C’è bisogno tuttavia anche di un po’ di autocritica, dal nostro lato ho sentito spesso affrontare l’argomento in maniera semplicistica e populista, in termini di diritti da aggiungere, cosa tecnicamente inesatta.



Due recenti singoli, il live di gennaio, e poi? Cos’hai in serbo, stai lavorando a qualche progetto di cui puoi/vuoi anticiparci qualcosa?

Ho molto materiale inedito, confido di rilasciarlo gradualmente nel 2022, per come si è strutturato il mercato discografico ha sempre meno senso pubblicare subito l’intero album, meglio piuttosto che arrivi a conclusione di un ciclo.
Per quanto riguarda la parte ludica, annuncerò presto un nuovo progetto, da lanciare tramite crowdfunding.



In apertura e nella prima foto, occhiali da sole Lanvin, camicia e pantaloni Red September, anfibi Cult, Credits:
Photographer Ilario Botti
Stylist Antonio Votta
Make-up Artist Bruno Agostino Scantamburo
Label Freak&Chic
Press Office Astarte Agency

Teodoro Giambanco, la poliedricità come cifra attoriale (e artistica)

Da ex bambino fissato con l’osservazione degli altri, per Teodoro Giambanco quello per la recitazione è stato «un amore a prima vista», sbocco naturale della precoce inclinazione ad assimilare gesti, comportamenti e storie altrui, facendone la base su cui costruire interpretazioni fuori dagli schemi (vedi quelle di Riccardo va all’inferno o Cobra non è) sviluppate meticolosamente, curando ogni aspetto.
Impegnato attualmente sul set di Màkari, il 30enne attore romano metterà presto alla prova il suo talento multiforme col canto (tra i suoi progetti una serie di live con la band Superfluuuo), sogna – non a caso – un musical e si dichiara pronto ad accogliere tutto ciò che questo mondo, lavorativamente parlando, potrà offrirgli, segni del tempo inclusi, perché rappresentano «un’opportunità per sperimentare con personaggi inediti».



Hai girato da poco una serie, in uscita il prossimo anno, cosa puoi anticiparci?

Si intitola Più forti del destino, uscirà su Canale 5 nei primi mesi del 2022; è un adattamento della miniserie francese Le Bazar de la Charité, ambientata anziché a Parigi a Palermo, nel 1886, dove un incendio scoppiato durante l’Esposizione Nazionale provoca decine di vittime, in gran parte donne. La trama si concentra proprio sulle figure femminili, affrontando anche il tema delle difficoltà sociali con cui devono fare i conti le protagoniste, un argomento purtroppo ancora drammaticamente attuale.
Il mio personaggio sarà presente in tutte le puntate, è stato stimolante poter lavorare su un ruolo inquadrato in un arco narrativo lungo e ben definito.

Hai esordito in SMS – Sotto mentite spoglie 14 anni fa, a seguire numerosi altri ruoli tra cinema, tv, teatro, videoclip. Come riassumeresti il percorso compiuto finora, sotto il profilo sia professionale che umano?

Come un continuo arricchimento, in entrambi i sensi. Ogni esperienza, positiva o negativa, ha rappresentato un’occasione di crescita, è come nella vita, si impara di più dai momenti difficili. Questo percorso è stato una grande scuola, credo che l’esperienza sul campo sia la più efficace, senza nulla togliere alla costante ricerca e all’approfondimento, cruciali nel nostro mestiere, né alla cura del corpo, lo strumento principale per un attore, da allenare continuamente, anche e soprattutto a livello mentale ed emotivo.

Hai trascorso un periodo a Los Angeles per studiare recitazione, quali sono secondo te le principali differenze tra la scena attoriale americana e quella italiana? Pensi ci siano elementi che il mondo dello spettacolo nostrano dovrebbe “rubare” alla controparte Usa?

Frequentando vari corsi e laboratori a Los Angeles ho avuto modo di lavorare perlopiù con giovani attori, una cosa che ho notato è il livello di preparazione, mediamente davvero alto, probabilmente perché negli Stati Uniti produzioni e investimenti sono ingenti, la visibilità è maggiore e così le possibilità.
L’invito che mi sento di fare al nostro settore è rivolgersi a un pubblico più ampio, allargare i confini attraverso storie nuove, personaggi eterogenei e inclusivi; sono dinamiche a dire il vero già in atto, diversi film o serie italiane stanno avendo un ottimo riscontro all’estero.


Total look: Alexander McQueen

Denoti una certa attitudine al trasformismo, alcuni personaggi da te interpretati risultavano d’impatto anche sul piano visivo, con chiome ossigenate e costumi a dir poco elaborati (penso a Riccardo va all’inferno, Alice e il Paese che si meraviglia, Cobra non è), prediligi le parti che richiedono cambiamenti radicali?

Più che prediligerle penso di attrarle, alla fine non è questione di scegliere quanto di esser scelti, sicuramente sono nelle mie corde. La trasformazione, radicale o meno, è in fondo l’essenza della recitazione, i personaggi da interpretare sono in genere lontani dalla propria personalità. Adoro il trasformismo “estremo” perché trovo mi dia grande libertà di espressione, così facendo riesco cioè a muovermi in uno schema ampio, giocando e variando di più.

Quali sono i ruoli che ti hanno segnato, che ti porti dentro?

Sono particolarmente legato a quelli di Riccardo va all’inferno, Alice e il Paese che si meraviglia e Cobra non è, perché mi hanno permesso di esprimermi a 360 gradi.

Hai dichiarato che per te è fondamentale l’osservazione degli altri, cerchi di coglierne determinati dettagli per utilizzarli poi in scena. Come ti approcci in genere al tuo alter ego sul set?

L’approccio parte sempre da un’analisi iniziale dei vari elementi, comincio così a formarmi delle idee, delle intuizioni sul personaggio, da sviluppare in seguito attraverso una ricerca sia emotiva che espressiva, che mi porti a elaborare tutta una serie di emozioni, stati d’animo, relazioni che potrebbero instaurarsi.
Sono piuttosto preciso, penso che la metodicità, lo studio approfondito su più livelli mi consentano di esprimermi al meglio, paradossalmente persino di improvvisare.

Avendo interpretato ruoli esteticamente impattanti, appunto, penso tu abbia dimestichezza con make-up e outfit, quanto conta secondo te il look del personaggio?

È fondamentale, è proprio durante le prove con trucco, parrucco e costumi che lo vedi prendere vita per la prima volta. Tengo molto al look del personaggio, mi rasserena che abbia un’esteriorità che mi piace e sia in linea con quanto immaginavo.



A livello personale, che rapporto hai con la moda, ti incuriosiscono o piacciono dei brand in particolare?

Sono attratto dalle mode di ogni epoca, le ritengo una forma di espressione personale, un mezzo di comunicazione a misura del singolo individuo. Non saprei indicare marchi specifici, non riuscirei nemmeno a categorizzare il mio stile, riflette il mio essere poliedrico, costantemente mutevole.
Inoltre avendo avuto a che fare da subito con costumerie e sartorie, per via del lavoro di mio padre, apprezzo particolarmente questo lato se vogliamo artigianale, di pura creazione del cinema che, in quanto settima arte, le comprende tutte.

C’è un ruolo o genere con cui vorresti metterti alla prova?

Direi un personaggio realmente esistito, così da avere riscontri tangibili, immediati. Per ciò che riguarda il genere, invece, un musical, lo adoro in quanto unione di tre discipline (recitazione, canto e danza) che mi affascinano enormemente.

Scorrendo il tuo profilo Instagram, mi ha colpito la ricercatezza delle immagini, sei un appassionato di fotografia?

Con un papà scenografo e una mamma libraia, sono cresciuto tra centinaia di libri fotografici e mi è rimasto un senso della forma, della composizione, in generale estetico molto forte, quasi una “condanna”, nel senso che ogni volta studio con estrema attenzione ogni scatto o immagine da pubblicare.



Hai progetti work in progress di cui puoi svelarci qualcosa? Come ti immagini tra dieci anni?

Sono sul set della seconda stagione della serie Màkari, in questo momento mi trovo in Sicilia, nella Valle dei Templi, posto meraviglioso.
Un progetto musicale cui tengo molto, che dovrebbe partire a breve, è Superfluuuo: mi ha coinvolto un mio caro amico, Edoardo Castroni, e stiamo organizzando dei live per i prossimi mesi. Sarà una prima volta, più che cantare interpreterò dei brani, vivendo insomma un nuovo ruolo; credo che il canto sia affine alla recitazione, ti viene fornito l’equivalente di un copione e sta a te farlo vivere.
Tra dieci anni mi vedo, per l’appunto, con dieci anni in più sulla spalle, il mestiere dell’attore cresce con te e sono curioso di vedere cosa accadrà. Non temo di invecchiare, anzi, lo considero un’occasione, le rughe rappresentano un’opportunità per sperimentare con personaggi inediti, a cui prestare un bagaglio di esperienza più ricco e sfaccettato; tanti attori, con l’età, hanno raggiunto un successo ancora maggiore, spero di fare altrettanto.

In apertura, total look: Alexander McQueen

Photographer: Maddalena Petrosino

Art Director: Davide Musto

Ph. Assistant: Valentina Ciampaglia

Grooming: Marta Ricci x @simonebellimakeup 

Location: Teatro Brancaccio

Models to follow: Aurelio Baiocco

22 anni, romano, occhi bruni, lineamenti taglienti, capello fluente che ricorda un po’ i beauty look di star del passato come Robert Redford o Alain Delon, entrate di diritto nell’empireo della mascolinità più charmant e carismatica, Aurelio Baiocco fa il modello da circa tre anni.
In un lasso di tempo relativamente breve, considerato anche lo stop della pandemia, ha dato prova di un certo camaleontismo, risultando convincente nei panni (attillati) del freak edonista tutto make-up, pelle e ammiccamenti al bdsm (in un editoriale pubblicato su GQ Brazil nel dicembre 2020) come nei capi tailored di Tod’s, indossati nella presentazione della collezione Fall/Winter 2020 del brand, imbevuta di rimandi al dress code dei Seventies; mood che gli calzava a pennello, poiché i suoi outfit hanno un debito evidente nei confronti dei codici del decennio: lo si evince dalle foto a firma di Riccardo Albanese che corredano l’articolo, dove sfoggia soprabito in nappa, vecchi Levi’s scovati in un marché aux puces, stivaletti, polo a manica lunga, cintura adorna di occhielli e applicazioni, a puntellare mise dall’aria vissuta, segnatamente retrò.
L’intervista che segue è utile per capire come un insider abituato a fitting, prove in showroom & Co. intenda – e declini a modo suo – concetti quali fashion o stile, mai così diffusi e però sovente abusati, ridotti a poco più che etichette da utilizzare ad libitum. Lui, tra l’altro, predilige capi vintage o second hand, ne fa una questione di sicurezza, di sentirsi a proprio agio, perché «la moda non riguarda esclusivamente l’estetica, ha a che vedere piuttosto con consapevolezza e comodità».

In tutto il servizio, abiti e accessori model’s own



Come ti sei approcciato a questo lavoro, e da quanto tempo lo fai?

Faccio il modello da tre anni, nel 2020 però sono stato fermo per mesi a causa del Covid, non abitandoci era praticamente impossibile raggiungere Milano, perciò considero quello in corso il mio secondo anno nel settore.
L’inizio in realtà è stato casuale, una ragazza di Roma con cui mi frequentavo lavorava come modella e mi ha spinto a provare, così ho fatto dei casting per delle agenzie romane per poi passare a quelle milanesi, trasferirmi in città e cominciare a tutti gli effetti.

Modeling a parte, cosa ti appassiona, quali sono i tuoi interessi?

Adoro il cinema, la mia passione più grande, spero davvero di potermi prima o poi inserire in quel mondo; le altre sono legate allo sport, che ho praticato per anni, seguo il calcio (o meglio, la Roma) e la Formula 1. Inoltre studio storia dell’arte all’università.

Qual è stata, finora, l’esperienza lavorativa che reputi più importante?

La presentazione, nel gennaio 2020, della collezione Tod’s T Club, sia per l’evento in sé, sia per la rilevanza del marchio; senza contare che era la mia prima partecipazione a una fashion week e da novellino, diciamo, mi sono trovato a fianco di colleghi ben più conosciuti ed esperti.

Sogni di collaborare con qualche brand o stilista in particolare?

Tom Ford, Prada e Bottega Veneta, a livello di moda maschile sono quelli che mi attraggono maggiormente, per quanto difficili da raggiungere. È anche una questione di gusti e inclinazioni personali, trovo ad esempio che il menswear di Ford sia iconico e al tempo stesso contemporaneo.



Moda e stile: cosa ti fanno venire in mente queste espressioni che, nonostante il loro (ab)uso, sono assai meno scontate di quanto non appaiano?

Penso vadano di pari passo, la moda secondo me è un mezzo con cui una persona, attraverso ciò che indossa, può sentirsi a suo agio; non credo che seguire alla lettera le tendenze equivalga ad avere stile, si tratta più che altro di riuscire – o provare a – essere sicuri di sé e dell’outfit, senza ostentarlo.
Ricorro spesso al vintage o all’usato, non sempre i capi più nuovi sono quelli che ti fanno apparire al meglio, la moda non riguarda esclusivamente l’estetica, ha a che vedere piuttosto con consapevolezza e comodità.

A giudicare dallo shooting, sembri attingere a piene mani dagli anni ‘70, preferisci i look retrò? Ci sono capi o accessori che credi esprimano appieno il tuo stile e altri, al contrario, che non indosseresti mai?

Gli abiti dello shooting, guarda caso, erano tutti vintage o second hand, a partire dal cappotto, trovato in casa, che apparteneva a mio padre, i Levi’s li ho presi invece in un mercatino di Roma; sono pezzi cui sono legato, non in senso materiale ma emotivo se vuoi.
Per quanto riguarda il capo specifico sceglierei i Levi’s 504 delle foto, a vita leggermente bassa e svasati al punto giusto, comodissimi, del resto se c’è una cosa che proprio non riesco a vedermi addosso sono i jeans stretti e in generale gli skinny pants.

Per quale look opteresti in tre contesti diversi come, per esempio, un evento formale, un’uscita pomeridiana, una serata di relax con gli amici?

Se parliamo della stagione attuale, solitamente vesto con pantaloni ampi, boots o mocassini, un giubbotto da aviatore sul dolcevita.
Per un’ipotetica serata di gala credo non ci sia nulla di meglio di un completo Tom Ford nero, pensando a un’uscita rilassata, invece, direi sneakers (ultimamente uso spesso un paio di classiche Nike, con swoosh bianco su base nera), pants comodi e un pullover girocollo in tonalità scure o neutre.


Tra i tuoi colleghi ce n’è qualcuno che può in qualche modo ispirarti?

Siamo ovviamente tutti diversi, i parallelismi si possono fare ma fino a un certo punto, detto ciò mi piace Parker van Noord, sta portando avanti un tipo di percorso cui ambisco anch’io.
Parlando di modelli di riferimento, allargherei poi lo sguardo agli attori, citando innanzitutto Marcello Mastroianni (attore immenso e icona di stile insuperata) e Brad Pitt, lo ammiro, oltre che sul piano attoriale, per i modi e l’eleganza che trasmette; mi colpì soprattutto nella cover story di GQ Italia di qualche tempo fa, tra l’altro ero presente in un servizio interno di quel numero.

Ci sono progetti in arrivo che vuoi anticiparci? Dal punto di vista lavorativo, cosa speri ti riservi il futuro?

Ho capito che in questa professione non c’è mai nulla di certo, magari puoi ottenere un lavoro e poi perderlo perché l’outfit non ti sta bene.
Il mio obiettivo principale, come modello, è viaggiare, visitare posti nuovi, incontrare persone, fare più esperienze possibili. Il sogno, invece, resta quello di lavorare nel cinema, non so nemmeno come, ci penserò nel caso a tempo debito.

Photographer: Riccardo Albanese

Model: Aurelio Baiocco @URBN Models

Alessio Viola: il mondo della comunicazione a 360° gradi

Giornalista e conduttore televisivo, Alessio Viola è un noto volto di Sky che abbiamo seguito con vivacità e curiosità per tutto l’autunno durante la messa in onda di Ogni Mattina su TV8.  A fronte della sua importante carriera che lo ha visto protagonista a Earth Day, Sky TG24, The X Factor e Venti20, lo abbiamo incontrato in una conversazione sul giornalismo cartaceo e televisivo.



Come è iniziata la tua carriera da giornalista ? E quella televisiva?

Ad essere sincero da ragazzino non volevo fare il giornalista. Mi piaceva la comunicazione, scrivere, la pubblicità, la televisione, la radio, etc… Non ho fatto la scuola di giornalismo, ma ho iniziato a lavorare come praticante in una redazione, ovvero la scuola migliore, che fin da subito ti mette faccia a faccia con la realtà e davvero ti insegna a muoverti in questo campo. Dopo che iniziai, mi resi conto che che la mia strada era proprio quella.

Parlando invece di giornalismo televisivo, è successo in maniera naturale: mi piaceva tanto la televisione, la seguivo con una vera e propria passione. Sono contento che la fase televisiva sia avvenuta dopo. Iniziare questa carriera sulla carta stampata mi ha permesso di crearmi un distinto bagaglio, sia pratico che culturale: capire, conoscere, toccare con mano le basi del mestiere, saperti muovere e organizzare; tutte nozioni che poi sono diventate utili e fondamentali nell’inquadramento televisivo.

Quando devi scrivere fai un lavoro più impegnativo per assurdo. Con la tv è più semplice: entra in gioco un’altro linguaggio che si basa sull’immagine. La palestra della carta stampata è stata fondamentale. 



Che differenze ci sono tra comunicazione cartacea e televisiva ?

Nella carta quando scrivi conta molto la capacità di raccontare e descrivere quello che vedi. Tuttavia hai il tempo a tuo favore e, almeno nel mio caso, riesco a scrivere in maniera rilassata. Con l’immagine è tutto più diretto e immediato. Per non parlare dei nuovi media, che hanno letteralmente abbattuto il muro temporale della comunicazione cartacea.

Abbiamo visto che proprio recentemente è iniziato un nuovo programma, Ogni mattina, su tv8, dove tu sei alla conduzione. Come sta andando?

Il programma è partito e procede alla grande. Tuttavia, con la pausa natalizia ho deciso di abbandonarlo. Da gennaio ci sarà infatti solo ed esclusivamente la parte legata all’intrattenimento, condotta da Adriana Volpe. 

Che taglio avete deciso di dare al programma? Abbiamo visto che eravate soliti invitare ospiti/opinionisti anche molto diversi tra loro. Che argomenti trattate di solito?

Il programma ha una doppia medaglia: se da un lato la leggerezza è predominante, ricordiamoci sempre che è la tv del mattino: affrontiamo le cose che succedono nel mondo in modo chiaro, semplice, approfondito, ma in modo chiaro e soprattutto semplice. Raccontiamo quello che succede intorno a noi, nel nostro caso l’emergenza del virus coinvolgendo esperti, opinionisti e testimonianze. Una sorta di telegiornale, ma intervallato da leggerezza ed intrattenimento, ad esempio con interventi e tutorial legati al mondo della cucina, della musica, della moda, etc.. Diversi sono i grandi nomi che sono stati ospiti nel programma, da  Joe Bastianich a Morgan, da Aurora Ramazzotti a diversi virologi, etc… Abbiamo coinvolto anche degli influencer, indiscussi protagonisti del web, con il fine di incrementare la visibilità del programma

Dove ti vedi nei prossimi anni ? Altri progetti in corso ?

Ho chiuso il 2020 con un programma che si chiama appunto Venti20, che racconta i primi anni 20 anni del 2000. Pensa che prima di Natale, con una serata speciale, ho chiesto a una giuria di giudici che cosa buttare e cosa salvare di questo anno assurdo. Per il prossimo anno sto lavorando ad un progetto ancora da definire che andrà in onda in primavera, sempre su TV8.

Carlo Merli: in questo periodo ci salverà la gentilezza

Convivenze forzate, parziali lock-down, l’Italia divisa in colori con regole diverse. Il nostro equilibrio fisico ma soprattutto mentale è stato messo a dura prova in questo momento storico segnato dalla pandemia globale. La psicoterapia più essere d’aiuto? Ansia e depressione, nemici sempre più agguerriti, possono essere sconfitti? Abbiamo incontrato lo psicoterapeuta Carlo Merli per approfondire con lui alcuni consigli al fine di trascorrere le festività il più serenamente possibile.



Come si diventa psicoterapeuta?

Quello dello psicoterapeuta è il percorso più lungo in Italia, accademicamente parlando. Richiede una formazione accademica molto precisa: dopo il proseguimento della laurea magistrale e dei vari tirocini segue la scuola di specializzazione di 5 anni per la psicoterapia.

Quali sono le caratteristiche che deve avere un bravo psicoterapeuta?

Avere un’ottima tecnica, essere rigoroso ma allo tesso tempo creativo. E’ la psicoterapia che si adatta al paziente e non il contrario! Lo psicoterapeuta è come un attore: versatile, si adatta alle diverse situazioni.



È difficile non farsi coinvolgere nel tuo lavoro?

E’ molto difficile. Solo l’esperienza ci insegna il modo migliore per essere coinvolti al punto giusto. Un atteggiamento distaccato ed un forte coinvolgimento potrebbero essere letali per il raggiungimento degli obiettivi della terapia. Ogni paziente che arriva da noi ha un bagaglio emotivo molto forte. Io in primis fatico a non farmi coinvolgere, ma l’esperienza insegna che la via di mezzo è quella che ci porta più lontani. 

Cos’è la terapia breve strategica?

E’ quella che utilizzo io: una nuova frontiera della terapia, portata in Italia da Giorgio Nardone che è stato il mio maestro. Da un punto di vista strategico per cambiare una situazione problematica non è necessario indagare le cause passate, ma risulta più utile lavorare sul problema nel presente e capire le strategie per creare un cambiamento efficace e duraturo. Per i principali disturbi come ansia, depressione, etc, ci sono specifici protocolli di intervento con una terapia di 10 sedute. 

Ansia o depressione, quale delle due è più presente in questo momento? 

Entrambi. Tuttavia la depressione è un disturbo secondario. L’ansia crea l’ambiente sfavorevole in cui le zone di conforto vengono ad essere sempre più strette e come conseguenza subentrano i sintomi depressivi. In questo momento storico si osserva un’alta percentuale di sintomi di tipo angoscioso. L’ angoscia, che è differente da paura e ansia, pone l’angosciato di fronte alla condanna certa del proprio destino. Come il virus che ci mette nella condizione di sentirci impotenti, di fronte a quello che è il nostro destino incerto. 

Cosa fare o evitare di fare in questo periodo per affrontare la situazione al meglio?

Evitare di parlare in continuazione del virus. Se parliamo troppo di un pensiero che ci tormenta, l’ansia ci travolgerà! Evitare la sovra-informazione. Evitare anche di sforzarsi a non pensare a qualcosa: pensare di non pensare è gia una forma di pensare! Consiglio invece di darsi da fare il più possibile: quante volte abbiamo desiderato più tempo per noi: ora lo abbiamo e lo possiamo sfruttare nel migliore dei modi dando sfogo libero alla nostra fantasia e creatività (riprendiamo in mano le nostre vere passioni come la lettura, gli allenamenti, la cucina, il cinema, etc…). Infine distribuire gentilezza. In una convivenza forzata abbiamo bisogno di regalare gentilezza per aggirare la rabbia. Più siamo gentili con gli altri più la casa in cui siamo obbligati a stare sembrerà un posto migliore. 

Matteo Piano: mi metto a nudo sperando che gli altri possano ritrovarsi nelle mie stesse fragilità

Giovane campione, non solo nello sport ma anche nell’editoria, Matteo Piano è un pallavolista centrale della Powervolley Milano. Tenace, intraprendente e creativo, l’atleta che ad un primo sguardo sembra non avere alcun tallone d’Achille, lo scorso anno ha pubblicato un libro insieme alla sua psicologa dello sport con l’obiettivo di condividere le sue fragilità e vulnerabilità alle quali, prima o poi, tutti  siamo soggetti. 



Come è nata la tua  professione attuale?

Ero giovane ed ho provato sport diversi. La pallavolo era quello che mi piaceva di più, giocavo come un ragazzo comune, da normale studente, non ero “invasato”, portavo avanti anche altre passioni e la pallavolo era una di queste.

A che età la pallavolo è diventata una professione?

Il mio motivo di vita trainante è sempre stato lo sport . La pallavolo è la mia vita e cerco di farla comunque coincidere anche con le mie altre passioni. Sono un atleta e cerco di dare spazio ai miei interessi, ed ho imparato tanto anche fuori dal campo. Mi sono dedicato più seriamente a questo sport quando sono andato via di casa a 18 anni e mi sono “buttato” per seguire il mio sogno. Attualmente gioco nella “Allianz Power Milano” da 4 anni.



Recentemente un grave infortunio ti ha bloccato per circa un anno. Come hai reagito ?

Era il quarto infortunio ma grazie alla mia esperienza sono riuscito a reagire. Non è stato facile perché è successo dopo una bellissima estate in Azzurro, ed ero in direzione per le Olimpiadi di Tokyo, che per “fortuna” poi sono saltate casa Covid-19. Sono sempre stato comunque molto indipendente e ho cercato di risollevarmi da solo. Mia mamma è stata un mito e mi ha assistito a Milano per diverso tempo al fine di sollevarmi. Quando sto male fatico a farmi vedere sofferente dalle persone che amo e cerco di coinvolgerle il meno possibile. Tuttavia amici stretti, famigliari e compagni di squadra mi hanno dato un grosso aiuto. Questo infortunio mi ha messo davanti ad un aspetto di grande affetto da parte dell’Italia in generale nei mei confronti.

Oltre ad essere uno sportivo ti sei lanciato anche nel mondo dell’editoria, pubblicando lo scorso anno un libro (lo steso giorno del tuo compleanno e dell’infortunio). Di cosa parla e a chi principalmente è rivolto?

La scrittura è sempre stato un buon strumento per esprimermi al meglio. Il progetto è nato perché ho iniziato a lavorare su me stesso con la psicologa dello sport Cecilia Morini, e mi sono reso conto di aver incontrato diverse problematiche e paletti che potevano essere molto comuni tra noi atleti e non solo. Un giorno le ho detto che sarebbe stato importante scrivere il nostro lavoro e la nostra esperienza su carta e cosi abbiamo iniziato a lavorare a questo progetto che racconta i punti deboli e le fragilità che si nascondono in ognuno di noi. Il fulcro del libro riguarda l’accettazione di alcuni lati del nostro carattere attraverso i quali si diventa più forti. Io mi metto a nudo sperando che gli altri possano ritrovarsi nelle mie stesse fragilità. Il libro l’ho scritto assieme alla mia psicologa ma è tutto frutto del mio cuore e dei miei sentimenti, molto spontaneo e sincero, proprio perché arrivasse nella maniera più diretta e immediata ai lettori. Ed è così che arrivo a realizzare il mio elaborato “Io, il centrale e i pensieri laterali” con la casa editrice “Baldini+Castoldi”.

Sia lato sport che editoriale, ci sono altri progetti in vista per il futuro?

Lato sport mi piacerebbe continuare a giocare e tornare a vincere come una volta: al primo posto tra i miei sogni c’è quello di arrivare a Tokyo per le Olimpiadi. Fuori vorrei continuare a crescere con “Brododibecchi” (il mio Brand etico) con il quale faccio diverse collaborazioni legate alla solidarietà, al campo editoriale e alla moda etica.

Giovanni Caccamo: “La musica è il paradigma delle emozioni”

Giovanni Caccamo è ormai un celebre cantautore. Inizialmente scoperto da Franco Battiato, vince la categoria “Nuove proposte” alla 65° edizione del Festival di Sanremo. L’anno successivo si guadagna il terzo posto nella sezione “Big” in duetto con Deborah Iurato e nel 2016, insieme a Bocelli, è uno dei protagonisti di “Music For Mercy”. Nel 2017 intraprende un’avventura televisiva come tutor nella scuola di Amici su Canale 5 e nel 2020 è ospite ai Seat Music Awards tenuti nell’Arena di Verona. La sua carriera oggi si muove tra musica e moda come testimonial per diversi brand lusso e ci racconta attraverso vissuti ed esperienze, il suo giudizio in merito alla correlazione tra la musica e la pandemia in corso.



Come è nata la tua passione per la musica ? Come è iniziata la tua carriera?

La mia passione per la musica è sempre stata un po’ una necessità, prima come ascoltatore e poi nel tempo anche come “cantautore”. Dopo la morte di mio padre, la musica è stata per me un rifugio, un porto sicuro; ascoltare tanta musica mi aiutato ad affrontare questi anni complessi.
A diciotto anni, mi sono trasferito a Milano dove ho cominciato a studiare architettura: già sognavo di fare il cantautore ma non scrivevo ancora le mie canzoni. Mi sono tuffato nello studio dei classici del cantautorato italiano per capire come funzionasse l’incastro tra parole e musica e iniziare a scrivere le mie prime canzoni. Ho capito che avrei potuto trasferire il mio vissuto e la mia emotività in canzoni inedite e la mia passione si è trasformata in vocazione, in necessità.
Per quattro anni ho bussato alle porte di numerose etichette discografiche e manager, ma nessuno si è mai fermato ad ascoltarmi. Nel 2012, a Donnalucata, ho incontrato Franco Battiato, mi sono appostato dietro un cespuglio per quattro ore, per consegnargli il mio disco. Il giorno dopo mi richiamò, manifestandomi l’interesse nel produrre il mio album.



È vero che è difficile come si pensa? Ci vuole solo fortuna?

Una delle cose più importanti che mi ha insegnato Battiato è stato il fatto di non avere mai l’arroganza di pretendere che arrivino canzoni nuove più forti ed ispirate rispetto alle precedenti. Noi siamo solo un tramite fra terra e cielo e le canzoni non appartengono a chi le scrive, ma a chi decide di ascoltarle.
L’arroganza è l’antitesi dell’arte, bisogna rimanere sempre umili, curiosi e perseveranti. Fare il cantautore è sicuramente complesso; la fortuna aiuta solo chi con dedizione e metodo investe la vita nelle proprie passioni, senza arrendersi davanti alle difficoltà.

La tua famiglia che ruolo ha avuto nel tuo percorso?

Mia madre mi ha sempre incoraggiato a proseguire gli studi. Arrivato a Milano ho infatti iniziato a studiare Architettura al Politecnico. Lei è sempre stata molto diffidente sul fatto che la musica potesse diventare un lavoro a tutti gli effetti. Tuttavia, mi ha sempre affiancato e supportato in modo razionale e lungimirante. Qualche anno fa ho pubblicato un romanzo epistolare “Dialogo con mia madre”, editore Rizzoli, che raccoglie una serie di scambi preziosi tra me e lei. La mia famiglia, le mie radici, sono le fondamenta della mia vita e della mia creatività.

Come si è ridimensionato il vostro settore ai tempi del covid?

Sicuramente l’impatto è stato molto doloroso. Migliaia di maestranze e lavoratori dello spettacolo sono tutt’ora fermi e in difficoltà. Io ho cercato, nel mio piccolo, di far viaggiare la mia musica in giro per l’Italia in una dimensione acustica, piano e voce. Ho percepito un gran desidero da parte del pubblico di ritornare ad emozionarsi, divertirsi e liberarsi attraverso la musica. È stato sicuramente uno dei tour più suggestivi e significativi della mia carriera. Qualche settimana fa è nata “Scena Unita”, un fondo solidale creato da un gruppo di artisti e personalità dello spettacolo, “Music Innovation Hub”, “La musica che gira” e “Cesvi Onlus”, per sostenere e supportare le persone più fragili del nostro settore.

La musica può essere una soluzione per il periodo storico che stiamo passando?

Penso che la musica sia sempre stato un mezzo fondamentale di comunicazione, forse più diretto rispetto ad altri; è il paradigma delle emozioni. L’arte e la creatività mi hanno salvato durante questa quarantena. Spero tutto questo ci porti a una riflessione profonda su ciò che siamo, sul nostro modo di vivere e approcciarci al mondo e agli altri. La musica continuerà ad essere il sottofondo portante di questo nuovo cambiamento.

Hotellerie vs Covid 19: il caso Planetaria Hotels

Contemporanei e al contempo legati saldamente alle tradizioni: d’altronde si sa, è dalla storia che dobbiamo imparare per formulare nuove soluzioni. Cosa significa questo per gli hotel del gruppo Planetaria? Essere ambasciatori di sostenibilità e valorizzatori delle eccellenze enogastronomiche. Planetaria Hotels è la compagnia alberghiera italiana che promuove la storia e le origini delle città che presidia. Hospitality è la parola-chiave del gruppo.


Planetaria Hotels è presente sul territorio nazionale con 11 strutture alberghiere di pregio a quattro e cinque stelle ubicate nel cuore di alcune città d’arte e di suggestivi borghi antichi. Fanno capo a Planetaria Hotels: Château Monfort, Enterprise Hotel, Milan Suite Hotel, Hotel Indigo Milan, Residenza delle Città a Milano, BEST WESTERN Villa Appiani a Trezzo sull’Adda, Grand Hotel Savoia e l’Hotel Continental a Genova, Hotel Ville sull’Arno a Firenze, Hotel Pulitzer e Leon’s Place a Roma.


Noi di Man in Town abbiamo intervistato Damiano De Crescenzo, il direttore generale di Planetaria Hotels. Egli è docente universitario, cavaliere del lavoro, vicepresidente del gruppo turismo in Assolombarda e premiato come Hotel Manager of the Year 2012.


Avete hotel in diverse città che in questo momento sono divisi da zone colorate, quali sono aperti ? Qual è la situazione attuale dell’ hôtellerie in questo periodo?

In questi giorni stiamo completando la chiusura di 6 alberghi e ne lasceremo aperti 5 di cui:  Enterprise Milano (ospita giornalisti e personale medico e sanitario del nuovo ospedale di terapia intensiva in Fiera Milano City) ed Indigo Milan (il più centrale di fianco alla Prefettura); Grand Hotel Savoia Genova (la città che continua a generare un po’ più di movimento) e Continental Genova (ospita in esclusiva una troupe cinematografica che gira da mesi un film) e Leon’s Place in centro a Roma.  Il settore alberghiero è quello economicamente più colpito insieme a quello del trasporto aereo.

L’impatto devastante per il turismo è noto a tutti. Voi avete comunque aperto l’Indigo a Milano e rinnovato il Leon’s Place a Roma, è una strategia di mercato? 

Si, ci teniamo comunque ad essere presenti per ogni esigenza e a mantenere la nostra visibilità costruita assiduamente negli anni.

Avete creato diverse iniziative durante il lockdown come il Food delivery di Chateau Monfort, ci sono altre iniziative ?  

Si, il delivery è stata un importante iniziativa ma non è tutto. Nei mesi in cui è stato possibile riavviare le attività, seppure con forti limitazioni, abbiamo lanciato i meeting ibridi dotando le nostre sale congressi di tecnologia avanzata per permettere di far svolgere meeting importanti con la maggior parte dei partecipanti a distanza, facilitando sia loro che i partecipanti in sede con interventi, videoriprese, presentazioni di slides, documenti etc.

Inoltre lo smart working in albergo ha avuto, e continua ad avere anche in lockdown, notevole successo in quanto consente di rendere tale attività maggiormente sicura, ottimale e di successo.

Chateau Monfort

Una quota di quanto è stato ed è devastante il Covid nel campo del turismo a Milano, Roma e Firenze? 

Il turismo in queste città è crollato oltre l’80% e quasi il 100% quello intercontinentale, tradizionalmente più redditizio.

Come è nato il suo amore per l’ hôtellerie?  

Per caso, già all’età di 15 anni con il desiderio di andare tanto in giro, lavorare subito (già durante il periodo scolastico) anche per avere l’autonomia economica, imparare le lingue straniere e conoscere tanta gente di diversa provenienza. Il resto lo hanno fatto gli alberghi e le persone che ho incontrato.

Quanto è importante essere affiliati ad una catena come per esempio Relais Le Chateau (Relais & Chateaux)? 

 E’ molto importante perché ci rende parte di un Gruppo di dimore che hanno principi in comune ed una clientela ispirata a quei valori. Inoltre, la condivisione delle esperienze tra le persone dei diversi alberghi e le linee guide della Casa madre fa sì che avvenga una crescita professionalmente importante per tutte le persone che ne fanno parte.

Quanto è importante il mercato della moda nei vostri Hotels? 

Molto importante e grazie al nostro motto “be as you are” che ben ci rappresenta, riusciamo ad essere in forte empatia con il settore, a volte anticipandone anche i trends.

Quanto è importante l’eco sostenibilità?

Da anni siamo in campo su questi principi ai quali crediamo tantissimo e ci siamo molto impegnati. Abbiamo fatto importanti scelte anche sulla ristorazione e questo ci ha premiato ed arricchito di soddisfazioni. In particolare abbiamo puntato tantissimo su un modo “slow” di fare ristorazione prediligendo le eccellenze e tradizioni locali, la stagionalità, la sostenibilità e le sane abitudini alimentari. Un lavoro impegnativo ma ricco di soddisfazioni. Poco prima del lockdown abbiamo lanciato lo slow-breakfast che nulla ha a che vedere con i ricchi e standard buffet internazionali. La presentazione dei cibi locali di cui si conosce bene sia la provenienza che la sana produzione, dalle uova ai formaggi ed i salumi, la frutta di stagione, le torte con le vecchie tradizionali ricette ecc., diventano un vero e proprio storytelling esperienziale.

La privacy è importante… ma qualche nome internazionale che è stato vostro ospite si può dire?

 La lista è lunga ma ne citiamo alcuni: Bill Gates, Michail Gorbaciov, Bud Spencer, Ennio Morricone, Mario Monicelli, Franco Battiato, Gigi Proietti, Paolo Sorrentino, Nanni Moretti, Maria Grazia Cucinotta, Sophia Loren, Pierfrancesco Favino, Alessandro Preziosi, Emma Marrone, Elisa, Antonello Venditti, Lamia Kashoggi, Ahmad Joudeh, Anastacia, Monica Bellucci, Virginia Raffaele, Nicole Kidman, Tim Roth, Andrei Shevchenko, Ben Harper, Zucchero Fornaciari, Carla Fracci, Daniel Pennac, Ron Perlman, Red Canzian, Gianna Nannini, Claudio Baglioni,  Umberto di Savoia, Amedeo di Savoia, Irene di Savoia.

A lezione di yoga con Vincenzo Lamberti

Abbiamo incontrato Vincenzo Lamberti (@vvvinsss) yoga teacher presso [hohm] street yoga Milano. Da sempre interessato al movimento in ogni sua forma e alla cura ed il benessere del corpo, Vincenzo decide di abbandonare il mondo della moda in cui lavora per dieci anni come designer, prima diventando prima personal trainer, per poi trovare nell’insegnamento dello yoga il percorso che meglio si adattava alle sue naturali predisposizioni: “ho così potuto fondere la passione per il corpo in movimento a quella per le filosofie orientali, a cui già da tempo mi dedicavo attraverso lo studio”.

La scuola in cu insegna è stata fondata da Marco Migliavacca e Giovanna De Paulis, e le sedi milanesi sono due, una in viale Tunisia 38 e l’altra in via Solari 19.
Da oltre 10 anni il centro si dedica allo studio e all’insegnamento dello yoga in modo a-dogmatico, con un’offerta che spazia dal vinyasa allo yin e al restorative, e rivolge la sua attenzione tanto agli aspetti sottili e tradizionali della disciplina, fra cui il pranayama, quanto a una più moderna ricerca, come l’introduzione in Italia del metodo Katonah yoga.
La scuola affianca in calendario classi multilivello a percorsi pensati appositamente per i principianti, e di recente si è aperta anche a persone con disabilità o semplici difficoltà motorie, proponendo lezioni di yoga adattivo.
Per completare la ricerca di chi vuole approfondire lo studio dello yoga e portare la propria pratica a un nuovo livello di consapevolezza, [hohm] street yoga organizza inoltre formazioni, ritiri e laboratori con insegnanti italiani e internazionali.


Vincenzo Lamberti posizione yoga ponte
Vincenzo Lamberti posizione yoga
Vincenzo Lamberti posa

Come è nata la tua passione per lo yoga? Raccontaci il tuo percorso.

L’interesse per le filosofie orientali e la meditazione, unitamente ad un’istintiva esigenza di esprimermi attraverso il corpo ed il movimento, mi hanno portato per la prima volta a sperimentare la pratica dello yoga, che inizialmente era però circoscritta a ritagli di tempo che difficilmente riuscivo a riservarmi, in quanto assorbito dai ritmi lavorativi particolarmente intensi. Solo quando ho trovato il coraggio di lasciare la mia precedente attività lavorativa e mettere così in discussione quelle che fino ad allora erano state le mie certezze, fonte in realtà anche di insofferenza e blocchi, ho avuto modo di approfondire il mio rapporto con la pratica, scoprendo in essa uno strumento di conoscenza della nostra più profonda essenza e un potente stimolo al cambiamento.

Quale tipo di yoga pratichi e quali sono i benefici di questa disciplina?

L’approccio metodologico che prediligo è quello del Vinyasa Krama, che consiste nel creare una struttura ordinata e graduale di posture o asana che si inseriscono in una sequenza dinamica, in cui ogni movimento è connesso e supportato in primis dal respiro, ma anche da altri elementi quali visualizzazioni, meditazioni, bandha, mudra ecc. Il tutto infatti concorre a focalizzare l’attenzione su ciò che si sta facendo nel momento presente, rendendo così il corpo più consapevole dei propri movimenti nello spazio e la mente sempre meno in balia di pensieri che possano proiettarla nel futuro o tenerla ancorata al passato. Oltre ai benefici fisici in termini di flessibilità, resistenza e qualità del respiro, la pratica diviene così una sorta di meditazione dinamica che ci aiuta ad allenare la nostra concentrazione e a liberare la mente da ansie e stress.

Quanto è importante la respirazione e come si pratica correttamente?

Fondamentale è l’utilizzo corretto del respiro durante la pratica; alle sue fasi infatti coordiniamo le diverse tipologie di movimento ed è inoltre considerato un punto di connessione tra corpo e mente: come il nostro sistema corpo-mente e le emozioni che si generano in esso in base agli stimoli esterni possono influenzare il nostro respiro rendendolo più agitato o calmo, allo stesso modo attraverso il controllo consapevole del respiro (pranayama) possiamo modificare tutto il nostro sistema. Oltre ad essere la nostra principale guida durante la pratica per mantenere il giusto raccoglimento, il pranayama stimola profonde trasformazioni fisiologiche, rende più limpida la mente, portandoci gradualmente a modificare i nostri schemi abituali, ed amplia la nostra capacità respiratoria rinforzando così la nostra salute.

Un tuo consiglio per avvicinare una persona a questo mondo?

Se dovessi dare un consiglio per far si che una persona si avvicini a questo mondo direi semplicemente di lanciarsi e provare, in quanto solo l’esperienza diretta può dare una chiara idea di quanto si possa essere in sintonia o meno con questo tipo di pratica. Consiglierei inoltre di provare anche diversi tipi di insegnanti e metodi, in quando ciascuno può avere qualcosa di diverso da offrire ed ogni allievo si sentirà più a suo agio in determinate modalità piuttosto che in altre.

Intervista a Miguel Gobbo Diaz: “fuori dalle scene conduco una vita bucolica”

Miguel Gobbo Diaz, attore italiano di origini Domenicane, ma la sua città è Vicenza, anzi il veneto come ci confermano il suo accento ed i suoi oramai imperdibili TikTok.

La gavetta lui l’ha fatta ed anche seriamente, dopo due tentativi è riuscito ad entrare nell’ambitissimo Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma dove ha studiato e si è diplomato.

Oramai il Grande pubblico lo riconosce per la serie TV di RAI1 “Nero a metà” di cui è protagonista e di cui sta per arrivare la seconda stagione.

Dimmi subito qualche news sulla seconda stagione?

Non posso dirti troppo, però è finita, ed è pronta, stiamo solo aspettando la data della messa in onda, che doveva già essere programmata, poi con il lockdown, ovviamente i palinsesti hanno inevitabilmente subito dei cambiamenti.

La buona notizia è che la RAI sta mandando proprio in questi giorni la replica della prima serie così chi se la fosse persa, può recuperare.

Parlami del tuo personaggio in “Nero a metà”

Il mio ruolo è quello di Malik Soprani e sono un poliziotto, il quale si ritrova a lavorare con Carlo Guerrieri che sarebbe Claudio Amendola, il fatto è che non vanno assolutamente d’accordo, anzi non si sopportano proprio, e poi tra una tensione l’altra risultano funzionare molto bene come coppia e come squadra.

Per chi ti segue sui social, la tua è una vita bucolica!

Si, ho la fortuna di avere i miei che vivono in campagna in Veneto, tre giorni prima della chiusura dell’Italia ero a Roma e poi mi son detto magari salgo su per un weekend in quanto poi avrei dovuto girare un progetto nuovo e non sarei più potuto risalire.

Poi è successo il delirio che tutti noi conosciamo e son fortunatamente rimasto qui e con l’occasione ho potuto aiutare mio padre con qualche lavoretto riscoprendo i valori della natura.

Quindi hai preso le usanze della tua regione, si beve senza domani?

Beh, diciamo che da ragazzino si, ora però molto meno anche se non posso negare che qui gli aperitivi con gli amici sono sempre importanti.

Qui c’è una vera e propria tradizione del vino ne dello Spritz.

Ti sei mai dovuto scontrare con un pregiudizio nei confronti della tua pelle?

Sinceramente no, ho avuto pochi amici neri, ho sempre avuto amici della zona di Vicenza, forse son stato fortunato ma non saprei, però penso che a volte i pregiudizi ce li creiamo noi, e magari basta distogliere l’attenzione e non dare importanza ad un solo primo sguardo.

Difficile che io non sia simpatico, ma può succedere.

Come ti sei avvicinato a questo mestiere?

Decisamente per caso, a scuola, non conoscevo esattamente il teatro, poi un pomeriggio mi hanno offerto la possibilità o di fare i compiti o di fare teatro, e la scelta è stata facile, a me non piaceva studiare.

Da li ho iniziato con quel corso di recitazione e non mi son più fermato.

Moscot apre il suo secondo flagship store in Italia

MOSCOT, l’iconico brand di New York, con 105 anni di storia e istituzione nel mondo dell’eyewear, ha aperto il secondo flagship store in Italia. La nuova location, aperta lo scorso del 12 dicembre, occupa 65 mq in via Ponte Vetero 22 a Milano. Lo spazio combina lo stile distintivo del brand con l’atmosfera suggestiva di Brera, incarnando  lo spirito classico, storico e metropolitano del brand , nella capitale globale della moda e del design. In occasione dell’apertura abbiamo incontrato Harvey Moscot, il celebre CEO del brand.

Harvey e Zack Moscot

Moscot è un brand storico collegato alla città di New York. Cosa rappresenta questa città per il brand?

New York è la città dove tutto è cominciato, in un quartiere formato da artisti, registi, musicisti, e questo ha dato un’impronta decisiva per la storia del nostro brand. Questi sono stati i primi clienti che sono venuti nel nostro negozio e che abbiamo servito diversi anni, motivo per cui abbiamo rapporti con attori e musicisti famosi. New York inizialmente ci ha spinto molto, e penso che rappresenti anche tutti gli immigrati che sono giunti in America, il meltin pot e la diversità del nostro pubblico.

Come mai gli occhiali significano così tanto per l’ambito del fashion?

È partito tutto con gli occhiali da vista, che erano visti dalle persone come un dispositivo medico, e adesso se ci pensi sono la prima cosa che notiamo quando guardiamo qualcuno. Al pari dell’abbigliamento e degli accessori, non capisco perché sia necessario un solo paio di occhiali da vista e magari cinque cinture. In Europa gli occhiali sono visti come accessori da molto più tempo rispetto all’America, dove sono diventati un oggetto cool da meno tempo.

Quanto influiscono i social media sul vostro brand?

Moltissimo, se ne occupa mio figlio che ha molta attenzione verso il mondo del digitale. Per noi è un modo per interfacciarci e comunicare con i nostri clienti e amici in tutto il mondo. Abbiamo quasi 200000 followers su Instagram, e sono tutti organici. I nostri migliori influencer sono le persone che ci scelgono, ovviamente i cantanti (stranieri ma anche volti noti in Italia) musicisti ed esponenti del jet set. Non ci interessa adottare trucchi o eccessive strategie.

So che è anche appassionato di musica, in questo frangente ci sono nuovi progetti?

La musica è molto importante per me, suono la chitarra e scrivo canzoni. Per quanto riguarda le nuove aperture dei negozi cerchiamo di collaborare sempre con i dj, come è stato a Los Angeles con Chromeo e sempre con loro stiamo lavorando ad una potenziale collaborazione per il prossimo anno. 

Cosa significa per lei eleganza?

L’eleganza è un concetto senza tempo, fatto di capi classici e iconici. Quindi direi che per noi l’eleganza è “timeless design”.

Come mai ha scelto Milano come seconda città italiana per l’apertura?

Il nostro primo store è a Roma, ed era giunto il tempo di cogliere l’opportunità di aprire a Milano. Abbiamo sempre voluto essere in questa città perché è il centro della moda europea. Ci è piaciuta subito e per certi aspetti ci ha ricordato la nostra New York. 


®Riproduzione riservata

Intervista a Riccardo Maria Manera

Riccardo Maria Manera ha iniziato a recitare davvero prestissimo, a soli quattro anni, poi non ha pensato di fare questo mestiere fino all’età adulta. Ora non ha dubbi: la sua strada è questa e gli sta regalando tantissime soddisfazioni, infatti lo vediamo tra i protagonisti di “volevo fare la rock star su Rai2”.

Hai iniziato a teatro nel lontano ‘98 a soli 4 anni, portando avanti 180 repliche di “Pensaci Giacomino”. Che ricordo hai, se lo hai?

Confermo tutto! Diciamo che è il ricordo che qualsiasi altro bambino ha dell’asilo, ecco il mio è stato un po’ diverso, solo questo. Potrei dirti qualche sporadico flash sul palcoscenico, o qualche giochino per farmi rimanere in scena senza correre il rischio che scappassi via. Qualcosa dev’essermi rimasto per forza sennò non farei la stessa cosa a venticinque anni.

Diciamo che la tua carriera era già scritta o hai mai pensato di fare altro nel frattempo?

Non ho mai voluto far l’attore fino a vent’anni, essendo figlio di attori, ho dovuto ribellarmi al volere della famiglia e quindi sognavo di fare altre cose. Nonostante loro intravedessero un talento e volessero farmi fare dei corsi, io ho desistito dicendo di no. In realtà volevo fare il giornalista sportivo, poi il destino invece mi ha portato sul set, ed ho capito che questo era il mestiere più bello del mondo ed avrei voluto continuare così.

Quale è stata la scintilla che ti ha fatto capire che era questa la strada da percorrere?

Era l’opera prima di Irene Pivetti, ed avevo una figurazione speciale, nel preciso istante in cui mi son trovato davanti alla macchina da presa, non posso dire altro che me ne son innamorato.

Ora sei in tv con ‘Volevo fare la rock star’, ti senti un po’ rock?

Sono quanto di più distante dal mio personaggio, per me il massimo della gioia sono divano e zapping. Diciamo che ho dedicato molto tempo ad Eros per capirlo, lo definirei un bell’incontro. Mi ha fatto vedere la vita sotto un altro punto di vista travolgendomi completamente.

In prima serata su rai 2 portate in scena baci omosessuali, non è da poco, che hai pensato quando hai letto il copione?

Beh, mi son detto “che audacia!”, anche se essendo alle porte del 2020 non dovrebbe nemmeno più far parlare in quanto naturale e normale se vogliamo dire.

Pensi che iniziare a lavorare così presto ti abbia tolto qualcosa della vita di un ragazzino?

Assolutamente no, perché a parte il periodo dell’asilo che non ho fatto, poi grazie ai miei genitori condotto una vita molto normale. Ho fatto veramente tutto e anche peggio, tipo sei anni di liceo classico, son stato anche bocciato.

Dove ti senti più a tuo agio o comunque ti piace di più tra cinema, tv e teatro?

Il teatro forse dovrei approfondirlo, perché alla fine dei conti non ne ho fatto tantissimo a parte il periodo del centro sperimentale. La TV adesso è la mia casa, semplicemente perché ho una serie in corso, però non c’è nulla che metterei al primo posto.

Hai 25 anni, che rapporto hai con i social?

Sono cresciuto con loro, ho scoperto di essere un Millenial da poco, diciamo che Facebook non lo uso quasi mai e preferisco Instagram in quanto più immediato. Realmente non penso di essere molto capace, vedo che i miei cuginetti sono molto più bravi di me.

®Riproduzione riservata

Al Lamezia International Film Festival trionfa Jean-Jacques Annaud

Jean-Jacques Annaud è forse uno dei registi più celebri e più simpatici al mondo, il vero francese cha ama la vita e tutto ciò che di bello può offrirle. La sua carriera inizia con un Oscar al suo primo film “Bianco e nero a colori”, come asserisce lui, difficile andare avanti con il supporto della critica, ma Annaud è riuscito egregiamente, lo abbiamo incontrato al Lamezia International Film Festival dove ha ritirato il premio Carl Theodore Dryer.

Hai vinto tutti gli awards al mondo, quale statuetta ti manca a casa?

Non posso assolutamente lamentarmi, ho avuto una carriera fantastica, non credo di aver bisogno di altri premi. Posso dirti una curiosità però a riguardo, ovvero sono sempre stato invitato al festival di Cannes, ma ho sempre rifiutato di andarci. Son sempre stato amico di tutti quelli che si occupavano della selezione e del management della manifestazione, il mio problema è che avendo avuto troppi successi precedentemente, sarei solo stato l’uomo da distruggere a Cannes. La questione è che c’è troppa stampa in quel Festival, e in ogni modo devono trovare qualcosa da dire. La mia problematica personale è che ho vinto un Oscar per il mio primo film, ed è difficile da superare come situazione, infatti sapevo che qualsiasi film avessi fatto avrei avuto la stampa contro.

Hai avuto colleghi con la stessa esperienza?

Sì, assolutamente, uno dei miei più cari amici è Luc Besson, ed ogni volta che è andato invece che ricevere applausi ha solo ricevuto pallottole da una macchina spara palle. Essere messi alla gogna non fa mai bene alla creatività di un artista.

Uno dei film più celebri rimane “Il nome della Rosa”, volevo sapere se avessi realmente girato realmente a Torino alla Sacra di San Michele il film.

La storia è che il film è ovviamente tratto dal romanzo di Umberto Eco, il quale, è poi diventato un carissimo amico, ed all’inizio ha voluto che visitassi il luogo che lo aveva ispirato. Ma poi non ho girato li, ho ricostruito tutto il set in studio a Roma con il grandissimo Dante Ferretti, il quale ne ha vinti più di me di Oscar. È costato una fortuna, infatti la produzione non era felicissima, ma poi i risultati son arrivati, quindi tutti contenti. Fu il più grande set mai costruito a Cinecittà dai tempi di Cleopatra. È stato impegnativo ma non riuscivo a trovare un posto che si avvicinasse a quello che mi ero immaginato quando ho letto il libro.

Hai fatto lo spot di Jadore di Dior con Charlize Theron, ed è subito diventato cult per i fashionisti, tutto quello che fai diventa magico.

Allora non ho fatto tutto da solo, è stata una sinergia di elementi messi insieme, in quanto Charlize era già testimonial per il brand. Io ho avuto l’idea di girare a Versailles, ma è molto difficile avere il permesso di fare una cosa del genere. Quando l’ho detto ad un meeting con Bernard Arnault, il proprietario del marchio LVMH, tutti i presenti mi hanno guardato come se fossi pazzo, nel frattempo Bernard si era alzato, ed io credevo fosse per andare in bagno, ma no è tornato è ha detto ok si gira alla “Galleria degli specchi”. Bisogna pensare ed osare nella vita.

®Riproduzione riservata

Intervista ad Alessio Bernabei, ex Dear Jack

Classe 1992, fonda i Dear Jack con cui vince il premio della critica ad Amici di Maria de Filippi e pubblica due ep. Il 2018 vede l’esordio da solista: si presenta a Sanremo con il singolo d’esordio, Noi siamo infinito. Sempre nello stesso anno pubblica il disco solista “Senza Filtri”.

A un anno di distanza è tempo di bilanci, per questo noi di ManInTown abbiamo intervistato in esclusiva uno dei più promettenti volti della nuova musica italiana: Alessio Bernabei.

È passato un po’ di tempo da quando hai deciso di intraprendere la carriera da solista. Tante soddisfazioni. Un bilancio di questi quattro anni?

Mi ritengo molto fortunato, in passato non avrei mai pensato di riuscire a lavorare con la mia passione piu grande. Ci sono state soddisfazioni ma anche tanti momenti duri e prove da superare. Oggi mi sento un Alessio cresciuto e più consapevole, sia a livello personale che sul lato musicale.

Ci sono artisti (italiani o internazionali) che ammiri particolarmente?

Nel corso degli anni ho attraversato varie fasi musicali, ho amato artisti come Frank Sinatra, Michael Jackson, Stevie Wonder, Green Day, Goo Goo Dolls e altri. Sto seguendo anche molti artisti emergenti che promettono molto bene.

Quale è il tuo look tipico, il Bernabei style? Descrivicelo.

Non sono un amante di stili particolarmente costruiti. Mi piace essere me stesso anche nel modo di vestire, per sentirmi sempre a mio agio, libero e sicuro di quello che indosso. Amo molto lo stile vintage. Sono cresciuto con i grandi film cult del cinema hollywoodiano che hanno influito molto sulla mia personalità.

Così come la musica che ho ascoltato, dal punk all’R&B. Molte volte prendo dall’armadio le prime cose che capitano. Proprio per questo ho uno stylist che mi consiglia e mi porta sempre sulla strada giusta. 

Dopo l’edificante esperienza sanremese pensi di riprendervi parte?

Con il brano giusto, il festival di Sanremo è una vetrina che ti può dare tantissimo discograficamente parlando. Rivivrei volentieri le fantastiche emozioni di quel palco.

Nuovi progetti in cantiere?

Sto scrivendo molto, passo molto tempo in studio a buttare giù nuove idee e creare nuova musica. Aspetto il momento giusto per farla uscire e condividerla col mondo.

Hai una routine di bellezza?

Per barba e capelli lascio fare al mio barbiere. Uso qualche volta creme idratanti per il viso prima di andare a letto. Non amo molto la pelle secca. Sono consapevole però del fatto che le mie occhiaie non mi abbandoneranno mai.

Passioni oltre la musica?

Nel mio tempo libero amo gustarmi tanti bei film, che mi regalano ispirazione sia per la musica che per la vita di tutti i giorni. Possiedo una Harley Davidson e quando sono a casa nelle belle giornate salgo in sella per sentirmi libero e in pace col mondo. Scarico tutto lo stress accumulato. Sono appassionato di cafè Racers e moto d’epoca.

Un’ultima domanda: sei felice oggi?

Si, posso reputarmi felice. La felicità per me è avere una famiglia in salute che crede in me ogni giorno. Essere circondato da amici su cui posso fare affidamento e poter continuare a vivere tutta la vita del mio pane quotidiano: arte e musica.

alessio-bernabei-ex-dear-jack
Leather Jacket: Dead Wood Tracksuit: LEO Studio Design Pants: Bakery Svpply Shoes: Premiata Ph: Giuseppe Laguzzi Stylist: Davide Turcati, Caterina Michi

Ph: Giuseppe Laguzzi
Stylist: Davide Turcati, Caterina Michi

®Riproduzione riservata

Jack Jaselli, on the road sulla via Francigena

Su Real Time e disponibile su Dplay il documentario “Torno a casa“ a tempo di musica del cantautore milanese da ottobre.

Jack Jaselli, cantautore milanese, ha deciso di partire per un’avventura indimenticabile, attraversando con uno zaino e una chitarra la via Francigena, da Milano a Roma nel documentario “Torno a casa”.

32 tappe in 40 giorni, 15 concerti, 800 km a piedi. Patrocinato da Legambiente e grazie alla collaborazione delle Regioni e dei Comuni della Via Francigena, in questo viaggio iniziato il 16 aprile a Pavia e concluso a Roma il 23 maggio, Jack porta la sua musica in luoghi unici.

L’improvvisazione musicale è il leitmotiv del format di Jack Jaselli.

Nelle tappe del suo percorso Jack incontra anche “ospiti speciali” con cui condivide la sua esperienza e la sua musica, come Boosta, fondatore e tastierista dei Subsonica, Michele Dalai, giornalista e conduttore, insieme ad altri scrittori, autori e registi. Stay tuned! Jack si è raccontato in esclusiva per noi di Man in Town.

jack-jaselli-in-un-campo

Partiamo dalla musica, dal tuo ep di esordio “It’s gonna be rude, funky, hard” fino al tuo primo album in italiano dell’anno scorso chiamato “Torno a casa”. Un bilancio di questi anni?

Sono passati quasi dieci anni dalla pubblicazione del primo album e se mi fermo un secondo a guardare è successo davvero di tutto. Sono partito con un disco registrato in cantina, suonando 70 volte in un anno solamente a Milano in locali che spesso erano grandi come il salotto di una casa. Ho registrato un disco acustico dal vivo in una grotta sul mare, suonato negli stadi, di nuovo in locali piccoli e accanto ad alcuni mostri sacri.

Ho registrato un album in California con un produttore d’eccezione, collaborato con Lorenzo Jovanotti, Guè Pequeno e altri amici. Poi ho iniziato a scrivere e cantare in italiano e ho pubblicato un disco prodotto dal grande Max Casacci. Per me il cambiamento di lingua è stato una svolta epocale. Allo stesso tempo ho iniziato a sentire il bisogno di raccontare la musica anche in altre forme ed è iniziata la mia collaborazione con Real Time con cui ho girato due documentari.

Il primo, “Nonostante Tutto” racconta la storia di una canzone scritta insieme alle detenute del carcere femminile della Giudecca a Venezia. Il secondo è “Torno A Casa” e racconta del mio tour musicale a piedi lungo la Via Francigena.
Nel frattempo, il mondo musicale è cambiato: mille correnti sono nate, scomparse o si sono trasformate. Il mercato della discografia e la scena live hanno subito rivoluzioni e ribaltamenti. Eppure, sembra passato un batter d’occhio.

Negli anni hai suonato con artisti del calibro di Ben Harper, hai collaborato con Guè Pequeno e Jovanotti e la lista prosegue. Vuoi regalare un aneddoto ai nostri lettori durante queste session? Sentiti libero di scegliere l’artista, o magari se ce ne vuoi raccontare più di uno.

C’è una cosa divertente e significativa che è successa ad Imola. Eravamo stati chiamati ad aprire il concerto di Ben Harper, ed eravamo esaltatissimi. Aspettavamo con trepidazione di fare il soundcheck perché si era fatto molto tardi e si stava avvicinando inesorabilmente l’ora dell’apertura dei cancelli.

Sembrava tutto pronto, i Relentless Seven avevano finito le loro prove, il nostro fonico era già dietro al mixer e noi aspettavamo a bordo palco. Ciò nonostante, non potevamo allestire la nostra scena: Ben Harper non sembrava intenzionato a scendere dal palco.

Il sole aveva iniziato a scendere e una luce ambrata si stendeva sulle tribune e sul prato mentre una brezza leggera anticipava il crepuscolo. Tutto era magico e calmo, a tal punto che Ben era completamente rapito e assorto tanto da restare sul palco a improvvisare con la chitarra acustica senza rendersi conto del tempo che passava.

Nessuno del suo entourage aveva il coraggio di interromperlo e noi ci godevamo lo spettacolo. Facemmo il nostro soundcheck con parte del pubblico già presente, ma non ce ne importava niente. Quando ami davvero ciò che fai, il tempo non conta più nulla.

Ora passiamo allo stile: il tuo animo gipsy traspare anche dal tuo look. cosa non manca mai nella valigia di jack jaselli parlando di abbigliamento?

Direi che ci sono alcune cose che amo avere sempre con me. Un cappello a tesa larga, specialmente uno Stetson, un chiodo in pelle nera e degli scarponcini o stivaletti di pelle. Spesso quando suono indosso uno degli anelli portafortuna che ho comprato in New Mexico e negli ultimi anni hi iniziato ad amare gli orologi da polso classici e vintage, rigorosamente automatici.

Ora qualche curiosità per conoscerti meglio, oltre alla musica hai altre passioni o hobby?

Sono un avido lettore e un accumulatore quasi seriale di libri. Amo anche scrivere, soprattutto raccontare dei miei viaggi che sono un’altra delle mie ragioni di vita. Mi piace il pugilato e andare a camminare in montagna e cimentarmi in qualche facile scalata.

Amo il surf: è da molto che non salgo sulla mia tavola ma quest’anno mi sono promesso di rimediare. La mia compagna mi ha trasmesso la sua passione per lo yoga e la meditazione. Vado nettamente più forte sulla seconda!

jack-jaselli-suona-la-chitarra-al-tramonto

E tornando alla musica ma rimanendo sul viaggio, a ottobre debutta su Real Time “Torno a casa”, storia del percorso che hai intrapreso a ritmo di musica e jam session sulla via Francigena da Roma a Milano. Vuoi parlarcene meglio?

In un mondo dove tutto cambia freneticamente, come quello musicale, mi sono chiesto come potesse essere fare un tour partendo a piedi da casa portandosi dietro solo una chitarra e uno zaino. Avevo bisogno di recuperare la forma più semplice della mia musica e riconnettermi con dei ritmi e dei tempi più umani e necessariamente più dilatati. Questa è stata la scaturigine di “Torno A Casa” e del tour a piedi.

Il cammino più adatto a questo scopo era senza dubbio la Via Francigena. Ho iniziato a percorrerla da Pavia, facendo una tappa zero che dal portone di casa a Milano mi ha portato in 35 km a piedi alla partenza della prima tappa. Durante le 32 tappe ho tenuto 15 concerti, praticamente uno ogni due giorni, è stato un viaggio unico.

32 tappe, 15 concerti, 800 km: un luogo che ti ha particolarmente colpito in questo viaggio? Immagino saranno più di uno…

Mi sono messo in cammino per ascoltare prima ancora che per suonare. Per conoscere e capire di più il nostro paese e non ho esitazioni nel dirti che alcuni incontri ed alcuni luoghi hanno avuto un fortissimo impatto.

Ho salito il passo della Cisa inondato da fiumi di fango e pioggia per poi discenderlo con un sole fantastico e fermarmi a Toplecca Di Spora (population 5) e fermarmi a suonare in una Iurta Mongola triplicando la popolazione del paese e auspicabilmente aumentandone la natalità.

Deviando dal percorso sono stato ospite dell’Istituto Lama Tzong Khapa, importante centro di studi buddhisti, e nel giro di un pomeriggio mi sono trovato ad essere benedetto dal Lama e a suonare nel Gompa Cerensig, il loro tempio sacro. Ho improvvisato con Boosta un concerto sotto la Rocca del Tentennano in Val D’Orcia, per poi cenare con i Cantori del Maggio che preservano una tradizione che sta scomparendo.

Questi sono solo alcuni esempi di quello che è accaduto e che potrete vedere nel docufilm. Quando viaggi camminando e suonando le esperienze ti rimangono nell’intero sistema nervoso, non si fermano agli occhi.

Ti sei sentito a tuo agio di fronte alle telecamere? Insomma, come è stato l’approccio con il format televisivo?

Non era la prima volta che mi trovavo a lavorare per un prodotto televisivo. Avevo già scritto, ideato e narrato il documentario di “Nonostante Tutto” e avevo accompagnato Michele Dalai nel suo programma di storytelling sportivo “Due Di Uno”.

Direi che mi diverte stare davanti alla telecamera, è un linguaggio narrativo e comunicativo diverso da quelli da cui provengo, ma potentissimo. Non nego che fare un cammino in solitaria e farlo con una troupe al seguito siano due esperienze completamente differenti, ma la possibilità di documentare un viaggio di 40 giorni in ogni suo aspetto è davvero particolare.

Stai già lavorando a del nuovo materiale? Qualche anticipazione? Quale contaminazione sceglierai questa volta? verso dove porterai i tuoi fan?

Sto scrivendo nuove canzoni. Alcune sono nate in viaggio. Ho intenzione di dare grande peso alla musica suonata e alla scrittura dei testi. Credo che per me sia il momento di tornare a non avere alcun compromesso.

jack-jaselli-nel-bosco

®Riproduzione riservata

JACOPO VENTURIERO, QUEL BRAVO RAGAZZO DI SUBURRA 2

Jacopo Venturiero romano quasi doc, le sue origini sono campane, è davvero un bravo ragazzo al punto che anche lui ha dubitato del suo ingresso nel cast di SUBURRA 2. Invece il destino l’ha voluto li con tutto il successo che ne è conseguito. Ha iniziato a recitare giovanissimo, infatti la sua formazione Accademica è quella della Silvio D’Amico, ha fatto parte sia della fiction storica della RAI al fianco di Massimo Dapporto, sia del teatro impegnato con grandi tournee, ora per i millenials è Adriano.

Hai iniziato a recitare giovanissimo, dimmi com’è successo.

 È iniziato tutto per caso, in quanto mio padre che si occupava di musica aveva un’amica agente per Young Talent, la quale mi ha iscritto alla sua agenzia e a dieci anni ho fatto il mio primo film che si chiamava “La medaglia” al fianco di Franco Nero ed Antonella Ponziani. Correva l’anno 1997 e siamo anche andati in concorso al Festival di Venezia.

 

Vieni da un percorso formativo molto serio, teatro impegnato, doppiaggio, fiction, tutti lavori di altissima qualità.

 Beh, quasi per gioco, a diciott’anni e soprattutto senza speranze feci l’esame d’ammissione per l’Accademia Silvio D’Amico, e con mia totale sorpresa fui preso. Anche se a quel punto avevo già lavorato tantissimo con le fiction di Massimo Dapporto come “Amico mio” ed “Un prete tra noi”, erano gli anni d’oro delle serie TV RAI. Parallelamente, mia madre che è un’attrice di teatro, mi ha sempre coinvolto in tutto ciò che faceva, come ad esempio, portarmi al Festival di Todi dove l’unico mio capriccio era quello di stare in prima fila, ma ero buonissimo e venivo accontentato. Col senno di poi forse il motivo era perché non avrei visto nulla dello spettacolo se fossi stato seduto più indietro. Era ancora il periodo delle grandi tournee teatrali con maestri come Giorgio Albertazzi e Gabriele Lavia, una vita assestante che quasi non esiste più.

Cosa hai pensato quando sei stato chiamato per un provino per “Suburra”.

Il mio percorso per Suburra, si compone così: la prima volta che sono stato chiamato ero a Siracusa impegnato in teatro con le tragedie greche, quindi non sono potuto andare. Andando ancora più indietro mi avevano chiamato anche per il film, ma sinceramente mi sono sempre detto “che ci vado a fare?”, sono cosciente di avere la faccia da bravo ragazzo, che forse è anche il mio limite, e l’ha dentro non mi ci vedevo proprio. Per quest’ultima volta mi sono preparato bene e, quando ho visto che i call back iniziavano ad essere uno, due, tre, ho iniziato a crederci davvero.

 

Che effetto fa entrare a far parte di una serie TV Netflix che è un successo internazionale.

 Un piacere immenso, in quanto in Italia sia a livello produttivo che di immagini non esiste nulla di comparabile. Allo stesso tempo sento una grande responsabilità, in quanto un attore aspetta sempre un grande ruolo e quando arriva realmente, devi lavorare sodo per mantenerlo agli standard richiesti.

In realtà, tu che lo conosci bene il tuo personaggio Adriano è un buono o un cattivo?

Non so mai che rispondere a questa domanda, però posso dire che nella serie non ci sono personaggi o bianchi o neri, e forse il bello è proprio questo. Adriano lo ritengo un personaggio giusto, in quanto segue i suoi ideali e farebbe di tutto pur di realizzarli. Fondamentalmente a lui sta a cuore la sua città, che è Roma, e fa di tutto per andare contro la corruzione che la circonda.

 

 

Secondo te perché piace così tanto Suburra?

 Forse perché quello di Netflix è un prodotto talmente diverso da ciò che siamo abituati a vedere in chiaro sulla TV, che alla fine è facile innamorarsene. Il ruolo dell’attore viene messo in primo piano senza improvvisazioni e senza sbavature, non vi è nessuno che arriva da un talent solo perché ha una bella faccina. Pensiamo alla cura della libertà nel raccontare le storie che vanno dalla politica, al Vaticano, sarebbe impossibile in qualsiasi altra produzione.

 

 

Che cosa hai in comune con il tuo personaggio Adriano.

 Mi verrebbe da dire niente, invece qualcosa c’è, ovvero la rabbia nel vedere la propria città allo sfacelo, questo mi fa veramente incazzare. Credo fermamente che Roma sia la città più bella del mondo, e vedere i romani abituati ed arresi alla non curanza mi fa una rabbia incredibile.

 

Sei stato catapultato nel mondo del “Glam” con questa serie, non so se lo eri anche prima, ma che rapporto hai con la moda.

 Assolutamente zero, forse per pigrizia mentale, o forse per una questione di retaggio, non mi sento in grado di andare a fare acquisti, e quindi mi attengo al comodo, sobrio ed elegante (ndr: ride).

 

 

La cosa che diverte di più?

 Cazzeggiare con il gruppetto di amici che mi porto dietro fin dalle medie, con la libertà di fare lo stupido senza giustificare nulla perché mi sento talmente libero che non ho freni inibitori.

 

 

 Che cosa non deve mai mancare nella tua valigia prima di partire per un viaggio.

 Un libro, o vari libri, ma non è detto che li apra. È una cosa che ho sempre fatto e farò sempre, infatti anche oggi ne ho due nello zaino.

Foto: Francesco Ormando

Total look: Fifty Four

Styling: Valeria J. Marchetti

Grooming: Chiara Amodei @makingbeauty

Location: The Independent Hotel

®Riproduzione riservata

THE DOCTOR IS IN: ANTONIO SPAGNOLO

Noto a molti per la partecipazione a format televisivi di grande successo e il contatto con diversi vip, il Dottor Spagnolo ha un’idea di bellezza ben distante dai modelli che spesso il piccolo schermo ci propone.  La chirurgia deve essere utilizzata a scopo migliorativo ma senza sconvolgimenti della persona, solo così si raggiungerà una “percezione armonica”. Vediamo allora insieme a lui la relazione che intercorre tra chirurgia estetica e benessere.

 

La tua concezione di bellezza?

La bellezza per me, è la percezione armonica di un corpo quando viene osservato e la chirurgia plastica deve solo favorirla o preservarla. Quando vedi qualcuno e dici :”che bella/o!” è perché ti da una sensazione di benessere nel guardarlo, per questo cerco di dare armonia a quello che vedo senza esagerare e stravolgere l’aspetto di una persona.

Il rapporto degli uomini con la chirurgia?

A differenza delle donne, che sono più pigre nel tenersi in forma e ricorrono più facilmente alla chirurgia, l’uomo ha più paura. Gli uomini curano molto il proprio corpo con palestra e dieta, quindi vengono da me solo quando hanno difetti molto evidenti da correggere, ad esempio vanno molto naso e orecchie. In generale se pur in aumento la percentuale di uomini è ancora minore rispetto alle donne.

La tua routine di bellezza?

Non amo curarmi eccessivamente con creme e lozioni, non mi piace e non consiglio all’uomo di esagerare troppo da questo punto di vista. Personalmente, mi concentro su capelli e barba perché sono gli elementi fondamentali che rendono un uomo ordinato. Vado dal mio barbiere di fiducia una volta a settimana e mi affido completamente a lui quanto a look e prodotti.

Cambieresti qualcosa di te?

Ho già cambiato chirurgicamente quello che non mi piaceva e non lo tengo nascosto, come solitamente molti fanno. Ora sono contento del mio aspetto e questa consapevolezza mi permetterà di vivere serenamente il passare degli anni.

Siamo vicinissimi alle vacanze, dove trascorrerai l’estate?

Amo il mare e il sole, quindi mi dividerò tra la Grecia che resta il mio primo grande amore ed esplorerò Bali e dintorni.

Cosa porterai sicuramente in valigia?

Costumi a pantaloncino, tantissimi bermuda e crema solare rigorosamente con protezione 50.

 

®Riproduzione riservata

Il bello del nuoto: a tu per tu con Luca Dotto

Non solo un campione di stile libero con una profondo amore per il mare, ma anche un modello realmente appassionato di moda e social media, come dimostrano le sue collaborazioni con brand come Armani e Baume & Mercier. Classe 1990, orgogliosamente veneto (nato a Camposampiero in provincia di Padova ma di base a Roma), Luca si sta preparando per difendere a maggio il suo primato europeo a Glasgow.  Lo abbiamo incontrato sul set del nostro servizio curato da 3.

Quando hai sentito saresti diventato un nuotatore?
Ho capito sin dalle elementari che volevo fare il nuotatore e rappresentare l’Italia in giro per il mondo. Anche se da piccolo non ero così bravo rispetto ai miei compagni, ma sentivo che quella sarebbe stata la mia strada

Quale la figura che ti ha ispirato?
Un grande maestro è mio padre, che è l’uomo che ammiro più di tutti e invidio (in senso buono, ride) perché è capace di fare tutto, ed è un uomo molto pratico. Per me è un esempio di onestà  e mi ha davvero ispirato e incoraggiato molto.

Come hai scoperto la tua inclinazione per lo stile libero?
Quando ero più giovane avevo iniziato con le gare a dorso e non riuscivo mai a vincere. Poi per caso un anno, nel 2005,  ho partecipato a una gara di 50 stile libero e ho vinto subito. Da lì ho capito che stavo sbagliando tutto e ho iniziato un nuovo percorso.

Raccontami delle tue passioni…
Amo moltissimo viaggiare e ascolto sempre musica con le cuffie perennemente addosso. Sono un fan di Spotify e mi piace scegliere una colonna musicale adatta a miei viaggi. Sin da piccolo seguo la musica rap e in particolare 2Pac (rapper americano e attore Tupac Amaru Shakur ndr). Ultimamente ascolto molto Post Malone con brani come Congratulations e Psycho. Mi piace molto anche leggere le storie di intrighi di Dan Brown o libri molto specialistici sul mare che parlano di archeologia marina.

Documenti i tuoi viaggi su Instagram?
Sono una persona molto social e amo postare le foto dei miei viaggi e dei miei allenamenti sul mio account @dottolck

Raccontami del tuo ultimo viaggio
Il mio ultimo viaggio è stato Turks e Caicos, un arcipelago corallino nelle isole caraibiche con la mia fidanzata. Un’esperienza incredibile, avevo casa di fronte all’Oceano e ho fatto escursioni in bicicletta in mezzo alla natura incontaminata tra grandi barbecue al tramonto.

Quale dei diversi luoghi ti ha maggiormente colpito?
Due i posti che mi hanno davvero impressionato: il deserto di Abu Dhabi e le spiaggia deserte delle Bahamas, dove riesci a dimenticarti della nostra vita frenetica.

Cosa non manca mai nella tua valigia? E un tuo consiglio per chi viaggia.
Non mancano mai i costumi di Arena! Perché se non viaggio per nuoto, viaggio per andare al mare! E poi la macchina fotografica perché amo documentare i miei viaggi. Per essere sempre comodi con stile porto sempre un Jeans, una camicia bianca e un maglioncino. Un passe-partout che consiglio sempre.

Come nata la collaborazione con la moda?
E’ nata per caso con le Olimpiadi di Londra nel 2012. Armani, che era sponsor, aveva selezionato degli atleti per rappresentare il brand. Mi hanno notato dopo i primi shooting e poi proposto di collaborare sulla linea underwear, per gli occhiali e per il profumo Acqua di Giò. Grazie a questa esperienza ho avuto la fortuna di conoscere un mondo molto diverso dallo sport di cui spesso non si capisce tutto il lavoro che è dietro le quinte.

Le prossime sfide?
Mi sto preparando per gli europei che si terranno a Glasgow a metà agosto dove devo difendere il titolo europeo dei 100 stile. Quindi sono molto concentrato per raggiungere questo obiettivo, oltre a quello di migliorare continuamente me stesso per sfidare i limiti. Questa è la parte più importante del mio lavoro, che è poi la mia vera passione.

Discover the editorial by StefanoGuerrini, shot by Alisson Marks on manintown.com

®Riproduzione Riservata

Pari Ehsan: Present and Future of Social Media

«Mi considero una creatrice a tutto tondo, piuttosto che un’influencer». Inizia così la conversazione con Pari Ehsan, il volto dietro il fenomeno Instagram Pari Dust (@paridust, 200k followers). Metodica, perfezionista e uberchic Pari Ehsan, con un’esperienza alle spalle da architetto e interior designer, nel 2013 da vita al suo popolare account, individuando una nicchia esclusiva nel cross-over arte e moda. Oggi però – come ci spiega questa 34enne americana, nata nel Kentucky e che vive a New York – la definizione di influencer le va stretta: «La capacità di influenzare il gusto per me è una qualità multiforme e radicata nella creazione, nell’assimilazione e nell’attitudine creativa di contenuti e nella condivisione tale esperienza».

Come definiresti quindi il tuo processo creativo?
Continuo a educare me stessa attraverso un’immersione performativa in un ambiente, in un’estetica, in un contesto emozionale e ciò a cui aspiro è sintetizzare e condividere quello che mi colpisce e apporta valore alla mia community e a chiunque ne sia affascinato.

C’è qualche differenza nel modo in cui mostri la moda che ami e l’arte che ammiri?
Cerco di colmare il divario tra moda e arte, per sfumarne i contorni e alterarne la percezione, in modo tale che siano sempre meno chiari i confini dell’uno e dell’altra.

Le tre mostre più rilevanti che hai visitato, fino ad ora, in questo 2018?
Kaye Donachie, Silent as Glass, da Maureen Paley, a Londra. Le donne nei suoi dipinti si trasformano in natura, in parole per poi divenire di nuovo umane. Poi, Cyprien Gaillard, Nightlife, da Gladstone Gallery, a New York. Un’incantevole trance, video 3D di alberi danzanti, fuochi d’artificio cuciti nell’antichità: tutto ciò ha per me la capacità di arrestare l’attimo. Rick Owens, Subhuman Inhuman Superhuman, a La Triennale di Milano, un vero testamento delle infinite possibilità della moda.

Come definiresti la tua estetica in tre hashtag?
#zen #space #discovery.

Qualche consiglio per gli artisti emergenti che stanno iniziando con i loro account sui social media?
Direi di pensarlo come un moodboard della propria esistenza. Uno specchio che rifletta la propria immagine, la propria storia, le proprie intuizioni e le emozioni che si vogliono esprimere.

Come funzionerà il social del futuro?
In maniera cerebrale, visualizzando immagini e narrazioni direttamente nella propria mente e condividendole con le persone con cui siamo in sintonia o cercandole attraverso i propri pensieri.

L’ultimo posto fantastico che hai visitato durante i tuoi viaggi?
Torino, dove si respira ovunque Arte Povera, la natura e tutto ciò di cui il mondo ha bisogno.

Cinque luoghi da visitare nella tua città preferita?
Amo Berlino. Questi sono i miei luoghi imperdibili: la collezione Feurle, la raccolta d’arte privata che preferisco. Si tratta di un ex bunker riprogettato da John Pawson, che giustappone l’arte contemporanea con mobili cinesi Qing. The Bikini, un negozio che è esattamente l’opposto di quello che il nome potrebbe suggerire. Il parco dell’aeroporto di Tempelhof. Lo Schinkel Pavilion, dove l’architettura storica incontra un visionario programma sperimentale di arte contemporanea. I cigni sul canale Landwehr.

Hai recentemente visitato Milano: cosa ti ha affascinato di più?
I milanesi, che mi hanno catturano con i loro gesti, con il loro modo di porsi attraverso i loro vestiti, con il modo in cui coltivano l’arte dell’ospitalità, il rispetto  che è visibile e palpabile nel loro ambiente, e nel ricco contesto storico della città in generale.

Come immagini il tuo futuro: online o offline?
Vedo un connubio fra più elementi; mi piacerebbe progettare e avere una creatività più diretta, fare cose con le mie mani, ma anche trasmetterle attraverso il mio cervello digitale e la mia piattaforma.

®Riproduzione Riservata

D1 MILANO: la new generation dell’italianità. Anche negli orologi

«Due cose al mondo sono esteticamente perfette: il gatto e l’orologio». Se sui felini domestici bisogna dare ragione a Émile-Aguste Chartier, filososofo e scrittore francese, cui si deve l’aforisma; sull’orologio, invece, c’è ancora un largo margine di miglioramento, come dimostra D1 Milano. Questo brand di marca tempo made in Italy, con headquarter a Dubai e diramazione a Hong Kong, ha dimostrato all’ultima edizione di Baselworld che, non solo è possibile migliorare l’orologio, ma che l’italianità è un valore aggiunto tutt’ora vincente e convincente, e che sono proprio gli italiani più global a mantenerne intatti spirito e significato. Infatti, in una Basilea sferzata dal freddo invernale e dal cattivo funzionamento del WiFi, Dario Spallone (presidente e ceo del marchio nato nel 2013) ha presentato il modello Super Slim della collezione Polycarbon, ultima versione del modello iconico del brand, ma ha anche qualificato il valore dell’italianità insita nei suoi prodotti e nel suo approccio al mercato. Se si pensa che Dario ha 25 anni e il suo team non supera i 40 e sono tutti sparsi per il mondo, vuol dire che le nuove generazioni di italiani hanno le idee chiare e che non è un documento anagrafico a sancirne l’identità, quanto il modo di pensare e di agire.

Diciamo la verità, c’era bisogno di un nuovo orologio?
Secondo me non c’è mai bisogno di qualcosa di nuovo. A meno che non ci sia uno scopo di  natura strettamente economica, però deve comunque avere un’identità che rappresenta qualcosa. Per noi è stato importante realizzare un prodotto con un’attenzione ai dettagli e un’autenticità marcatamente italiana. Mancava nel mercato un orologio che potesse essere acquistato a un prezzo accessibile e che nello stesso tempo avesse uno status sociale, una valenza strategica.

Anche il nome è stato scelto in funzione di questa identità così ben definita?
Il nome è nato in maniera fortuita. Ci piaceva foneticamente (D1, si legge, The one, ndr.) perché rappresenta qualcosa di esclusivo e unico. Ci abbiamo aggiunto Milano, che identifica il luogo di origine del brand, nato durante la Milan Fashion Week del 2013. Credo che il nome sintetizzi bene la provenienza e anche cosa vogliamo rappresentare: uno stile unico, iconico e allo stesso tempo giocoso.

C’è un pubblico di riferimento oppure è un orologio trasversale, che piace a tutti?
Ovviamente c’è un target di riferimento. Il nostro è un pubblico attento alla moda, che apprezza i dettagli estetici, in linea con le ultime tendenze e che vuole un orologio che simboleggia uno status quo. Alla fine, è un segna tempo che non compete nella fascia bassa e nemmeno con i prodotti di nicchia, superiori ai 10mila euro. È un range di mercato abbastanza a sé, rivolto a una persona tra i 25 e i 35 anni, capace di stimare tendenze e particolari inconsueti.

Quali passi stai muovendo per il domani del marchio?
Si sta sviluppando in maniera veloce, perché siamo riusciti a creare una struttura snella e allo stesso tempo a crescere nei numeri. Il team è unito, siamo una ventina di persone in tutto, e abbiamo una capillarità distributiva forte. Ci avvaliamo di collaboratori in tutto quanto il mondo e di distributori locali, che poi fanno riferimento alla nostra squadra, capace di essere molto reattiva. Questo è un punto di forza strategico, perché siamo abbastanza veloci in un mercato relativamente lento. Così si riesce anche ad accrescere l’identità del brand.

A livello stilistico cosa succederà?
Ovviamente D1 Milano ha una sua identità, che vogliamo rafforzare attraverso l’iconicità degli anni ’70 e con forme geometriche, riproposta con una lettura più attuale e giocosa. Per me è davvero un orologio che rappresenta l’italianità in maniera giocosa. Ci focalizziamo su un range di prezzo sotto i mille euro per due fasce di mercato, una è quello più street style, con la collezione in policarbonato; l’altra strizza l’occhio alla gioielleria e va su un posizionamento più classico. Per i prossimi anni vogliamo puntare su questi due canali. Ovviamente il design è consolidato, anche se dovremo riallinearci ai cambiamenti di mercato che si succederanno, perché è in continua evoluzione e non possiamo mai fermarci.

Che volumi ha la produzione?
Nel 2017 abbiamo chiuso con 50mila orologi venduti, una produzione piccola, ma con una distribuzione che raggiunge 20 Paesi. Nei primi mesi del 2018 stiamo già superando i pronostici e dovremmo chiudere intorno agli 80mila pezzi venduti. Quindi, una crescita sostanziale.

Milano come capitale dove è nato il progetto, però ci sono anche Dubai e Hong Kong.
Abbiamo base a Dubai, per motivazioni strategiche. Anche per la vicinanza all’hub di produzione di Hong Kong, dove ha sede l’altra nostra sussidiaria. Importiamo componenti globalmente, dall’Italia, dall’Europa, dal Giappone e poi assembliamo ad Hong Kong.

Come mai Hong Kong?
Nella fascia di mercato sub 10mila euro, la componentistica di Hong Kong è la più specializzata, quindi è stata presa una decisione strategica, perché lì abbiamo trovato i migliori fornitori. La parte più difficile è stata mantenere l’italianità. Per me vuol dire avere anche un team italiano, perciò sia a Dubai che a Hong Kong ho portato gente dall’Italia, che ha accettato di trasferirsi in questi Paesi. Certo non è stato facile però, paradossalmente, questa criticità nel mio business model è stata anche un punto di forza, perché se venti persone vanno a Dubai o a Hong Kong vuol dire che sposano il progetto in maniera sostanziale. Questa caratteristica ha rafforzato l’identità del marchio e il rapporto tra i membri della squadra. Ed è quello che fa la differenza. Non tanto il dettaglio o la corona dell’orologio, anche se abbiamo un’attenzione ai particolari che gli altri competitor non hanno – perché noi come italiani amiamo il bello – però non è qualcosa di concreto o esplicito a fare la differenza, ma tutto il team.

Anche l’età media è relativamente giovane
Andiamo dai 25 ai 37, però abbiamo tutti un’esperienza profonda sia nel campo dell’orologeria, che della moda. E abbiamo voglia di metterci in gioco. Lavoro con persone che hanno una solida conoscenza del settore, ma che sono capaci di pensare in maniera giovane. Il motivo per cui ora noi, in un mercato che è quasi in declino, siamo in espansione esponenziale è perché pensiamo in maniera diversa, rispettando comunque le regole del gioco.

Quindi l’italianità per voi ha ancora un valore significativo?
È molto più importante di quello che gli danno altri marchi, che si dicono made in Italy, ma che non hanno un’italianità di fondo. Cos’è l’italianità? Per me sono le persone. Oggettivamente parlando, in un sistema globalizzato che si focalizza sulla specializzazione – questo lo diceva Adam Smith nell’Ottocento (filosofo ed economista scozzese, ndr.) – ognuno deve fare il suo lavoro. Non possiamo pretendere di partire da zero su un progetto e fare tutto quanto in Italia, non esiste più il sistema autarchico. Per me, italianità significa creare delle fondamenta per il brand, che siano italiane. Io faccio proprio questo, creo il mio nucleo italiano e prendo persone che la pensano come me, che hanno questo amore per la bellezza, per la cura dei dettagli, per la giocosità. Da qui si rafforza l’italianità. Per questo noi, anche se produciamo globalmente e distribuiamo in giro per il mondo, siamo comunque uno dei brand giovani e italiani, più forti, perché rispettiamo l’autenticità di questo concetto. Anche se vivo a Dubai sono italiano e così il brand. In un contesto di evoluzione e cambiamento, siamo la new generation dell’italianità.

®Riproduzione Riservata

VICKY LAWTON: THE VISUAL FANATIC

Vincitrice lo scorso anno del Creative Circle Award, per la Best New Female Commercials Director, Vicky Lawton è regista, fotografa, lavora al fianco di Rankin in qualità di Creative Director, ha diretto numerosi fashion film per rinomati marchi internazionali, tra cui Elie Saab e Chanel, e ha realizzato video musicali per artisti influenti, come Dua Lipa. Ecco qualche curiosità su questa talentuosa e camaleontica artista.

Ti definisci una “fanatica di elementi visivi”. Quando hai capito che le arti visive sarebbero diventate la tua professione?
Da quando ho iniziato a comprare Vogue a circa 14 anni e strappavo le pagine per utilizzarle come carta da parati. Poi mi sono interessata sia di moda che di fotografia, scattando dei servizi fotografici nella mia stanza e in giardino con i miei amici!

Come hai conosciuto Rankin?
Ho fatto uno stage da Rankin durante il mio secondo anno alla Kingston University, dove studiavo Graphic Design e fotografia. Ho fatto un tirocinio di tre settimane, siamo rimasti in contatto e mi hanno chiesto di tornare una volta completati gli studi.

Quali sono le tue principali fonti di ispirazione?
Mi piacciono da morire Irving Penn, Richard Avedon, Meisel, ma ammiro anche fotografi come Cass Bird ed Ellen Von Unworth, che hanno stili e approcci unici. Cerco attraverso blog, libri, visito più gallerie d’arte possibili, ma la mia più grande ispirazione è il cinema.

Come fotografa di moda, qual è il tuo rapporto con il fashion nella vita quotidiana?
La moda per me è un modo perfetto per riflettere il mio mood. È anche un’opportunità di sperimentare, sono una grande fan degli abiti vintage e mi piace visitare Los Angeles per trovare qualche pezzo unico e irripetibile.

Non ci sono così tante fotografe e registe famose. Credi che sia un ambito prevalentemente maschile?
Non più!

Quali profili social trovi particolarmente interessanti e perché?
Mi piace particolarmente @celestebarber, perché la moda può essere davvero divertente.

Qual è il tuo social media preferito?
È senz’altro Instagram. Rappresenta un’opportunità di vedere nuovi lavori, nuove idee e di mettere orecchie da coniglio sui miei selfie. Come si fa a non amarlo?

The Full Service is a one-stop creative entity that combines the strategic thinking of an advertising agency with the pragmatic problem solving of a production house.

thefullservice.co.uk
thegraft.uk
tonicreps.co.uk
rankin.co.uk

®Riproduzione Riservata

Frank Gallucci – proud to be italian

Cover_suits Suitsupply, Shirt Navigare, Turtleneck Brooks Brothers Belt Brunello Cucinelli, Watch Panamera, Shoes Barbanero

Appena si apre il suo profilo Instagram da 131 mila follower è impossibile non notare l’hashtag sotto al suo nome, #proudtobeitalian. Ed è proprio dello stile italiano che Frank Gallucci ha fatto la sua forza, per diventare ciò che è oggi. Classe 1986, una laurea a Perugia in scienze politiche ed economiche e un viaggio in Australia anticipano la creazione del suo blog quattro anni fa, che è diventato in poco tempo un punto di riferimento del lifestyle tricolore.
Come ti definiresti?
Rappresento l’uomo italiano, che veste con versatilità e disinvoltura più stili, dall’elegante allo sportivo.
Qual è la tua idea di stile?
Semplice. Credo nella bellezza italiana e nel Bel Paese.
Chi è oggi un influencer?
Colui che riesce a influenzare le scelte della gente. Io cerco di farlo trasmettendo il mio stile di vita, non solo con la moda, ma anche attraverso i miei gusti musicali, viaggi, food e molto altro.
Come vedi l’evoluzione dei social?
Facebook di sicuro non scomparirà mai. In generale, l’audience di questi anni non finirà, ma potrà essere veicolata in altre direzioni o verso la nascita di nuove forme di social marketing.
E quella del tuo business invece?
Sto lavorando per diventare consulente di stile, un punto di riferimento per aziende e designer.
Come immagini il tuo lavoro in un futuro lontano?
Tra 10 anni mi potrei vedere Ambassador.
C’è un lato negativo della tua professione?
Sì, quello di non staccare mai la spina.
Numeri del tuo business.
(Non risponde. E ride, ndr.)
Hai una città a cui ti senti legato?
Milano, dove vivo da quattro anni. Ha un dinamismo tramite il quale puoi riuscire in ciò che vuoi.
Quanti dei tuoi consigli sono veri?
Sono uno di quelli che rifiuta i lavori, soprattutto se mi vengono imposti. A questo proposito sottolineo che non sono seguito da agenzie, preferisco tessere personalmente le relazioni.
Conta più una bella faccia o un buon contenuto?
Il contenuto, anticipato da una bella immagine.
Quanto tempo dedichi alla preparazione del tuo look?
Non si parla di ore, ma molto meno.
Quali app usi per ritoccare le foto?
Mi affido sempre ai fotografi. Le foto postate al momento, invece, sono scattate dalla mia fidanzata Giulia Gaudino, che usa Snapseed.

Photo| Karel Losenicky
Stylist| Lucio Colapietro
MUA & Hair| Giuseppe Giarratana
Fashion Collaborators| Orsola Amadeo and Dario Amato

Read more on MANINTOWN magazine available in the best newsstands.

®Riproduzione Riservata 

Francesco Marinelli: Domani è un altro ciak

Raccontami del tuo percorso…
Sono arrivato a Roma circa 4 anni fa all’età di 18 anni, subito dopo il diploma. Proprio Roma mi ha offerto l’opportunità di immergermi nel mondo del cinema. Durante le scuole superiori, grazie ad una mia cara professoressa (a cui sono sempre molto grato) ho girato due cortometraggi e durante queste primissime esperienze ho cominciato a pensare di poter intraprendere la carriera dell’attore. Ho capito subito che recitare rappresentava per me una grande passione. Mi sono immediatamente trasferito a Roma dove mi sono iscritto ad un’accademia di recitazione. Per mantenere gli studi ho cominciato a fare il modello, ho lavorato con diversi brand e ho girato l’Italia. Grazie a questo lavoro ho conosciuto molte persone, soprattutto vari fotografi, che mi hanno permesso di crescere professionalmente.

Quali le esperienze professionali per te più importanti?
Ho avuto la possibilità di girare video clip musicali e spot pubblicitari. Tra le collaborazioni per me importanti è stata quella con il gruppo musicale The Giornalisti per “Riccione”; ho lavorato per uno spot pubblicitario per Lavazza, fino al recente videoclip musicale di Mario Biondi “Rivederti” con cui ha partecipato a Sanremo 2018.  Grazie a queste esperienze ho avuto l’opportunità di confrontarmi con vari artisti. Attualmente sto lavorando per la prima volta nel mondo del cinema e credo sarà una bellissima esperienza, ma al momento non posso ancora svelare nulla! Intanto seguitemi su Instagram per scoprire il mistero @_francescomarinelli_

Come hai affrontato la sfida nel video Rivederti di Mario Biondi?
Lavorare con un’artista del calibro di Mario Biondi è stato sicuramente un immenso piacere, ma soprattutto grande motivo di crescita professionale e artistica. Ho affrontato questa sfida con tanta determinazione, ma come sempre con umiltà. Credo che non si smetta mai di imparare, ho fatto tesoro dei grandi consigli di questo artista, ora sono nel mio grande bagaglio di esperienze professionali.

La tua playlist con le 5 tue canzoni del momento?
Ram Jam –Black Betty
Litfiba – Vivere Il mio tempo
AC/DC – T.N.T.
Rino Gaetano – E cantava le canzoni
Lucio Battisti 29 Settembre

Una città che ti ispira e in cui vorresti tornare?
Non c’è una città particolare che mi ispira o in cui vorrei vivere o tornare. Ogni città mi ha dato a modo suo un’emozione e mi ha permesso di lavorare, incontrare gente e fare esperienze.

Photographer, stylist: Davide Musto
Grooming: Martina Storani
Model/Actor: Francesco Marinelli
Intimo: Calvin Klein
Leather Jacket: HE by Mango

®Riproduzione Riservata

Milan Fashion Week: alla sfilata JZ JUZUI, conosciamo Liu Tao

Si chiama Liu Tao, ma in Patria è nota anche come Tamia Liu. Trentanove anni, segno del Cancro, carattere riservato ma grintoso che non le preclude di comunicare con un sorriso che abbatte ogni difesa, raccontando di lei più di mille parole. Una laurea in legge, due figli, in primo piano nelle cronache mondane e protagonista, attiva e seguitissima, sui social network. È attrice e cantante vincitrice di numerosi premi, brand ambassador e testimonial agli eventi di alcune delle più prestigiose griffe internazionaliLouis Vuitton, Prada e Fendi, per citarne alcune e manifesta quell’equilibrio tra bellezza interiore ed esteriore che è poi quello tra mente e corpo, ragione e sentimento. Abbiamo scorto l’allure discreto della sua figura mentre saliva le scale che, da Piazza del Duomo, conducono a Palazzo Reale, dove è stata madrina e special guest della sfilata JZ JUZUI, a chiusura della Milan Fashion Week. Presentazioni, sorrisi sofisticati e un po’ naïf nei photocall e qualche intervista gestita con gentilezza e un’empatia fatta di vaghezza e malizia.  È stato il marchio cinese, nella Runwalk che ha segnato il debutto della Maison in Italia, a volerla come volto che incarnasse i valori, non solo estetici, del brand. È difficile pensare a una scelta migliore. Con una personalità eclettica, Tamia esprime davvero il DNA di JZ JUZUI e della sua Collezione, dedicata a una donna moderna e dinamica, emancipata da qualunque senso di sottomissione al sesso maschile, protagonista di scelte decise. E così fa la Collezione, che ha riscoperto nella Gioia il proprio leit-motiv (scegliendo, non a caso, il quadrifoglio come simbolo), immaginata come sintesi tra Leisure, New Office e Party. Gli ingredienti? I tre momenti ideali della donna di oggi: un tempo libero vissuto con comfort, seducente self-confidence nella vita professionale, una sera tutta da giocare nel segno di una femminilità senza riserve, fatta di gusto e misura.
In occasione della sfilata, abbiamo avuto modo di chiederle:

Quali emozioni le ha trasmesso questa sfilata?
Mi ha dato un’idea precisa di come stia crescendo, per innovazione e qualità, l’industria della moda cinese. Sono stata sorpresa di quanti passi avanti siano stati fatti. Ho amato la sfilata e in particolare il suo tema, la gioia.

Quali aspetti di JZ JUZUI l’attraggono maggiormente e quali sono i punti di contatto che sente di avere col brand?
Amo il suo celebrare una femminilità elegante che nasce “da dentro”, dalla consapevolezza di sé e dalla gioia, come dicevamo. Io cerco di vivere la vita con positività, per quanto possibile. Come attrice, non importa quale sia il tuo percorso, devi cercare di riempire il tuo cuore di felicità e scorgere nel futuro prospettive sempre nuove. Come donna, poi, non conta la tua età, devi essere sicura, serena e positiva. Per questo posso dire che i valori che respiro in JZ JUZUI e che ho potuto vedere in questa collezione coincidono davvero con i miei.

Con il suo dinamismo, lei incarna il simbolo della nuova donna cinese. Attrice, cantante, testimonial, per non parlare della sua presenza sui canali social. Allo stesso tempo, mamma. Come riesce a coniugare tutto questo?
Semplice: con la voglia di vivere la vita appieno. Di scorgere in ogni occasione la possibilità di maturare e di crescere. Vivo la consapevolezza di avere un forte seguito come una responsabilità: so di essere un esempio per alcuni e così ho scelto un messaggio, cercando di comunicarlo con forza: la bellezza di spendersi sfruttando fino in fondo il proprio talento, vivendo il proprio tempo con intensità.

®Riproduzione Riservata

JACK SAVORETTI, LA FORZA DELLA MUSICA TRA ITALIA E UK

Una voce ruvida, profonda e nostalgica e una chitarra. È Jack Savoretti, nome d’arte di Giovanni Edgar Charles Galletto Savoretti, cantante britannico di origini anglo-italiane: il padre, Guido, è genovese. L’esordio musicale avviene con due duetti, presenti nell’album del 2005, della cantautrice britannica Shelly Poole, mentre il suo vero primo disco, Between The Minds, arriva sul mercato nel marzo 2007, debuttando alla posizione numero 5 della UK Indie Charts. Fattosi notare anche in Italia, grazie ad alcune collaborazioni live con Elisa e con il cantautore genovese Zibba, ha pubblicato il suo ultimo album, Sleep No More, dedicandolo, interamente, alla moglie. Recentemente è stato anche scelto da GQ Italia tra i 30 uomini più eleganti durante la serata GQ Best Dressed Man.

Il tuo pubblico ti ama e ti segue soprattutto per i bellissimi live che proponi, in cui risulti molto coinvolgente e autentico.
Credo sia dovuto, anche, a chi ci segue e ci ascolta. Siamo riusciti, come in tutte quelle amicizie che crescono lentamente e non si basano su una moda, a creare un rapporto più vero. Chi viene a vederci ci conosce da molto e noi lo percepiamo.
Sappiamo il motivo per cui sono ai concerti, perché si sono informati per esserci: anche perché noi non veniamo ospitati su tutti i canali TV o in tutte le emittenti radio. In qualche modo, sono usciti dalla loro vita quotidiana per scoprire il nostro lavoro e ciò è fonte di rispetto reciproco. In più, è bello non solo per il pubblico, ma anche per noi. Ho tanti amici in questo business, molti hanno avuto successo e, spesso, soffrono, in quanto suonano per due ore davanti a un pubblico interessato a una sola canzone. Certo, aver creato un tormentone permette di avere alcuni lussi, ma da artista non è bello sapere che la gente è lì solo per quello. Non riesci a creare una connessione.

Quindi, il non avere un tormentone, ti ha permesso una maggiore libertà nell’esprimerti artisticamente?
Sì, è stata, un po’, la mia fortuna. In alcuni momenti – nei più difficili – sarebbe stato bello averlo creato, ma solo perché ti permette di guadagnare tanto da poter fare le cose a cui si è davvero interessati.

Forse, questo, è uno dei motivi per cui sei andato via dall’Italia?
Non sono mai partito dall’Italia, anzi, qui sono arrivato molto tardi. È stato molto difficile perché, senza il loro aiuto (Elisa e Zibba, con cui ha collaborato, ndr), l’industria musicale mi avrebbe sbattuto la porta in faccia. Sono italiano, ma non abbastanza, perché non canto in italiano. Io e la mia band partiamo dai live. Volevo che la gente ci conoscesse realmente, ma, in Italia, esistono dinamiche diverse: o vai in tv e in radio o nulla. Noi come band veniamo dalla scuola di Guccini, Paolo Conte e Capossela. Abbiamo iniziato, ed è durato tre anni, dalle osterie e dalle pizzerie. Tutti ci dicevano che in quel modo non saremmo andati da nessuna parte, ma, poi, sono arrivati i teatri e, piano piano, siamo diventati ciò che siamo adesso, con un bel tour in programmazione. Ora, abbiamo degli amici in Italia ed è sempre un gran piacere tornarci, per la sua calda accoglienza e per il nostro seguito.

Quali sono i tuoi riferimenti musicali?
Sono cresciuto ossessionato da Lucio Battisti: è morto che avevo 13 anni ed era proprio l’età in cui scoprivo cosa significasse, per me, la musica. Prima di allora, era un qualcosa da suonare a una festa e basta. In quegli anni ho scoperto Simon & Garfunkel e Bob Dylan e sono rimasto sconvolto dal potere della musica italiana, vedendo reagire mio padre all’ascolto di Battisti: una montagna, un gigante (papà è sempre papà) intoccabile. Quando da immigrato italiano viveva a Londra, si stendeva quasi in lacrime e diceva: «ascolta questo». Diventava un altro uomo, un cucciolo e io ero affascinato da come questa musica potesse trasformare una montagna in un bambino. Da lì, ho ascoltato molta musica italiana per riuscire ad avere lo stesso effetto su mio padre.

Sono state importanti la tua famiglia e la sua storia, nella decisione di dedicarti alla musica?
In parte. Il motivo per cui mi sono buttato sul mercato italiano è legato alla passione e alla mia famiglia. Professionalmente, era un’idea sciocca. Tutti i contatti, con cui lavoravamo all’estero, erano contrari a questa scelta. Non funzionava, non vendevamo dischi, giravamo per suonare. A Londra e nelle osterie, qui. «Perché lo fate? È un mercato piccolo e non vi sta aiutando». Io volevo farlo per l’affezione alla musica italiana.

Una domanda di stile: cosa porti con te nei tuoi viaggi, come definiresti il tuo stile, cosa ti piace nella moda?
Adoro la moda, ma ho paura dei trend. Come vedi non sono trendy, mi piacciono le cose che avrebbe potuto mettersi mio nonno e che spero possa indossare mio figlio. Mi piacciono tutti quei capi senza tempo.

Cosa non può mancare in valigia?
Un bel cardigan di cashmere, soprattutto qui a Cortina (dove si è esibito ndr). Un cappellino è sempre importante e utile; gli occhiali da sole – specialmente nel nostro mestiere, in cui a volte si fa tardi – bisogna sempre averne un paio dietro; dei jeans che ti stiano bene addosso come fit.

Come ti rapporti ai social media?
Sono il brutto, il bello e il buono, dipende da come li usi. Io ho scelto Instagram, perché adoro le fotografie e mi piace, ma lo uso solo per lavoro. Ho un’unica regola: no family.

®Riproduzione Riservata

ALESSANDRO ENRIQUEZ – THE POWER OF BEING A 360° CREATIVE

Arrivano direttamente dal cuore dell’Italia le ispirazioni di Alessandro Enriquez. Nato a Palermo, in quella Sicilia pulsante dell’immaginario collettivo, ha girato il mondo per seguire i suoi studi di moda. Riconosciuto, da subito, come un designer di successo, ha lavorato per sette anni per Costume National, prima di lanciare la sua linea di borse e quella di abbigliamento, caratterizzata dalle “collezioni all’italiana”, che invece porta il nome del primo libro pubblicato da Alessandro, “10×10 An Italian Theory”. Un testo di moda, food e lifestyle, che lo ha avvicinato alle riviste con cui collabora tuttora e che, come tiene a precisare, non può che considerare, «il proprio portafortuna».

Il tuo è un percorso eclettico: dal design al digital. Raccontaci il tuo DNA creativo e in che modo lo declini in ambiti diversi?
Il mio percorso “misto” mi ha condotto verso strade creative diverse, che mi piacciono e stimolano tanto. Invento ed elaboro, con un occhio comunicativo, proprio per la voglia e il desiderio di creare comunicando e viceversa. Laureato in Lettere e appassionato di letteratura antica e di moda, ho sempre mixato diversi mondi. Dopo gli studi mi sono dedicato al mondo della moda, disegnando per Costume National, di Ennio Capasa – che reputo uno dei mie piu bravi “maestri di vita”, oltre che professionali – per sette anni. Durante gli ultimi due anni, “di nascosto”, mi sono dedicato alla scrittura di un libro che, nel 2012, è stato pubblicato in lingua italiana. “10×10 An Italian Theory”, un testo di moda, food e life style ricco di illustrazioni. Il riscontro positivo di questo testo, che considero un portafortuna, mi ha avvicinato a diverse riviste, con le quali ho iniziato, e tuttora continuo, a collaborare. Parallelamente è nata una linea di abbigliamento che porta lo stesso nome del libro. Mi ha regalato molte soddisfazioni, soprattutto le “collezioni all’italiana”, come quella con la pasta, facendomi diventare una sorta di ambassador dell’italianità all’estero. Mi ha permesso di costruire il mio DNA creativo. Alla collezione di abbigliamento ho affiancato, nel 2016, una collezione di borse con il mio nome, interamente made in Italy.

La tua definizione di influencer/blogger/ambassador
Colui che consiglia, comunica e porta il suo esempio, il suo stile. Una formula moderna di un micro giornale – in formato app – che ognuno di noi possiede. Come tutti i giornali, il suo esito è soggetto all’interesse dei lettori.

Come vedi l’evoluzione del mondo social e del tuo business?
Sicuramente il mondo social crescerà ancora di più e assumerà sfaccettature diverse. Oggi, gli influencer sono diventati una sorta di celebrity, attraverso una forma democratica di comunicazione. Forse, domani, grazie ai social nasceranno nuove figure. Credo che tutto questo sarà di supporto per molte persone.

Quale è, secondo te, il social del futuro?
Instagram è sicuramente il più gettonato, al momento. Sono convinto che verrà potenziato e che, a poco a poco, ci saranno tanti aggiornamenti. Il passo successivo? Non saprei. Ci affidiamo ai geni, sperando di imparare velocemente l’uso delle novità.

Quanti dei tuoi consigli sono sinceri e non sponsorizzati?
I miei quote sono tutti sinceri e vengono dal cuore. Alcuni divertenti, altri con un tono più tagliente, ma tutti rispecchiano il mio pensiero.

Come vedi l’evoluzione della moda con il digital e fenomeni come “see now buy now”?
È sicuramente una soddisfazione, per i clienti fanatici della moda, ma credo che la scelta di alcune Maison francesi – di ritagliare delle piccole capsule in vendita solo in boutique, immediatamente dopo averle mostrate in passerella – possa essere una svolta positiva per risollevare il mercato. Trovo sia giusto ricreare quel rapporto cliente/negozio che oggi si sta un po’ indebolendo.

La professione dell’influencer ha una data di scadenza?
È una professione che non scade. Si è artefici della propria data di scadenza. Ognuno di noi sa bene che i social sono come le macchine e vanno alimentati tanto.

La tua passione per il mondo dei cartoon e per il lato pop nella moda
Mi ritengo un eterno Peter Pan, e il mondo dell’illustrazione è sempre stato di mio interesse. Con i cartoon ho un bellissimo rapporto e, molte volte, gli “chiedo di giocare” con le mie collezioni, donandogli una cittadinanza italiana. Titty cucina la pasta, Bugs prende il caffe napoletano, Felix sogna l’Italia. Per me, sono parte della nostra storia, di quella del cinema, e credo che abbiano un grande valore. Avere come partner colossi come Universal o Warner Bross, è un grande riconoscimento per il mio lavoro. Di loro non mi stanco mai.

I tuoi 5 posti del cuore in Italia o nel mondo?
Sono siciliano, amo la cucina e cucinare, e mi affascinano i luoghi dove posso assaporare i gusti di una volta. C’è un piccolo ristorante, nel cuore di Ortigia (Siracusa), che si chiama La Foglia: ricette tipicamente siciliane rivisitate, arredamento kitsch-vintage colorato e proprietari dolcissimi. A New York, il ristorante pugliese Mercato, mi ricorda l’Italia ogni volta che vado. A Barcellona, città del cuore, dove ho vissuto diversi anni, visito sempre il MACBA (Museo di Arte Contemporanea) e subito dopo, corro a bere un caffe e ad assaggiare i dolci realizzati nei conventi spagnoli. Tutto questo al Caelum, nella zona gotica in centro. I “marche au pouce” di Parigi e Portobello, di Londra, sono la mia passione. Banner e 10corsocomo a Milano i department store che preferisco, con una bellissima selezione e un’attenta cura al cliente.

®Riproduzione Riservata

MAGIA IN CUCINA

Nella sua cucina ingredienti, utensili, pentole e piatti levitano, creando una magia che gli ha fatto guadagnare quasi 60mila follower su Instagram. «L’idea di fotografare oggetti sospesi – spiega Francesco Mattucci, ideatore di @kitchensuspensionnasce da una situazione assolutamente quotidiana, per ragioni di spazi, necessità, esigenze la cucina è il posto della casa che vivo di più. Guardandomi attorno ho pensato di creare un luogo dove gli oggetti che popolano la mia cucina possano “animarsi” in maniera insolita, quasi a giocare tra loro e quindi uno spazio dove il cibo non abbia più una rappresentazione classica, dove possa estraniarsi dai contesti nei quali viene normalmente immortalato, vivendo quasi una vita propria e, naturalmente, divertendosi». Per lui la svolta da creativo a influencer è stata quasi immediata. Prima la pubblicazione di una serie d’immagini nella home page di Repubblica e, pochi mesi dopo, l’intervista sul blog di Instagram, hanno portato al progetto grande visibilità in tempi ristretti. «Non mi ritrovo tanto nella definizione di “influencer” – continua Mattucci – non mi sento tale e non credo che le mie immagini possano invitare le persone all’acquisto di un prodotto, invece che un altro. Io credo che il progetto di @kitchensuspension funzioni, perché le immagini che lo compongono sono sempre in grado di sorprendere e bloccare per un secondo l’attenzione degli utenti che vi incappano. Questo è un profilo studiato ad hoc per l’online e in questo contesto funziona, il mio follower sa sempre cosa aspettarsi dalla prossima foto ma, in realtà, ne rimane ogni volta sorpreso». Ogni scatto di Francesco ha dietro un lavoro lungo e paziente, basti dire che per fotografare la coppa con il gelato sospeso in volo, ci sono voluti quasi due giorni di lavoro. «Non esiste un metodo per ottenere questi scatti – conclude – ogni immagine ha le sue caratteristiche e il sistema per sostenere gli oggetti che la compongono cambiano di volta in volta, il difficile sta proprio nel costruire set diversi per ogni scatto. È comunque fondamentale una massiccia dose di post-produzione per ottenere gli effetti voluti».

®Riproduzione Riservata

Carlo Sestini: cittadino del mondo

Nato e cresciuto a Firenze, Carlo Sestini si è trasferito in Svizzera all’età di tredici anni e, successivamente, a Londra per frequentare la Regent’s University. È un appassionato di arte e di alta moda. Il suo stile è sofisticato e ricercato, il suo guardaroba include pezzi iconici e capi vintage. È appena rientrato da Los Angeles, dove ha studiato recitazione.

La tua definizione di influencer/blogger/ambassador?
È una persona che riesce a influenzare i gusti e gli acquisti del pubblico attraverso i propri profili social, anche se è un termine spesso usato in modo inappropriato.

Come vedi l’evoluzione del mondo social e del tuo business?
L’universo digitale viaggia così velocemente da permettere di poter realizzare in futuro tutto quello che oggi è solo frutto di immaginazione anzi, nella maggior parte dei casi, qualcuno lo sta già brevettando. Mi piacerebbe acquistare direttamente da Instagram, senza dover passare per i singoli siti di vendita online, significherebbe risparmiare tempo e avere la possibilità di comprare esattamente quello che vedo. So che Instagram sta già testando questa nuova funzionalità in diversi Paesi, ma in Italia non è ancora possibile.

Quale secondo te il social del futuro?
Instagram, Instagram e ancora Instagram.

Lato negativo della tua professione?
Non credo ci siano lati negativi

Quanti dei tuoi consigli sono sinceri e non sponsorizzati?
Un contenuto sponsorizzato non significa necessariamente che non sia sincero, ma, personalmente, controllo tutte le mie collaborazioni. Se un marchio – o la sua richiesta – non si adattano al mio stile, ringrazio di cuore ma declino.

Consiglio pratico di stile o beauty o posti che ti piacciono?
Londra è la mia seconda casa anzi, forse, è diventata la prima. Mi sorprende sempre con ottimi ristoranti, spa, palestre e club. Suggerirei Mr Chow per una cena cinese e Annabel per un drink. Fondato quasi 50 anni fa, è uno dei club più eleganti al mondo.

La professione di influencer ha una data di scadenza? Come immagini il tuo lavoro da vecchio?
Cerco di godermi al massimo tutto quello che faccio, ora che sono giovane ed entusiasta del mio lavoro. In futuro? Probabilmente un’attività in proprio, forse un brand o qualcosa di simile legato al lifestyle.

Conta più una bella faccia o un bel contenuto?
Un buon contenuto è per sempre.

Quale applicazioni usi per ritoccare le foto e quanto ritocchi per creare lo scatto perfetto?
Dipende dal tipo di foto, ma non sono un maniaco della post-produzione. Credo che siano le imperfezioni a rendere le immagini uniche.

®Riproduzione Riservata

Elbio Bonsaglio

È uno dei fondatori del marchio Letasca, successo internazionale, che in poche stagioni è riuscito ad entrare nei più importanti store multimarca del mondo. Elbio Bonsaglio è, però, anche uno dei modelli italiani più conosciuti, che ha sfilato per i più importanti brand e scattato con nomi famosi della fotografia. Seguitissimo sui social, ci racconta qualcosa in più del suo mondo fra instagram e i viaggi.

Come sei arrivato alla professione di modello?
In realtà è stato un percorso un po’ inconsueto. Ho studiato alla Bocconi, Economia aziendale, mi sono laureato e ho iniziato a lavorare in uno studio di comunicazione come account e in sei mesi, il tempo di uno stage, ho capito che non avrei sopportato di vivere la mia vita dietro ad un computer e che volevo viaggiare. Durante una fashion week, proprio verso la fine di questo lavoro, sono stato fermato più volte da persone che mi chiedevano se volevo fare il modello, alla terza volta, frustrato dalla mia situazione lavorativa, ho accettato di andare a fare un colloquio e da lì è partito tutto.

Ora non più modello, ma influencer grazie ai social, e altre attività. Come è avvenuto questo passaggio e quando sei diventato anche designer?
Il passaggio a influencer è stato totalmente inconsapevole. Non ho mai avuto un blog e non ho mai pensato che potessi influenzare qualcuno, ho sempre cercato di essere me stesso sui social, postando su instagram quello che facevo, le mie passioni, come ad esempio la boxe, o i miei viaggi. Forse, per il fatto che prima ero un modello e ora ho anche un mio brand, la gente si è incuriosita e ha iniziato a seguirmi. Poi, ci tengo a precisare che di Letasca io non sono il designer, quella parte la segue il mio socio, io mi occupo delle pubbliche relazioni, del commerciale, dei rapporti con gli stakeholder, aspetti che sento più miei e sono decisamente più vicini ai miei studi. Anche l’avventura del brand è iniziata un po’ per gioco, io mi avvicinavo ai trenta, e il ruolo di solo modello mi stava un po’ stretto, il mio socio aveva appena finito gli studi in architettura, ci è venuta una idea, l’abbiamo portata avanti con entusiasmo, ma non mi aspettavo che in giro di poco tempo Letasca finisse da Harrods, da Selfridges e da Saks.

Parlando del tuo mondo sui social, quanti dei tuoi consigli e delle immagini sono sincere e non sponsorizzate?
Il mio instagram racconta molto di me, anche attraverso le stories. C’è tantissimo di quello che è il mio umorismo, il mio modo di scherzare, quello che faccio quotidianamente. Le sponsorizzazioni non sono molte, la maggior parte del mio tempo e delle mie attenzioni sono dedicate a Letasca, ma anche in questo caso sono sempre molto sincero.

Come vedi l’evoluzione del mondo social e del ruolo dell’influencer? Quale secondo te il social del futuro? La professione dell’influencer ha una data di scadenza?
Considera che molti dei brand contemporary, che trovi ora in un grande department store, non esisterebbero, o non avrebbero avuto il grande successo che hanno se non ci fosse stato Instagram. E grazie a questo social, in maniera molto democratica, chiunque è potuto diventare un influencer. Questo è positivo, ma anche negativo, perché non sempre chi è diventato un influencer qualitativamente è a livelli alti. Un tempo dovevi fare un certo percorso per diventare un guru della moda, avere studi alle spalle, un certo tipo di gusto. Ora non più ed è questo il motivo per cui molti criticano le app e il mondo che hanno contribuito a formare. Il futuro è difficile da prevedere, il presente della moda è sicuramente in mano a chi riesce a creare interesse attorno a un marchio. Non vedo al momento data di scadenza al ruolo di influencer.

Lato negativo della tua professione, se c’è.
È una professione che da tanto. Siamo molto coccolati, siamo considerati cool, facciamo a volte cose che altri pagherebbero per fare. In tutto questo un lato negativo c’è, cioè che saluti completamente la tua privacy. A volte invidio chi può stare una settimana intera in vacanza senza toccare mai il cellulare.

Hai un consiglio di stile da condividere con i nostri lettori?
Di esprimere sempre le proprie sfaccettature e i propri gusti. Cercate di non essere omologati, ma di mostrare ciò che vi caratterizza. Anche in questo i social sono democratici, perché potete davvero distinguervi ed essere sinceri. Penso che il modo migliore per mostrarsi non sia quello di essere ossessionati dal desiderio di piacere, ma essere più leggeri e non costruiti.

Quale città ti è rimasta nel cuore? Hai un posto preferito che ci consigli?
Viaggio molto per lavoro, per cui ci sono tanti luoghi che adoro, come New York, che ha un’energia unica, e Ibiza. Quest’ultima perché io amo la musica elettronica, del cui mondo Ibiza è un po’ il centro nevralgico. Ed è anche un ottimo compromesso per me, perché ci sono pure ristoranti fantastici, se esci in barca arrivi facilmente a Formentera e a spiagge stupende. Poi ricordo di essere stato molto bene anche a Sidney, forse perché è un tipo di città a cui io non ero abituato, con le sue spiagge e il caldo tutto l’anno.

Milano: dove mangiare, dove fare l’aperitivo, il locale che ti piace di più?
Milano è la mia città, quella in cui sono nato e cresciuto, per cui non è il posto dove eccedo o faccio qualche pazzia, la conosco troppo bene e l’ho vissuta tanto in passato, la vedo con un occhio diverso rispetto a chi ci arriva per studiare o attratto dalle molte possibilità. Non ho forse più lo spirito per viverne la night life, cosa che invece posso fare quando sono in vacanza. Adoro il momento dell’aperitivo, un vino rosso d’inverno e una birra d’estate, ma ancora di più mangiare. E ci sono dei posti tipici milanesi che vi consiglio, come Al Matarel, dove fanno l’osso buco più buono del mondo. Uno dei locali che frequento invece è il Volt, dove vado a salutare l’amico Claudio Antonioli, che è uno dei fondatori.

Chi sei oltre la tua professione, quali altri amori hai?
Vi ho già detto del mio amore per la musica elettronica poi, quando posso, cerco di andare a vedere mostre di arte contemporanea, di recente ho amato molto quella di Basquiat. Il fatto che una parte di Letasca sia particolarmente legata al travel è perché io stesso amo molto viaggiare, adoro l’idea di avventura e di scoperta che il viaggio porta con se. Raffrontarsi anche con le varie culture, è molto stimolante. Della boxe mi piace tutto, l’allenamento, lo scontro con l’avversario, il fatto che sia uno sport maschio, da duri. Se fatto rispettando le regole e l’avversario è una disciplina sportiva meravigliosa.

Photo: Ryan Simo
Styling: 3
Grooming: Susanna Mazzola
Photo assistant: Alessandro Chiorri
tylist assistants: Verena Kohl, Paula Anuska, Cristina Florence Galati

®Riproduzione Riservata

FRANCESCO STELLA, L’UOMO DAI MILLE RUOLI

cover_pantalone e maglione dolcevia HOSIO; scarpe Burberry

Dal teatro alla TV, al cinema. Prima come attore, poi come scrittore e regista. Francesco Stella, nato ad Erice e divenuto famoso per il ruolo dell’agente Gallo, nella fiction Il commissario Montalbano, si è cimentato i ruoli diversi anche al di là dello schermo, non ponendo mai limiti alla propria creatività. In questa intervista svela non solo le proprie passioni, ma tutti i progetti futuri.
Com’è cominciata la tua carriera?
Un po’ per caso. Durante il periodo universitario ho fatto parte prima di una compagnia di teatro di strada e poi di una di formazione. Con quest’ultima ho studiato e debuttato nel mio primo spettacolo.

La tua carriera inizia nel 1995 con il teatro. Com’è avvenuto il passaggio al cinema e alla TV?
La  mia “prima volta” è stata indimenticabile, ho debuttato al Teatro Kommisar Geskaya, di San Pietroburgo, durante il periodo delle notti bianche. Ho capito che non sarei mai tornato indietro. Dopo essermi trasferito a Roma e aver fatto molti provini, ho finalmente debuttato al cinema con Besame Mucho, di Maurizio Ponzi, e in TV, con Il commissario Montalbano.

Quale tra i due mondi senti appartenerti di più?
Entrambi, ma in maniera diversa. Esattamente come la scrittura, un’altra passione che coltivo da tempo.

Da quale regista ti piacerebbe essere diretto?
Mi piacerebbe tantissimo ritornare a  lavorare con una donna e, secondo me, Valeria Golino è una di quelle in grado di scavarti dentro.

Non solo attore, ma anche regista e scrittore. Ti senti più a tuo agio sopra al palco o dietro la cinepresa?
È un agio completamente diverso. Amo molto il lavoro d’attore, ma alla fine sei nelle mani di  altri: di uno sceneggiatore che ti ha pensato, di un regista che ti ha scelto e di un pubblico che ti approva. Troppe variabili e poca obiettività: molto sta nel “gusto” delle persone e la bravura non sempre è sufficiente. La scrittura o la regia mi permettono invece di “sfogare” la parte creativa, che offre parametri più obiettivi relativi alle mie capacità e ai limiti.

Che tipo di film ti piacerebbe scrivere?
Mi piacerebbe parlare della mia terra, la Sicilia, che lotta ma che sa ridere, che non si arrende e che sa guardare lontano.

Quanto è importante lo stile per te? C’è un capo in particolare che ti caratterizza?
Credo di avere uno stile molto sobrio, mi piace l’eleganza su di me, così come mi diverte l’esuberanza negli altri. Più che un capo ci sono due oggetti: i gemelli e i papillon/cravatte.

Dove sognava di arrivare il Francesco Stella che nel 1998 è entrato a far parte del cast de, Il commissario Montalbano e cosa sogna il Francesco di oggi?
Il Francesco Stella arrivato dalla lontana Marsala, ha realizzato molto di quello che sognava. Per il futuro spero di poter continuare ad avere sempre il sorriso mentre lavoro.

Qual è la sfida più grande che il lavoro ti ha posto davanti sinora?
Quella di non scoraggiarmi e di non mollare. I tempi sono molto difficili per chi fa questo lavoro. La mia fortuna è stata quella di non fossilizzarmi in un solo campo, scelta non sempre recepita positivamente dagli altri. Sono sicuro che il tempo mi darà ragione.

Quali progetti hai in cantiere?
Tra poco uscirà Il Cacciatore, una nuova fiction Rai n cui interpreto un integerrimo carabiniere. In contemporanea sto lavorando a due format tv di prossima uscita.

Cosa porteresti con te su un’isola deserta?
Il mio cane, la playlist con le canzoni che mi accompagnano da sempre, carta e penna.

Quale film non ti stancheresti mai di guardare?
Shortbus.

Quali sono gli ingredienti per un format TV di successo in Italia?
È difficile rispondere a questa domanda, perché ormai il pubblico sceglie con cura quello che vuole vedere e l’offerta è molto ampia. Gli ingredienti dipendono sempre più dal target di riferimento. Il pubblico non si lascia più prendere in giro, cambia canale facilmente.

Photography: Karel Losenicky
Styling: Sara Leoni

®Riproduzione Riservata

Il Bisonte guarda lontano, ma è fedele al suo territorio

Cover_Sofia Ciucchi_ad Il Bisonte 

Con Sofia Ciucchi un excursus nel mondo de, Il Bisonte. Dalla riattivazione stilistica alle aperture worldwide, dall’ideazione del km 30 all’Australia – passando per la ricchezza dell’heritage e per l’anti convenzionalità delle creazioni – l’AD dello storico brand toscano di pelletteria racconta il nuovo corso del marchio, ideato nel 1970 da Wanny Di Filippo (attuale presidente del consiglio di amministrazione), che, oggi come allora, parte dai dintorni di Pontassieve, per raggiungere l’altro capo del mondo.

Altro che grandi praterie nordamericane, Il Bisonte si muove circoscritto in un raggio di 30km, nei dintorni di Pontassieve. E non oltre. Infatti, per la storica label toscana di borse e di pelletteria è fondamentale mantenere intatto il know-how artigianale e ben salde le radici territoriali, pur guardando lontano: ai Paesi oltreoceano e anche al sud-est asiatico, ancora da esplorare con i suoi prodotti. Questa sostanziale filiera corta è stata protagonista di una video installazione, curata dallo story teller digitale Felice Limosani, nella nuova showroom di Palazzo Corsini, a Firenze, durante la recente edizione di Pitti Immagine Uomo. A raccontarla e a illustrare il futuro del marchio interprete della vacchetta conciata al vegetale, l’ad Sofia Ciucchi, che ha preso le redini de Il Bisonte dopo Wanny Di Filippo, cuore e anima del brand nato nel 1970.

Com’è nata questa idea del km 30?
È un po’ il racconto della marca attraverso la sua struttura e la filiera. Siamo partiti come in un gioco perché quando sono arrivata in azienda, vedendo i vari fornitori e cercando di capire la provenienza di ogni componente, ho scoperto, ogni volta, un piccolo paese nelle vicinanze di Pontassieve e quindi ridendo, ho detto che non stiamo lavorando a chilometro zero, ma a km30, ed è la verità. Anche con l’installazione nella nostra showroom, che abbiamo sviluppato assieme a Felice Limosani, dove abbiamo rappresentato una mappa – così come si fa con Google Maps – ci siamo divertiti a indicare i paesi da cui provengono i componenti principali delle borse e della piccola pelletteria. Effettivamente tutto si svolge nell’ambito di un territorio ben definito, della Val di Sieve, del Mugello, a Est di Firenze in cui, da sempre, la marca opera e produce. Solo il pellame d’elezione, che è la vacchetta conciata vegetale, viene da più lontano, da Santa Croce sull’Arno a 50km, ma è tutto prodotto in Toscana. Ci sembrava un racconto di particolare interesse oggi, non per celebrare l’immagine del prodotto toscano e della fiorentinità, ma per ribadire la sostanza vera di territorio, di valori, del saper fare e anche di un certo tipo di gusto e di stile. Questa specificità abbiamo voluto raccontarla, senza avere complessi, pensando che una realtà territoriale forte e con radici salde, anche in un distretto di provincia, non impedisce di arrivare all’altro capo del mondo con i suoi modelli, come fa Il Bisonte da quasi 50anni.

Qual è il Paese più lontano che raggiungete?
L’Australia, però quello più importante è il Giappone che, ormai da decenni, rappresenta la maggior parte del nostro fatturato. Lì abbiamo 38 negozi monomarca, gestiti da un distributore. Il Giappone apprezza questo tipo di prodotto, la sua storia, il fatto che invecchia bene, per la pelle con cui è fatto, sviluppando un rapporto molto personale con chi lo indossa. L’invecchiamento è diverso a seconda dell’uso che se ne fa, quindi anche la patina che viene sopra e anche l’abbronzatura dipende da quanta esposizione alla luce del sole e da quanto contatto con la pelle c’è stato.

Se dovesse dare un peso specifico all’heritage del marchio?
Trovo che avere una storia, un heritage e anche un fondatore che ancora vive nella marca – è il presidente del nostro consiglio d’amministrazione – coinvolto nelle attività d’immagine e di comunicazione, sia una ricchezza eccezionale. È quello che alla fine distingue il marchio, che esprime un punto di vista sullo stile e sulla vita. Stiamo lavorando per recuperare al massimo ed evolvere questo heritage.

Di che cosa Il Bisonte non può fare a meno?
Sicuramente della vacchetta; poi non può fare a meno del livello speciale di artigianalità che solo un made in Italy può dare. E di uno spirito anti convenzionale che fa la differenza tra noi e i competitor di pelletteria toscana.

Cinque cose che Il Bisonte garantisce?
Personalità, unicità del prodotto, grande qualità, valore. Nel rapporto con il prezzo credo che diamo una qualità abbastanza unica. E poi il calore. Sono un prodotto e un marchio molto personali.

Cosa state preparando per il futuro?
Stiamo lavorando sia sul prodotto e sia sulla marca. C’è una riattivazione da un punto di vista stilistico e anche di marketing e comunicazione, inoltre stiamo operando attivamente sulla parte distributiva. Il prossimo step importante è il ritorno a Parigi. Per noi il mercato francese è sempre stato una piazza d’elezione. Abbiamo due piccole boutique che stiamo ristrutturando e, alla fine di gennaio, apriremo un pop up che rimarrà on stage fino a giugno, in zona Rue du Faubourg Saint-Honoré, dove l’idea è di rappresentare la marca con il suo heritage, ma anche con il suo spirito un po’ scanzonato.

Quanti negozi monomarca ci sono nel mondo?
Quelli gestiti direttamente sono gli europei. Ad oggi sono sette, ma sono destinati a diventare otto con quello di Parigi e stiamo lavorando su altri progetti di rafforzamento su Londra e un’altra piazza europea. Sono due a Roma, due a Parigi, uno a Londra, quello storico di Firenze e uno di recente apertura a Milano in via Santo Spirito, che rappresenta il nuovo concept de Il Bisonte, con un mix di elementi vintage e iconici e con un’interpretazione un po’ più nuova. In termini di monomarca indiretti ne abbiamo altri 50, 38 in Giappone e altri 12 nel resto dell’Asia, tra Hong Kong, Indonesia, Taiwan e Corea.

E il mercato americano?
È stato estremamente importante fino a qualche decennio fa e ritengo che sia abbastanza in linea con il nostro gusto. Ci crediamo molto e stiamo cercando di farlo ripartire con slancio. Per ora siamo presenti soltanto con una distribuzione multimarca; abbiamo iniziato a luglio una collaborazione con una showroom a New York e stiamo ipotizzando l’apertura di un paio di punti vendita diretti.

Dove?
Costa Est e Costa Ovest. Tra l’altro il marchio è particolarmente amato in California quindi, al di là di New York, l’idea è di avere un punto vendita proprio lì.

Come si è chiuso il fatturato del 2017?
Un po’ sopra i 27 milioni, con una crescita di quasi il 30% e stiamo affrontando il 2018 con obiettivi analoghi. Vogliamo mantenerci su questo tipo di sviluppo, sfruttando anche un’espansione di perimetro che per il marchio è ancora possibile fare. Abbiamo molte opportunità nel sud-est asiatico ancora da esplorare e non siamo presenti in Cina. Inoltre, l’America è sicuramente il mercato nel quale provare a crescere.

Chi è il vostro cliente tipo?
È difficile da definire in termini di fascia d’età e di reddito. Direi che si caratterizza più per un certo stile. Abbiamo dei Paesi come il Giappone dove il nostro cliente è giovanissimo, dai 20 ai 35 anni, invece nei mercati europeo e statunitense è più maturo. Quello che collega tutti è l’occhio un po’ sportivo, però che sa apprezzare il prodotto bello e ben fatto. Sono persone che non gradiscono le metallerie troppo evidenti e a cui piace distinguersi dal gusto di massa.

C’è una frase per identificare il marchio?
Ne cito due che sono di Wanny (Di Filippo, il fondatore, ndr.) e che sono strepitose. Il motto della sua partenza è stato: “Se lo posso disegnare, lo posso anche realizzare”. L’altro è, “libertà, amici, salute”, alla fine sono i valori forti e veri di un marchio vicino alla vita delle persone.

®Riproduzione Riservata

AVETE GIÀ SENTITO PARLARE DI JEFF WARD?

cover_Photographer: Yasmine Kateb; Grooming: Erik Torppe of Erik Torppe Artistry

Nato e cresciuto negli Stati Uniti, con la passione per la recitazione sin dalle scuole elementari, Jeff Ward è un attore e scrittore americano di cui sentiremo parlare parecchio nei prossimi mesi. Attesissima è la quinta stagione di Agents of S.H.I.E.L.D., che vede tra i nomi del cast quello di Jeff, nei panni di un personaggio “chiave”. Lo abbiamo conosciuto nella serie Channel Zero: The No-End House, dove ha interpretato il ruolo di Seth, un ragazzo magnetico e carismatico con un background difficile, con cui Ward dice di avere poco in comune. Per il futuro, l’attore sogna di coniugare le sue più grandi passioni, scrittura e recitazione, arrivando ad occuparsi della regia e della scenografia, del mondo del teatro e del cinema. MANINTOWN Ward per conoscerlo meglio e scoprire obiettivi e sogni in serbo per il suo futuro lavorativo. Nel frattempo, attendiamo di vederlo recitare nella nuova e avvincente stagione di Agents of S.H.I.E.L.D., prossimamente disponibile su Netflix che, a detta dell’attore, ci terrà incollati allo schermo del computer.

Quando hai iniziato ad interessarti al mondo della recitazione?

Alle scuole elementari ho interpretato un ruolo in una recita. Il mio insegnante scrisse una versione di Tom Thumb ed ho avuto il ruolo del protagonista. Questa esperienza, assieme ad un’ossessione adolescenziale per la cinematografia, mi hanno spinto ad avvicinarmi al mondo della recitazione.

Hai un attore che ti ispira?

Naturalmente, ce ne sono tanti. Il primo che mi viene in mente è Cillian Murphy. Anche Sam Rockwell, Joaquin Phoenix, John C. Reilly, Tilda Swinton e Mark Rylance, tanto per nominarne alcuni. Recentemente, poi, ho amato le performance di Jude Law e Diane Keaton in, The Young Pope ed anche quella di Robert Pattinson in, Good Time.

Il tuo ruolo di Seth nella serie Channel Zero: The No-End House è stato descritto come quelli di “un ragazzo magnetico, pacato e carismatico”. Ti riconosci nel personaggio che interpreti?

Non molto. Siamo persone abbastanza diverse. Seth è orfano e questo condiziona la sua personalità e la sua visione del mondo. Non è necessariamente qualcosa di negativo, veniamo solamente da differenti background. Lui è un ragazzo interessante, vi consiglio di guardare la serie per conoscerlo meglio.

Ti vedremo nella quinta stagione di Agents of S.H.I.E.L.D.Puoi anticiparci qualcosa sul tuo ruolo, definito dai rumors, un ricorrente personaggio “chiave”?

Tutto quello che posso dirvi è che la quinta stagione sarà davvero avvincente. Sono molto fortunato a interpretare il mio personaggio e mi sono divertito parecchio durante le riprese. Chi è un fan di Star Wars, Star Trek, Planet of the Apes, Guardians of the Galaxy adorerà questa stagione.

Sei interessato ai nuovi trend di moda?

Non molto. Ho visto la nuova collezione Yeezy, amo Kanye Wes,t ma la nuova collezione non mi è piaciuta affatto. Continuo, però, ad essere un grande fan delle scarpe che disegna.

Se potessi scegliere, quale ruolo ti piacerebbe interpretare?

Amleto o Iago, in Otello.

Che direzione credi che prenderà la tua carriera nei prossimi dieci anni?

Spero di poter lavorare nel cinema e nel teatro, sia come scrittore che come regista. Sto iniziando a capire come funziona il mondo della recitazione, specialmente nell’ambito del cinema. Spero di essere portato per questo mondo e che la recitazione sia nel mio futuro.

®Riproduzione Riservata

SULVAM, IL BRAND GIAPPONESE ‘VERY IKI’

Cover_Teppei Fujita

MANINTOWN ha dialogato con i designer più interessanti del momento per scoprirne il rapporto con il significato di eleganza, con la tradizione estetica italiana e con la città di Milano.

Classe 1984, il giapponese Teppei Fujita fonda il brand SULVAM nel 2014. Diplomato al Bunka Fashion College di Tokyo, con alle spalle una lunga collaborazione presso Yohji Yamamoto, Fujita guadagna presto il consenso degli addetti ai lavori internazionali, aggiudicandosi il “Tokyo Fashion Award” nel 2014 e, come uno dei vincitori di “Who Is On Next? Dubai” nel 2015; presenta le proprie collezioni in occasione della Paris Fashion Week. A Milano sfila durante la moda uomo S/S 18 ne La Fabbrica del Vapore, grazie all’aiuto di Camera Moda. Il suo stile fa tesoro della lezione del grande maestro, sviluppando un tailoring reinterpretato in chiave fortemente contemporanea, con un focus su tessuti di grande qualità e silhouette innovative.

Come trasformi l’idea tradizionale di eleganza maschile? Cosa sono lo stile e l’eleganza per te?

Non faccio molto riferimento allo stile italiano, non credo sia mio compito farlo. In ogni caso, ho sempre considerato il concetto di ‘eleganza’ nelle mie collezioni e non credo che lo stile coincida con il come vengono indossate. L’eleganza è insita in ognuno. Il gentleman che indossa un abito di tutto punto, come nell’Europa degli anni 30, è elegante, l’operaio in vesti da lavoro, è elegante. C’è una parola giapponese, ‘IKI’ (parola che riassume l’essenza della cultura giapponese in quanto racchiude in sé seduzione, energia spirituale, rinuncia) che credo si avvicini molto al concetto di eleganza.

Hai ricevuto supporto da Camera Nazionale della Moda? In che modo?

Era la prima volta che organizzavamo uno show a Milano, con un team molto piccolo e lavorare lì è stata una grande esperienza formativa per tutti noi. Siamo stati capaci di capire ciò di cui avessimo bisogno e ciò che invece non serviva. In quanto piccolo brand, sarebbe stato difficilissimo realizzare un intero show e in questo, il supporto di Camera Moda è stato essenziale. A sera ci siamo resi conto della fantastica esperienza vissuta e di quanto sarebbe bello tornare sulle passerelle milanesi.

Stai cambiando il fashion system milanese?

 Milano è un grande punto di riferimento nella storia della moda, e io vorrei superarlo. Non voglio realizzare capi ‘tradizionali’. Vedo molti giovani designer fare sfilate con capi street-style, ma lo stile di SULVAM è diverso. Non credo di suscitare grandi cambiamenti nella Milano Fashion Week, ma di certo eravamo lì per trasmettere qualcosa con la nostra sfilata.

Quali sono i tuoi 5 hot spot preferiti a Milano o in giro per il mondo?

Per lo shopping due destinazioni di riferimento per me sono: United Arrows One (Harajuku) e Dover Street Market a Ginza. Poi amo molto il vintage e tra le mecche da non perdere per trovare abiti e mobili speciali è lo store Jantiques nel cuore della shopping street Nakameguro. Per vivere invece la nightlife di Tokyo vi consiglio questi due club & disco a Shibuya: Vision e Contact.

United Arrows One, B1F-3F, 3-28-1 Jingumae, Shibuya-ku, Tokyo 150-0001, www.united-arrows.co.jp
Dover Street Market Ginza, 6 Chome-9-5 Ginza, Chuo, Tokyo 104-0061, ginza.doverstreetmarket.com
JANTIQUES, 2 Chome-25-13 Kamimeguro, Meguro, Tokyo 153-0051, www.instagram.com
Vision, B1F 2-10-7 Dogenzaka, Shibuya 150-0043, Prefettura di Tokyo, www.vision-tokyo.com
Contact, 2-10-12 Dogenzaka | B2F SHINTAISO BLDG No.4, Shibuya 150-0043, Prefettura di Tokyo, www.contacttokyo.com

®Riproduzione Riservata

GIORGIO MARCHESI un attore a 360°

Cover: jacket e denim Jacob Cohen; shirt Corneliani

Un talento scoperto sul campo e una passione nata nel tempo: è Giorgio Marchesi, ormai affermato attore italiano, classe 1974.  La sua formazione comincia a Padova, dove grazie a un corso di recitazione tutto ha avuto inizio. Dopo alcuni anni nel teatro e nella pubblicità, si trasferisce a Roma nel 2003, dove ha l’occasione di venire a contatto con il vero e proprio mondo dello spettacolo. Negli anni, Giorgio dimostra talento e determinazione, entrando a far parte di importanti produzioni teatrali, televisive e cinematografiche e lavorando con registi come Marco Tullio Giordana e Ferzan Özpetek, continuando ad affinare le sue competenze frequentando corsi, stage e seminari tenuti da importanti maestri.
Non solo attore ma anche padre, noi di Manintown ci siamo fatti raccontare qualcosa sui sogni e sulle passioni di un personaggio che, con i suoi modi decisi e gentili, sta affascinando sempre più il grande pubblico.

Hai sempre sognato di fare l’attore? Com’è cominciata la carriera di Giorgio Marchesi?

Da ragazzino in realtà sognavo più di fare il calciatore o il cantante. Avevo sicuramente l’attitudine da attore, ma ero ancora molto timido, facevo le battute con gli amici, le imitazioni, ma non pensavo alla carriera nel mondo dello spettacolo. Forse perché a Bergamo non era un mestiere così usuale. Più grande ho frequentato un corso di teatro, grazie al quale ho scoperto e potuto mettere in pratica la mia passione. Al termine del corso, dopo il saggio finale, mi hanno chiesto di fare uno spettacolo con la loro compagnia, e da lì non mi sono più fermato. Ho lavorato nella pubblicità, a Milano, per poi trasferirmi a Roma dove, per fortuna, le cose hanno cominciato a girare per il verso giusto. All’inizio ho recitato molto in teatro, e dopo qualche anno sono arrivate le prime occasioni e le prime piccole parti nel cinema e in televisione.

Teatro, cinema o TV?

Sono tre cose molto diverse e se si ha la possibilità è bello poter variare e sperimentarle tutte e tre. Il cinema dura più a lungo nel tempo e mi è capitato anche che una parte più piccola mi regalasse una grandissima soddisfazione. La televisione, invece, dà una quotidianità, ti rende popolare o comunque ti permette di arrivare più facilmente alla gente. Spesso ci dimentichiamo quanto questo lavoro sia fatto per le persone, dobbiamo piacere a loro prima di tutto. Il teatro, invece, è la mia grande passione iniziale, richiede più disciplina e presenta più difficoltà. Appena penso al teatro penso alla fatica, al sudore, perché nonostante sia per molti aspetti più finto, per un attore è assolutamente reale. Il palcoscenico è un rapporto diretto con il pubblico, avviene in quel momento, non si può rifare la scena o “tagliarla”.

Ti è mai capitato di dover interpretare un personaggio molto lontano dalla tua personalità? Se sì, quale? Quali sono le difficoltà più grandi che hai incontrato?

Si mi è capitato, anche più di una volta. Interpretare un personaggio lontano dalla tua personalità è sicuramente difficile, ma non sempre, è possibile invece che sia addirittura più facile, permette di esplorare campi sconosciuti e lasciarsi andare completamente.
Mi è capitato, per esempio, di recitare nel ruolo di assassino o torturatore, di dover quindi far finta di sparare a un bambino di quindici anni, cose che mi scioccano anche al solo pensiero di compierle nella vita reale. Quando reciti però tutto diventa un gioco, è finzione, quindi puoi e devi anche lasciarti andare e divertirti. Forse il personaggio più difficile per me è stato Franco Freda, neo-fascista e ex terrorista degli anni ‘70. È stato difficile interpretarlo perché venivo da ruoli di personaggi televisivi positivi. Per fortuna si trattava di una persona reale, ho quindi potuto studiare il personaggio e imparare a seguire i suoi ragionamenti attraverso i suoi scritti e immedesimarmi nel periodo storico. La grossa difficoltà sta nell’entrare nella testa di un personaggio, credo che ci si possa riuscire con delle improvvisazioni, liberandosi di quelle che sono le nostre abitudini. Molto importante è l’aiuto di una persona che ti guidi, e in questi casi la figura del regista è fondamentale. Mi hanno sempre insegnato che un attore deve essere sempre aperto, non giudicare, non giudicarsi e lasciare che il personaggio si impossessi di lui, lasciando cadere tutte le proprie sovrastrutture.

In che modo essere un attore e saper recitare influisce nella vita di tutti i giorni? 

Non so quanto nella mia vita quotidiana influisca essere attore, me ne dimentico. Mentire mentono tutti, noi anzi siamo nella condizione più sfortunata, tutti pensano che, visto il nostro lavoro, sappiamo mentire meglio degli altri o che mentiamo nella vita reale come nella finzione. In realtà, posso assicurare che mentono molto meglio altre categorie di persone. È sicuramente un lavoro che condiziona psicologicamente, molti vedono soltanto la parte luminosa di questo mestiere, che c’è, ma non solo. Non a caso moltissimi attori, principalmente quelli hollywoodiani particolarmente stressati, hanno un sacco di problemi nella vita normale, come dipendenze di vario genere, infelicità, depressione. Questo in parte accade anche ai poveri, piccoli giovani attori italiani. Detto ciò, non credo aiuti particolarmente essere attore nella vita di tutti i giorni, come in tutte le cose bisogna trovare un equilibrio e avere interessi anche al di fuori del lavoro.

Il momento più emozionante della tua carriera fino a oggi.

Forse la prima volta in assoluto in cui mi sono esibito. Il massimo della soddisfazione l’ho ottenuta uscendo dopo uno spettacolo e ricevendo un applauso convinto e sincero da parte di persone che sono venute a vedermi e hanno condiviso un momento che rimarrà per sempre unico. Il momento più bello in assoluto della mia carriera vera e propria invece, è stato nel 2012, quando contemporaneamente mi esibivo al teatro Argentina a Roma in uno spettacolo molto importante, stava uscendo la prima serie di “una grande famiglia”, fiction di successo in cui interpretavo un personaggio importante, e sempre in quel periodo ero al cinema in altri due film. Questo è stato il momento in cui ero coinvolto in tanti progetti molto belli che comprendevano tutte le sfaccettature del mio lavoro, è stato l’anno in cui ho cominciato a farmi davvero conoscere, sia dagli addetti ai lavori che dal grande pubblico.

Le tue passioni? Come ami trascorrere il tuo tempo libero?

Sicuramente l’Atalanta, la squadra di Bergamo e la musica funky degli anni ‘70. Amo, ovviamente, anche il cinema e il teatro. Mi piacciono talmente tante cose che ho sempre desiderato una giornata di 48ore. Sono appassionato di sport, cinema, arte, libri; mi piace stare con le persone a chiacchierare, ballare e, perché no, ubriacarmi. Mi piacciono troppe cose per riuscire a fare tutto. Quello che faccio più spesso nel tempo libero è occuparmi delle persone che mi stanno più vicine, un dovere e anche un piacere avendo due figli e una compagna. Di solito, infatti, cerco di unire quello che mi piace fare a loro, sport con loro, andare a vedere un film con loro, insomma, fare cose piacevoli tutti assieme. Amo viaggiare, cerco di farlo il più possibile, e una cosa in particolare che mi fa stare bene è il verde, la natura. Ogni tanto ho bisogno anche di relax, ma in generale non riesco a stare troppo fermo.

Quanto è importante lo stile per te? Hai un capo e/o un brand che più ti caratterizza?

Lo stile è sicuramente importante e per me lo sta diventando sempre più col tempo. Da ragazzo nei miei look non è mai mancato un pizzico di originalità. Sono stato un collezionista dei più strani e improbabili cappelli e occhiali da sole. Il mio preferito è un cilindro che ho comprato a Londra, che mi sono portato in giro dappertutto. Non ho ancora un brand che mi caratterizza, ma se penso a un capo subito mi viene in mente la giacca, ormai indosso la giacca per fare qualsiasi cosa, non solo per le occasioni importanti. La trovo comoda, ha tante tasche, quando viaggio lo trovo il capo più funzionale

Sogni ancora nel cassetto? 

Sicuramente un viaggio lungo. Mi piacerebbe vedere l’Africa e starci almeno tre mesi. A dirla tutta mi piacerebbe avere tre mesi all’anno per poter girare il mondo.

Photo by Roberta Krasnig
Stylist Stefania Sciortino
Assistente fotografo Jacopo Gentilini

®Riproduzione Riservata

Trent’anni di Lacroix in una capsule d’autore

È uno dei nomi che ha più segnato la moda degli anni Ottanta e Novanta, entrato nell’immaginario collettivo – non solo negli armadi dei fashion addicted – grazie a uno stile pieno di citazioni e colori, ricercatezza e spunti, dal Barocco alla Pop Art, ben lontano dal minimalismo e sempre con una filosofia colta, dallo spirito internazionale, ma al tempo stesso figlia di una joie de vivre tutta francese. Christian Lacroix ha lasciato il marchio che porta il suo nome nel 2009, ma il brand è continuato sotto la guida del creative director Sacha Walckhoff, che si è concentrato soprattutto sulle proposte più legate al lifestyle e al mondo della casa. Ora, per festeggiare il trentesimo anniversario della nascita della griffe, è stato chiamato un artista multimediale molto noto sulla scena newyorchese, Brian Kenny, a creare una capsule collection in cui alcune sue opere originali sono state riprodotte su molti oggetti di uso comune, dalle tazze alle magliette, passando per le cover dei cellulari. Nell’universo Lacroix si respira un’aria frizzante e di rinnovamento che ci ha incuriosito molto, per questo abbiamo intervistato i due protagonisti di questa avventura: Sacha Walckhoff e Brian Kenny.

Raccontateci com’è nata questa collaborazione.

Sacha Walckhoff: Conosco l’arte di Brian da circa 10 anni, allora lui stava lavorando con l’artista Slava Mogutin, il loro team si chiamava Superm. Ho incrociato di nuovo i suoi lavori su Instagram due anni fa, così ci siamo incontrati, ho visitato il suo workshop a Long Island e sono rimasto impressionato dalla vastità del lavoro e dalla luminosa personalità. Lavorare con lui per la celebrazione dei 30 anni del marchio Lacroix è stata l’occasione perfetta per costruire la forte amicizia che abbiamo oggi e per creare una collezione gioiosa!

Brian Kenny: Come tutte le grandi storie, è iniziato tutto con un bellissimo paio di scarpe – e queste scarpe erano ricoperte di unicorni! Sacha, che mi seguiva su Instagram, me le ha spedite al mio studio come regalo perché erano simili a uno dei miei disegni e la nostra amicizia è cresciuta da lì.

Cosa pensi di Lacroix? Come la tua direzione creativa sta reinventando questo stile?

Sacha Walckhoff: Sono stato in questa casa di moda per 25 anni, ho lavorato 18 anni insieme a Christian, quindi ho attraversato tutti i diversi periodi della Maison. Quando Lacroix se n’è andato nel 2009 e sono stato nominato direttore creativo, 6 mesi dopo, la maison era quasi crollata. Con Nicolas Topiol, CEO dal 2005, abbiamo sempre pensato che il brand avesse qualcosa da dire nell’universo del lifestyle. Abbiamo incontrato Tricia Guild, direttore artistico e fondatore di Designers Guild e abbiamo lavorato con il suo backup sulla prima collezione casa Lacroix (2011) che ha oggi un bel seguito. Questo ci ha mostrato quanto fosse forte la maison e che poteva reinventarsi. Faccio tutte le mie ricerche sulle parole che definiscono il marchio: il colore, la mescolanza, la sorpresa, la flamboyance e la singolarità. Da questo, con il mio studio, freelance e ora artisti come Brian, mi permetto una totale libertà di creazione, dobbiamo solo essere fedeli a quelle parole!

Brian Kenny: Penso che il mio stile creativo fosse già in linea con quello di Lacroix prima della collaborazione. Uno stile fatto di fantasia selvaggia e vibrante diversità, una totale libertà d’immaginazione e un’estetica di novità e integrazione. Perciò, piuttosto che reinventare, in questa collaborazione la mia direzione creativa, in realtà, amplia la ricchezza e la profondità dell’universo Lacroix.

A chi si rivolge questa collezione che celebra il trentesimo anniversario?

Sacha Walckhoff: I nostri clienti provengono da ogni sorta di origine e di età, ma con Brian stiamo parlando anche con una gente più giovane, che non conosceva gli anni ’80, è stato importante per me avere un giovane artista come Brian che esprime la sua arte e la visione in tutte le sfaccettature di un brand che non conosceva molto, prima. È stato anche importante per me lavorare con un artista che si avvicina al mondo e alla comunità gay con umorismo e spirito.

Brian: Questa collezione speciale per il 30° anniversario è una celebrazione, perciò tutti sono inviati alla festa! Ecco perché molti pezzi della collezione hanno prezzi convenienti, accessibili a chi vuole indossare o portarsi a casa qualcosa dalla magica maison Lacroix!

Guardando al vostro lavoro, possiamo vedere tecniche e temi diversi, come definireste il vostro stile?

Sacha Walckhoff: Credeteci o no … sono nato minimalista, educato in Svizzera, amo la verità, la semplicità e una certa struttura … ma ho in me anche un po’ di russo e di africano e sono forse questi lati che mi hanno avvicinato a Lacroix. Il risultato è una personalità strutturata, ma eclettica, sempre curiosa. In realtà abbiamo molto in comune con Brian, che ha un background religioso e militare ed è diventato poi un artista multimediale selvaggio e appassionato!

Brian Kenny: Mi interessa sperimentare la spontaneità ed esplorare nuove idee, il mio stile è notevolmente ampio e include approcci molto diversi. Essenzialmente, è uno stile massimalista. Per esempio, sono molto interessato alle nuove idee circa la natura fluida della sessualità e del genere, perciò sto disegnando, dipingendo e cucendo insieme immagini di esperienze trans: creature androgine e multiformi.

Puoi dirci quali sono i tuoi prossimi progetti? Immagini già altre collaborazioni con Christian Lacroix? Con altri artisti o altri brand ?

Sacha Walckhoff: Amo il processo di cooperazione, abbiamo collaborato già con pezzi speciali con Kartell e MOOOI lo scorso anno (Marcel Wanders è anche un buon amico, oltre che essere una personalità straordinaria). Quindi, lo faremo sicuramente. Ho solo bisogno di avere un rapporto speciale con il marchio o con l’artista, visto che è soprattutto questione di condividere un momento creativo ed emotivo. Brian è partito questa mattina per NY, tutto lo studio ieri sera gli ha inviato biglietti di addio dopo gli incredibili momenti che abbiamo passato insieme, sono stato contento di vedere che, accanto alla grande collezione che abbiamo fatto, ci sono tutti questi nuovi legami tra noi che rimarranno.

Brian Kenny: Attualmente mi sto preparando per realizzare un murales gigante al Museo di Rotterdam, per una mostra, questo settembre, sulle maschere curata da Walter Van Beirendonck, creature mascherate fantastiche tutte con le braccia allungate e che si toccano l’una con l’altra, che mi piace chiamare “Connecting Creatures”. Io sarò sempre grato di aver avuto l’opportunità di aggiungere la mia storia all’arazzo sempre in espansione di Lacroix, e considerando che è un brand visionario e aperto a tutti, immagino che continueranno a collaborare con molti altri meravigliosi artisti e persone creative. Lo stesso per me, le collaborazioni saranno sempre un’importante parte della mia professione, perciò continuerò a lavorare con altri artisti e brand.

®Riproduzione Riservata

matthew zorpas. athens calling

Gentleman di nome e di fatto, è considerato uno dei più importanti web influencer del momento. Non posta e basta, racconta storie di stile, dispensa consigli su come comporre i look, attraverso i suoi viaggi ispira un seguito di followers da tutto il mondo. Parliamo di Matthew Zorpas, blogger e fondatore di thegentlemanblogger.com. Matthew è anche un creative consultant e, attualmente, brand ambassador di IWC Schaffhausen. Nato a Cipro, Matthew studia e si trasferisce a Londra per ritornare alle origini trasferendosi di recente ad Atene. Proprio per il suo compleanno (festeggiando i 30 anni con tanto di #mz30th) lo abbiamo incontrato e ci siamo fatti raccontare il suo punto di vista su una delle città più affascinanti al mondo per storia, cultura e continuo fermento.

Cosa ti piace di Atene?
Atene è in gran fermento al momento. È una città che negli ultimi anni ha sofferto, ma recentemente ha iniziato a respirare di nuovo. Piccole aperture, negozi popup, bar e ristoranti sono a ogni angolo, offrendo l’eccellenza nel design, gusto e servizio. È l’inizio di una nuova era, di nuove idee, di un nuovo sistema. Io voglio esserne parte.

Cosa mettere in valigia?
Viaggiate leggeri! Diventa caldissimo in estate. Mettete in valigia creme solari, il vostro cappello di Panama (soprattutto se volete fare una passeggiata sull’Acropoli), una camicia di lino bianca o azzurra (vi adatterete perfettamente ai greci), le vostre espadrillas alla moda e alcune paia di calzoncini. Non dimenticate il vostro zaino, per mettere i vostri autentici souvenir ateniesi da Plaka!

I 5 posti più importanti da visitare ad Atene (ristoranti, spiagge, hotel, discoteche, negozi)?
Il mio ristorante preferito nel centro di Atene è Nolan, cucina fusion giapponese e greca. Spiagge: a 40 minuti in barca, assicuratevi di visitare Agkistri, una delle isole più vicine ad Atene con acque cristalline. Aponhsos è uno dei miei punti preferiti dell’isola. Hotel: Electra Metropolis è una delle ultime aperture in città e con la migliore roof top. Discoteche: l’area Gkazi è dove accade la magia. Dai bar greci alle feste speciali con dj internazionali, succede di tutto intorno a questa piazza. Negozi: Paraphernalia è la destinazione perfetta per gli amanti del design.

Un ricordo particolare riferito a questa città?
La festa per il mio compleanno dei 30 anni con i miei amici, venuti da tutto il mondo. È stato un momento davvero speciale e indimenticabile per me, qui ad Atene.

A chi consiglieresti questo viaggio?
Agli amanti, a chi ama il sole, l’estate, la storia, la bellezza, la natura, agli amanti della Grecia.

®Riproduzione Riservata

JAMES JAGGER, UN UOMO, DIECI RISPOSTE

Da piccolo ascoltava a ripetizione la canzone “Johnny Be good” di Chuck Berry e confessa di avere ancor oggi una passione irrefrenabile per i film gangster. James Jagger, figlio di un più noto Mick, ha iniziato la sua carriera nel cinema, ma non solo, è anche un ambientalista convinto, e parte del progetto “The wave walk”, che coinvolge artisti e scultori e designer per realizzare varie opere a NYC che sensibilizzino le comunità sui temi della salvaguardia dell’ambiente marino. In attesa di vederlo anche in un film del regista Christopher Nolan – un suo desiderio svelato – non vediamo l’ora di (ri)vederlo sul grande schermo nella pellicola 747, che uscirà a breve.

Gli esordi da attore
Già al liceo, a 16 anni. Interpretando un ruolo in uno spettacolo scolastico capii che comunque quella poteva essere una strada, la mia strada. Così mi iscrissi ad un corso di recitazione a Londra e poi a New York (la verità è che a quel tempo passavo più serate alle feste che ore a provare il copione) ma una parte di me lo sentiva, sapeva che voleva andare no in fondo.

Tutto è pronto per il nuovo film 747
È stata un’esperienza molto piacevole, ho trovato dei grandi amici e degli ottimi professionisti. Non ho grandi aspettative per il suo successo (il mix di ingredienti che rende vincente un film è davvero vasto e bisogna avere talento e fortuna perché tutto si amalgami in maniera perfetta) ma personalmente sono davvero soddisfatto.

Il sogno nel cassetto
Ce ne sono molti ma se devo sceglierne uno, adesso, vorrei lavorare con Christopher Nolan (super): Inception, Intestellar, woow, sono pellicole invincibili. Lui è un talento prodigioso e per me sarebbe davvero un sogno poterci collaborare. Lui è uno di quei registi che anche con grandi budget riesce ancora a rischiare, a puntare su copioni innovativi e di livello. Il problema del cinema contemporaneo, infatti, è che le cose più belle vengono fatte con pochissimi soldi, da autori emergenti e che fanno moltissima fatica per affermarsi, mentre con le produzioni più grandi si pecca di buona qualità, si fa intrattenimento più che arte.

Un attivista convinto
La verità è che siamo un’associazione molto piccola, ci sono dentro soltanto sei persone e cerchiamo nuove fonti di crowdfunding per i nostri progetti: ogni anno ci battiamo per una causa specifica legata alla tutela delle coste e alle fonti di inquinamento marino e adesso, per esempio, abbiamo dato vita ad un progetto molto interessante, a New York, in partnership con La Mer, si chiama “The wave walk” e coinvolge artisti e scultori e designer per realizzare varie opere, in tutta la città, che sensibilizzino i passanti, la comunità, sui temi della salvaguardia dell’ambiente marino.

Il volto delle fragranze Armani
Girare la serie di short film per le fragranze Armani mi ha soddisfatto…Fabien Constant è stato un director straordinario, e la cosa davvero meravigliosa è che oltre alla promozione di un prodotto, nella sua idea c’è uno script, una storia reale, ci sono emozioni e sentimenti. E per un attore questa è pura vita. Con Matilde Lutz, mia partner nei film, abbiamo trovato immediatamente una sintonia ed un feeling piacevole, tanto che Fabien spesso filmava anche nei momenti di pausa. La spontaneità e la naturalezza che si creano sul set sono importanti per creare un prodotto autentico.

Condivisione e nostalgia – intervista ad Alexandre Matiussi

All’apogeo della postmodernità, la moda accoglieva per la prima volta la voce del pubblico per creare contenuto insieme a lui. Co-creare, appunto. Un modus operandi che oggi conosce un ulteriore sviluppo: sono i marchi che sempre più spesso collaborano, addirittura, tra di loro. Come a dar vita a una sorta di iper-brand, seppure per un tempo limitato, sintesi olistica di due identità differenti, più incisiva delle sue parti prese separatamente. Vetements e Gosha Rubchinskiy sono gli esempi più lampanti. Joint venture, co-produzione: è questo oramai il protocollo operativo. Insomma, negli anni in cui la condivisione è premessa necessaria all’esistere dell’esperienza, lo stesso accade per il processo creativo. La scelta si orienta perlopiù verso le icone dello sportswear e dello street syle anni Novanta. Il procedimento appare talvolta nostalgico ed è curioso che a farlo siano proprio i designer di quell’ultima generazione ad aver vissuto gli istanti terminali di un’età ancora analogica, come a volersi in qualche modo riappropriare, malinconici, di un tempo ormai passato. E proprio questo racconta Alexandre Matiussi. Per l’autunno/inverno di AMI – il marchio non è che l’anagramma delle sue iniziali e dell’ultima lettera del suo cognome, ma significa anche “amico” nella sua lingua nativa – ha collaborato con Eastpak realizzando tre modelli inediti, ora disponibili in alcuni selezionati negozi. Lui, che nel suo lavoro si sente spesso come uno chef in cucina, dice che è proprio la nostalgia l’ingrediente che il brand americano ha apportato a questo progetto, mentre AMI ha contribuito con un pizzico retro pop.

Come pensi che questo tipo di collaborazioni possano arricchire il tuo lavoro?
Da designer trovo che fondere la propria estetica con quella di un altro marchio, per creare un prodotto ibrido che possa avere un riscontro positivo sul mercato, sia un esercizio stimolante. Non si tratta di un processo facile, perché il risultato deve rimanere fedele all’ethos di entrambi. È una sfida e, senza dubbio, tutto ciò che ci mette alla prova al tempo stesso ci arricchisce.

Come scegli di solito il partner ideale e come è nata l’idea di questa capsule collection?
È una scelta che avviene sempre con estrema naturalezza: se l’energia che percepisco è positiva e se il progetto ha una logica per quanto riguarda il prodotto, fin da subito sono certo che funzionerà. Come in un puzzle, ogni elemento trova il proprio equilibrio con gli altri. Quando si è presentata l’opportunità di lavorare con Eastpak non ho avuto esitazione. È un marchio che in me evoca nostalgia: ho sempre avuto uno zaino Eastpak, sin da quando ero bambino – ho persino cercato una vecchia foto di quando lo portavo per andare a scuola, ma purtroppo sembra che mia madre quel giorno abbia preferito immortalare il viso piuttosto che ciò che indossavo sulle spalle, ed è un vero peccato – e vederlo rivivere nella collezione di AMI è un evoluzione di quel legame, come una sorta di percorso circolare che si chiude dove è cominciato.

Hai lavorato su alcuni modelli iconici di Eastpak. Perché hai scelto proprio questi tre?
Quello che mi ha colpito di questi modelli è la loro versatilità. Possono essere indossati sia da chi è molto attento all’estetica, sia da chi approccia la moda con un punto di vista che guarda alla praticità.

Lo zaino è un oggetto profondamente legato alla realtà e al quotidiano. Cosa ti affascina di più di questo accessorio?
Fino a non molto tempo fa lo zaino si indossava solamente per andare a scuola o in ambito sportivo, mentre solo recentemente ha attirato l’attenzione della moda, ed è appassionante sviluppare un prodotto proprio nel solco di questo processo di democratizzazione. In più, AMI è un marchio che ha salde le sue radici nella realtà: la sua è la storia di un ragazzo reale e di cosa veramente vuole indossare. Molta della mia ispirazione viene proprio dalla strada e da ciò che le persone realmente indossano, ecco perché per me è stato naturale lavorare su un oggetto che è così parte del quotidiano.

Come indosserai questa collezione e come immagini la indosseranno gli altri?
A Parigi mi muovo in scooter, per cui direi che uno zaino è perfetto. Il modello “Oversize Banana” doveva, inizialmente, essere un pezzo di traino per l’immagine, eppure credo lo userò tutti i giorni, perché è davvero molto pratico. Per quanto riguarda gli altri, ho disegnato questa collezione affinché ognuno potesse indossarla secondo il proprio punto di vista personale, che sia un giovane in abito oppure che indossi un paio di jeans o dei pantaloni corti. Inoltre, non ho pensato solo a un pubblico maschile, o a una precisa distinzione fra modelli femminili e da uomo. Ho semplicemente immaginato qualcosa che mi piacesse.

Qual è la cosa più preziosa che porterai con te da questo viaggio con Eastpak?
Ho imparato che unire le energie di due marchi è davvero interessante. Condividere, collaborare: è questa la strada verso il futuro.

®Riproduzione Riservata

CAMPANA BROTHERS – SUSTAINABLE SIGNATURE

cover_Bandidos Illuminados

Un dialogo silenzioso che riempie la fitta trama delle nostre giornate, lasciando l’indelebile traccia dell’affezione. È quello che intratteniamo con gli oggetti, quei manufatti di cui ci circondiamo e che investiamo di significati. Chiacchierando con Humberto Campana, del celebre duo creativo di fratelli designer brasiliani, è evidente quanto il coinvolgimento personale abbia un peso specifico nella progettazione, che diventa, così, diario di viaggio, istantanea del quotidiano o persino firma di impegno sociale. Gli oggetti iconici, figli di questo design sostenibile, rappresentano al meglio Humberto e Fernando Campana: unici, ispirati, contemporanei e meravigliosamente umili.

Qual è la condizione attuale del design?
Ad oggi è come una ferramenta politica; una forma di aiuto umanitario e di aiuto al pianeta. Dobbiamo prestare attenzione a tutti i rapidi cambiamenti che accadono a livello mondiale. In questo senso, i designers hanno uno strumento molto potente tra le mani, perché il loro prodotto è in relazione continua con la vita delle persone. Pensi alle comunità del nord del Brasile: questi aggregati sociali stanno scomparendo insieme alle loro tradizioni e portarle avanti tramite il design, significherebbe molto. È chiaro, quindi, che le implicazioni del design vadano più in profondità rispetto alla pura estetica.

Come risponde una città come San Paolo alle sollecitazioni del design contemporaneo?
San Paolo e Milano sono quasi gemelle, l’energia è molto simile, dura, ma estremamente affascinante; è una città che non dorme mai, quasi come una Manhattan dell’America latina, piena di grattacieli e frotte di elicotteri. Non è una metropoli che si concede facilmente, come Rio de Janeiro; va conosciuta, scoperta nei suoi anfratti con i suoi abitanti. Da 10 anni la scena del design a San Paolo e in tutto il Brasile sta cambiando molto rapidamente e, a oggi, non sono solo i fratelli Campana a raccontare questa evoluzione, ma anche tutta una nuova generazione che abbiamo contaminato con la cultura del design e le nostre idee di libertà espressiva. Le persone parlano di più questa “lingua del design” perché la capiscono e la globalizzazione in questo a certamente contribuito.

Il modus operandi dei Campana: usate un unico approccio sistematico per affrontare i vostri progetti?
È una sfida trattare realtà progettuali sempre diverse; siano esse macro o microscopiche il mio approccio è sempre lo stesso: passione e amore. Avere la libertà di scegliere ciò che amo è il motore per il mio impegno quotidiano; ero avvocato e ho abbandonato la professione per avere questa libertà. Un artista deve averla. Poter viaggiare attraverso universi sempre diversi: moda, design, arte o qualsiasi altro mi ispiri. Il ventunesimo secolo. dopo tutto. ci parla sempre più frequentemente di figure ibride che rompono le frontiere; quel che occorre mantenere è la passione nell’affrontare la sfida lavorativa. Nel quotidiano mi approccio a tutti i progetti “di pancia” e con molto intuito. Mi lascio ispirare dai sogni e dalle suggestion, che a volte diventano vere e proprie ossessioni. Spesso queste immagini si trasformano in progetti, ma non è automatico.

Avete dei ruoli ben definiti in quanto coppia di professionisti?
No (ride, n.d.r.). A dire il vero non abbiamo mai definito nessun ruolo. È una relazione tra fratelli che non è facile da gestire nella sua dimensione lavorativa di soci, bisogna raggiungere dei compromessi, e fortunatamente nel nostro caso, i perenni conflitti, sono sempre stati positivi e stimolanti.

gaetano pesce. if ideas had no boundaries.

Quattro decenni di carriera improntata alla creatività fanno di Gaetano Pesce una delle voci più autorevoli del design italiano. A lui, nato a La Spezia nel 1939, si devono creazioni che spaziano dall’architettura all’interior design, così come sculture, vasi e perfino gioielli. Convinto assertore che l’intuizione ideativa sia liberatoria, Pesce, per spiegare presente e futuro, parla del passato; per raccontare la sua coerenza creativa spiega l’incoerenza del linguaggio espressivo. Pluralismo e mutevolezza sono per l’architetto-scultore-designer i fondamenti di ogni processo, così come nuovi materiali e nuove forme sono alla base di nuove semantiche estetiche.

È un creativo a tutto tondo: mi parla del suo processo ideativo? Come cambia progettare un vaso, una lampada, l’interior design no all’architettura?
La creatività non ha barriere e le idee nemmeno. Alcune di queste possono essere delle ottime ragioni per fare dell’architettura, altre possono essere utili per creare degli oggetti, altre ancora per musica o poesia. Questa si chiama multidisciplinarietà o pluridisciplinarietà. Per capire quanto sto affermando, si guardi al comportamento di certi importanti artisti del Rinascimento. Raffaello disegnava le uniformi delle guardie del Vaticano, allo stesso tempo tratteggiava l’urbanismo della città del Papa, oltre a, come tutti sanno, dipingere le straordinarie tele che onorano l’Italia e sono presenti nei maggiori Paesi del mondo. Non occorre parlare di Leonardo nè di Michelangelo e di altri artisti multidisciplinari del Rinascimento. Per andare da un oggetto, a una architettura a una scultura niente cambia, se non la scala. Le motivazioni del progetto sono le stesse, espresse con diversi media.

La sua ricerca sui materiali: schiume, resine e polimeri. Quanto la materia è al servizio della creatività? Come governa la materia sulla forma?
Ci tengo a essere sincero con il mio tempo quindi, come uso tutti i progressi che esso mi o re, sono anche dell’idea che devo impiegare i materiali scoperti nei momenti della mia vita. Comunemente si chiamano sostanze “di sintesi” e, a mio modo di vedere, sono dei mezzi molto più performanti delle materie del passato. Nei processi creativi lascio questi materiali liberi al 30-40%, perché la loro ricchezza supera molte volte quella della mia mente.

La relazione tra gli oggetti e il corpo. La sicità nelle sue creazioni.
Ritengo che l’espressione astratta è da tempo superata dalla realtà. Ecco perché le figure appaiono nel mio lavoro, perché sono riconoscibili dal fruitore, aiutano la comunicazione e rivelano il contenuto delle opere. Da circa 50 anni la Figurazione è un elemento importante del mio operare. La componente figurativa è quella che parla al di là dei diversi linguaggi, delle diverse culture del mondo. Più recentemente, il computer comunica nello stesso modo per utenti provenienti da diversi Paesi.

La presenza dell’elemento antropomorfo nei suoi lavori?
Il linguaggio che uso non è sempre coerente, perché dipende da quanto avviene nella realtà. Ritengo che l’Arte sia un commento di quello che avviene nel nostro tempo. Questo è prima di tutto organico e, in particolare, liquido perché in esso avvengono valori contrastanti, contraddittori, che si presentano alla nostra attenzione, svaniscono e riappaiono. È come il movimento delle onde del mare, avvengono con rumore e svaniscono. Il mio linguaggio non è unico e dipende dagli argomenti che tratta, per questo non è coerente e a volte non è riconoscibile a chi segue il mio lavoro. Gli architetti che seminano nei diversi Paesi delle opere che dipendono da uno stile unico, sono persone che appartengono al passato. In realtà, se si rispetta il luogo dove si costruisce si deve dare la precedenza alla sua identità, se si costruisce in diversi luoghi le nostre risposte architettoniche devono necessariamente essere diverse e quasi irriconoscibili. Il design, per la stessa ragione, dovrebbe essere in grado di esprimere l’identità dei luoghi dove l’oggetto è prodotto, senza dire che dovrebbe essere in grado di dichiarare l’identità dell’autore e sfuggire all’astrazione dell’anonimato. Più in generale, direi che i musei d’arte contemporanea, che mostrano in diverse Nazioni le stesse collezioni, sono anacronistici e non rispettano la loro funzione di esprimere le diverse culture del mondo.

the uncommon rise of RYAn COOPER

cover_Blazer PORTS 1961; Coat ACNE

Ryan Cooper alterna disinvoltamente set fotografici di moda e red carpet cinematografici. È lui il volto nuovo del cinema internazionale. Con la sua faccia che buca lo schermo (e l’obbiettivo), con il suo fisico scolpito – è stato anche carpentiere – questo ragazzone della Nuova Guinea ha convinto tutti e, dalle campagne pubblicitarie di Armani Exchange, DKNY, Hugo Boss e Trussardi Jeans è passato al grande schermo e presto lo vedremo al fianco di Scarlett Johansson in, Crazy Night.

Raccontaci delle tue radici e della tua famiglia. Come hanno influenzato la tua vita?
Sono cresciuto senza molte cose, vivendo in paesi del terzo mondo con persone che non possedevano molto ma erano molto felici e generose. Questo ti fa apprezzare le cose che hai ma di cui non hai bisogno. Mi ricordo che spesso nella nostra colazione c’erano degli insetti a causa dell’umidità. Mio padre era un missionario e ha instillato fortemente le sue credenze in noi. Era un gran lavoratore e questa caratteristica mi ha sicuramente aiutato entrando in questo business. Trattare bene le persone e lavorare duramente, quando si lavora tutto il giorno e ho bisogno di energia. Ho fatto turni di 20 ore per lavori di edilizia in passato e questo mi ha preparato a stare sul set per 12 ore.

Come hai iniziato la tua carriera di modello?
Fare il modello è stato un colpo di fortuna. Un amico mi ha chiesto di fare un servizio fotografico per un negozio in Nuova Zelanda quando ero nel campo delle costruzioni. Poi un altro amico voleva sistemarmi con un’agenzia, in cui, appena mi hanno visto, mi hanno detto che non avrei mai lavorato. Tuttavia, il mio attuale manager ha visto le mie foto e da quel momento in poi mi ha spinto a viaggiare e lavorare, cosa che mi ha permesso di trascorrere qualche anno divertente, viaggiando e scattando per il mondo.

Quando hai deciso di entrare nel mondo cinematografico e come è successo?
A New York ho incontrato il mio attuale manager che mi ha chiesto se fossi interessato a recitare e che mi ha coperto le spalle da allora. Onestamente, non ci avevo più pensato da quando partecipavo a spettacoli scolastici da bambino. Mio padre mi incoraggiava a trovarmi “un vero lavoro” e così ho fatto, nel settore dell’edilizia. Mentre stavo viaggiando/facendo il modello avevo l’opportunità di imparare da alcuni meravigliosi coach a New York e Los Angeles e ora essere in grado di lavorarci è fantastico.

Qual è stato il tuo debutto nelle fiction e nel cinema?
Il mio primo lavoro sono state piccole parti in film indipendenti poi un breve periodo nella soap “Una vita da vivere”, prima che questa produzione di lunga durata esalasse l’ultimo respiro. Mi sento un po’ responsabile per questa morte (ride,ndr)!

Xavier Rudd, il musicista arrivato dal mare

È sempre a piedi nudi, sa suonare talmente tanti strumenti, tra cui il didgeridoo, la chitarra, l’armonica e il tamburo azteco, che non bastano le dita di due mani per contarli. È un surfista nato, un vegetariano convinto e un attivista per i diritti umani e per la salvaguardia del pianeta. Promotore dell’idea “things meant to be, will be”, Xavier Rudd ha lo sguardo profondo, le braccia tatuate e i capelli biondi, è nato a Torquay, in Australia, da padre aborigeno e madre metà irlandese e metà olandese. La sua musica e la sua visione ottimistica del mondo s’intrecciano in modo permanente e il suo suono è profondamente influenzato dal questo punto di vista umanistico. Nel corso degli otto album registrati in studio, questo giovane polistrumentista ha entusiasmato il pubblico con un suono organico, che gli è valso diversi premi e menzioni. A metà aprile 2017 è tornato in Europa con lo straordinario live, registrato nel maggio 2016 in Olanda, allo storico TivoliVredenburg, spettacolo emblematico di quel tour europeo sold out, e a metà giugno ha solcato di nuovo i palcoscenici italiani con tre date d’eccezione. Qui, ci ha raccontato delle sue ispirazioni, di suo nonno e delle risate in riva all’oceano.

La musica della tua terra e le origini sono molto importanti per te. La tua musica parte da lì?
Sì, sicuramente. Da bambino non sapevo neanche di scrivere canzoni, inventavo semplicemente delle melodie sulle quali cantavo le cose che mi succedevano. Era un processo totalmente inconsapevole. Ed è, in un certo senso, quello che faccio ancora adesso: metto in musica le cose che vivo, né più né meno. Scrivere canzoni è parte di me, è essenziale. Come respirare.

Quando hai deciso che saresti stato un musicista?
Direi quando avevo dieci anni, ma sono sempre stato attratto dalla musica, anzi è la musica che mi ha trovato.

Da dove o da chi trai più ispirazione?
Direi davvero da tutto. Ogni mio album, ogni pezzo che scrivo proviene da dentro, da quello che vivo. È come un diario di viaggio fisico, emotivo e spirituale. Tutte le mie esperienze formano il viaggio della mia musica.

Come vivi quando sei a casa, nel tuo villaggio?
Vivo vicino al mare, lì è tutto molto tranquillo. Quando non sono in tour mi piace vivere come una qualsiasi persona normale che abita sulla spiaggia: faccio surf e mi rilasso. Non amo particolarmente circondarmi di persone. Mi piace stare fuori, andare a sedermi vicino al fuoco, navigare, correre, nuotare. Sono attivo, amo ascoltare la Terra. Non guardo la TV o cose del genere.

Viaggi tanto, c’è un luogo con il quale hai legato di più?
Difficile. Trovo bellezza e sintonia in tanti posti diversi. Penso di riuscire sempre a trovare luoghi che mi piaceranno. Mi sono sentito benissimo anche in Sud Africa, ad esempio.

Cosa ti fa ridere?
Interessante. Se intendi ridere e stare bene, direi stare con i miei amici, intorno a un fuoco sulla spiaggia. È quando siamo più in pace e in armonia che ridiamo davvero.

L’uscita di questo live è stata molto importante, è un disco diverso dagli altri.
Sì, è come una retrospettiva del mio lavoro. Il tour in Europa era stato venduto tutto ed eravamo molto elettrizzati. C’era una carica speciale, l’energia era enorme e si sentiva una forte intenzione positiva nella gente. Abbiamo avuto l’opportunità di registrare le ultime due notti a Utrecht e ho pensato che sarebbe stata una buona idea soprattutto per noi come riferimento, documentare dove eravamo.

E poi tu sei legato con l’Olanda da tuo nonno.
Non ci ho mai pensato, però sì potrebbe. C’era un’energia molto forte in quelle sere. Quando abbiamo ascoltato di nuovo la registrazione, era come se avessimo catturato un po’ di magia, in particolare l’ultima notte e quindi sono felice di condividere, ora, quello che sento come il miglior prodotto live a questo punto della mia carriera.

Photos by Arterium
®Riproduzione Riservata

Ilario Alicante il ragazzo dall’argento vivo addosso

Livornese di nascita, classe 1988, Ilario Alicante è uno dei Dj più noti a livello internazionale nel panorama contemporaneo. Il suo stile è originale, frizzante e contaminato dal mondo che lo circonda, in modo da esprimere a pieno la sua personalità. Vivace e amante della musica fin da ragazzino, Ilario ha raggiunto, giovanissimo, traguardi importanti guadagnandosi la stima di fan ed esperti del settore. Dj, ma anche ragazzo come tanti altri, appassionato di libri, affezionato ad amici, famiglia e luogo di nascita. Ilario, il ragazzo “dall’argento vivo addosso”, come dicono a Livorno, ci ha raccontato un po’ di sé, tra sogni, traguardi e passioni.

Ormai sei un DJ di fama internazionale, ma chi era Ilario Alicante prima di diventare quello di oggi?
A Livorno si dice, “c’hai l’argento vivo addosso” , a un ragazzo che non riesce mai a stare fermo, quando è eccessivamente vivace e intraprendente. Questa frase è stata il sottofondo della mia adolescenza. Mi piaceva stare sempre in mezzo alla gente, marinavo la scuola, ho fatto dannare i miei genitori per questo. Si è accesa la passione per la musica quando avevo 15 anni e da quel momento non ho più pensato ad altro. Mi si è accesa la vita. L’Ilario di allora è comunque l’Ilario di oggi , con una sgangherata valigia di esperienza in più che si porta dietro.

La sperimentazione e la contaminazione musicale sono elementi importanti del tuo lavoro, da cosa e da chi prendi ispirazione per comporre?
Sono molto istintivo in studio, non prendo grandi ispirazioni da altri artisti, ovviamente ci sono alcuni che inevitabilmente hanno influito, magari inconsciamente, sullo stile che ho maturato negli anni, però per me fare musica è trasmettere tutto quello che sento e che ho dentro. La mia più grande ispirazione è quello che mi circonda, la mia vita, le mie sensazioni.

Hai una canzone preferita? Una che associ a un ricordo speciale?
Nell’ambito della musica elettronica, quando ascolto “James Holden 10101”, provo sempre un’emozione particolare. È come se il disco si divertisse a entrarmi dentro, per mettermi il cuore in gola. Qualche volta mi riporta indietro verso un ricordo, altre volte invece mi proietta avanti con la mente, verso il non accaduto, verso l’immaginario.

Vivi a Berlino, come mai? Cosa ti affascina e cosa ha questa città più di altre?
Sono quasi otto anni che vivo qui. Quando sono arrivato, avevo semplicemente voglia di cambiare aria, di immergermi in una nuova realtà. Mi ha sempre affascinato questa città per il suo passato difficile, importante. Quando passeggio per le strade respiro la storia. Non vivrei assolutamente in nessun’altra città della Germania, per me Berlino è come se fosse una nazione a sè. C’è stato subito un feeling particolare. Quando rientro qui, dopo le serate o i tour, mi sento tranquillo, sereno… a casa. Oltre a questo, Berlino è da molti anni l’epicentro della musica techno in Europa, anche questa è stata una delle tante motivazioni che mi hanno portato a trasferirmi.

Cosa ti manca dell’Italia?  Torneresti mai?
I colori, i sapori, il calore dell’Italia. Mi mancano tante cose; la famiglia, gli amici, il cibo. Certo che tornerei. Lavoro spesso in Italia e quando posso mi fermo sempre qualche giorno in più. Come dicevo all’inizio però, non riesco a stare fermo per troppo tempo, sento sempre il bisogno di cambiare, forse proprio perché sin da giovanissimo sono stato abituato al fatto di vivere con la valigia in mano. Tornare, ci tornerei, ma non per molto. Per rendere l’idea, cito un pezzo di un libro letto recentemente che mi ha veramente colpito e che consiglio. Il libro è “La vita segreta delle città”, di Suketu Metha, che dice, “Rivendico, con sicurezza, con orgoglio, di non essere radicato in un’unica città. Rifiuto di abitare in un’unica stanza. La mia casa ha tante stanze. La mia casa è un palazzo: è la terra.”

Qual è stato il momento più importante e emozionante della tua carriera fino a ora?
La mia prima volta al Timewarp è stata una delle più emozionanti. È un festival che ha segnato i miei primi passi nel mondo della musica elettronica. Prendevo sempre un aereo con tutti i miei amici dall’Italia per essere presente a ogni edizione. Dopo anni poi, ritrovarsi su quel palco a mettere dischi davanti a quel mare di persone è stato indimenticabile.

Quanto è importante lo stile e la moda nella tua vita e nel tuo lavoro?
Più passano gli anni e più lo diventa. In passato seguivo poco la moda poi, pian piano, mi sono appassionato e ho trovato stilisti che apprezzo e seguo. Lo stile però è la cosa più importante secondo me, come disse Quentin Crisp, “La moda non deve mai decidere chi sei. È lo stile a decidere chi sei. E a perpetuarlo.”

Come definiresti il tuo?
Non ho mai pensato a definire il mio, e ora che ci penso…non voglio pensarci.

Cosa non può mancare nella valigia di Ilario quando è in trasferta per lavoro?
Due libri. Il mio lavoro ha tanti tempi morti causati dai lunghi e frequenti viaggi. Amo leggere, è la mia seconda passione, dopo la musica.

Sogni nel cassetto e progetti futuri?
Il mio focus principale adesso è quello di sviluppare la mia label, Virgo, una piattaforma che sostiene i nuovi talenti. Il progetto più importante è senza dubbio questo. Mettere insieme una crew di artisti, creando quanta più musica possibile.

www.instagram.com/ilario_alicante
®Riproduzione Riservata

È tempo di muoversi con Swatch Skin

Libertà di movimento, design minimal e leggerezza confortevole. Sono queste le parole che meglio rappresentano i nuovissimi 11 modelli della collezione SKIN di Swatch, incentrata sul motto e hashtag, #YOURMOVE e presentata nell’esclusiva location londinese dei The Store Studios, con una serata spettacolare, alla presenza di media e influencer internazionali. Si aggiunge, quindi, un nuovo capitolo al legame tra il famoso brand di orologi e il mondo dell’arte. Stavolta è toccato alla danza, espressione dinamica del concetto di movimento che s’incarna nei nuovi marcatempo del colosso elvetico. Rappresentazioni danzanti del Tempo e dello Spazio hanno espresso il concetto cardine della collezione, attraverso una battaglia fittizia piena di emozione, in cui le coreografie sinuose dei ballerini si stagliavano sullo sfondo di proiezioni virtuali. Un crescendo incalzante ha anticipato lo svelamento degli orologi ispirati al brivido dell’ignoto, alla bellezza del movimento e all’euforia del cambiamento. I modelli sono disponibili in due formati di cassa bicolore, per lui e per lei, e si adattano a diverse personalità, dando vita a storie uniche e individuali che raccontano sogni, aspirazioni, possibilità. Un pas de deux tra emozioni fautrici del cambiamento e l’ignoto. Le narrazioni di molteplici stili di vita (non siamo forse tutti in movimento, ma a modo nostro?) e attitudini si riflettono nell’anima del brand che le fa proprie, condividendole nell’arco dell’anno sui canali social dedicati a Swatch, con una campagna video che verrà svelata prossimamente. Tanti piccoli corti riveleranno i momenti chiave della vita di personaggi conosciuti, molti dei quali artisti, e meno conosciuti, intenti a cogliere l’attimo, il momento dell’azione, la propria mossa. Rimettere mano a un’icona come lo Skin, lanciato per la prima volta nel 1997 non è che uno dei tanti nuovi step che l’azienda vuole fare per innovarsi: dai miglioramenti sui materiali, come il vetro impiegato, fino alla creazione di un sistema operativo proprio, dopo i primi progetti satellite degli anni passati. Dal twin phone, per telefonarsi a tre negli anni ’90, allo Swatch Internet Time, in collaborazione con il laboratorio dell’MIT e lo Snow Swatch da usare come skipass. Infine, per riprendere il fil rouge che unisce Swatch alla cultura pop, è stato annunciato che presto in tutti i negozi del brand sarà possibile dare un’impronta ancora più personale all’orologio, attraverso un servizio di customizzazione, dal cinturino alla ghiera e ad altre piccole finiture, da scegliere, anche online, e da ritirare in negozio, a partire da giugno. La strada è chiara, dal restyle di un’estetica si passerà alla tecnica e al digitale, con passi ragionati e visione a lungo termine, per raccogliere i frutti dei semi piantati tanti anni fa. Swatch, sotto la guida creativa di Carlo Giordanetti, si avvia a consolidarsi come brand e non solo come prodotto, iniziando a dialogare il suo pubblico con codici di linguaggio diverso, in bilico tra la tecnologia e l’emozione, sempre con l’arte nel cuore, dove l’orologio è una tela bianca da dipingere. Questa settimana, infatti, viene presentata in anteprima la collaborazione con Paola Navone. L’architetto e designer di fama internazionale, ha disegnato per la prima volta un orologio, lo Swatch Art Special Thammada, espressione tailandese che significa “cose semplici”, disponibile in edizione limitata e numerata di 888 pezzi, in vendita nei negozi della Lombardia.

www.swatch.com
®Riproduzione Riservata

No Waste Philosophy: Freitag apre il primo store a Milano

A pochi metri da due vie di richiamo dello shopping milanese, Corso Como e Corso Garibaldi, è da poco aperto il primo store italiano di Freitag, brand svizzero famoso per le borse ricavate con teloni di camion riciclati, sarà il primo in Italia e si caratterizzerà anche per l’alto impatto estetico della location che di fronte alla fondazione Giangiacomo Feltrinelli, si colloca esattamente al crocevia fra commercio e cultura. Il monomarca, situato in un tipico edificio industriale del XIX secolo, con pilastri in granito e volte in cotto, ospiterà 1500 pezzi unici fra borse e accessori iconici del brand, oltre che la collezione biodegradabile F-ABRIC prodotta interamente in Europa con materiali riciclati e tessuti ricavati da fibre di lino e canapa, filati anche in zone del milanese. Back to basics, come si dice. Per l’occasione MANINTOWN ha incontrato Daniel e Markus Freitag, i due fratelli fondatori del brand.

Il primo store italiano. Come mai avete scelto proprio questa location?
È stata una ricerca lunga e ben ponderata. Milano è un mix elettrizzante, una fucina unica e continua di idee, designer, stimoli. Volevamo uno store facile da raggiungere, per i turisti, ma anche per le persone che vivono in città. Uno spazio dove creare anche installazioni, e poi volevamo che fosse vicino a luoghi “rintracciabili” e d’interesse culturale e architettonico, proprio come la Fondazione Feltrinelli.

Quale l’identikit dei vostri clienti italiani?
Creativi, designer, architetti, persone anche molto giovani. Ci piace molto l’idea che, in un Paese di riferimento per il fashion system come l’Italia, il nostro concept, che è lontano dalle logiche della moda, sia stato apprezzato moltissimo in questi anni.

Avete in mente di proporre qualche limited edition per l’inaugurazione?
Potrebbe essere, ma ancora non abbiamo pianificato nulla. Anzitutto vogliamo proporre l’intera collezione di abbigliamento completamente sostenibile e accessori, come in tutto il resto dei punti vendita nel mondo. In seguito, magari, vista l’enorme curiosità e il vivacità creativa che ruota intorno a Milano, qualcosa tireremo fuori.

Riguardo ai materiali che utilizzate, sappiamo che ci sono nuove idee su cui vi state focalizzando.
Abbiamo iniziato a lavorare con i teloni riciclati dei camion negli anni ‘90, oggi abbiamo voglia di sperimentare, di esplorare nuovi territori. L’idea di base è fondata sulla sostenibilità e sul riciclo, un impegno che ci caratterizza da sempre.
La nostra identità è finalizzata all’attenzione etica e qualitativa verso i materiali che utilizziamo, i metodi di lavorazione, il ciclo produttivo e industriale. Disegniamo e realizziamo solo modelli di accessori e vestiti che indosseremmo anche noi o faremmo indossare al nostro team. Sono prototipi che, spesso, per essere sviluppati richiedono un grande investimento di energia e di denaro; amiamo molto i Paesi orientali proprio perché lì il prezzo dei nostri item viene percepito senza interferenze di nessun tipo, sanno quanto ci vuole a realizzare interamente una borsa o un capo. A fare tutto da soli e in maniera equosolidale.

Qual è il processo creativo del vostro lavoro?
Partiamo spesso dalle problematiche. Facciamo lunghi brainstorming col nostro team – la collaborazione è tutto, nella nostra azienda – dove parliamo del fitting, ma anche di ciò che non va, solleviamo obiezioni e da lì traiamo spunto per nuovi progetti e alternative. Finiamo spesso per arrivare molto lontani dal punto di partenza, ma questo è parte integrante del viaggio, no? L’essenziale, per noi, è pianificare le nostre energie, sapere come e in che direzione le spenderemo, ad esempio, nelle prossime tre settimane. L’impegno ci gratifica, purché sia sempre ottimizzato.

Fate molte lavorazioni sul mono-materiale dei teloni?
In realtà no, molte meno di quello che vorremmo fare. Il fatto è che specialmente quando è molto usurato, si tratta di un materiale che può subire poche variazioni, non si può nemmeno stamparlo. Avremo intenzione di calcare di più la mano, di osare, ma non sempre è possibile. E questo è un altro dei motivi per cui vogliamo provare a esplorare altri universi stilistici e con nuovi materiali.

Da dove nasce l’ispirazione del vostro progetto?
Diremmo da molto lontano, addirittura dai primi viaggi in India, da giovanissimi. Vedevamo tutte queste persone che raccoglievano spazzatura dalla strada per trasformarla in altro. Poi abbiamo preso le nostre strade, nella grafica pubblicitaria, l’arte, il visual e ci siamo resi conto di quante energie sprecano quei settori, tutt’oggi. E Freitag è nato proprio allora, insieme alla consapevolezza di voler creare qualcosa che guardasse alle risorse e fosse davvero utile e resistente.

Pensammo ai messenger bike e a chi girava Zurigo, da Nord a Sud, in bicicletta per andare a lavoro. Col tempo è arrivata l’idea dei teloni, i primi prototipi che facemmo fare a San Francisco e a New York, mecca per eccellenza dei bike messenger e gradualmente, col tempo e tanto impegno, sono arrivati i risultati. Lo store di Milano, fra pochi giorni, è un altro dei gratificanti coronamenti del nostro percorso.

Qual è la vostra più grande ambizione in termini, anche ideali, riguardo al riciclo e al vivere sostenibile?
D’istinto diremmo gli hotel, e i condomini. Progettare una serie di oggetti e prodotti per il vivere in albergo, che rendano l’esperienza stessa del soggiorno una sorta di percorso esperienziale su come e quanto si potrebbe fare per stare bene senza produrre spazzatura o sprecare risorse. Tuttavia, anche il settore del biking, e gli accessori per trasportare meglio le proprie cose per chi ama pedalare. Ci piacerebbe investigare molto quell’ambito, forse perché amiamo andare in bicicletta e conosciamo bene le varie problematiche funzionali e pratiche che talvolta si possono incontrare.

FREITAG STORE MILANO
Viale Pasubio 8, 20154 Milano

www.freitag.ch
®Riproduzione Riservata

Il quotidiano maschile visto da Elisa Fuksas

Un breve fashion film, che racconta il quotidiano maschile, fatto di istanti catturati da un hashtag di Instagram e trasformati in corto dalla capacità espressiva di Elisa Fuksas, visionaria e giovanissima regista, figlia d’arte. Protagonisti della nuova campagna di Manuel Ritz, e dell’obbiettivo di Elisa, sono gli uomini che indossano i capi di questo dinamico brand, immortalati attraverso i momenti che raccontano storie di vita. Perché la vita (di ognuno) is made of moments, come recita il claim. MANINTOWN ha incontrato la talentuosa regista.

Per te cos’è la quotidianità e come l’hai interpretata?
La quotidianità, tutto quello che c’è dietro è l’idea di amplificare il momento piccolo, quello che trascuri e tralasci, a cui non fai più caso. Per me, invece, la quotidianità è proprio un particolare. A causa di una patologia che mi affligge vedo il mondo per dettagli, ad esempio, attraverso l’abbigliamento delle persone, adesso, crescendo, sto imparando anche a riconoscere frammenti fisici, come il suono della voce, e cerco dettagli meno effimeri, per evitare piccoli inconvenienti con i familiari ma anche con le persone più note e famose. Il dettaglio è la mia quotidianità, mi permette di orientarmi nel mondo.

Da dove sei partita per la realizzazione di questo short film per Manuel Ritz?
Sono partita da Instagram, su cui passiamo molte ore e che ormai è diventato una fonte inesauribile di informazioni.

Ora la moda si sta avvicinando molto al cinema grazie ai fashion film
Sì infatti, a me piace lavorare nella moda perché mi costringe a vedere il mondo, il mercato, le persone, di osservare questa realtà. Quando si lavora da soli, racchiusi nel proprio autismo, non vi è questa possibilità. Però, preferisco la pubblicità al fashion film, mi interessa più come lingua e come accessibilità, come diffusione. Con la pubblicità puoi entrare nella vita degli altri, come dei puntini subliminali di bellezza, se semini un principio positivo, raccoglierai i suoi frutti. Un messaggio pubblicitario si può sedimentare anche positivamente nelle persone, non solo in modo negativo.

Com’è nato quest’incontro con Manuel Ritz?
Spesso il mio lavoro attrae marchi di moda o lifestyle maschile. In generale con la moda ho un rapporto ambiguo, un po’ la odio, un po’ la amo. Sono un po’ come ne: “Il diavolo veste Prada”, quando lei arriva con il suo golfino infeltrito (Anne Hathaway, n.d.r.). È come una specie di, “Comunque noi organizziamo tutto questo, decidi tu se vestirti bene o male”. Questa è la mia storia con la moda e i negozi, in cui non riesco a entrare, oppure entro, compro, esco, non provo mai niente, perché penso che mi stia tutto male. Quindi, quando mi è stato chiesto di pensare a una campagna con loro e per loro, sono partita da un banalissimo hashtag #manuelritz, perché volevo vedere chi compra questi capi e come li indossa. Oggi l’hashtag è importante, perché individua una categoria di persone. Se clicco Gucci mi compare un tipo di persona, così come con Valentino. Ciò che è venuto fuori è un pubblico trasversale, che usa questi abiti in occasioni disparate, da un matrimonio alla passeggiata con il cane. Questo mi ha fatto capire tutto il mondo che ruota attorno a questo marchio, altrimenti diventa difficile comunicare con qualcuno che non conosci. Ho deciso di sintonizzare tutto sul sentimento, così abbiamo fatto un distillato di questi momenti che vedevo su Instagram, di persone sconosciute, fino a unirli e farli diventare uno spot di poco più di un minuto.

Quali prossime collaborazioni ti piacerebbe realizzare?
L’ultima collezione Gucci mi è piaciuta molto, ho amato molto gli animali feroci, visto che una volta ho anche girato un film con delle fiere a Roma…

Dove vorresti girare un tuo prossimo film?
L’installazione meravigliosa di Anish Kapoor, al Grand Palais di Parigi del 2011, un Leviathan, aveva trasformato quei saloni in un enorme ventre rosso. Ecco, lì vorrei girare un film, mi piacerebbe anche viverci. I luoghi in cui giro sono dei posti che mi appartengono.

®Riproduzione Riservata

Giacomo Gianniotti, è nata una stella

È bello, è bruno e fa il medico. Sembra il sogno di tutte le mamme d’Italia, che vorrebbero le loro figlie accasate con un buon partito. Giacomo Gianniotti è la nuova star del cast di Grey’s Anatomy. Italiano, anzi romano, da parte di padre e naturalizzato canadese, il giovane attore – è nato nel 1989 – di tricolore non ha solo le radici, ma il cuore, tanto da essere anche stato presente anche ad Amatrice, a portare il suo sostegno alle popolazioni colpite dal sisma. MANINTOWN l’ha incontrato a Los Angeles, per farsi rivelare sogni, progetti futuri e attuali, passioni e l’amore per l’Italia.

Quando hai iniziato a recitare? Quando hai studiato per diventare attore?
Ho iniziato a recitare quando avevo 10 anni nel film chiamato La Bomba, di Giulio Base. È stato girato a Cinecittà e vi recitavano Vittorio e Alessandro Gassman. Successivamente, ho studiato recitazione alle superiori – dopo due anni dal ritorno a Roma – poi sono partito di nuovo per il Canada, per studiare teatro all’Humber College’s Theatre, per un corso di 3 anni a Toronto. Dopo ho studiato recitazione cinematografica presso il Canadian Film Centre per un anno, da quel momento ho continuato a lavorare senza fermarmi. Attualmente sono iscritto a un programma di Directing / Filmmaking qui a Los Angeles.

Quando e perché ti sei trasferito a Toronto, andando avanti e indietro da Roma?
Mio padre era romano, mia madre canadese. Quindi, tutta la mia famiglia italiana è ancora a Roma e, quando posso, vado a trovarla.

Cosa ti manca di Roma e dell’Italia in generale?
La cultura, la piazza, anche i buoni e i cattivi odori. L’arte, oh mio Dio, l’arte. La moda. Il risotto alla crema di scampi.

Hai anche recitato in teatro, com’è passare dalla tv al cinema? Quanto è stata importante quell’esperienza?
Esercitarsi in teatro è essenziale. Mi ha insegnato a usare il corpo e la voce fino al loro massimo potenziale. Ho imparato molto su me stesso e su ciò che sono in grado di fare.

Quali sono i registi che più ti ispirano e quelli con cui sogneresti di lavorare?
Tra gli ispiratori Fellini e De Sica. E poi, Tornatore, Spielberg, Scorsese, Paolo Sorrentino, Stefano Sollima.

Come sei arrivato a Grey’s Anatomy? Ti aspettavi questo grande successo?
Ho inviato un provino dal Canada. Alcuni mesi dopo sono andato a Los Angeles, mi è stato chiesto di fare un altro provino e l’ho superato. Si trattava solo di una piccola parte, all’inizio. Dopo si è trasformata in un qualcosa di più grande. Ero molto sorpreso.

La medicina è un tema ricorrente nella tua carriera, ti viene naturale recitare in questo tipo di serie?
(Ride, ndr) Sì. Non so perché, è stato il mio primo ruolo sullo schermo a Roma ed è il mio attuale lavoro a Los Angeles.

Come vedi l’evoluzione del tuo ruolo in Grey’s Anatomy? Come sono i personaggi nella vita reale?
Cambia di settimana in settimana. Spero che Andrew trovi pace, alcuni veri amici e, magari attraverso qualche esperienza che gli cambia la vita, capisca che tipo di medico è destinato a essere.

Quali sono le tue altre passioni e i tuoi posti per ricaricare le batterie?
Musica, musica, musica. Canto, suono la chitarra e scrivo musica. Soprattutto per me stesso e per gli amici, ma spero di avere presto del tempo per condividere qualcosa con il mondo. La fotografia, cucinare e guidare la mia motocicletta sono alcune delle mie altre passioni. Il mio luogo per ricaricarmi è l’Italia. Il Giardino degli Aranci. Il posto più magico sulla terra.

Tu sei anche un volontario e sei stato ad Amatrice per aiutare. Com’è stata questa esperienza? La tua prima reazione quando sei arrivato?
Sono andato con un’organizzazione umanitaria per cui lavoro, All Hands. È stato difficile, ma ho imparato molto sulla Protezione Civile e sul loro ruolo nelle catastrofi naturali. Sono molto organizzati e hanno avuto tutto sotto controllo. Così, abbiamo scoperto subito che il nostro aiuto, fortunatamente, non è stato necessario. Tuttavia ci ha fatto sentire bene andare nelle case ed essere lì a parlare con le famiglie colpite, ascoltare le loro storie e imparare dalle comunità di persone che si riunivano per aiutarsi a vicenda.

Quando viaggi, cosa non può mancare nella tua borsa/ valigia?
La chitarra, un elegante abito blu, la mia catena per portafogli.

L’ultimo libro o canzone che ti ha ispirato e ti ha lasciato riflettere.
I giardini di marzo, finora mi parla in un modo in cui nessun’altra canzone fa. Lucio Battisti, per me, è stata una grande perdita.

I tuoi prossimi progetti e sogni?
Ho avuto alcune opportunità di lavorare in Video Games per MOCAP e ho veramente amato quel lavoro, spero di poterne farne altri di questo tipo. Voglio diventare regista, scrivere copioni, voglio scrivere musica. Mi piacerebbe lavorare in Italia. In italiano.

Ph. Valentina Socci / PrimopianoTv
Makeup&Hair: Nicole Gustafson
Stylist Simona Sacchitella

@Riproduzione Riservata

Andreas Melbostad: il direttore creativo di Diesel Black Gold in un’intervista esclusiva per MANINTOWN

Nell’ottobre 2012 è stato nominato direttore creativo della collezione femminile di Diesel Black Gold e ha assunto lo stesso ruolo per quella maschile pochi mesi dopo, nel settembre 2013, assicurando alla linea un’identità coordinata, due mondi che dialogano fra loro, dalla forte connotazione urbana, e che comprendono ovviamente il jeans, nel dna di questo importante nome della scena di moda, ma propongono un guardaroba completo dove i classici vengo reinventati grazie ad uno stile contemporaneo, spesso rock, fatto di materiali di qualità, innovazione, ricerca. È il norvegese Andreas Melbostad, che abbiamo intervistato proprio per farci raccontare meglio il suo mondo e l’evoluzione del brand, che ora sfila con entrambe le collezioni nel calendario ufficiale della fashion week milanese.

Come è cambiata la linea Diesel Black Gold nel corso di questi anni?
Sono arrivato alla Diesel Black Gold come direttore creativo per la collezione femminile. Poco dopo il mio arrivo mi è stato chiesto di supervisionare anche la collezione uomo. Questo è stato un passo importante per l’azienda verso l’allineamento delle due collezioni. Ho lavorato per rafforzare l’identità della linea per entrambi i sessi. Ho anche lavorato per creare una forte coesione all’interno della collezione. Mi sono concentrato sulla costruzione di tutti gli aspetti della collezione, per elevare il prodotto e creare un’offerta completa.

In che modo il marchio rappresenta lo stile italiano e in cosa, a suo parere, è più internazionale? Il cliente italiano in quanto è diverso da quelli che vestono Diesel Black Gold in altre nazioni del mondo?
Il mercato e il consumatore sta cambiando rapidamente. L’acquisto di vestiti oggi è molto diverso rispetto a 10-15 anni fa, i clienti sono molto ben informati sulla moda, sul design e sulla qualità, e sono consumatori esperti. Possono attraversare tutto il mondo degli acquisti con il solo click-di-un-tasto, e questo rompe i modelli di acquisto tradizionali.
I nostri concorrenti come marchio non sono più solo le aziende vicine al nostro posizionamento, ma sono il mondo in generale. Amo questo nuovo atteggiamento del consumatore e mi piace la sfida che ci porta come marchio. Abbiamo bisogno di guardare a tutto il mercato e pensare con attenzione come possiamo proporre qualcosa di unico e diverso, che offra valore ai nostri clienti. Essendo un marchio avanzato di moda contemporanea è una grande opportunità per noi. Siamo in grado di offrire design e un punto di vista unico, e possiamo farlo in un modo più accessibile e democratico.

Chi indossa Diesel Black Gold, e a che figura maschile pensa quando disegna la collezione? Ha icone di riferimento?
Per me è tutta una questione di atteggiamento. Il nostro ragazzo è indipendente e non conformista. Ha un grande senso di sé e si gode questa possibilità di esprimere la sua individualità. Lo potete trovare in qualsiasi parte del mondo, ma molto probabilmente lo troverete in un ambiente urbano.

Da dove arrivano le ispirazioni per il suo lavoro?
Ogni collezione è costruita su quella precedente, ed ogni collezione è una reazione a quella precedente. Voglio creare un forte senso di coerenza, e voglio anche che Diesel Black Gold sia un marchio dinamico che spinga la sua visione in avanti ogni stagione. Quando faccio ricerca per la collezione ho temi ricorrenti, e cerco anche di spingere me stesso e la società fuori della nostra comfort zone.

Qual è l’outfit più rappresentativo, il must-have della collezione maschile che ha presentato a giugno?
Credo fermamente nel proporre in collezione capi iconici; il giubbotto da motociclista, il bomber, i jeans cinque tasche, ho guardato come ri-proporli, ri-costruirli, ri-fabbricarli, pezzi iconici che tutti amano indossare. Esploro i codici, li metto in un nuovo contesto e creo nuovi ibridi da loro. Per me questo è il fondamento di un guardaroba moderno. Penso che possa funzionare come una grande guida per il modo di vestire; mescolando codici stabiliti si può dare una nuova espressione per il momento attuale.

 Parlando del modo di presentare una collezione, pensa abbia ancora importanza la passerella?
L’evoluzione di Diesel Black Gold e la nuova energia di una città come Milano ci ha dato fiducia nella tempistica del nostro spostamento, che ci fa ora sfilare nel capoluogo lombardo, e l’opportunità di parlare ad un pubblico internazionale più grande quindi direi proprio che la passerella, la sfilata sia ancora un momento importante per la nostra linea.

Cosa è sinonimo di eleganza secondo lei?
In Italia lo stile è una parte integrante della vita. Mi piace la passione e l’alto livello di design e artigianato che viene fornito lavorando in Italia. Penso che ci sia una eleganza naturale in tanti aspetti della vita italiana. È nello stile di vita, nei valori, nel cibo, così come nella moda.

Secondo lei cosa non può mancare nel guardaroba di un uomo?
Due elementi essenziali: una giacca di pelle nera e un Denim Indigo Raw.

Denim: quanto è ancora importante nel guardaroba maschile?
Denim è al centro della collezione ed è uno dei nostri elementi più importanti. L’approccio Diesel Black Gold al denim è usare il materiale e i riferimenti in un modo più di design. Noi non ci concentriamo sull’aspetto casuale di questa materiale, ma piuttosto cerchiamo di portare un certo aspetto di nobiltà ad esso. Non abbiamo limiti a come usiamo il jeans e ogni stagione è una nuova grande esplorazione. Molte delle idee in cui coinvolgiamo il denim vengono dalla collezione nel suo insieme e l’obiettivo è per il denim di essere una parte coerente ed integrale della collezione complessiva.

Progetti per il futuro?
Il mio obiettivo è quello di costruire un marchio forte e distintivo. Voglio creare una voce unica nel settore. Sto cercando di continuare a fondere la mia visione con l’eredità di Renzo Rosso per creare una nuova proposta di moda tenendo il dna Diesel ad un livello superiore di ricerca. In definitiva vogliamo creare un dialogo emozionante e dinamico con il nostro consumatore.

®Riproduzione Riservata

British Rock

No, non è morto. Soprattutto quello inglese che, di nuovo, si conferma una certezza. E’ come se nelle vene british scorresse un sangue diverso, più ruvido, dai toni più psichedelici che si equilibrano con lunghi giri di chitarra. Dunque, il rock non è morto. Per fortuna.
Abbiamo tutti nelle orecchie i suoni dei The Rolling Stones, dei The Beatles e anche dei The Clash e dei mitici The Who, ma oggi sono da tenere d’occhio i Slydigs: giovane band di amici – veri – che arriva da Warrington, cittadina nel mezzo della Gran Bretagna, tra Manchester e Liverpool, dove l’accento è più stretto e lo slang più acceso.

Nato sulle radici della disperazione industriale inglese, quella in cui solo l’amore per la musica può salvare quattro compagni di scuola, questo gruppo si è formato sulle note dei big del rock, del blues e del folk. Li abbiamo incontrati prima che aprissero il concerto dei The Who a Milano e prima che dimostrassero di sapere tenere benissimo un grande e palcoscenico e un pubblico esigente come quello per i The Who. Ecco come è andata.

Seduti su tre grandi divani di pelle un po’ sgualciti, l’intervista assomiglia di più a una chiacchierata in un pub della periferia inglese. Sono spontanei, allegri e hanno le idee molto chiare sia parlando di musica che di stile. Si sovrappongono, ridono e ognuno ha qualcosa da dire. Esattamente come degli amici davanti a una pinta di birra.

“La nostra ispirazione viene prima di tutto dai grandi nomi, dal rock degli anni ’60 e ’70 ed è da lì che partiamo” ci dice Dean (chitarrista e voce) dietro ai suoi RayBan scuri, “Sì, ma abbiamo anche dei punti di riferimento oltreoceano, come i Kings of Leon, soprattutto per i primi lavori, o Jack White, oppure per tornare in Europa seguiamo molto gli Artic Monkeys conclude Ben (bassista e seconda voce). Come nella storia del rock, anche i testi degli Slydigs raccontano storie, descrivono vite: sono Louis (chitarrista e voce) e Dean a scrivere le canzoni, ad avere le idee e a portarle nel gruppo finché, insieme, non viene trovata la versione migliore di ogni brano. Qualche accento di psichedelia, molto ritmo, toni blues e una leggera intonazione folk: questa la ricetta della band. “Se ascolti con attenzione, puoi sentire un po’ di folk, appena nascosto, è proprio il nostro carattere” conferma Louis infatti. Estremamente attenti al rapporto con il loro pubblico, sanno benissimo che oggi un artista deve essere presente online ed essere vero, per questo la loro pagina Facebook è sempre aggiornata e ci tengono personalmente a curarla: “Quando i nostri fan arrivano ai nostri concerti pensano di conoscerci già, vogliono vedere l’artista, quello con cui hanno parlato online. E’ importante esserci online, ci piace molto, non ci sentiamo obbligati anzi!”
Lo stile, nell’abbigliamento come negli accessori, per questi quattro ragazzi è molto british, ma c’è qualcosa anche di country, ad esempio in Peter (batterista). “L’immagine che dai all’esterno è molto importante. Non è solo musica, come artista devi dare alla gente qualcosa in cui credere. Ognuno di noi ha il suo stile, l’importante è che ognuno si senta comodo e a suo agio.” afferma Dean, ma poi è di nuovo Ben a sdrammatizzare l’affermazione del suo amico: “Non possiamo fare musica figa che va in radio, e poi la gente ci vede, viene ai concerti, e scopre che non abbiamo stile…faremmo ridere, no?!”
Per questo, e non solo, si sentono ancora più onorati e estasiati per essere stati scelti la seconda volta dai The Who come gruppo d’apertura: “E’ una delle band alle quali ci ispiriamo, sono stati, e sono, un simbolo e non solo per la musica che hanno scritto, ma proprio per il messaggio e l’immagine che hanno trasmesso alla folla” insiste allora Louis. Ma basta la frase di Ben che fa scoppiare tutti a ridere, noi compresi, a mostrare la spontaneità e la genuinità di questa band “Suonare prima di loro è semplicemente fucking monumental!”

www.slydigs.co.uk

@Riproduzione Riservata

Incontro di stile con la nuova promessa del calcio Federico Bernardeschi

Federico Bernardeschi, la giovane promessa italiana del calcio, attaccante della Fiorentina e della Nazionale, è stato uno dei protagonisti della campagna Nike Tech Fleece per Foot Locker: ‘Remember The Name’. Lo abbiamo incontrato a Milano, nello store Foot Locker di corso Vittorio Emanuele II, dove si è tenuto il lancio di questo sportswear che combina tecnologia, innovazione e cura dei dettagli. Visto che Federico, come giocatore, di talento e determinazione ne ha da vendere e lo sappiamo, abbiamo voluto scoprire qualcosa di più su di lui, anche in termini stile. Ecco qui qualche curiosità.

Come nasce la tua passione per il calcio? Hai sempre sognato di fare il calciatore?

Sì, fin da piccolino avevo il pallone tra i piedi, per cui penso sia una passione innata e credo sia bellissimo essere riuscito a trasformarla in un lavoro. Mi ritengo estremamente fortunato e sono molto contento.

Se non fossi diventato un calciatore?

Molto probabilmente sarei andato con mio padre nelle cave di marmo. Avrei lavorato con lui come cavatore, ma ho sempre voluto giocare a calcio ed ho sempre creduto nei miei sogni. Ne ho realizzati molti, anche se, certamente, ne ho ancora tanti da realizzare.

Qual è il tuo rapporto con la moda?

È un bel rapporto. Mi piace vestirmi bene, stare attento alle nuove tendenze ed esprimere la mia personalità.

Cosa ha significato per te essere scelto come testimonial da due colossi come Nike e Foot Locker?

È un grandissimo onore, oltre a che un orgoglio personale, essere scelto da due gruppi così grandi a livello mondiale. Non è facile e io sono davvero onorato che abbiamo voluto me.

Si portano tantissimo le sneakers, di ogni tipo e modello. Tu che uso ne fai?

Mi piacciono moltissimo e le porto più o meno tutti i giorni. Questo non vuol dire che non indossi altri tipi di scarpe. Se vado fuori a cena mi piace metterne una più elegante, uno stivaletto, ad esempio.

Il sogno nel cassetto?

Crescere professionalmente e diventare un grande giocatore. A livello mondiale.

www.nike.com

www.footlocker.it

@Riproduzione Riservata

https://youtu.be/rjElUomRi0k

Yezael by Angelo Cruciani: l’armata dell’amore del designer è ora Pink Power, e molto di più

Il suo uomo è anticonformista, colorato, con un gran sense of humour, lo si potrebbe definire un dandy 2.0, elegante, ma con un twist, in un epoca dove tutti siamo connessi con un click. Perché per quanto possa apparire eccentrico la figura maschile che veste Yezael by Angelo Cruciani ha cultura e senso civico, sensibilità e stile, sempre attenta alle nuove istanze che provengono dal web, ma pronta a dare valore ai momenti belli della vita lontano dai cellulari, esattamente come il designer, famoso per il suo guardaroba sopra le righe, ma anche per i suoi messaggi universali, che inneggiano alla libertà,all’amore, all’unione, ad una vita in cui non ci sono barriere. Per questo ci piace Cruciani, perché dietro ai colori di un uomo un po’ Pavone, c’è la sostanza di chi sa fare il suo mestiere e vive intensamente l’attuale momento storico, pensando però ad un futuro migliore. Lo abbiamo intervistato dopo la presentazione della nuova collezione durante l’ultima edizione di Pitti a Firenze.

Come ti sei avvicinato alla moda e perché hai deciso di creare un tuo brand?

Ho iniziato casualmente, ma sognandola fin da piccolo, la mia avventura nel mondo del Fashion  System all’età di 15 anni come modello, una ragazza che si chiama Monica del mio piccolo paese di origine, mi aveva segnalato ad un fotografo per un catalogo, da lì agenzia, Milano e poi sono arrivato a studiare all’Istituto Italiano della Moda di Roma, ma dopo pochi mesi già lavoravo per il brand Energie e Miss Sixty. Un inizio veloce alla fine degli anni ’90.

Ci parli di Yezael by Angelo Cruciani? Da quali input creativi ha preso forma, ma, visto il forte legame con il sociale, quali valori supporto e promuove?

Yezael significa Angelo dell’amore: un nome che riassume la mia essenza. Ho sempre sentito che il mio talento principale provenisse dalla comunicazione e che si esprimesse al meglio nelle collezioni di abbigliamento. Quello che creo non lo chiamerei Moda: il mio è un progetto di sensibilizzazione estetica, un abbigliamento che cerca di mostrare alternative agli stereotipi e all’immaginario collettivo. Yezael non è semplicemente una Griffe, credo che sia una missione che abbraccia simboli e limiti per modificare gli orizzonti dell’abbigliamento: un progetto ambizioso, ma in linea con una rivoluzione di settore ben evidente.
Io credo in un Mondo libero dal potere, in equilibrio con le sue contraddizioni: Yezael è la mia possibilità per contribuire a creare un mondo più dolce.

La collezione che hai presentato al Pitti?

Abbiamo presentato due collezioni differenti. Pink Power che è un flash militare, ma dell’armata dell’amore, che vede il camouflage reinterpretato nei toni della dolcezza con la dominante assoluta del Rosa, un omaggio ai fiori sparati dai cannoni del ’68. B-Side Love invece è la vera collezione primavera/estate 2017 irriverente e provocatoria porta all’esterno ciò che gli indumenti usualmente coprono: da qui stampe a Pisellini, donnine nude e baccanali pompeiani e babilonesi. Questa collezione racconta il lato fisico dell’amore: il piacere, il desiderio e una lussuria che cerca di diventare eleganza, il tutto ovviamente condito da molta ironia.

Se ripensi al tuo percorso, quale il momento più esaltante, l’incontro che ti ha segnato?

I momenti più emozionanti  del mio percorso creativo sono stati tantissimi, artisticamente sono legati ai Flashmob che  ho organizzato negli anni: il primo nel 2014 che aveva trasformato Corso Buenos Aires a Milano in un fiume d’amore con 50.000 cuori al cielo non lo scorderò mai, o il trillo squillante di Svegliatitalia (a favore delle Unioni Civili, ndr). L’incontro che ha più segnato la mia vita è stato quello con due grandi poetesse del Novecento: Vittoria Palazzo ed Alda Merini. Loro mi hanno insegnato a non valutare la vita tramite le apparenze, mi hanno spronato ad abbandonare le mie paure e salire sui vascelli della follia: senza coraggio non si arriva alla verità.

In generale chi è Angelo Cruciani lontano dal mondo della moda e quali altri mondi sono capaci di ispirarlo?

Angelo è un ragazzo molto semplice: curioso e interessato a tutto ciò che lo porta a conoscersi meglio. La mia vita privata è ricca di amici e di lezioni con maestri spirituali. Spesso lavorando in un mondo che dedica troppe attenzioni alle apparenze mi perdo tra le mie insicurezze e allora cerco in ogni modo di trovare in me la fonte della mia creatività e del mio essere una persona serena e positiva. Mi ispirano punti di vista diversi dai miei, le contraddizioni umane, l’incoerenza e la follia.

Che cosa è elegante per te?

Forse sono la persona meno indicata a dare definizioni di eleganza esteriore: spesso vengo definito eccessivo, circense ed eccentrico, ma quando mi vesto voglio esprimere gioia, quella felicità che avverto e che sono interessato ad esprimere: forse l’allegria non è eleganza, ma un sorriso veste meglio di qualsiasi sarto.
Trovo ad oggi estremamente elegante: educazione, umiltà, disponibilità e serenità , caratteristiche che trasformano il portamento e gli abiti stessi.

Invece il lusso cosa rappresenta oggi, quanto è importante?

Il lusso è per me sinonimo di abbondanza. L’idea che ha il mondo di una classe privilegiata che consuma beni dall’alto contenuto, creativo, qualitativo ed estetico oggi si sta rivoluzionando. Già da anni i beni di lusso sono diventati immateriali: tempo, serenità, gioia, allegria, spensieratezza, consapevolezza.
Quello che creiamo noi addetti ai lavori di un sistema che richiede grandi portafogli è spesso di ispirazione per ogni ceto, le nostre idee non si fermano al consumatore, ma oltrepassano i confini del cliente creando un mondo più bello per chiunque. I nuovi grattacieli di Milano, ad esempio, rendono più bella la città non solo la vita di chi può viverci.

Progetti per il futuro?

Ovviamente tanti, e ovviamente non solo inerenti alle collezioni di abbigliamento, ma in questo momento la mia principale attenzione è verso Yezael, vorrei che il suo sviluppo commerciale creasse salute ed opportunità per tanti.
Prossimamente un nuovo Flashmob per ridisegnare le relazioni nell’anno 2016 che coinvolgerà 100.000 persone.
Per ora e per scaramanzia tutti gli altri sono segreti, incrocio le dita ventiquattr’ore al giorno perché il mio sogno continui e abbracci tutti quelli che hanno voglia di sognare di più.

www.yezael.com

@Riproduzione Riservata

Angelo Cruciani @credit Sergi Planas
Angelo Cruciani @credit Sergi Planas

IL LATO GENTLEMAN DI CHEF RUBIO

Cover Natural Gentleman shirt & tie | Gabriele Pasini vest

Chef Rubio al secolo Gabriele Rubini (classe 1983) non è solo il protagonista e fenomeno televisivo di UNTI E BISUNTI in onda su DMAX, ma un uomo eclettico per cultura e interessi. Gabriele è un accanito lettore e viaggiatore, ama i libri intrisi di poesia e visioni oniriche: lo hanno formato autori come Murakami, ma anche Frey, Palahniuk e Welsh. La sua educazione inizia al liceo classico, in un ambiente multiculturale ricco di sub-culture tra punk e metallari. Vive la sua adolescenza tra musica, studio, sport e moltissima lettura. Lo sport arriva per motivi terapeutici in seguito a una brutta scoliosi. Sceglie il rugby, dopo aver tentato di praticare senza costanza judo, scherma e basket. Ricorda i primi tempi, in cui il rugby rappresentava per lui “fatica, sforzo, freddo e botte”, che si trasforma lentamente in qualcosa di cui non riuscirà più a fare a meno. “Dalla diffidenza alla dipendenza”, afferma lui stesso.
Tratto distintivo di Chef Rubio è senza dubbio l’ironia dai toni sarcastici e un carisma capace di coinvolgere le persone nei territori e nelle situazioni più differenti. Recentemente si è fatto ritrarre dalla fotografa Alessia Leporati a petto nudo con un agnellino sulle spalle. Una foto bucolica che nelle intenzioni voleva celebrare il carisma di Rubio come un pastore che guida le sue greggi di followers. Da qui si è innescata una reazione a catena tra giornali e web, tra polemiche e commenti entusiastici. Il risultato? Rubio è così immortalato nella sua versione statuetta da presepe nelle vesti di pastore. E commenta il maestro Marco Ferrigno, caposcuola nell’arte della terracotta partenopea e tra i più produttivi nel trasformare in pastori i personaggi della politica e dello spettacolo: “Con una posa così naturalmente presepiale mi è sembrato inevitabile un riconoscimento a Rubio che con il suo programma ha saputo dare la giusta evidenza alla tradizione culinaria che vive proprio qui, nei vicoli del nostro centro storico di Napoli, a San Gregorio Armeno”.
Rubio si conferma un instancabile viaggiatore e insaziabile ricercatore di sapori e tradizioni culinarie, superando confini e schemi. Col suo programma Unti e Bisunti, dai toni spesso irriverenti, è riuscito a lanciare un messaggio in cui il food è anche curiosità verso quello che ci circonda, una cultura accessibile a tutti, specchio di una società e non fenomeno elitario.

In esclusiva per MANINTOWN vi mostriamo il lato “gentleman” di Chef Rubio, anche attraverso le immagini del servizio diretto da Peter Cardona in cui lo vedrete in una versione inedita.

Com’è stata la tua adolescenza?

Ero un normalissimo ragazzo che affrontava gli studi del liceo classico e sono cresciuto in un ambiente con diverse etnie come metallari, punk o quelle che chiamano zecche a Roma. La musica è sempre stata presente durante l’arco del liceo e lo studio era sì presente, ma non era per me fondamentale.

La tua passione per lo sport?

In realtà è nata per fini terapeutici e di salute, poiché avendo avuto la scoliosi a dieci anni ho iniziato a praticare rugby, judo, scherma e basket. Poi iniziato il rugby non ho più smesso.

Come sei arrivato al mondo del food?

Ho fatto diverse esperienze come gourmand, viaggiando in Europa e in particolare nel Regno Unito. Tutti interessi un po’ sopiti perché pensavo alla carriera nel rugby. Poi col tempo è diventata una materia di studio e solo dopo un lavoro, grazie a un incastro di molteplici situazioni. Poi il fatto di poterlo raccontare con un programma è stata un’ulteriore occasione che mi ha confermato la necessità di mostrare un paese o un popolo senza prescindere dalla cultura di strada e dalla cucina povera.

Tra le città che hai visitato in quale vivresti?

Dal 2012 ho girato dodici nazioni prima dell’avventura televisiva, tra cui India, Cina, Corea, Giappone, Libano, Turchia, Israele. Tutte esperienze molto interessanti, anche sono molto affezionato all’Oriente e Tokyo è la città dove vivrei tranquillamente.

Com’è andata quest’ultima annata di “Unti e Bisunti”?

E’ stata la serie più seguita e la più complessa, sicuramente diversa dalla prima e dalla seconda. Nella progettazione del programma anch’io sono parte attiva, visto che comunque parla del sottoscritto e contribuisco all’ideazione dei contenuti.

Come scegli le città da visitare e in quali hai avuto più soddisfazioni?

Purtroppo non sempre posso scegliere perché ci sono delle esigenze di produzione, anche se il mio sogno sarebbe stato di andare all’estero per raccontare diverse città e realtà. Sicuramente Girona e la Costa Brava non erano tra le mie mete preferite, ma una volta lì ho scoperto una realtà fantastica. Non si finisce mai di imparare e di conseguenza si hanno a volte dei preconcetti di partenza quando invece poi si rivelano super interessanti.

La tua ironia ha suscitato polemica nella rete e tra i vegani.

Questa ira vegana non è mai esistita, è stato solo un titolo ripreso da alcune testate giornalistiche e da commenti che hanno criticato gli scatti in modo poco ortodosso. Così ho risposto a tono…di conseguenza si è scatenata una rivolta dei fan vegani, quando invece sono il primo ad avere amici vegani.

Nelle foto pastorali che hanno suscitato tanto scalpore ci sono immagini rurali legati al territorio di Parma, in cui tra l’altro ho vissuto e mi sembrava giusto rendere omaggio alla città.

Se apro il tuo guardaroba?

Troverai soprattutto magliette, shorts, infradito…da aprile a ottobre preferisco stare a piedi nudi, poi se il meteo rema contro mi metto pure le scarpe!

E l’eleganza….

L’ultima ricorrenza in cui mi sono vestito formale è stata a un matrimonio di un mio amico. Per questa e altre occasione scelgo sempre un abito su misura.

Il messaggio che vorresti lanciare col tuo programma?

Amare e rispettare il prossimo, rendere partecipe le persone che si hanno attorno e che tutto quello che eravamo e siamo stati non può essere dimenticato per un futuro migliore, ma ci deve essere una connessione tra passato e futuro che faccia vivere il presente nel miglior modo possibile. Il cibo è un fil rouge attorno cui ruotano temi sociologici e antropologici, ma traspare solo a chi vuole vuole approfondire il tema.

Photo | Roberta Krasnig
Style | Peter Cardona
Grooming | Veronica Caboni
Special Thanks | Lanificio Roma

@Riproduzione Riservata

GIANMARCO TAMBERI

Cover | Nike jacket; Dior Homme suit&shirt

Figlio e fratello d’arte, Gianmarco Tamberi è a tutti gli effetti una delle nuove promesse dell’atletica italiana: lo vedremo infatti alle Olimpiadi di Rio previste per il prossimo agosto nella disciplina del salto in alto. La passione per lo sport in Gianmarco, si sa, arriva tutta dal padre, primatista italiano indoor nel salto in alto, ma anche il rapporto con il fratello Gianluca, di due anni più grande, non fa che rafforzare l’intensità di questa dedizione, sebbene sia primatista nel lancio del giavellotto. Ha stabilito il record italiano in Germania la scorsa estate e subito dopo ha ammesso che il segreto, per lui, è non mollare mai e imparare dai propri errori per migliorarsi e trovare la propria chiave del successo. Gianmarco è convinto infatti che ognuno sia unico e differente, nella vita come nello sport, e che il talento e lo stile si nascondano proprio dietro al carattere. Forza di volontà e devozione dunque, oltre a un tocco di follia che non guasta mai: ecco il ritratto del giovanissimo atleta che si è raccontato tra uno scatto e l’altro.

Una famiglia di sportivi d’eccellenza alle spalle e una carriera straordinaria, il 2015 è stato un grande anno, cosa ti aspetti da quello nuovo?

Sicuramente è stato un anno fantastico nel quale sono riuscito a togliermi molte soddisfazioni, ma considero il 2015 come un anno di passaggio. Il 2013 e il 2014 mi hanno portato un’infinità di infortuni che non mi hanno consentito di mettermi in gioco. Sono stati due anni di vera e propria frustrazione, mi allenavo ogni giorno al 200% senza mollare mai neanche un passo, ma poi ogni volta che stavo per fare il salto (in tutti i sensi) di qualità, puntualmente succedeva qualcosa: distorsioni, stiramenti e strappi muscolari mi hanno condannato a 730 giorni di continue cadute a terra! Ora sono tornato, e questo 2015 è stato come un nuovo punto di partenza. Le Olimpiadi di Rio 2016 sono un sogno troppo vero e vicino per essere soddisfatto di quello che ho già fatto! Non c’è giorno da quando ho iniziato questa preparazione in cui non pensi alle Olimpiadi, posso dire con sincerità che in questo momento Rio 2016 è la cosa più importante della mia vita e farò di tutto per conquistarla.

Cosa vuol dire stile per te e come definiresti il tuo?

Credo che il concetto di stile non si possa racchiudere in una sola semplice parola, ognuno di noi ha la sua personalità, come il suo stile. Certamente alcune persone possono assomigliarsi, ma non saranno mai uguali! Lo stile è rappresentato da tutto ciò che una persona è, dal suo modo di camminare, da come si veste, dal modo in cui affronta la vita, dal mondo che frequenta… è sempre questione di stile! Per me è fondamentale non imitare quello degli altri, ma tenersi stretto il proprio, perché ognuno di noi è unico ed è questo che ci rende interessanti… Poi se dovesse capitare che vi rasiate anche voi la barba a metà vi giuro che non me la prenderò!

Abbigliamento sportivo o casual? Quale preferisci e in quali occasioni?

Sportivo, casual, elegante…ogni abbigliamento ha la propria occasione! Fondamentale è saper indossare tutto e sentirsi a proprio agio sia in tenuta sportiva con una Red Bull in mano che in smoking con una coppa di champagne. Non andrò mai ad allenarmi in giacca e cravatta, ma non stupitevi se a una cena di gala mi presento in abito elegante con sotto delle Nike Jordan, dopo tutto… è questione di stile no?!

Photo | Pier Nicola Bruno
Style | Faio Ferraris
Grooming |Valeria Orlando @Hmbattaglia
Fashion Assistant | Simona Bolchini

@Riproduzione Riservata

NINO CERRUTI: “LA MODA, PRIMA DI TUTTO, SIA CONSAPEVOLE”

Nino Cerruti, nominato Cavaliere del Lavoro dal Presidente della Repubblica nel 2000, è uno di quei personaggi che ha letteralmente segnato la storia degli ultimi cinquant’anni della moda italiana. Dalla sua prima linea di abbigliamento, Hitman, presentata a Milano nel 1957, Nino, pur avendo ricevuto riconoscimenti internazionali, resta un uomo concreto, a capo del Lanificio Fratelli Cerruti, nel biellese, con cui continua a produrre idee, ascoltando i giovani e seguendo il loro talento esattamente come a metà degli anni ’60, quando assunse come l’allora sconosciuto designer Giorgio Armani al suo esordio nel campo della moda.

Come vede evolversi la moda oggi giorno?

Direi che c’è un sano ritorno alla normalità: finalmente il quotidiano, con ogni sua implicazione, sta tornando di moda. Gli abiti rappresentano una connessione con i messaggi e i valori che la società, di volta in volta, invia. E queste connessioni, oggi, mi paiono tornare alle basi… all’autentico.

La moda si adegua al mondo, insomma.

Assolutamente sì. Ed è cosa buona e giusta. Ho sempre trovato piuttosto presuntuosa la pretesa di certi creativi di vedersi scissi, avulsi dal contesto sociale a cui tutti apparteniamo. La moda non grida. E’ la società a farlo: i cambiamenti, le rivoluzioni, le stanchezza. La moda può assecondarle, calmarle, o farle ascoltare anche di più. Ma il cambiamento, sempre, viene dalla società.

Il Genderless ne è un esempio, non trova?

Assolutamente si: un tempo il ruolo aveva una caratterizzazione fondamentale nella vita degli uomini e delle donne: oggi la fluidità ha preso il sopravvento. Tutto pane per i denti della moda: ci si può divertire a mischiare, a travalicare i confini, ridefinirli.

Quella presente, è un’epoca fruttifera per lo stile?

Trovo che non ci sia mai stata tanta confusione, nell’abbigliamento, come nel contemporaneo. Oggi coesistono, a volte con ottimi risultati, altre volte meno, almeno quattro stili differenti: quello formale, lo sportivo, il casual e lo chic per eccellenza. E’ difficile trovare una chiave di lettura che li unisca tutti, sempre, con eleganza. Qualche esempio di eccellente risultato, per fortuna, c’é: le più sono caricature, banalità, eccessi di stupore.

Cosa ne pensa del fenomeno dei Direttori Creativi, da cui le grandi maison sembrano essere talvolta affascinate, altre quasi “impauriti”?

Un tempo i grandi produttori, spesso persone molto serie, formali direi, delegavano a questi giovani talenti creativi il compito di tradurre in eccesso e stravaganza le richieste che la società aveva: loro avevano carta bianca, se ne vedeva davvero di tutti i colori. Oggi, che la realtà si è quasi uniformata alla stravaganza – per lo meno quello della moda – tendo a diffidare un poco da tutta questa “genialità” di cui si sente parlare. Ci vuole molte componenti, ed una grandissima conoscenza, per definire qualcuno geniale.

Come riesce a mantenere la sua azienda un marchio di grande standard qualitativo e al contempo adeguarsi alle richieste del pubblico 2.0?

La mia azienda nasce con dei valori: quelli ne sono la base, l’essenza. Non si discutono. Poi riarmonizzare le esigenze e gli stili con i passi del tempo …quello è un lavoro duro ma necessario. Spesso le persone parlano di contradditorietà: io non la penso così. Rimettersi in discussione non è andarsi contro, ma rigenerarsi.

C’è tantissima velocità oggi nel fashion business: addirittura molti brand iniziano a vendere i capi direttamente dopo la sfilata. Cosa ne pensa?

Non credo siano queste le eccezioni che possono determinare l’andamento di un mercato: sono messinscena per scaldare gli animi, per catturare l’attenzione e l’appeal del pubblico sulle nuove collazioni. Ma credere che oggi siano tutti ad aspettare il giorno dopo la sfilata per comprare i capi … mi pare un filo irrealistico (ride ndr)

Nino, come vede e sente il futuro delle aziende tessili?

Diciamo che lo sforzo massimo dev’essere quello di non restare indietro ma nemmeno correre troppo avanti: la base di ogni mestiere è quello di conoscerlo, innanzitutto, alla perfezione. I materiali, la loro lavorazione, il modo in cui reagiscono: sono componenti fondamentali per un professionista di questo campo. Non ci si improvvisa, anzi: non si smette mai di fare ricerca e di imparare. Il tessile è un settore antichissimo, deve impegnarsi a fare innovazione ma con equilibrio. Mostrare continuità, rispettando il passato e la sua tradizione, e poi aggiungere un pizzico di divertimento e bizzarria, ben consapevole che di quella si tratta.

L’ultima domanda: che consiglio dà ai giovani che si approcciano al mondo del fashion design?

Se davvero hanno deciso di intraprendere questa strada… la scelta l’han già fatta (ride di nuovo, ndr). La moda è un mondo che si conosce man mano che lo si vive, ha un forte equilibrio fra aspetti positivi e quelli negativi. Bisogna non lasciarsi tentare soltanto dai primi, e farsi le ossa per sopportare i secondi. E soprattutto rimanere coi piedi per terra, smettendo di confondere il lusso con ciò che è raro. Il vero lusso, credo io, è tutta un’altra storia.

@Riproduzione Riservata

A TU PER TU CON THE GENTLEMAN BLOGGER: MATTHEW ZORPAS

Gentleman di nome e di fatto, è considerato uno dei più importanti web influencer del momento. Non posta e basta, racconta storie di stile, dispensa consigli su come comporre i look, attraverso i suoi viaggi ispira un seguito di followers da tutto il mondo. Parliamo di Matthew Zorpas, blogger e fondatore di thegentlemanblogger.com. Furla ha pensato a lui e ad altri 4 blogger e digital artist come Adam Katz Sinding, Nabil Quenum, Roberto De Rosa e Paris Seawell, per presentare il progetto “the modern man” a Pitti. Creativi 2.0 che hanno interpretato attraverso cinque shooting, 5 modi di vivere la “MODULAR BAG2 la nuova borsa componibile pensata da Furla per tutti i globetrotter di oggi. Matthew, perfetto manintown, ci racconta il progetto attraverso il suo punto di vista e molto di più, ad esempio la sua passione per l’immaginario Felliniano.

Dove hai scattato le foto del progetto themodernman per Furla?

Ero a Rio, mia patria da qualche tempo e ho deciso quindi di ambientare il tutto lì. I colori e le atmosfere di questa città carioca, in piena espansione, mi sembravano ideali per rappresentare una nuova visione di uomo contemporaneo, anche se non volevo del tutto far percepire dove fossi, doveva poter sembrare anche in Grecia o in Italia. Un uomo che viaggia, che si muove, che è elegante ma non troppo, che punta sugli accessori “giusti”, esteticamente belli e soprattutto funzionali. La location, io e il fotografo Jeff Porto, l’abbiamo trovata per strada girando per le strade del centro, nella parte più vecchia della città, sfondi di un giallo accesso, in cui la borsa blu spicca e il look è idealmente a metà strada tra estate e inverno.

Quale rapporto c’è tra l’uomo e gli accessori, in particolare le borse?

Penso molto stretto ormai. Dalle classiche valigette alle messanger bags, le grosse pochette in versione maschile, portadocumenti, porta pc o tablet che siano, ogni uomo ha almeno uno di questi accessori. Per me è elemento chiave di ogni look, ho sempre una borsa con me, a volte dà il twist in più al mio look, per forma, colore o materiale.

Quali sono le caratteristiche che consideri “stilose” in un uomo?

Non ci sono più delle regole secondo me. Io credo che debbano essere tocchi naturali, spontanei, non forzati. Per me è naturale, apro l’armadio e scelgo cosa indossare, per altri occorre trovare ispirazioni e consigli da altri. Sono stato influenzato dallo stile, dalla personalità, dalla cultura e dal lavoro di alcuni personaggi illustri del passato e no, primo fra tutti Federico Fellini ad esempio e se devo pensare a qualcuno di contemporaneo direi Tom Ford. Stile non è solo moda, infatti sono spesso le persone che incontro nei miei viaggi o in giro per strada a darmi energia e ispirazione per il mio lavoro.

Cosa comprano i gentleman di oggi?

Secondo me di tutto, dal formale allo sportivo, l’uomo ha voglia di curare il suo look, non ancora ai livelli della donna, ma è sicuramente un uomo più attento e capace di sperimentare dal papillon ai cappelli, dalle calze colorate alle borse, dalle camicie alle cravatte. Non c’è un bisogno, c’è il desiderio di vestire bene e in maniera democratica, mischiando vari stili dal Brasile a Londra il gentleman si globalizza e il risultato è relaxed, rilassato.

Finirà mai l’era dei blogger?

Ci sarà un’evoluzione, cambieremo piattaforma, cambieremo modo di definire questa abilità di raggiungere la gente comune, e di agire nell’era digitale. I blog, quelli di qualità, sono qui per rimanere.

Se non fossi stato un blogger cosa avresti fatto?

C’è un atteggiamento molto snob a considerare in maniera negativa il lavoro dei blogger, solo perché portano via terreno (e potere) in uno spazio piuttosto circoscritto che è la moda. Per me è un job title che funziona anche per definire il mio stile di vita. Ho un passato nel mondo della comunicazione ma l’attività di blogging è davvero la mia passione, lo considero qualcosa di creativo che non posso fare a meno di realizzare, è come l’aria che respiro, non mi vedrei fare nessun’altra cosa. Oltre al blog sto lavorando ad altri progetti di branding personale, è ancora tutto top secret.

Film, libro e musica preferita?

8 e mezzo di Federico Fellini, The Reader (Ad alta voce-da cui hanno tratto anche un film con Ralph Fiennes) e la band inglese The Herd.

A PROPOSITO DI FURLA-MODULAR BAG

Per il prossimo Autunno/Inverno l’uomo Furla scende in campo per suggerire un nuovo modo di vivere gli accessori e in particolare le borse. Dalle strade delle grandi città alle campagne, l’uomo business predilige ormai accessori e piccola pelletteria con due caratteristiche: pratici e discreti.
 La modular bag si trasforma facilmente da messenger bag in sacca da viaggio, adattandosi dall’agenda lavorativa al weekend, ideali quindi per ogni occasione, anche simultaneamente o all’ultimo minuto. La Furla Modular Bag può essere assemblata in negozio grazie a un set che comprende due manici, due lati sacca e due laterali per espanderla che sono completamente intercambiabili, con colori e materiali assolutamente personalizzabili.

 In equilibrio perfetto tra forma e funzione, ci sono tutte le esigenze dell’uomo contemporaneo in una.

eu.furla.com

www.thegentlemanblogger.com

@Riproduzione Riservata

L’UNIVERSO DEL FASHION ACCOGLIE RON ARAD

Anche chi non è un gran appassionato di design non può non aver mai sentito parlare di Ron Arad. Annoverato tra i designer più influenti dei nostri tempi, Ron Arad si distingue per la sua irrefrenabile curiosità verso ogni forma di innovazione e per la sua incredibile versatilità. Un artista talmente eclettico a cui è bastato indossare il suo cappello magico (nel vero senso della parola, dal momento che non si separa mai dall’inconfondibile cappello che lui stesso ha disegnato) per creare una speciale collezione di occhiali da vista e da sole per il brand PQ EYEWEAR.
Nel corso degli anni Arad ha realizzato una serie estremamente ricca e variegata di oggetti innovativi, spaziando dall’arredamento, con sedie e poltrone, al design di spazi unici, eterei o digitali, in grado di trasmettere sensazioni fisiche e tattili. Dotato di un’immaginazione che non conosce limiti, il designer crede che il suo segreto sia la noia. Perché? Per il semplice motivo che la noia è la madre di tutte le invenzioni, perché quando sei annoiato non fai altro che pensare e ripensare, lasciando libera la mente ed abbandonandosi alla propria pulsione creativa. Ed ora Arad è pronto a calarsi e a cimentarsi anche nel mondo della moda, che di noioso non ha proprio nulla.

Come è iniziata questa collaborazione?

Tutto è iniziato quando ho incontrato Assaf Raviv, proprietario dell’azienda italiana produttrice di occhiali PQ e stimato conoscitore dell’industria. Ha insistito parecchio con me, perché all’inizio ero molto titubante. Si è addirittura presentato più volte nel mio ufficio e non sapevo se considerarlo un sogno o un incubo. Credevo che entrare nel mondo degli accessori significasse introdursi anche nel mondo della moda, il che avrebbe comportato circondarsi di un team di designer competenti, devoti ed appassionati, lavorando alle collezioni stagione dopo stagione. Ma alla fine eccomi qui, con un modello facile da indossare, estremamente funzionale, che credo rappresenti un delle più alte realizzazioni artistiche.

Cos’è che rende questa collezione di occhiali così unica e speciale?

Innanzitutto la novità delle forme sia in termini di estetica che di funzionalità, le quali ritengo debbano sempre andare di pari passo. La forma rotonda della collezione D-FRAME, la stanghetta che riproduce la spina dorsale e la flessibilità delle tempie, permettendo in tal modo un movimento naturale simile a quello delle articolazioni. Non ci sono viti, la montatura è leggera, totalmente flessibile. Quello che può apparire come un semplice dettaglio fashion, in realtà è un attributo che assicura comfort a chi li indossa. Abbiamo inoltre realizzato la collezione da vista A-FRAME, con l’idea di eliminare il fastidioso problema dell’occhiale che scivola sul naso. Dovevo trovare un modo originale ed efficace tenendo conto che la distanza naso-occhi varia da persona a persona. Da qui ha avuto origine la caratteristica “A” che compare sul ponte dell’occhiale. Ho appena scoperto che anche Oprah Winfrey ne indossa un paio, probabilmente perché ama quel semplice sistema di regolazione del ponte che le evita di andare dall’ottico ogni volta. Voglio dire, penso sia una donna molto impegnata con mille altre cose da fare, non crede?

La collezione è unisex?

Non ci sono confini. È una collezione all’insegna della libertà, che rifiuta ogni convenzione. Alcuni modelli possono attrarre ed essere più indicati per un pubblico femminile, ma a parte questo, la collezione è stata concepita per essere indossata da tutti, è democraticamente e stilisticamente corretta.

Qual è la tua forma preferita?

Amo le curve, sia quelle più tondeggianti che quelle più lineari. La forma degli occhiali è rotonda, così come quella del occhi e del volto, ma deve esserci qualcosa che spezza dando equilibrio. Amo il modo in cui gli opposti si attraggono. Lo stesso nome “pq” si addice perfettamente ai miei gusti: due lettere che si susseguono nell’ordine alfabetico, dotate entrambe di un’asticella lineare e con la stessa forma rotonda che, messe insieme, riproducono un paio di occhiali.

È il design che “flirta” con il fashion o viceversa?

Mi piace usare la parola “flirtare” applicata in ambiti diversi rispetto alle relazioni personali. Direi che è il fashion a desiderare maggiormente il design, anche se il design fa già parte del suo mondo, in quella sorta di “tecnologia” che sta dietro alla creazione di capi e scarpe per dotarle di forma e comfort. Anche il design ha molti aspetti che possiamo definire “fashionable”: ci sono mode anche in questo ambito, ma non mi piace esserne ossessionato. La mia insaziabile curiosità mi spinge ad essere sempre aperto a nuove sfide, ecco perché collaborerò anche con il brand Flip Flop.

Come definiresti il tuo stile e cosa consideri “stylish” in una donna?

Tutto e niente. Penso di non rientrare in nessuna particolare definizione. Amo indossare questo cappello che ho realizzato per Alessi molto tempo fa con una giacca, un maglione (a cui ho fatto qualche buco con un paio di forbici), una T-shirt (preferibilmente a righe), una sciarpa, scarpe comode e mai e poi mai una cravatta! Non ne ho mai indossata una in tutta la mia vita. Rinnego il conformismo e sono allergico a tutto ciò che è considerato un “must have”. Era più facile quando ero un hippy, quindi forse sono rimasto tale, almeno nello spirito.
Lo stile in una donna è il modo in cui si muove, entra in una stanza e il modo in cui parla. Certamente ciò che indossa la rende più attraente e piacevole da guardare, ma è senza dubbio un plus a coronamento della suo comportamento e della sua personalità.

Come e da cosa trai ispirazione?

Sono le persone ad ispirarmi, così come la noia, madre di tutte le più grandi invenzioni. Cerco di incoraggiare le persone ad annoiarsi reagendo: questo è all’origine della mia creatività. Design significa esplorare e dar vita a cose che prima non esistevano. Prendi le valigie ad esempio: sono decenni ormai che ci accompagnano nei nostri viaggi, eppure qualcuno non molti anni fa ha pensato di aggiungervi le ruote. Lo stesso accade per gli occhiali. Ora sto lavorando ad un paio che non possa mai essere perso o rotto. Le migliori idee sono spesso le più semplici; talmente semplici che spesso non ci accorgiamo di averle sotto il naso.

Un oggetto che avresti voluto inventare?

La matita, senza ombra di dubbio. Sarei stato un genio se fossi stato io ad inventarla.

 pqeyewear.com

 @Riproduzione Riservata

MARTIN GARRIX

Per lui il 2015 è stato l’anno delle collaborazioni, e sembra proprio che anche il 2016 prosegua nella stessa direzione. Ha solo 19 anni e la sua musica ha già fatto ballare migliaia di fan: è Martijn Garritsen, in arte Martin Garrix, che dalla scorsa estate è ambassador di TAG Heuer, brand storico di orologi di lusso che ha rivoluzionato il mercato proponendo sempre le migliori tecnologie in sincronia con lo stile e l’eleganza.
“Non lavoro molto con i brand, TAG Heuer è il primo, perché non faccio mai collaborazioni se qualcosa non mi piace, ma TAG Heuer mi piace moltissimo, sono già ossessionato del Monaco V4 Phantom, lo trovo eccezionale!”
Prima di Martin si sono susseguiti altri nomi che hanno fatto proprio il motto della casa svizzera #DontCrackUnderPressure: tra i più recenti ad esempio l’irriverente Cara Delevigne, ma anche Chris Hemsworth, David Guetta e andando indietro di qualche anno, lo splendido Ayrton Senna o lo straordinario Steve McQueen solo per citarne alcuni! Il motto per Martin si può vivere anche nel mondo della musica, soprattutto come dj quando suoni per 70.000 persone e di certo non puoi crollare anche se la pressione è alle stelle!

A 19 anni sei tra i 4 DJ più influenti al mondo. Come ci sei riuscito? Cosa ti piace del tuo lavoro di DJ?
Il mio segreto è prendere energia dalla gente. Regalare emozioni e nutrirsi della loro gioia, divertirsi insieme a loro: se vedono che il DJ si diverte mentre mette i dischi saranno ancora più contenti, e io con loro. E’ una situazione win-win: io faccio felici loro, loro fanno felici me.

Qual è il segreto per affermarsi come DJ?
Mettersi sempre alla prova, reinventarsi in contesti differenti, rimanere pieno di energia e non dimenticare mai che il proprio lavoro è far divertire la gente, non prendersi mai troppo sul serio: è tutta questione di leggerezza e spontaneità.

Come era la tua vita prima di diventare DJ, che interessi avevi?
Era molto diversa: mi piaceva raccogliere conchiglie e pietre, ora ho una collezione completa [ride]. Ho sempre fatto molto sport, ho iniziato windsurf quando avevo dodici anni, e lo faccio ancora appena posso. Da quando ho iniziato la mia carriera musicale non ho molto tempo libero, soprattutto quando sono in tour, ma appena posso corro a fare windsurf.

Cosa pensi sia la cosa più importante da considerare quando crei la tua musica?
Sorprendere le persone. Se fai quello che tutti si aspettano che tu faccia, la gente si annoia. Ma se fai qualcosa che scandalizza totalmente le persone, se ne vanno dicendo “Oh, mio Dio, hai sentito quello che ha scritto Martin Garrix? Che cosa stava pensando?” Per questo ogni volta che sono in studio, cerco sempre di trovare qualcosa di nuovo e fuori dalle righe.
Oggi quale artista ti sorprende di più?
Skrillex. Amo Skrillex. Come produttore, come dj e come persona perchè è il tipo di produttore che è in continua evoluzione, ed è per questo che mi ispiro molto a lui.

Se invece potessi viaggiare indietro nel tempo con chi ti piacerebbe suonare o remixare?
Sicuramente sarebbe un sogno suonare con Michael Jackson.

Brand ambassador di TAG Heuer: cosa significa per te? Cosa ne pensi dei brand che si legano all’universo dell’EDM (Electronic Dance Music)?
Penso che sia una buona associazione perché l’EDM significa amore, energia positiva, allegria condivisa. Bisogna educare all’EDM anche le generazioni precedenti ai Millenials e un brand come TAG Heuer, di cui sono brand ambassador da agosto 2015, è perfetto!

Che progetti hai per il prossimo anno? C’è un album all’orizzonte giusto?
Lo spero. Sto facendo così tanta musica che ho da 40 a 50 le idee, ma quando ho nuove idee, sento il bisogno di fare nuova musica. E’ un processo, ci vuole tempo e non voglio correre, perché è il mio primo album e voglio che sia buono. Recentemente ho lavorato con Mike Shinoda dei Linkin Park ed è stato emozionante perché le persone come lui, che fanno questo un tipo di musica diverso, ti spingono a fare qualcosa di completamente nuovo.

@Riproduzione Riservata

Baku, la signora dei venti

Un territorio ricco di climi e panorami diversi, dove religioni e culture si sono amalgamate creando qualcosa di magico. Terre desertiche, foreste e montagne oltre 4.000 m, passando da città dal fascino antico come Sheky o Baku, nuovo emblema di crescita architettonica e culturale. Abbiamo chiacchierato con Andrea Vigna e Marco Catelani, due giovani enologi italiani che hanno aperto una start-up proprio qui, a Baku, una città che corre più veloce delle città europee alle quali guarda e che non perde il fascino orientale che la contraddistingue. A Baku, che siate turisti, viaggiatori o che vogliate fermarvi, sarà inevitabile innamorarsi dello skyline che si fonde con antichi edifici e subirete il fascino di così tanta cultura nascosta ad ogni angolo. Una meta irrinunciabile.

Raccontateci la vostra storia…

L’azienda vinicola per la quale lavoravo mi ha proposto quest’avventura: trasferirmi in una terra lontana e creare un’azienda da zero. Avevo 28 anni e mi è sembrato un sogno e ho deciso che Marco che conoscevo dall’università era il compagno migliore. Oggi dopo sei anni, Fireland Vineyards è cresciuta moltissimo e siamo produttori di 19 etichette, da vini base a vini di alta gamma.

Difficoltà e vantaggi vivendo qui?

La lingua, le differenze culturali, i ritmi lavorativi diversi sono difficoltà che diventano vantaggi per chi è capace di adattarsi a un paese molto diverso dal proprio. Baku dà un ritmo unico a chi ci vive: per noi giovani, le città che crescono si adattano alla forza e alla flessibilità di cui abbiamo bisogno. Per questo mi piace vivere qui!

Qualche consiglio turistico?

Baku è un mix continuo fra modernità ed antico. Il lungo mare è bellissimo, ma anche la collina che sovrasta la città, dove ci sono le Flame Towers è mozzafiato. Poi la città antica, con la Torre della Vergine, le vecchie strade…Ciò che amo di questa città è la fusione fra il mondo islamico e quello russo, nello stile e nelle tradizioni.

Ristoranti o locali: dove andare?

La città vecchia, per i ristoranti tradizionali come il Tendir. Qui la domenica si va a mangiare l’omelette e pomodoro, con il pane tipico, appena sfornato dalle donne anziane della città…una delizia! Per un ottimo bicchiere di vino, al Baccanale, in Port Baku o il mercoledì al piccolo Room in centro.

DA NON PERDERE:

  • Città Vecchia (Icheri Sheher) patrimonio dell’UNESCO
  • Palazzo degli Shirvanshah
  • Torre della Vergine, chiamata così perché pare mai conquistata con la forza
  • Flame Towers
  • Skyline
  • Lungomare
  • Karavansara, ristorante, un tempo frequentato da antichi viaggiatori lungo la Via della Seta
  • Yashil Bazaar o Taza Bazaar
  • Centro culturale Heydar Aliyev, firmato dall’archistar Zaha Hadid
  • Fountain Square

@Riproduzione Riservata

VIAGGIO, DUNQUE SONO

Cover Ermenegildo Zegna vest | Tommy Hilfiger shirt & jeans

Se ci avessero detto qualche anno fa che l’ultimo trend in fatto di viaggi sarebbe stato quello di andare a casa di sconosciuti non vi avremmo creduto. Eppure tutti, praticamente tutti, usiamo airbnb, il portale di ricerca alloggi online globale. Tutto parte nel 2007 a San Francisco, quando due compagni di stanza ventiseienni, Joe Gebbia e Brian Chesky freschi di studi alla Rhode Island School of Design, ricevono una richiesta di aumento del 25% sull’affitto del loro appartamento. Per non perdere la casa decidono di affittare un air bed, un letto gonfiabile per dormire a casa loro, creando un sito web per ricevere e le richieste di prenotazione con Nathan Blecharczyk. Originariamente il nome del sito era Airbedandbreakfast.com, ma nel marzo 2009 venne accorciato in Airbnb.com, in Italia apre le porte nel 2011 ed è stata recentemente definita la migliore azienda dove lavorare nel 2015 da Glassdoor.
Abbiamo incontrato Andrea Crociani, Marketing Manager di Airbnb Italia che ci racconta com’è cambiato il modo di viaggiare, proprio grazie a un’intuizione semplice, eppure nel suo piccolo, straordinaria.

Come è cambiato il mondo di viaggiare grazie ad Airbnb?

Ci sono viaggiatori che cercano un’esperienza più autentica, a contatto con le persone del luogo, che ha in un certo senso il sapore della scoperta. Amano soggiornare in spazi unici, in luoghi unici, spesso fuori dalle tradizionali rotte turistiche. In tutto questo credo che Airbnb stia avendo un ruolo fondamentale.

Come realizzate le ricerche delle case più spettacolari?

Le persone riconoscono in noi una piattaforma affidabile con una vetrina globale importante, dunque abbiamo la fortuna di non dover cercare le case più belle, semplicemente i proprietari di casa scelgono di inserire il loro annuncio su Airbnb. Per darvi un’idea, parliamo di circa 1.600 castelli, più di 600 case sull’albero e 3.000 imbarcazioni presenti su Airbnb.

Come è il rapporto con i vostri consumatori?

I nostri consumatori sono la nostra vera forza. Dedichiamo molto del nostro tempo a incontrarli ed ad ascoltare i loro suggerimenti.

Avete mai pensato di passare anche al business di affitto per le location commerciali? (per eventi e feste?)

All’interno di ogni annuncio è possibile segnalare se la location è disponibile anche per eventi ed happening. Per noi non si tratta di un business ma di un’opportunità in più che i nostri host mettono a disposizione dei loro ospiti.

Ci sono servizi speciali che volete implementare?

Lavoriamo costantemente per migliorare la piattaforma. Abbiamo esteso a 15 nuovi paesi, tra cui l’Italia, il nostro programma di Protezione Assicurativa Host che garantisce una copertura fino a 1 milione di dollari agli host, in caso un ospite rimanga vittima di un incidente nell’alloggio di un host o nella zona circostante a esso. Si tratta di un passo importante che va ad aggiungersi ai tanti progetti che Airbnb sta mettendo in pratica per supportare al meglio la nostra community.

Esisterà mai una community social dedicata solo agli airbnb users?

In parte esiste già. Sulla piattaforma ci sono i gruppi, ovvero delle comunità online create e organizzate dagli host Airbnb. Questi ruotano attorno determinati argomenti o interessi. Sono il posto dove un host può cercare aiuto, condividere informazioni o collegarsi con persone simili. Qui i membri della community possono pubblicare commenti o articoli, fare domande, condividere immagini e partecipare alle discussioni. E molto spesso questi incontri virtuali si trasformano in meetup nel mondo reale.

Quali sono i paesi e i posti che hai visitato che più ami e perché?

Fino a due anni fa non ero mai stato in Asia. Dopo 3 viaggi posso dire che amo molto quella parte di mondo. Thailandia e Indonesia in particolare mi hanno lasciato una spiritualità e una voglia di pace davvero uniche per il mio stile di vita così impregnato di Europa. Ovviamente un posto importante nella mia personale classifica ce l’ha anche San Francisco, amore a prima vista, forse unica città così lontana dall’Italia in cui vivrei per qualche tempo. Città unica dove tra l’altro ha avuto inizio il progetto di airbnb.

 Ci dai i tuoi indirizzi segreti di tre destinazioni speciali?

Ne posso dare uno https://www.airbnb.it/rooms/800284
È nel mezzo della foresta pluviale di Bali ai piedi del monte Batukaru. Una casa di bamboo senza muri, in compagnia solo di un cane, due gatti e una scimmia.

Quali sono le mete del momento e secondo te perché?

L’Italia secondo me sta tornando a essere una destinazione centrale, c’è ancora molto da fare ma credo che sia comunque il meglio che il viaggiatore possa cercare. Poi passo al personale, le mie mete del mio momento, ciò che voglio assolutamente visitare, ovvero Brasile e Giappone. Ho voglia di ancora nuove culture, nuove persone e usanze, nuove immagini da tatuare nei miei ricordi.

Qual è il miglior modo per viaggiare? Quali sono i trucchi per essere pronti a tutto?

Il miglior modo di viaggiare è quello che non richiede troppi programmi. Si deve partire per trovare la trasformazione che ci manca. Io devo avere sempre voglia di scoprire, di conoscere da viaggiatore i luoghi che scelgo di visitare, rispettandoli e imparando dai locali come viverli; Airbnb in questo ti aiuta molto perché ti mette in diretto contatto proprio con le persone che vi abitano.

Nella tua valigia cosa c’è generalmente? Quali sono i pezzi chiave che porti più o meno sempre con te?

La mia valigia è sempre abbastanza piccola, amo avere lo stretto necessario. Anche d’inverno o in montagna adoro concedermi il relax in una Spa. Per questo un costume e un paio di infradito non mancano mai.

Il tuo look quando viaggi è…

Spesso molto selvaggio.

Per te viaggiare è….

Trovare me stesso ogni volta, trovare la mia trasformazione.

@Riproduzione Riservata

Photographer | Pier Nicola Bruno
Style | Fabio Ferraris
Grooming | Valeria Orlando @Hmbattaglia
Special Thanks | Yamaha

IL MIO LATO SPIRITUALE

Portrait by Alessandromoggi.com

L’attore toscano ha talento da vendere e un animo spirituale-imprenditoriale. Non solo vanta partecipazioni a produzioni internazionali, da La fontana dell’amore a To Rome with Love di Woody Allen, oltre a incursioni televisive in serial cult come Sex and the City a Beautiful ma ha anche preso parte all’ultimo film di Guy Rithchie Operazione U.N.C.L.E., ispirato all’omonimo telefilm Anni Sessanta. Nel 2014 ha deciso di lanciare una linea di candele e profumi dal nome mistico “INSPIRITV”. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare il suo progetto olfattivo e i suoi segreti di bellezza, che includono non fermarsi mai.

Quando e come hai deciso di fare l’attore?

A 23 anni ero a New York per frequentare un master nel settore tessile, mio padre aveva un’azienda a Prato e io avevo iniziato a lavorare nel business di famiglia. Proprio nella grande mela ho scoperto la mia vocazione, frequentando l’Actor Studio e studiato anche il metodo Meisner. Mi ha affascinato molto scoprire che dalla stessa tecnica ne sono sviluppate quattro e poi non dimenticherò mai l’intervento di Harvey Keitel a lezione che ci raccontava le sue esperienze, davvero illuminante.

Dopo un’esperienza televisiva tutta italiana hai preso parte a U.N.C.L.E. di Guy Ritchie. Come è stato lavorare con lui?

È stato un riconoscimento importante. Tutto è iniziato con un self tape, un video girato da me che feci avere a Guy. Dopo averlo visto, mi ha chiesto di andare a Londra per un incontro di persona e lì ci siamo trovati subito, stavamo leggendo lo stesso libro: Il mondo nuovo di Aldous Huxley. Sul set lui ha un suo modo di fare cinema, sei molto interpellato, vuole vivere in simbiosi con il suo cast, è un regista che si vive e si lascia vivere. C’è stata molta attenzione ai costumi, lo stile italiano dolce vita anni’60. Il cast poi era stellare, (Henry Cavill, Armie Hammer, Hugh Grant) talmente bravi da rimanerne ispirato. Con Guy è nato un rapporto personale, sono stato invitato al suo matrimonio, accolto come uno di famiglia. Non mi aspettavo questa vicinanza. Sono andato con lui da New York a Londra in aereo privato.

Come mai hai deciso di lanciare una linea di profumo?

Sentivo il bisogno esprimere la mia voglia di spiritualità. Con Olivia Mariotti, mia socia e grande amica, condividevamo l’amore per le candele e la capacità di indurre a meditare. Inspiritu significa nello spirito, un bel modo di dire, una predisposizione mentale ed è una frase che ho sempre pronunciato, quasi un motto, compare perfino nel mio status del whatsapp. Essere in ascolto delle proprie emozioni non è facile. Ci viene insegnato dalla società che la felicità viene da cosa fai, da cosa compri. O sei una lavatrice e riesci a lavarti la pesantezza del mondo dalle spalle o ti addormenti in questa litania ed è un incubo. La felicità non è data dal consumo, è qualcosa che viene da dentro.

Ci parli della linea?

Abbiamo esordito l’anno scorso con una collezione di cinque candele, quattro delle quali rappresentano le virtù cardinali – Fortitvdo, Temperantia, Ivstitia e Prvdentia – mentre la quinta, Lvx, è invece la sintesi di tutta la collezione e metaforicamente rappresenta la coscienza universale. Quest’anno in occasione del Pitti Fragranze abbiamo lanciato anche i profumi. Le note olfattive scelte sono uguali per entrambe le linee e caratterizzano ogni virtù. Per Fortitvdo zafferano, acacia, legno di cedro e fieno, Temperantia profuma di gelsomino, mughetto, violetta e rosa turca, Ivstitia ha note marine oltre all’aneto, al finocchio e al vetiver mentre Prvdentia scivola in una scia floreale-fruttata di fiori di campo, peonia, ribes e bacche rosse. Abbiamo lanciato la linea da Barneys a New York, l’avventura è appena iniziata ma sta dando i suoi riscontri.

Qual è la nota della spiritualità?

L’incenso perché questo ingrediente caratterizza tutte le creazioni di Inspiritv ed è stato scelto proprio perché è presente in tutte le religioni, concilia la meditazione e la preghiera.

E tu cosa indossi?

Mi piace Fortitudo, una fragranza legnosa con tocchi più dolci di acacia, violetta, zafferano e note più profonde come cedro e legno di sandalo. Mi dà energia.

Un profumo che hai creato con un ricordo particolare in mente?

In tutti ho lavorato con delle immagini in mente. Di sicuro per Prvdentia, dove ho cercato di ricreare insieme ai nasi l’odore dei rami verdi spezzati in un giardino, un richiamo ancestrale alla natura, il ricordo di quando mi nascondevo nelle siepi di casa.

Quali sono i tuoi segreti di bellezza? Cosa fai per tenerti in forma? E per rilassarti?

Non posso a meno di fare crossfit. Mi fa stare bene essere attivo, corro tutto il giorno e ho bisogno di scaricarmi. In generale non sono uno che riesce a stare con le mani in mano, devo necessariamente incanalare la mia energia in qualcosa. Mi piace andare a farmi barba e capelli tutte le settimane, è un piccolo vezzo a cui non rinuncio. Poi una crema idratante, quando mi ricordo di metterla.

A cosa non rinunceresti mai?

A esserci per mia figlia. Oggi sono a Milano, stasera a Roma per un evento, nel mezzo c’è la recita di Bianca e io non me la perdo!

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

In uscita c’è Framed, una co-produzione tedesco-polacca con Alessandra Mastronardi e Fabio Troiano e la fiction di Ivan Cotroneo “2 di noi”.

@Riproduzione Riservata